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Autore: RaidenCold    11/01/2019    0 recensioni
Non sono solito fare premesse per le mie opere, ma in questo le ritengo doverose:
questo è per me un esperimento, e vi chiedo scusa perché in certi punti di questa storia sui Cavalieri dello Zodiaco si sente davvero poco di "Zodiacale". Spero comunque che possa essere di vostro gradimento, e che possiate apprezzare i sentimenti che ho voluto mettere in scena.
Leonidas è un giovane un po' introverso che soffre di problemi di insonnia; negli anni ha sviluppato un legame speciale con sua cugina Violate, ma il loro rapporto entrerà in crisi quando nelle vite di entrambi compariranno nuove conoscenze, e con esse nuovi sentimenti. Tra la scuola e le avventure di tutti i giorni, i protagonisti impareranno a conoscersi, e a capire quale sia il loro posto nel mondo; ma fino a che punto riusciranno a comprendere il mondo in cui si trovano?
PS: Chiedo scusa per l'eccessiva lunghezza del titolo, ma sentivo il bisogno di dargli quella precisa forma... buona lettura!
Genere: Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Sorpresa, Violate
Note: Otherverse | Avvertimenti: Incest, Triangolo
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Raramente si erano viste estati così calde come quella in cui avevano avuto luogo le Olimpiadi a Rio de Janeiro.

Ma nonostante sembrasse non finire mai, anche quella vacanza era entrata nella seconda metà di agosto, e settembre – e con esso l’inizio della scuola – si appropinquava sempre più alla porta della stagione, per consentire l’arrivo di un autunno che tutti si auguravano avrebbe rinfrescato l’inferno cittadino.

 

Leonidas camminava sul ciglio del fosso, e dietro di lui una ragazzina dai capelli foschi portati corti a mo’ di maschio ciondolava ingobbita e visibilmente provata dal caldo:
“Quanto manca?” - sbuffò irritata.

“Poco…” - sospirò Leonidas.

“Sono stufa voglio andare a casa!”

“Dai porta un po’ di pazienza…”

In quel momento Leonidas udì uno schiocco e voltandosi vide la giovane con una mano impressa sul braccio:
“Zanzare di merda…!” - imprecò lei.

“Qui ne è pieno, se ti colpisci ogni volta così tornerai a casa coi lividi.”

“Ma tu guarda se dovevo finire in una palude per le mie vacanze… odio questo posto di merda!”

Leonidas sospirò nuovamente e portò gli occhi al cielo: sua cugina Violate aveva un carattere davvero intrattabile.

Portala con te Leo, avete più o meno la stessa età, vedrai che vi divertirete!”

Così lo aveva congedato sua madre: eppure gli pareva impossibile divertirsi con una bambina tanto irritante, e ancor più incredibile gli sembrava che fossero parenti.

 

Infine i due giunsero nei pressi di un laghetto nascosto in mezzo ad un bosco verdeggiante e dall’aria più salubre e meno afosa rispetto a quella cittadina, dove subito Leonidas trovò sollievo; Violate invece non cessò di sentirsi oppressa anche in quel piccolo santuario arboreo, e non perse la sua aria afflitta, continuando a lamentarsi per il caldo.

 

“Finalmente, non arrivavi più!”- esclamò venendogli incontro un bambino dagli scompigliati capelli canuti.

“Non è poi così tardi Lun.” - intervenne una piccola dalla chioma lilla, che se ne stava seduta su un masso, intenta a smuovere l’acqua con i piedi.

“E lei chi è? Eh? Eh?” - domandò Lun dimenticandosi in mezzo secondo della precedente frase.

“Lei è mia cugina Violate, viene da Asgard; Violate, loro sono Lun e Minerva.”

La bambina non disse nulla, limitandosi a fare un cenno di saluto, per poi recarsi subito sullo specchio d’acqua: si svestì, rimanendo in costume da bagno, e si immerse lesta nell’acqua gelida del laghetto, lasciando tutti senza parole.

“Ehi, anch’io voglio!” - borbottò Lun togliendosi la maglietta per poi gettarsi a bomba in acqua – finendo col prendere una clamorosa ed arrossante spanciata.

