Titolo: We were Reaching in the Dark
Personaggi: Lorenzo Medici, Francesco Pazzi
Pairing: FrancescoxLorenzo [Froren]
Rating: Verde
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Avviso:
Slash, Au
«Non riesce a vivere in un
mondo senza colori» Giuliano l’aveva esternato un giorno d’autunno, lontano
dalle orecchie del fratello maggiore, una Bianca novenne persa negli occhi di
un decenne Guglielmo, distanti e ai margini di una conversazione di cui non
ascoltavano una sola parola. Ma delle orecchie avevano udito bene, erano
rimaste tese, a captare il significato di una frase che un undicenne non
dovrebbe nemmeno essere in grado di mettere in fila, figurarsi comprenderla. Ma
il minore dei Medici era intelligente per quanto la gente sostenesse il
contrario ed era sempre stato in grado di capire la persona che un giorno
avrebbe ereditato l’impero familiare.
«Perché?» chiese Francesco
Pazzi nei suoi dodici anni, interessato come poche volte nella sua vita ad un
argomento che poco lo toccava, benché lui e tutti quelli che lo circondavano,
fossero sprovvisti della capacità di vedere i colori – anche se era certo che
trascorsi la bellezza di cinque anni, Guglielmo e Bianca ne sarebbero presto
entrati in possesso.
«Vuole vedere» disse
Giuliano senza mezzi termini, brutale e con una nota carica di calore che
Francesco non riuscì ad interpretare; ne fu investito talmente tanto da
rimanerne accecato.
Era una luce grigia,
svariate sfumature argentee, l’ombra del nero ed una pennellata di bianco, ma
il suo universo terminava lì. Francesco si chiese cos’è che Lorenzo desiderasse
vedere così tanto da venirne schiacciato.
La qualità della vista su
cui posava gli occhi non era mai cambiata per l’erede dei Medici.
«Hai ancora intenzione di
passare il resto della tua vita su quei libri?» domandò il fratello minore, le
mani ad armeggiare col borsone della palestra, a riempirlo e svuotarlo a
piacimento, probabilmente soltanto per dargli fastidio ed intrattenersi in
qualche modo con una scusa nell’ambiente ostico in cui era andato a rintanarsi.
«Qualcuno di noi deve
studiare per portare avanti il nome della nostra banca» proferì Lorenzo senza
scomporsi minimamente, non era nemmeno annoiato, aveva soltanto un interesse da
portare avanti.
«Sono sicuro tu possegga
abbastanza titoli per entrambi» Lorenzo non smetteva mai di iscriversi a nuovi
master, a prendere più lauree di quante in realtà gli servissero ed a
concludere il suo corso di studi costantemente ad un tempo fin troppo veloce;
pareva il suo unico modo per non crollare, ma Giuliano sapeva che era solo un
fuoco di paglia.
«Non sono mai abbastanza,
soprattutto se si vuole sopravvivere in questo regno di sciacalli» il futuro
banchiere dissentì, voltando una pagina letta e riletta, aggiungendo delle
nuove osservazioni ai margini.
«A proposito di sciacalli,
mi tornano in mente delle voci che girano» voci che lo spadaccino avrebbe
volentieri fatto a meno di conoscere. Non sapeva nemmeno perché fosse
immancabilmente sommerso di pettegolezzi e notizie di cui non gli importava in
alcun modo, era certo di non essere così accorto da prestare attenzione alle
parole vuote delle persone in cui si imbatteva. A parte quelle di Simonetta.
«Quali voci?» domandò
Lorenzo di riflesso, perché a differenza del consanguineo, lui era piuttosto
interessato alle chiacchere che aleggiavano, erano la prima forma di
informazione per chi viveva nel loro settore di parassiti; entrarne a
conoscenza per primo faceva la differenza.
«Il figliol prodigo è
ritornato» e grazie tante, per Giuliano poteva rimanere dov’era, chiudere la
porta e gettare la chiave nel luogo più incognito dell’intero creato. Sayonara.
Per un istante, una frazione
fulminea, il grigio che popolava i suoi giorni si schiarì di una tonalità
impercettibile, ma svanì in un battito di ciglia che ne cancellava la possibile
esistenza. «Francesco?» Francesco che era sempre altrove, a girare per il globo
ed entrare in ogni università di prestigio avesse accesso. Francesco che non
rimaneva per più di un mese a Firenze e poi svaniva con le valigie al seguito,
senza lasciare traccia se non la scia che Lorenzo riusciva ad inquadrare per
millesimali attimi. Sentiva mai la mancanza della sua terra natia?
«Le zecche non muoiono mai»
sarebbe stato preferibile, per Lorenzo il futuro capofamiglia dei Pazzi era
stato importante, quasi vitale, aveva surclassato spesso la presenza di
Giuliano stesso, ma benché quest’ultimo avesse cercato di non prenderla sul
personale e permettere che ognuno non vivesse come se fossero legati da un
cordone ombelicale e lo studente di economia e commercio curasse le sue
relazioni interpersonali, il suo sacrificio non era valso la fatica, perché la
guerra tra Medici e Pazzi era arrivata a livelli storici, la cui criticità non
aveva ancora toccato le vette massime, e il grande legame tra Francesco e Lorenzo
si era logorato ed era stato spazzato via come briciole di pane.
Lorenzo ne era uscito
distrutto, la disputa eterna tra le loro famiglie aveva avuto la meglio, e
Francesco non era mai stato troppo forte per battersi per la loro amicizia.
Poteva giustificarlo? Poteva giustificare la sua età adolescenziale per esserne
stato incapace, privo di una figura genitoriale, divenuto orfano e con un
fratellino a carico, ma guidato da uno zio incitato dall’odio ed allo
schiacciare i Medici stessi, puntando al monopolio delle banche nel loro paese?
Giuliano era consapevole che non avesse molte altre scelte, ma quello non lo
salvava dal suo giudizio severo.
«No, non muoiono» proferì
flebile e carico d’intensità l’amante degli studi.
Giuliano si chiese a cosa in
realtà si riferisse il suo sofferente fratello.
Esisteva un mega consiglio a
cui ogni banchiere più influente del paese aveva libero accesso ed era invitato
a partecipare, esternare le proprie preoccupazioni, le azioni che si avevano in
mente di fare ed indicare il profitto minimo a cui si doveva puntare per non
rischiare di andare in rovina. Spesso si aiutavano tutti tra di loro, si
prendevano le stesse decisioni ed inventavano ogni modo possibile per salvare
il salvabile; si aveva quasi la sensazione che se ne fosse caduta una,
sarebbero cadute tutte insieme come una tessera di un domino. Ma gli sgambetti
erano costantemente all’ordine del giorno e non esisteva nessun tipo di
amicizia, se non il profitto ed i vantaggi che ne avrebbero tratto. Era un
circolo di sanguisughe, di sorrisi di circostanza e discorsi vuoti, per quanto
Lorenzo avrebbe preferito tenersi alla larga e camminare da solo, affrontare
quella parte del suo futuro in un tempo più prossimo e lontano, era quasi
obbligato dal padre ad assistervi e parteciparvi, apprendere gli strumenti del
mestiere e temprarsi, imparare le debolezze degli altri e divenire più scaltro
di chi si trovava di fronte.
