Adesso prendo i passi
e li riconduco a me.
Non ti guarderò più
come il mio riflesso,
ti vedrò per ciò che sei:
un'altra scatola vuota
in cui ho riposto me stessa.
I tuoi sorrisi son caduti
tutti sulle mie gambe,
chiedo di fuggire
con le ginocchia sbucciate
dalle tue idiosincrasie
che credevo durezze
da limare con i miei occhi
che non sanno più fingere.
La sutura imprecisa
che hai voluto cucire
stava dando un aspetto coriaceo
alla mia pelle di foglie,
ma hai preferito altri lidi
su cui poggiare le labbra.
''La cosa migliore che mi sia capitata''
in ventidue anni di lotta
per cercare nel cielo
uno squarcio di stella
che non apparisse sfolgorante
eppure già morta.
Ho assorbito queste parole
come fanno le piante grasse
che non hanno bisogno
di tante cure o acqua,
ma son le prime a morire
nel mio giardino,
perchè chi le nota mai
accanto alle rose scarlatte
e le calle eburnee?
Loro appassiscono in silenzio.
Vorrei ora che avessi taciuto
riguardo le mie attenzioni
che sapevi apprezzare così tanto;
ora sono vuoti
che mi sembrano sbagliati
perchè irrimediabilmente
mi ricordano
come corrispondessero ai tuoi,
invertiti:
l'inclinazione
della tua testa verso destra
quando mi vedevi
da chilomentri lontani
era l'angolo sinistro
del mio sorriso,
reso banale dalla giornata,
che trovava un modo nuovo
per farsi riconoscere
nella turba della folla
solo da te.
Finiti questi giorni,
mi rendo conto
di non averli mai chiesti,
solo a lungo vagheggiati
prima che potessi capire
quanto mi sarebbe costato
perderli
e ancor di più
rimpiangerli.