Leonidas si sarebbe aspettato una serie di insulti ai danni dell’amico da parte della cugina per via di quell’impeto irruento, ma stranamente lei rimase placida a galleggiare in acqua con sguardo rasserenato: era come se tutta la scontrosità le si fosse spenta con quel bagno rinfrescante.

“Hai detto che viene da Asgard, vero?” - domandò Minerva avvicinandosi a Leonidas.

“Sì esatto.”

“Non mi sorprende che sia così calma al fresco.”

“Dici?”

“Guardala: prima stava soffocando, ora sembra un’altra persona.”

Leonidas contemplò la giovane immersa fino al naso nel laghetto, che di tanto in tanto faceva qualche bracciata:

“Quindi è perché casa sua è un posto freddo?”

“I posti nuovi possono destabilizzarci” - rispose Minerva sorridendo candidamente - “ma se abbiamo vicino qualcuno che ci vuole bene, allora i cambiamenti fanno meno paura.”

A quel punto lo sguardo di Leonidas si posò dall’altra parte del laghetto ove, tra gli alberi, sedeva rannicchiato un giovane dai capelli scuri; aveva un viso allungato con un naso lievemente camuso, e occhi perlacei che fissavano vacui l’acqua.

“Da quando è lì quel tizio?”

“Non lo so” - rispose Minerva incuriosita - “non l’avevo neanche notato finora.”

“Potrebbe essere appena arrivato.”

“Sì può darsi…” - la bambina soffermò lo sguardo sugli occhi del ragazzo - “E’ triste.”

“Come?”

“I suoi occhi sono pieni di tristezza…”

“Ora che me lo fai notare non mi sembra molto felice.”

In quel momento il ragazzo alzò per un istante gli occhi in modo sfuggente, accorgendosi di essere osservato, e senza dire nulla si alzò pacatamente e si incamminò sparendo tra gli alberi.

“Chissà chi era…” - commentò Leonidas.

“Io penso di averlo già visto.” - aggiunse Violate uscendo dall’acqua e prendendo un telo dal suo zainetto per asciugarsi.

“Lo conosci?”

“No, ma penso di averlo già visto.” - rispose strofinandosi la testa col telo.

Leonidas la guardò perplesso:

“Dai non è vero.”

“Sì che lo è!” - si alterò lei.

“Io dico di no.” - sentenziò incrociando le braccia.

“Ti dico di sì!” - esclamò ancor più forte.

E mentre i cuginetti bisticciavano animosamente, Lun sbucò fuori dall’acqua tutto contento:
“Andiamo a mangiarci un gelato? Andiamo?” - chiese impaziente.

I due smisero di litigare, trovandola un’idea accettabile, e naturalmente anche alla piccola e paziente Minerva la cosa andò più che bene.

 

Avevano preso il gelato in un posticino dietro casa di Minerva, e se lo stavano gustando su un muretto all’ombra di un faggio frondoso.

“Il tuo che gusto è?” - domandò Leonidas.

“Pistacchio.” - rispose Violate dando un morsetto al gelato.

“Ma come… non è così che si mangia, devi leccarlo!”

“Lo mangio come mi pare!”

“E poi che razza di gusto è pistacchio?”

“Guarda che è buonissimo!”

“No, fa schifo!”

“Lo hai mai provato almeno?”

“No.”

“E allora come fai a saperlo?!”

“Beh… lo so e basta!” - sbuffò Leonidas imbronciato portando lo sguardo altrove; fu in quel momento che i suoi occhi si imbatterono nuovamente in quella figura che se ne stava in mezzo agli alberi al laghetto.

“Minerva guarda!”

La bambina alzò lo sguardo incuriosita, e vide il ragazzo intento a parlare davanti al giardino di una casa con un uomo dai capelli scuri a lei familiare: era imponente, ed aveva un intenso sguardo vermiglio, quasi cremisi quando il sole si posava nelle sue iridi.

“Ma quello è il signor Diez!” - esclamò sorpresa la bambina.

“Chi? Diaz?”

“Diez, Lun, non Diaz! E’ un amico della mia famiglia, è un ex atleta olimpico ed ora gestisce una delle più prestigiose scuole di scherma del mondo.”

“Ma certo” - si illuminò Violate - “ora ho capito dove ho già visto quel tizio: è Soren, il norvegese che è arrivato… uhm, mi pare quarto, alle Olimpiadi!”