Ed esisteva quella terribile
verità che consisteva nel vivere in un paese in cui i cittadini si svenavano per
salvare le banche, ma Lorenzo non era mai stato di quell’avviso. Le banche
prosperavano ed i cittadini ne pagavano le conseguenze, come se non bastasse
vivere in una realtà priva di colori e sfumature; era tutto l’opposto a cui il
Medici aveva sempre creduto.
«Giovane Lorenzo» fu accolto
nel mondo dei viventi, risvegliato dai pensieri che gli affollavano la mente e
che lo portavano distante.
«Pazzi» Jacopo Pazzi
svettava davanti a lui, nella sua espressione sardonica ed impressionantemente
studiata.
«Ancora nel tuo mondo di
sogni colorati?» domandò con ironia pressante, il sorriso diabolico che si
stendeva sulle labbra e le iridi che si spostavano verso l’esterno, a guardare
con la coda dell’occhio qualcosa al suo fianco. «Pardon, nel tuo caso, privo di
colori».
Infido fino al midollo, era
così spietatamente ironico che proprio lui fosse in possesso della capacità di
vedere le tinte che dipingevano il loro pianeta, vedere il colore del cielo che
per Lorenzo era solo totalmente nero o di un grigio cangiante, il reale aspetto
del sole che per lui era solo un infinito fascio di luce bianca, osservare un
tramonto di cui l’amante degli studi non poteva minimamente comprendere la
bellezza tanto decantata dai poeti. Il capostipite della famiglia sua rivale
poteva apprezzare l’eternità dell’arte che li investiva ad ogni loro passo.
Le gemme chiare di Lorenzo
caddero sulla figura che fulmineamente aveva adocchiato Jacopo Pazzi. Non stava
guardando qualcosa, ma qualcuno.
Francesco Pazzi era in tutta
la sua prestanza da uomo fatto e finito di fronte al suo cospetto.
«Qualcuno deve sognarlo
questo mondo» rivelò il prossimo banchiere, la profondità della voce che
aleggiava nell’intera camera d’accoglienza e l’attenzione che cercava di
svincolarsi dal suo antico amico. Migliore amico. La metà del suo cuore
perduto.
«Oh, Francesco, allora è
vero che sei tornato» subentrò la figura di Piero Medici, interrompendo il
dialogo pieno di frecciatine tra suo figlio ed il capostipite Pazzi,
manifestando un sorriso del tutto differente del suo rivale e che dava un reale
bentornato. Lorenzo era quasi sicuro che fosse più caloroso quello del genitore
che del parente più prossimo al suo coetaneo. La mia famiglia è la tua, Francesco, ma era stata in un’era
geologica precedente e Francesco aveva compiuto la sua scelta.
«Sì, ho portato a casa un
altro titolo» affermò il viaggiatore, sorridendo di rimando all’uomo che lo
accoglieva con bontà e che metteva in secondo piano gli attriti che esistevano
tra loro.
I nervi acustici di Lorenzo
vennero folgorati in un attimo, un decimo di secondo che fu fatale. Di chi era
quella voce? Una voce profonda, da tenore, così radicata e bollente da
desiderare di ascoltarla per una quantità di tempo disumana, contemplando la
possibilità di udirla raccontare le gesta impacciate e coraggiose di quel
pianeta che voleva camminare da solo e prendersi il posto che gli spettava di
diritto. Un narratore. Era la voce di un narratore che prestava le sue parole e
rimaneva ai margini della storia per non perdersi alcun passaggio.
Da dove era saltata fuori?
Era passato davvero talmente tanto tempo da essersi dimenticato come suonava?
La quantità temporale era stata così malvagia con lui da togliergli quel
ricordo? No, semplicemente Lorenzo non aveva mai avuto l’occasione di poter
sentire il timbro vocale del suo vecchio amico cambiare, variare e
trasformarsi, prendere una forma talmente definita da offuscare tutto il resto.
Gli era stato negato anche quello? Cos’altro gli era stato sottratto?
«Un giorno saremo in grado
di sorpassarvi» affermò Jacopo Pazzi con quella leggerezza piena di insidie e
rivendicazione, sul filo del rasoio.
Era così ben capace
nell’arte oratoria, che non la si poteva mai prendere troppo sul personale ed
attaccarlo a propria volta. «Voglio proprio assistere a quel giorno» ma il
detentore delle redini dei Medici era capace quanto lui e riusciva a non far
divampare le fiamme.
Le iridi chiare dello
studente di economia e commercio incontrarono quelle scure del suo promesso
avversario, trovandolo con quella piega ilare così similare a quella dello zio
che l’aveva cresciuto nell’adolescenza, ma tutto quello su cui Lorenzo si
interrogò fu su quale fosse l’esatta pigmentazione dei suoi occhi. «Con
permesso» si scusò con pragmaticità, accennando un inchino del capo non
necessario e muovendosi con grazia per sparire dalla loro vista.
La presenza di Francesco
continuava a sopraffarlo e neutralizzarlo.
Chiudersi all’interno degli Uffizi
era sempre una saggia scelta, riusciva a tagliarsi via dalla vita soffocante
che l’aveva imbrigliato, ma di cui non poteva smettere di preoccuparsi.
Spesso l’aveva protetto,
spesso era stato il suo unico luogo di salvezza, ma con maggior frequenza era
stata la sua dannazione, il suo cruccio e la prova di quanto la sua esistenza
fosse infima e senza scopo, incapace di apprezzare la bellezza che l’universo
aveva in serbo per lui perché del tutto sprovvisto degli strumenti per
contemplarla.
Si ritrovava a fissare
chiazze argentee e nere, raggi di sole bianchi e bordi sbiaditi, la nitidezza
dei non-colori che ne facevano da padrone, divenendo un paesaggio unico senza
alcuno stimolo e di una noia talmente attanagliante da farlo sopperire ed
incassare senza l’alternativa di poter fare la differenza, di poter rimboccarsi
le maniche come accadeva con tutto il resto e riuscire nello scopo che si era
prefissato.
Non poteva schioccare le
dita e sperare che la tanto decantata anima gemella che innescasse il processo
dei colori si palesasse a lui, spezzando la maledizione e permettendogli di
vedere il circondato come in realtà appariva. È solo un gioco di luci, ma quelle luci davano un gusto diverso
alla qualità del proprio vissuto.
«Sapevo di trovarti qui» la
voce che negli ultimi giorni gli torturava incessantemente l’apparato uditivo
rientrò a perforarlo, ad insistere ben consapevole che non l’avesse più udita
da quell’unico incontro di bentornato.
«Mi cercavi?» erano le prime
parole che gli rivolgeva da più di dieci anni, forse quindici, e la bocca si
seccò inevitabilmente.
«No» rivelò Francesco con immediatezza fredda. «Diciamo
che era una scommessa con le probabilità».
«Una scommessa? I banchieri
osano farne?» Lorenzo non voleva proprio seguirlo, voleva ignorarlo, far finta
di non trovarsi uno accanto all’altro, davanti alla Venere di Botticelli.
«Mi prendo ancora il lusso
di potermi permettere di farlo» il Pazzi non diceva sul serio, era un ricamo su
una carica che un giorno gli sarebbe toccata. Era quello il lusso, allontanare
ancora per un po’ il carico familiare che presto gli sarebbe stato addossato.
