Due
Anni Dopo.
Nonostante
non ci fosse traffico, arrivò comunque in ritardo. La
maledetta
pioggia che tentava forse di inondare Philadelphia rendeva difficoltoso
vedere
qualcosa, anche coi fanali spianati. L'umidità creava una
patina fumosa sul
vetro della sua auto di seconda mano.
Parcheggiò, notando che gli ultimi bambini ritardatari
stavano tornando a casa
coi genitori. Ethan scese dall'auto, cominciando subito a bagnarsi
nella fitta
pioggia. Si era nuovamente scordato l'ombrello. Poco importava.
Shaun lo vide, unico bambino rimasto accanto alle maestre, e
uscì in fretta per
raggiungerlo, i piedi che sciacquettavano tra le pozzanghere, lo zaino
che pesava sulla sua piccola schiena.
"Ciao, Shaun" lo salutò il padre aprendogli la portiera.
Il bambino rispose al saluto, più per abitudine che altro, e
si mise in auto
guardando il finestrino.
Non dissero una parola mentre la macchina sfrecciava verso le stradine
di
periferia.
Una volta a casa Shaun si lanciò sul divanetto e accese la
tv, rilassandosi
dopo quello che evidentemente era stato un lunedì intenso.
Ethan lo vide mentre cercava la posizione più comoda sul
vecchio divano.
Sicuramente quello a casa di sua madre era ben più spazioso.
Avrebbe dovuto
dirgli di fare i compiti ma preferì dargli del tempo per
rilassarsi. Anche
perchè, una volta davanti ai cartoni animati, non aveva
molte speranze di
coinvolgerlo in altre attività.
Senza grosso interesse cominciò a controllare la sua posta.
Bollette vicino
alla scadenza. Il giornale del giorno prima, su cui capeggiava un
titolo
minaccioso. "Il Killer degli Origami colpisce ancora: settima vittima
identificata."
Lo mise via senza leggere altro. Poi tra i manifesti pubblicitari,
trovò una
lettera.
Era diretta a lui, ma non c’era un mittente. La
aprì con una certa curiosità.
Nel centro del foglio piegato in
quattro, battuto
evidentemente a macchina, c'era scritto:
Quando
i genitori rientrarono a casa dopo la messa tutti i loro bambini erano
scomparsi.
Li cercarono e li chiamarono a gran voce, piansero e implorarono ma fu
tutto
inutile. Nessuno rivide mai più i bambini.
Si
chiese se si fosse trattato di
uno strano scherzo, ma non credeva di conoscere nessuno con un tale
senso
dell'umorismo. Poteva anche essere arrivata a lui per errore. Avrebbe
potuto
rimuginarci su ancora per un po', ma Shaun gli chiese a gran voce la
merenda e
le sue preoccupazioni si riversarono sul figlio.
Quella
sera riuscì a metterlo a
letto presto. Grace si lamentava sempre di come Shaun dormisse poco nei
giorni
in cui stava da lui, ma gli piaceva dare un minimo di
libertà al figlio. Quella
sera comunque, dopo aver mangiato una pizza scongelata davanti alla tv
(altra
libertà concessa in gran segreto) lo aveva convinto a salire
in camera in un
orario decente. Era perfino riuscito a ritrovare il
suo orsacchiotto di pelouche
preferito, dall’innaturale pelo verde, che per qualche
strano motivo era
sulla lavatrice.
Lo
confortava che ormai gli bastasse
solamente il pelouche e la lucina accesa per dormire serenamente.
Nell’ultimo
anno aveva smesso di intrufolarsi nel letto dei genitori, o di
bagnarlo, e da
pochi mesi dormiva senza svegliarsi urlando. Disegnava ancora quei crudeli disegni, quelli con la mamma che piangeva, con papà triste, con Jason steso in orizzontale, anche a scuola. Lo psicologo diceva che era normale. Bisognava dargli tempo.
Ethan abbassò le tende della
cameretta e dandogli il pelouche, gli rimboccò le coperte.
“’Notte,
Shaun” sospirò.
“Notte, Papà” fece lui, tranquillo.
Ethan stava per andarsene quando il
ragazzino lo chiamò di nuovo.
“Papà?”
“Sì?”
“Perché sei così triste?”
chiese, mentre gli occhi castani lo guardavano con innocenza.
Non c’era una vera risposta che
avrebbe voluto dargli. O forse, ce ne erano troppe. “Credo
che mi serva un po’
di tempo… Per tornare come prima.” si limitò a dire.
“Papà, quello che è successo a Jason
non è colpa tua!” disse Shaun, con una
sincerità tale da lasciarlo spiazzato.
Avrebbe tanto voluto che fosse così semplice. Davvero.
“Buonanotte, Shaun” disse
semplicemente Ethan. Gli baciò la testolina bruna,
gli sistemò meglio le coperte e
stavolta si accomiatò davvero.
Non
voleva causare altra ansia al bambino. Aveva ancora tutta la notta per
restare a rimuginare, e forse bere qualcosa. Stava per scendere le
scale quando
il suo intero corpo si bloccò. Le scale si duplicarono ai
suoi occhi. L’intero
corridoio prese ad ondeggiare. Cercò inspirare ma non gli fu
possibile.
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Riemerse.
Pioveva
parecchio e le uniche fonti di luce erano quelle dei lampioni, in una
strada deserta.
Ethan si ritrovò completamente fradicio. Ma il freddo e la
luce lo aiutarono a
riprendersi. Doveva essere notte fonda. Si guardò attorno,
riprendendo a
respirare. Carnaby Corner, diceva un cartello. Era ad almeno tre
chilometri da
casa sua, o forse quattro. Come ci fosse finito, non lo sapeva. Non aveva alcun senso.
Con stupore, trovò nella sua mano
destra un origami, che ricordava vagamente la forma di un cane. Lo
guardò per
un lungo istante senza capire.
Non poteva stare accadendo a lui.
Non di nuovo…
Senza trovare alcuna risposta, cominciò
a camminare verso casa.
note:
sì,
dopo anni mi ritrovo a lavorare di nuovo su quella che è
letteralmente la versione romanzata del videogame Heavy Rain. Da poco
mi è tornata la voglia di riaggiornare vecchie storie. Credo
che sarà molto difficile terminare una trama simile ma
tenterò almeno di andare a buon punto.
I punti e
le linee sono un linguaggio esistente, e vi sfido a tradurre cosa
c'è scritto. Nel prossimo capitolo ci sarà la prima scelta da fare! Non dovrei impiegare anni per scriverlo, quindi alla prossima!