“Tu guardi le Olimpiadi?” - le chiese Leonidas perplesso.

“Sono molto interessanti.”

“Contenta tu…”

Violate non rispose limitandosi a fare una smorfia di stizzo.

I ragazzini, sempre più incuriositi, fecero per andare verso il giardino, ma giunsero appena in tempo per vedere il giovane lasciare il portone ed andarsene via.

 

“Señorita Minerva…” - la salutò l’uomo vedendola dinnanzi alla sua casa.

“Buongiorno signor Diez.” - rispose cortesemente lei - “Posso chiederle una cosa?”

“Certamente.”

“Lei conosce quel ragazzo che abbiamo appena visto uscire da qui?”

Diez ridacchiò in modo sommesso:
“Altroché: è il mio pupillo.”

“Caspita, allora ne devi essere orgoglioso!” - esclamò Lun.

“Lo sono eccome.”

“Però sembrava tanto triste…” - commentò Minerva.

“Ecco, ha ancora molto da imparare e anche se ha combattuto facendosi onore, sente che la sua lama non è ancora abbastanza affilata.”

“Con una lama affilata vincerebbe le Olimpiadi?” - domandò Lun.

“Chissà…” - rispose Diez scuotendo il capo sorridendo - “In ogni caso ora deve solo prendersi un po’ di tempo per sé.”

Detto ciò l’uomo fece per guadagnare il portoncino:
“Adesso devo fare delle cose, vi auguro una buona giornata; non combinate guai.”

 

 

“Una lama più affilata…” - borbottò Lun tra sé e sé.

“Ci stai ancora pensando?” - lo interruppe Leonidas.

“Sì…” - a quel punto parve come se gli si fosse accesa una lampadina in testa - “Excalibur!”

“Excalibur?” - gli chiesero tutti assieme confusi.

“E’ la spada più forte ed affilata di tutte, apparteneva a re Artù!”

“Ok, e dove la troviamo?” - domandò Leonidas.

“Nel bosco vicino al laghetto si dice che re Artù abbia vissuto una delle sue avventure con i cavalieri della tavola rotonda, forse ha lasciato lì Excalibur!”

“Perché re Artù avrebbe dovuto lasciare la sua spada proprio in quel bosco?”

“Magari gli è caduta!”

“Sì va beh…”

“Però” - intervenne Minerva - “io ricordo che in quel bosco c’è una specie di santuario, papà mi ci ha portato una volta.”

A quel punto Leonidas guardò Minerva incuriosito:
“Allora potremmo andarci.”

“Ma come” - si infervorò Lun - “a lei credi e a me no?!”

“Minerva non dice mai cose stupide!”

“E io?”

“Tu a volte…”
“Va bene, a volte dico cose stupide lo ammetto.”

“No, volevo dire che a volte non le dici, ma molto raramente.”

In quel momento Leonidas sentì ridacchiare dietro di sé Violate, senza dare troppo peso alla cosa: qualche secondo dopo si sarebbe reso conto che sentirla finalmente ridere lo aveva fatto sentire piuttosto bene.

 

 

“Quanto manca?” - sospirò Violate irritata.

“Minerva, quanto manca?” - fece arrivare più avanti la domanda Leonidas, anch’egli in lieve affanno.

“Uhm, non credo molto, abbiamo camminato parecchio.”

Minerva se ne stava in testa ed avanzava imperterrita malgrado l’afa, seguita dagli altri tre sempre più spossati: nonostante fosse la più piccola e minuta del gruppo, Minerva aveva una vitalità sorprendente, e non mostrava segni di stanchezza.

Il bosco si trovava su un pendio montano, e nonostante gli alberi offrissero ombra, ed il sole stesse iniziando a calare, la faticosa salita stava davvero provando i ragazzini, eccetto appunto la loro tenace guida dai capelli lilla.

D’un tratto la ragazzina si arrestò, udendo un rumore secco, e subito Leonidas le si portò vicino per vedere cosa stesse succedendo:
“Che c’è Minerva?”

“Non ti muovere.”

Leonidas alzò lo sguardo e con enorme sorpresa vide davanti a sé una grossa bestia irsuta e zannuta, che li fissava con occhio guardingo:

“U-un cinghiale!” - urlò Lun esterrefatto, più che spaventato.