«Se non mi stavi cercando,
cosa ti ha portato qui?» lo studente di economia e commercio non voleva
mostrarsi interessato, magari solo vagamente, fare il sostenuto era una qualità
che apparteneva a Francesco, Lorenzo aveva più l’abitudine a farsi trascinare
dagli eventi. «Mi hai nascosto di essere un’amante dell’arte?».
«Non sono come te, Medici»
proferì il migliore amico che l’aveva rinnegato, con una cadenza speziata che
gli era quasi impossibile identificare. «Non sono un estimatore del tuo
calibro, ma è bello tornare a casa».
Casa.
Lorenzo lo guardò per la prima volta con occhi nuovi, una rinnovata visione che
gli apriva ulteriori spiragli di osservazione.
Casa era Firenze, casa era
ogni angolo della loro città madre che li accoglieva e li invitava a non
abbandonarla mai più; casa era ogni giglio, fleur de lis che veniva impresso in ogni dove manifestandosi
incontrastato, era ogni frammento d’arte che popolava i loro natali, i
monumenti che gridavano a gran voce la loro grandiosità, ogni museo e galleria
accuratamente organizzati e protetti che conservavano le meraviglie che i
predecessori avevano lasciato in eredità all’intera umanità. Un’umanità
maggiormente allargata che a distanza di secoli ne decantava ed esaltava la
magnificenza – sì, Francesco aveva patito ogni giorno la distanza che si
frapponeva tra lui ed il loro luogo di nascita. Francesco amava Firenze,
esattamente come l’amava Lorenzo. «Casa, sì» ma Lorenzo continuava ad essere
condannato a non poterla ammirare come in realtà era stata progettata, a
manifestare lo sconcerto e la commozione che scorgeva nelle iridi dei passanti.
Il Medici tornò a fissare il
quadro davanti cui si era fermato e Francesco nel suo mutismo l’osservò di
rimando. Una volta Lorenzo era stato diversi centimetri più alto di lui, ma
negli anni i ruoli erano stati ribaltati. «Stai ancora cercando di vedere?».
L’amante dell’arte si
ritrovò a guardarlo dubbioso, del tutto destabilizzato dal tipo di
conversazione in cui voleva inoltrarsi l’altro. «Vedere?».
Le labbra di Francesco si
serrarono ed un canino pizzicò quello inferiore, spezzando la sua perfetta
compostezza. «È una cosa che disse Giuliano».
«Giuliano?» in quel momento
era ancora più smarrito di prima. «Parli con mio fratello?».
«Una volta» una quindicina
d’anni passati. Non ricordava nemmeno più se fosse stata la loro ultima
conversazione prima che suo zio venisse a prendere di peso lui e Guglielmo,
imponendogli di rompere definitivamente i rapporti con i loro vecchi compagni
di giochi. Per quanto Lorenzo avesse combattuto la sua battaglia, facendosene
carico, in sua vece, aveva inevitabilmente fallito e Francesco non l’aveva mai
davvero aiutato nell’impresa.
Il suo interlocutore lo scrutò
ancora estraniato e poi divenne meditativo. «Cosa dovrei vedere?».
Era una bella domanda,
Francesco si era tormentato per anni sulla risposta che potesse avere, poi
l’aveva dimenticata e successivamente era tornata con prepotenza. La bellezza
della vita. La magnifica essenza dell’intero globo. «I colori» e l’infamia che
ne deriva.
«I colori?» fu piccato in
un’istante, la malignità che gli veniva gettata in faccia. Era l’arma migliore
per un Pazzi. «Non vedo niente».
Un silenzio attanagliante
scese sull’intera sala occupata da diversi visitatori silenziosi. Erano stati
talmente bravi da scegliersi una fascia oraria riservata, in un giorno
settimanale e periodo dell’anno che non raccogliesse la moltitudine invasiva di
turisti che occupava la città, rendendola caotica ed irrespirabile. Eppure non smetteva di perdere il suo lustro e splendore.
«Dov’è il rosso? Che
significato ha? Di che colore sono i fiori che vengono spinti verso la Venere?
Qual è il colore dei suoi capelli?» le domande partirono a raffica con uno
struggimento che investì in pieno chi gli girava intorno.
Le pupille nere quasi
graffiavano il dipinto e Francesco temeva che l’avrebbe visto sbilanciarsi
tanto da afferrare l’opera a mani libere e scuoterla, inveendole contro e
pregandola di mostrarsi nella sua autentica forma. «Basta prendere un libro e
conoscerne ogni segreto».
Lorenzo rise senza allegria,
una lama incastonata nella gola e la grande incudine che pendeva su di lui,
pronta a metterlo a terra una volta per tutte. «I libri non hanno tutte le
risposte, saranno sempre un insieme di grigi, neri e bianchi».
«Non c’è bellezza anche nel
grigio?» chiese di rimando il futuro capostipite dei Pazzi, imponendosi davanti
alla sua presenza in un’ulteriore difesa verso un danno che Lorenzo non avrebbe
compiuto in ogni caso.
«Sei un illuso?» lo
interrogò di riflesso, nascondendo le iridi chiare dietro un velo oscuro. «Non c’è
quando qualcosa di inconsistente è tutto quello che ti è permesso vedere».
Fu consequenziale il tirarsi
indietro di Francesco, scappando al limite consentito che era stato imposto nel
trascorrere delle stagioni, il buio che prese vita nei suoi occhi ed una strana
consapevolezza che li investì come una bufera di neve. «Non li vedi nemmeno tu»
Lorenzo esternò quella verità alla velocità di un fulmine ed il suo
interlocutore non poté proteggersi o negare in alcun modo.
«Non tutti siamo
ossessionati dalla ricerca dei colori, Medici» scagliò gelido e duro, la
freddezza in pozze d’inchiostro e la possibilità di affrontarsi da pari svanita
nel nulla. «Non tutti sono destinati a trovare il tocco che li sveglierà, molti
smettono di cercare, una buona parte della popolazione si accontenta di quello
che ha, senza aver mai la possibilità di ammirare i colori».
Lorenzo tornò pietrificato
al suo posto, immobile davanti al capolavoro di Botticelli, le dita che
formicolavano e prudevano. «Mi dispiace, Francesco» ma nessuno dei due sapeva
esattamente per cosa si stesse scusando.
«Giuliano li vede»
intervallò un’altra frazione di puro silenzio prima che Lorenzo lo dichiarasse
al mondo, a Francesco, e facesse emergere quanto sentisse il trascorrere del
tempo essere spietato con lui, l’intero ecosistema che gli impediva di avere
ciò che desiderava.
«Anche Guglielmo» il che non
era propriamente una sorpresa, ma una comprensione per il suo ascoltatore.
Le labbra piene di Lorenzo
si arcuarono verso l’alto e un po’ del male di vivere sembrava essersi
alleggerito. «Dovrei rispondere con: come Bianca, vero?».
«Loro due incarnano il vero
significato di anima gemella» enunciò da grande narratore quale si presentava
alle orecchie dei presenti. «Sono stati in grado di riconoscersi prima che i
colori sbocciassero» i colori non apparivano mai prima dei quindici anni, era
come un velo che divideva il prima e il dopo, il meccanismo che prendeva forma
soltanto dopo che ogni parte del corpo raggiungeva un dato livello, una
consapevolezza più profonda di se stessi e del mondo.
Giunti i fatidici quindici cominciava una corsa spietata alla ricerca di quella
parte del proprio essere che era stata strappata dall’evoluzione della specie.
L’attenzione di Lorenzo
tornò su di lui e Francesco non poté che rispondere con un’espressione
interrogativa. «Hai usato delle belle parole».
Era evidente che per il suo
futuro avversario quella valesse come unica spiegazione. «Vuol dire che non
sono rimasti soltanto numeri nella mia esperienza accademica».
Lorenzo ne rise di buon
cuore come se fosse stato improvvisamente spogliato di un peso troppo eccessivo
e della negatività che lo inseguiva da giorni. Da anni.
Il Medici prese un profondo
respiro e Francesco si limitò a rimanere uno spettatore in attesa.
«Credi ci sia dell’azzurro
in questo quadro?» gli chiese senza un’apparente motivazione, posando le iridi
chiare in ogni parte dell’opera ed in nessuna, vagando come fosse privo di
vista e non riuscisse a focalizzare ciò che gli si specchiava dinnanzi. Ed era
così.
«Penso di sì» proferì il
maggiore dei Pazzi, puntando le pupille sulla parte più alta della tela.
«Rappresenta la nascita di Venere, in riva al mare, nelle ore mattutine.
L’azzurro è il colore del cielo» un cielo che non aveva mai adocchiato, un
cielo che gli era sempre stato presentato come bianco, smezzato da molte scie
argentee di varia graduazione.
«Nelle ore mattutine» gli
fece eco, ma non aveva la stessa profondità di quella voce calda ed infinita.
«Allora forse ci sarà del celeste, è molto più chiaro».
«Hai studiato la tabella dei
colori?» perché Francesco avrebbe dovuto stupirsene, in qualche modo aveva
perfettamente senso. Anche lui ci aveva provato, una volta.
«Sì, ma non vedevo altro che
grigio; tante, innumerevoli, tavole grigie» aveva perfino comprato diverse
tipologie di libri sui colori, ognuno con la sua bella rappresentazione grafica
ed una spiegazione sul suo significato, insieme al nome proprio, ma non era
riuscito ad andare oltre quello e non aveva mai notato le differenze.
Esistevano seriamente?
Francesco non commentò,
perché aveva avuto davanti lo stesso identico scenario, come ogni giorno della
sua esistenza.
«Giuliano mi ha rivelato di
avere gli occhi azzurri, ma azzurri come il mare» oh, quello spiegava il suo perseverare su quella specifica
sfumatura. Gli occhi sono lo specchio
dell’anima. «Come i suoi».
«Ho da dissentire al
riguardo» non sapeva nemmeno perché l’avesse detto, le parole erano fuggite
come guidate da una forza estranea. «I tuoi sono più chiari».
Lo stupore sul viso del suo
futuro rivale fu evidente e non tratteneva in alcun modo le emozioni. «Come
puoi dirlo?».
«Intuito» aveva passato
dodici anni della sua vita a riflettersi in essi, poteva avvalere le sue
osservazioni senza che venisse contraddetto. «Quelli di Giuliano sono più
sporchi».
«Oh» ma la sorpresa non era ancora evaporata, vedeva gli
ingranaggi mettersi in moto e prendere atto dell’illuminazione. «Questo non mi
sembra un complimento».
«Non voleva esserlo» che
fosse matto a decantare una qualche particolarità del fratello minore del suo
vecchio migliore amico.
«Spero che Giuliano non lo
venga mai a sapere» ma stava sorridendo e sembrava davvero divertito
dall’uscita non voluta del suo inaspettato compagno di mostra. «Ed i tuoi di
che colore sono?».
«Non ho mai chiesto» rivelò
come ultima battuta, un conclusivo punto alla questione.
Suole di scarpe e tacchi
riempivano il silenzio che persisteva tra di loro e la contemplazione per
l’opera che avevano monopolizzato appariva lontana, come se non riuscissero a
vederla realmente. Molto di più delle insidie con cui dovevano combattere
giornalmente.
«Si dice che non funziona
per tutti allo stesso modo, che non basti un singolo tocco a riaccendere i
colori» Lorenzo ci aveva riflettuto spesso, aveva masticato tomi su tomi sull’argomento
per venirne a capo, eppure non era mai riuscito a risolvere l’arcano. «Serve
tempo, allacciare i rapporti e costruirli, avere una base solida e conoscersi
meglio; soltanto allora si manifesteranno».
«Sì, l’ho visto accadere»
rivelò il figliol prodigo, avendo preferito che Lorenzo non tirasse mai fuori
dal cappello quella variante della maledizione che era toccata alle nuove
generazioni degli ultimi secoli. «Ma non sempre funziona da entrambe le parti».
«Cosa vuoi dire?» c’era la
remota possibilità che non sapesse qualcosa sull’argomento? Gli era sfuggito un
dettaglio che avrebbe potuto fare la differenza?
«Che il processo può
manifestarsi in una persona, ma non nella controparte» per quanti intervalli di
tempo potessero trascorrere, non si sarebbe mai attivato. Una era destinata
alla luce e l’altra a rimanere nell’ombra. «Amare un altro essere umano non è
sufficiente se manca il fattore chimico» e l’anatema dei colori era
esclusivamente a base chimica.
Lo sconcerto era talmente
devastante in Lorenzo da colpire Francesco come se fosse stato l’artefice di un
delitto nei suoi confronti. «Credevo non stessi cercando i colori» ma spesso
dimenticava di quanta intelligenza ed acume fosse dotato il rivale, arrivando
ad una verità che non era stata espressa ad alta voce con parole chiave ed
intellegibili.
«Ho smesso» Novella aveva
trovato la via della luce senza di lui, rimanendo indietro e non erano più
stati in grado di formare il duo indivisibile che erano stati. Lei era stata
costretta a lasciarlo andare e Francesco non si era più guardato indietro.
«Dovresti smettere anche tu» prima che ti
divori.
«Smettere di cercare i
colori?» era un’idea talmente grottesca ed impraticabile che Lorenzo reputava
di essersela sognata, in un incubo talmente claustrofobico da non credere
possibile di ritornare a respirare, riprendendo a produrre anidride carbonica
da scambiare con l’ossigeno. «Pensavo che la prova vivente di Bianca e
Guglielmo significasse qualcosa per te».
«Cosa dovrebbe significare?»
Francesco era davvero irritato dalla situazione, dai drammi di Lorenzo, dal suo
non smettere mai di martellare sulle sue visioni e sulla grande illuminazione
che stava seguendo, in barba a chiunque fosse costretto a stargli dietro. «Ti
sembro il tipo che crede nell’anima gemella?».
«No, cosa vado a pensare»
disse ironico e beffardo, ridendo di se stesso e del
personaggio che lo fissava in cagnesco, aggrottando le folte sopracciglia. «Non
sei nemmeno il tipo che combatte per l’amicizia di una vita».
Afferrarlo per un polso,
incontrandone l’epidermide, e frastornarlo con violenza fu l’unica mossa che
gli attraversò il cervello nella sua cecità totale. «Stupido, viziato di un
Medici, cosa ne sai tu della mia vita?».
Il bagliore che fiorì
dall’interno li lasciò destabilizzati, ma erano talmente concentrati l’uno
sull’altro che lo ignorarono bellamente, dimenticandosene in meno di un battito
di palpebra. Non si assalivano ed urlavano contro da quindici eterni anni.
«Nulla» confessò lo studente
di economia e commercio, i denti stretti e l’orgoglio nelle iridi chiare che
risplendevano più che mai, liberandosi dalla presa ferrea del compagno d’arte.
«È per questo che siamo svincolati l’uno dall’altro».
Lorenzo tornò a perdersi
nelle pennellate di un grigio sempre diverso, a mettere presente quanto non si
dovessero niente e potessero tornare a vivere i giorni successivi come se nulla
fosse cambiato, come se le loro esistenze non fossero tornate a collidere e
fossero capaci di resistere alla calamita che per qualche ragione malvagia
continuava ad attrarli, a scontrarsi ed imbattersi, senza che avessero la
propensione ad evitarlo, a dimenarsi ed a spostare l’ago della bilancia verso
una direzione che non potesse sfiorarli.
Ma Francesco fu percorso dalla
sensazione che tutto quello in cui avevano creduto gli sarebbe presto stato
gettato in faccia, annientandoli.
Le lacrime caddero dalle
gemme azzurre di Lorenzo prima che ne prendesse atto, prima che riuscisse a
metabolizzare cosa fosse accaduto, quale variabile fosse cambiata.
La tela sacra che stazionava
invariata davanti a lui sembrò modificarsi, prendere una connotazione che non
aveva nemmeno immaginato potesse esistere, ampliarsi e toccare orizzonti
minimamente sognati. Improvvisamente sembrava più grande e viva.
Viva.
Il verde dell’acqua più cristallina che dava vigore al mare da cui emergeva la
conchiglia di madreperla, dal cui interno primeggiava la figura femminile della
Venere appena nata come una donna completa, dai lunghi e rigogliosi capelli
dorati, baciata dall’insieme di due venti che la vezzeggiavano con fiori dalle
sfumature rosate.
Nello sgomento con cui quel
vortice di colori lo colpì in pieno – colori, colori veri; niente totalità di
tonalità di grigio e nero –, una nausea del tutto inaspettata lo colse
impreparato e il cervello faticò ad assimilare tutte le informazioni che le
pupille d’inchiostro gli trasmettevano senza che fossero minimamente efficienti
nel frenarsi. Lorenzo avrebbe dovuto serrare le palpebre e nascondersi nell’oscurità
se non desiderava che il cranio esplodesse.
Il cielo era davvero
azzurro. E celeste.
Lo realizzò soltanto quando
le iridi si rifletterono in quelle castane di Francesco, frammentate da un
fascio di luce che le rendeva irrealisticamente verdi.
La comprensione reciproca se
ne cibò, rigettandone le ossa spolpate, e nel riflesso svanito in cui attimi
prima riusciva a specchiarsi, colse l’enormità del danno che li aveva toccati,
di come il giovane Pazzi si fosse volatilizzato dalla sua presenza, esattamente
com’era riapparso giorni addietro, con la carica esplosiva ed elettrica che
aveva avvertito per tutto il tempo, in una tensione destabilizzante.
Francesco l’aveva
abbandonato in solitudine all’interno degli Uffizi, nella sola compagnia che le
opere d’arte da Lorenzo tanto amate potessero in qualche modo colmare,
permettendogli di rimandare l’inevitabile ed abbracciare la sua nuova vista che
gli consentiva di godere della complessità totale del patrimonio culturale che
le mura di Firenze proteggevano dall’avversità delle malefatte del tempo,
nemico di qualsiasi cosa potesse disfarsi con il soffio di una brezza estiva.
Presenziare al concilio era
diventato più difficile di quanto non lo fosse mai stato, per una vita intera
non aveva avuto alcun problema a non avere degli interscambi con Francesco
Pazzi, spesso si era limitato a scrutarlo da lontano, a guardarlo di sbieco
come un’ombra sfocata sullo sfondo, a non avvicinarsi mai per dare un suono ad
una singola e sola parola. Per molto tempo avevano comunicato parlando
attraverso terzi quelle poche volte che si trovava in città, esternando i
propri pensieri ad alta voce e lasciandoli a disposizione di chi volesse
ascoltare, eppure, se ci rifletteva, era una pratica che portava avanti
Lorenzo, perché Francesco si limitava a rispondergli con gli occhi – quegli
occhi che Lorenzo sapeva essere del color dell’aragonite, con l’illusione dei
raggi solari che li cambiasse in giada – e dalla piega che i suoi lineamenti
facciali prendevano; era tutto lì.
Non avrebbe mai pensato che
gli sarebbe mancato quel contentino che sapeva non essere nemmeno intenzionale.
Il Pazzi tendeva da quel
giorno a girargli alla larga, a tenersi leghe distanti da lui ed a
volatilizzarsi quando entrava nel suo raggio d’azione. Non sembrò notarlo
nessuno, nemmeno Jacopo Pazzi che era un uomo scrupoloso ed attento ad ogni
variabile.
A Lorenzo non era stato
concesso altro che l’opportunità di rispettarlo. Un Pazzi non può essere amico di un Medici. Ma amanti? Amanti era
un’eresia. Era blasfemia.
Non aveva mai notato – e
come avrebbe potuto? – che tutto ciò che aveva trascritto in quegli anni fosse
caratterizzato da inchiostro blu. Poteva vederlo bene, il colore acceso che
spiccava sul foglio, ma che allo stesso tempo non creava un contrasto del tutto
evidente con il bianco della cellulosa, percepiva la vista stancarsi come mai
gli era accaduto ed il bisogno di cambiare strumento di scrittura. Pagine e
pagine di blu come se avesse sempre saputo che quello era un pigmento vero, non
i bordi del nero che l’anatema aveva avuto in serbo per le nuove generazioni.
Aveva cercato e trovato il colore senza nemmeno sapere che esistesse una
differenza. Una ribellione nella sua ignoranza.
Si trovava davanti alla
scrivania che conteneva un numero spropositato di portapenne ed un accumulo di
biro senza precedenti, era perfino riuscito a trovarne una gialla ed ancora si
chiedeva a cosa servisse, ma ancora più sorprendente era stato trovare
dell’inchiostro verde in ogni dove; l’aveva mai usato? Il verde era il pigmento
della maglia che Francesco indossava dentro gli Uffizi quel maledetto giorno,
quando i colori era sbocciati esattamente come lui aveva narrato, ma per una
coppia diversa, per una che aveva realmente lottato per rimanere insieme; per
una che non si era mai divisa, del tutto indifferente alla lotta tra Pazzi e
Medici.
Lo portava perfino al
concilio, l’aveva sempre avuto addosso da quando si conoscevano? Il verde con
cui il topazio delle sue iridi cangianti giocava – verde, il colore degli
antagonisti. Teatralmente ironico.
«Stai decidendo quale nero
sia più nero?» domandò subentrando non invitato Giuliano con una nota di ironia
leggera, quella che in qualche modo rendeva il peso del mondo più sopportabile.
«Nero?» domandò di riflesso
il fratello maggiore, fissandolo senza capirlo, scontrandosi con quel blu
dell’oceano più profondo baciato dall’astro di Apollo.
«Cercavi qualcos’altro?»
chiese l’adone greco – e Giuliano lo era in tutto e per tutto –, percependo un
cavillo che aleggiava nell’aria.
Lorenzo sbiancò senza che
avesse la prontezza di inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa, con in mano in
contemplazione una penna a sfera smeraldo che lo tradiva senza esitazione.
Le pupille scure
sull’acquamarina presero il sopravvento ed una colpa visibile solo agli occhi
del ventiseienne prese corpo. «Tu li vedi».
Il senso di colpevolezza fu
talmente evidente che non avrebbe mai più potuto mascherarlo.
«Lo sapevo che c’era
qualcosa di diverso in te» lo aveva notato nelle piccole cose, nel come Lorenzo
si imbambolasse più del solito a fissare qualcosa che normalmente avrebbe
ignorato. Nel modo in cui ammirava tutto quello che lo circondava e di quanto
spesso fosse andato nelle gallerie d’arte per uscirne ore e ore dopo. «Quando è
successo?» perché non l’aveva capito prima?
Le labbra rosse vennero
torturate in una caratteristica che una volta non sarebbe parso evidente, ma
l’accendersi dell’arrossamento era impossibile ignorarlo. «Una settimana fa».
Una settimana? Un’intera
settimana? «Perché non l’hai ancora sbandierato ai quattro venti?» Lorenzo
l’avrebbe fatto, il Lorenzo di sette giorni prima ne avrebbe cantato le lodi,
scritto dei poemi ed inondato la gente sconosciuta di sorrisi senza che se ne
spiegassero la ragione; avrebbe urlato al miracolo, alla gloria e alla fortuna
di cui l’essere umano poteva bearsi, esaltandone il tesoro immenso che
rappresentava.
Il maggiore dei Medici non
fiatò e Giuliano non riusciva a comprenderne la motivazione; Lorenzo aveva
amato per ventisette anni qualcosa che non gli era stato concesso di avere e
che nella fase più buia della sua vita aveva creduto non gli sarebbe mai
appartenuto, ma era successo, i colori si erano mostrati ed avevano cambiato la
qualità della sua intera esistenza. «Chi è?».
Era quella la domanda, la
domanda spinosa che voleva evitare gli venisse posta. «Qualcuno che non
dovrebbe».
Esistevano delle restrizioni
di cui non era stato informato? «Qualcuno che non dovrebbe per te o per questa
persona?».
«Lui-» ma si pentì subito di
essersi lasciato scappare quell’unica sillaba, il modo in cui suo fratello
fosse in grado di farlo cascare in un tranello del tutto legittimo. Aveva
cambiato una sola parola e non era stato in grado di seguirne il percorso,
scegliere il pronome corretto e non quello che aveva in testa.
«Oh, lui» il biondo lo sottolineò in un’illuminazione ultraterrena, ma
non aveva nulla a che vedere con la comprensione che l’anima gemella che madre
natura aveva confezionato per Lorenzo fosse un ragazzo, un uomo. «Francesco»
era quella l’unica restrizione che avevano, quella per cui il futuro banchiere
ne soffriva gli effetti dai suoi dodici anni.
Lo smascheramento si dipinse
in un battito di ciglia sul suo volto ed il maggiore avrebbe preferito che il
pavimento fosse stato un po’ più solido sotto i piedi. «Dai per scontato che si
tratti di Francesco?».
Giuliano odiava quando il
fratello dubitava della sua intelligenza, quasi ne fosse completamente
sprovvisto ed incapace di far girare gli ingranaggi della testa. «L’hai amato in
molti modi diversi e lo ami ancora, chi altri potrebbe essere?».
Lorenzo non gettò parole in
merito, se non l’amara ammissione silenziosa, e Giuliano comprese ancora una
volta che la decisione finale fosse stata presa dall’erede di casa Pazzi,
com’era sempre stato. L’aveva rifiutato in precedenza, rinnegandolo, e non si
era controllato dal lasciar che riaccadesse. Il suo consanguineo aveva un modo
tutto suo di amare, possedeva talmente tanto amore da dispensarlo a chiunque
riuscisse a ritagliarsi un singolo angolino nel suo cuore, con una semplicità
quasi disarmante e destabilizzante, tanto da portare chi gli era vicino a
preoccuparsi della facilità con cui accadeva, ma con Francesco Pazzi era tutta
un’altra storia. Con Francesco erano state toccate corde che non sarebbero dovute essere sfiorate, un amore imprevedibilmente
traboccante da svuotarlo di ogni energia vitale ad ogni tradimento, ad ogni
abbandono. Lo era stato nell’amicizia di due bambini che contavano l’uno
sull’altro indiscriminatamente e lo era nitidamente di più nella consapevolezza
dell’età adulta, in cui il platonismo di un rapporto amichevole dava spazio a
qualcosa di più concreto. «Il mondo è davvero un posto crudele, fratello».
Il mondo è davvero un posto crudele, Giuliano non poteva smettere di avere ragione, non
poteva perché Lorenzo stava patendo le pene dell’inferno dalla privazione di
non poter scambiare una singola parola con Francesco, dal non essergli concesso
di toccarlo e riaccendere la scintilla che aveva permesso fiorissero le tinte
che coloravano le catene montuose.
Il mondo era un posto
crudele perché incrociava ogni giorno il Pazzi a cui il destino l’aveva legato,
la sua freddezza ed immobilità che gli suggeriva caldamente di girare a largo,
di non provane nemmeno a sostare davanti a lui per più del necessario; di non
farlo accadere affatto.
Francesco aveva visto i
colori com’era accaduto a lui?
Avrebbe voluto dire che non
era cambiato nulla, che erano ancora due anime affini che si erano imposte di
divenire sconosciute, di interrompere ogni rapporto amichevole potesse esistere
tra loro, che non esistesse un’imposizione che le costringesse a stare lontane
l’una dall’altra, ma Francesco non sembrava volesse vedere i colori, accettare
quello che in realtà erano. Se Lorenzo pensava che assistere alla distruzione
della loro amicizia fosse il male peggiore, doveva ricredersi come in poche
occasioni gli era capitato. Per Francesco era una macchia che andava ignorata,
cancellata.
Ai piedi della cattedrale
Santa Maria del Fiore il futuro capostipite dei Medici si perdeva nella sua
bellezza inestimabile, del marmo bianco costeggiato di un verde bosco,
intervallato ad un rosa perlato; continuava ad essere paralizzato da quello
spettacolo di cui non gli era mai stato concesso di bearsi. Era sicuro non se
ne sarebbe mai stancato.
«Hai intenzione di
contemplarla per tutta la vita?» forse il suo piano geniale era farlo morire
sul colpo, togliersi quell’impiccio una volta per tutte.
Lorenzo arrancò e fu
immediato per lui voltarsi verso il suono di quella voce che aveva avuto la
sfortuna di ascoltare troppo poco, quasi un peccato capitale, e che temeva non
gli fosse data un’ulteriore possibilità di udirla. «Potrei».
Le gemme di aragonite si
incrociarono con quelle acquamarina ed il tempo sembrò arrestarsi. «Sì,
potresti».
Tutto l’interno dell’amante
dell’arte rabbrividì e non c’era via di scampo. Dal timbro vocale, dal suo
essere uomo, da Francesco. «La vedi?».
«Sì» ma non distolse lo sguardo dal suo, non lo posò sul
duomo che troneggiava davanti a loro e richiamava tutta l’attenzione; il suo
antico amico dava l’impressione di aver già memorizzato ogni sfumatura, ogni
spigolo ed intarsiatura.
«E com’è?» Lorenzo stava talmente
bruciando dentro da chiedersi come potesse essere in grado di reggersi ancora
sulle gambe e non stramazzare al suolo.
«Oltre qualsiasi
immaginazione» ma esisteva immaginazione senza colori?
Il ciuffo ribelle di Lorenzo
gli offuscò la visuale ed il capo si voltò verso la chiesa, abbozzando un
sorriso sincero ed ammirato. «È vero».
«Hai tutto quello che
desideravi?» gli chiese il viaggiatore, la sua altezza che improvvisamente dava
l’illusione di essere più imponente.
Lorenzo lo occhieggiò di
sbieco, l’incapacità di seguire i suoi ragionamenti che prendevano strada.
«Cosa intendi?».
«Puoi vedere» Francesco non
aveva mai capito quello che Giuliano aveva cercato di spiegargli quindici anni
prima, quando perfino lui era incapace di bearsi dei colori, ma era il cuore
che più comprendeva il fratello maggiore.
«Sì» ma c’era incertezza nella vocalità dolce e morbida
che lo caratterizzava, così opposta a quella del Pazzi. Sin dal primo impatto
che i colori avevano avuto su Francesco, aveva notato quanto si differenziassero
perfino in quelli. Tinte brillanti, chiare e fredde rendevano Lorenzo
appartenente alla luce e sfumature cupe, buie e calde collocavano Francesco
nell’oscurità. «Se a te sta bene, farò in modo di farmelo bastare».
«Se a me sta bene?» il figliol
prodigo non voleva minimamente credere alle sue orecchie, non voleva proprio
provarci. «Stai giocando, Medici?».
Non era lui che stava
giocando, non era lui che aveva attaccato bottone per primo. Non riusciva
nemmeno a rendersi conto di come fosse possibile che avessero cominciato una
nuova conversazione. «Perché sei qui, Francesco?».
La rigidità diffidente del
futuro nemico si manifestò in tutta la sua completezza ed ogni lineamento
parlava per lui. «Sono stato chiaro, sto tornando a casa».
«E casa è dove sono io?» gli
uscì come un getto d’acqua, improvviso, inaspettato e fuori luogo.
Gli effetti furono
istantanei, i tratti facciali del corvino cambiarono, divenendo più affilati e
pronunciati, ma la batosta fu difficile nasconderla. «Sempre pieno di te stesso»
un risolino maligno prese spazio e le larghe spalle furono scrollate, a
scacciare via ciò che arrecava danno, che lo indispettiva; allontanarsi e
voltargli la schiena era ciò che gli riusciva meglio.
Come era lo stesso per
Lorenzo corrergli dietro, lasciarsi trasportare dentro uno dei vicoli isolati
che Firenze offriva, le alcove che spesso venivano ignorate.
«Mi accusi di seguirti, ma
sei tu a non frenarti» Francesco si sedimentò al centro della stradina,
bloccando l’unico accesso che avrebbe portato alla via successiva, con le
braccia serrate e lo sguardo torvo, ma derisorio – un tempo era solito
rivolgergli un sorriso affabile, dolce, la totale complicità tra fratelli, si
fidava di lui come di nessuno; Lorenzo non era riuscito nell’intento di toglierselo
della mente impresso nelle retine com’era.
«Ma io l’ho sempre fatto»
dichiarò univoco il Medici, le emozioni che gli scorrevano sottopelle. «Non ho
mai rinunciato a te».
Francesco sembrò essere
colpito in pieno viso, la frenesia che gli veniva gettata addosso senza alcun
riguardo. L’assolutezza della convinzione di Lorenzo che non guardava niente e
nessuno. «Mi hai chiesto se avessi tutto quello che desideravo e la risposta è
no. Posso vedere, ma non si è mai trattato solo dei colori, della possibilità
di poterne godere; colori o non colori, avrei accettato ogni prospettiva se si
trattava di te».
«È solo chimica» ragionò per
lui l’erede della famiglia Pazzi, l’arrochimento nella voce che non poteva
schiarire. «Soltanto chimica».
«No, non lo è» le mani di
Lorenzo afferrarono le sue per la prima volta ed il contatto esplose come
quando erano rinchiusi negli Uffizi, davanti alla Nascita della Venere.
Bruciava insaziabile, affamato per la privazione a cui era stato soggetto. «Non
lo vedi?».
Cosa avrebbe dovuto vedere?
«Mi stai manipolando, Medici?».
«Perché dovrei manipolarti?»
lo chiese senza riuscire a capire di cosa lo accusasse, cosa non era in grado
di sopportare. «Voglio solo sapere se riesci a vederlo. Non sono mai stato io
la persona che voleva manipolarti».
Portarti via da me,
Francesco lo sentì a chiare lettere, scandite ad una a
una. «È quello che fa un Medici».
«Sì?» domandò retoricamente
in una eco non espressa.
Le dita di un arto si
slegarono dalla stretta dell’amante dell’arte e salirono in alto, lambendogli
il collo e mimando una pressione fantasma, a chiudersi e serrargli le vie
respiratorie, tuttavia la trama delle loro falangi non svincolate persistette.
Era così facile, così a portata di mano senza che Lorenzo si dibattesse,
portare a termine l’impulso di mettere tutto a tacere e far finire quella
tortura che lo reclamava a gran voce, dissipare ed annientare ciò che il fato
aveva avuto in serbo per loro senza consultarli, senza muoversi per scoprire
qual era la storia che si nascondeva dietro il loro passato, la lotta eterna
che le loro famiglie si portavano di generazione in generazione non curandosi
dei cadaveri che lasciavano al loro passaggio, delle scelte che i posteri erano
obbligati a prendere e mettere da parte le proprie emozioni, sentimenti e il
credo che avrebbero voluto seguire.
Lorenzo e Francesco avevano
sempre voluto un risvolto diverso per la faida che avevano ereditato, ma gli
eventi si erano svolti in modo totalmente opposto a ciò che sognavano da
bambini. La mia famiglia è la tua,
Francesco. Perché non gli aveva mai detto che valesse la stessa cosa per
lui? Che erano l’uno il riflesso dell’altro? Che l’essere separati li avesse
condotti a vivere soltanto a metà? «Un Medici ed un Pazzi non possono essere
amici».
«Me lo ricordo» acconsentì
lo studente di economia e commercio, le memorie che si frapponevano tra loro e
gli echi che riecheggiavano in ogni dove.
La curva delle dita si
distese ed abbandonarono l’assalto al collo, ritrovandosi sospese nell’aria a
solleticarla senza sapere bene dov’era più indicato dirigersi. Le iridi
incredibilmente chiare di Lorenzo lo seguirono per tutto l’arco temporale della
sua decisione di mettergli le mani addosso; Francesco non riusciva ad abituarsi
a quel pigmento assurdamente ricco di innumerevoli sfumature e riflessi. «Non
ho mai voluto allontanarmi da te, Lorenzo».
L’intero assetto del Medici cambiò
e fu talmente evidente quanto avesse inciso sulle sue emozioni sentire di
essere chiamato col nome proprio, senza l’avversione e quel veleno appena
accennato che veniva costantemente contenuto nella pronuncia del cognome. Era
estremamente facile farlo risplendere che Francesco ne fu terrorizzato. «E
adesso?».
Le falangi più scure si
poggiarono sul viso, all’altezza della mascella, il contrasto evidente delle
epidermidi che non poteva essere celato – con tutte quelle persistenti tinte
grigie l’aveva mai notato? –, e si ritrovò ad inspirare a pieni polmoni l’odore
piacevole della sua croce personale. «È complicato».
Francesco lo stava
vezzeggiando, era chiaro come il sole e gli faceva esplodere il cuore; erano ad
una tale vicinanza, tutto a portata di un singolo bacio, che se si fosse dato
un’impercettibile spinta dal basso verso l’alto avrebbe permesso alle loro
labbra desiderose di intrecciarsi, ma il viaggiatore avrebbe approvato? Sarebbe
scappato? «Cosa non lo è».
Accarezzargli uno zigomo con
il polpastrello del pollice fu un richiamo troppo forte a cui resistere, forse
perché l’aveva evitato per più di metà del suo arco vitale. «C’è troppo in
gioco».
Lorenzo si abbandonò a quel
tocco delicato, totalmente opposto all’avversione che gli aveva costantemente
dimostrato negli anni, che gli aveva rivolto nei sessanta secondi precedenti,
al cerchio che voleva stringere attorno al collo, al voler disconoscere il
reale legame che esisteva tra loro, lo zampino che madre natura aveva
instillato per farli cedere. Era Francesco che si scioglieva a diretto contatto
con lui. «Non possiamo essere soltanto noi? Io e te» ma in un istante poteva
distruggerlo.
«Vuoi che rinneghi la mia
famiglia?» l’unica famiglia che si era presa cura di lui, che gli aveva
permesso di andare avanti e costruirsi il suo posto nel mondo.
«Non hai una sola famiglia,
Francesco» era un aspetto che non era mutato nel tempo, Lorenzo continuava ad
invitarlo tra le sue coltri, nell’affetto che i suoi parentali erano capaci di
dare, indipendentemente da chi si ritrovassero di fronte. Avevano accolto
Francesco una volta, avevano integrato Guglielmo senza mai farlo sentire fuori
posto; in qualche modo i dissapori apparivano scemare tra le mura Medici,
contrariamente opposte a quelle di Jacopo Pazzi. Se fosse esistito ancora un
posto vacante, Francesco avrebbe avuto il diritto di rioccuparlo. «Ma non era
quello che intendevo. Possiamo costruire la nostra famiglia, creare il nostro
impero, indipendentemente dal nostro lascito».
La meraviglia nel Pazzi era talmente
dilagante che fu impossibile trattenerla. «Ricominciare da zero» non era una
domanda, nemmeno una risposta, era un’osservazione che non riusciva a cogliere
nel suo totale aspetto. Che cosa comportava il ricominciare da zero? A cosa avrebbe dovuto rinunciare ed a quali
ire sarebbe andato incontro? Era concretamente una possibilità da considerare?
«Possiamo inventarci tutto
quello di cui abbiamo bisogno per stare insieme» Lorenzo non aveva alcun
timore, non vacillava, non cadeva al suolo aspettando che qualcuno lo rialzasse
da terra; era disposto a correre il rischio, a provare il tutto per tutto per
riuscire ad ottenere ciò che gli spettava.
«Vuoi stare davvero con me»
realizzarlo a voce alta assumeva un sapore completamente nuovo, mai
sperimentato, prendeva consistenza e diveniva più reale di quanto non fosse
stato quel lungo ciclo narrativo della sua vita, sfocato e privo di sostanza.
«Ci credi così tanto?» eppure era solo un processo chimico, due organismi che
si riconoscono, che per puro caso hanno la capacità di attivare qualcosa che
era stato sopito, innescare la scintilla che nessun’altro poteva scatenare per
dare un senso a quell’universo tutto uguale, dove nemmeno la più inebriante e
vigorosa luce era in grado di spezzare la monotonia del grigio persistente.
Lorenzo gli regalò uno di
quei sorrisi che non avrebbe mai potuto apprezzare se fosse stato ancora
sprovvisto della magia del colore. «Ho sempre creduto in te».
Vuole vedere,
Francesco non aveva mai capito, non sarebbe mai stato in grado di capire il
significato delle parole che Giuliano gli aveva confidato in un tempo in cui
pensavano che non sarebbero mai stati divisi, che il trio Medici ed il duo
Pazzi fosse inseparabile ed indistruttibile.
Vuole vedere,
lo comprendeva, comprendeva perfettamente il segreto nascosto dietro le cinque
sillabe che l’avevano tormentato per quindici anni. «Ti vedo».
Le iridi immense di Lorenzo
si sgranarono ed occuparono metà del suo viso, lo sconcerto serpentò nelle
pupille nere e si inumidirono prive di controllo; erano più lucenti di quanto
Francesco avrebbe mai potuto sperare.
Baciarlo cogliendolo
impreparato non fu istintivo, fu necessario, voluto, bisognoso. Era la risposta
ultima che serviva a quell’infinito esercito di domande che sarebbero rimaste
vuote, a volteggiare sulle loro teste nei momenti di tensione e crisi, quando
il dubbio e l’incertezza avrebbero fatto da padroni. Ma potevano superarlo,
potevano scavare la via per la salvezza, ferendosi le mani e lasciandole
sanguinare, sporcate dalla tetra terra. «Avevo ragione, i tuoi occhi sono più
chiari e limpidi».
Francesco Pazzi avrebbe
intrapreso qualsiasi cammino Lorenzo Medici avrebbe deciso di imboccare e ne
avrebbe pagato il conto decisamente salato.
È una cosa che
ripeto tutte le volte che mi ritrovo in un fandom in cui non pensavo mai di
capitare ed invece eccomi qui.
Questa
seconda stagione de I Medici ci ha presi/e parecchio e Lorenzo e Francesco sono
probabilmente ciò che ci ha catturato di più, per troppi aspetti ed è difficile
non farsi trascinare da loro e far andare libera la mente di fantasticarci su.
Proprio
perché sono Francesco e Lorenzo ci si aspetta una storia piena di angst e sofferenza, cosa che appoggio pienamente e nell’angst ci ho sempre sguazzato, ma in questo caso è nata
qualcosa di più semplice, leggera, senza sangue e magari omicidi in mezzo e per
questa volta dovremo prenderla così, ma chissà se in futuro non potrebbe
arrivare altro, perché giustamente questi due non hanno sofferto abbastanza (Giuliano
è un caso a se stante).
Il tema
della mancanza di poter vedere i colori è abbastanza diffuso, ma credo che non
abbia un nome ed anche questo dovremo tenercelo purtroppo così (a parte il soulmate che
viene utilizzato per tutto).
Ma c’è anche
un’altra cosa che non ha un nome ed è la coppia formata dai nostri amati
Lorenzo e Francesco e proprio per questa ragione che io e la mia Beta (EarthquakeMG) ci siamo
ingegnate, su sua richiesta, di inventarne uno ed alla fine è uscito quel bel Froren. Magari nel frattempo qualcuno ne ha tirato fuori un
altro, ma chiunque volesse può adottare questo e diffondere il verbo.
Ringrazio la
mia Beta (coppia su cui ci siamo reciprocamente aiutate) che mi accompagna
nelle mie peripezie artistiche da otto lunghissimi anni, senza farci mancare lo
stare affondando in questo baratro di Francesco e Lorenzo senza averne nemmeno
la percezione. O forse sì.
Ringrazio
chiunque passerà di qui, chi vorrà lasciare qualche parola sulla storia e
chiunque si limiterà a leggerla in silenzio.
A presto,
Antys