Leonidas si voltò per farlo stare zitto, ma era ormai troppo tardi: l’animale aveva cominciato a grugnire e correre, e così i quattro se la svignarono di gran corsa per non incappare nella sua furia suina.

Avrebbero poi raccontato che la bestia li aveva caricati come un toro furioso: in verità gli era bastato far un po’ di rumore per mandarli via dal suo territorio, dopodiché se ne era tornato a cercare ghiande nel fogliame.

 

 

Dopo aver corso per un po’ in preda al terrore, Leonidas si fermò in uno spiazzo in mezzo agli alberi: si guardò attorno, e a parte Violate constatò che non vi fosse nessun altro, né persona né bestia.

“T-tutto ok?” - le chiese annaspando.

“Per… niente!” - gridò lei col poco fiato che aveva.

Aveva le lacrime agli occhi, ma non voleva piangere: odiava mostrarsi debole.

“Ehi tranquilla…”

“Lasciami in pace!” - rispose rossa dalla rabbia guardandolo in cagnesco - “Voglio andare a casa, da mamma e papà, odio questo posto, e odio te!”

Quell’urlo furioso riecheggiò nel silenzio del bosco al tramonto, e quando ebbe finito, l’unico rumore che si sentiva era il suo respiro affannoso e irregolare.

Leonidas la guardò amareggiato, sentendosi impotente dinnanzi a tutta la sua frustrazione, poi però si ricordò di cosa gli aveva detto Minerva qualche ora prima:

«I posti nuovi possono destabilizzarci, ma se abbiamo vicino qualcuno che ci vuole bene, allora i cambiamenti fanno meno paura.»

 

“Io però” - disse Leonidas avvicinandosi e prendendole la mano - “non ti odio affatto.”

Violate lo guardò, rimanendo però imbronciata:
“E-e quindi?”

“Mi piace stare con te, anche se ti lagni e urli sempre.”

“Guarda che anche tu mi urli sempre…”

“Sì hai ragione, scusa.”

A quel punto il volto della bambina si fece meno teso, e pur rimanendo imbronciata si avvicinò a Leonidas, ricambiando la stretta di mano:

“Ora che si fa?”

“Dovremmo cercare gli altri e poi andarcene a casa…”

“Sono d’accordo.”

Così i due si misero alla ricerca di Minerva e Lun: tuttavia non si erano resi conto di essere corsi nell’esatto senso opposto rispetto a loro, né tanto meno di stare continuando a procedere verso quell’errata direzione che li stava conducendo sempre più lontani non solo dagli amici, ma anche dalla strada di casa.

 

Avevano continuato a cercare i due fino al calar del sole, ma senza trovarli, e ad un certo punto si resero conto di avere un altro problema:

“Ma dove siamo finiti?”

“Non ne ho idea.” - rispose Leonidas agitando il telefonino sopra di sé - “Cavolo, non c’è campo…”
“E adesso come torniamo a casa?” - sbuffò Violate.

“Per venire fin qui siamo saliti no? Basterà scendere.”

L’idea di Leonidas sarebbe stata buona se, scappando dal cinghiale, non avessero attraversato un paio di depressioni nel terreno montano, disorientandosi completamente.

 

Calò completamente la notte, ed i fitti rami della foresta impedirono a qualsiasi luce di passare: impauriti i due bambini accesero le torce dei cellulari e si strinsero, avanzando uniti nel buio.

Nel loro incedere gli parve di essersi smarriti in un luogo stregato, brulicante di mostri nascosti nell’ombra: ogni scricchiolio sembrava celare una bestia zannuta assetata di sangue, ed ogni ramo poteva essere l’ossuto braccio di qualche demone macilento pronto ad acciuffarli.

Avevano fame, erano stanchi, ed impauriti, e avevano solo dieci anni: stavano per fermarsi e rimanere rannicchiati tutta la notte, aspettando il sorgere del sole, che mai come in quel momento sembrava loro lontano.

Poi d’un tratto, poco prima di cedere, videro un fioco bagliore:

non un raggio di sole, ma la diafana luce della luna piena d’estate, che finalmente fendeva le fosche nubi ed i fitti rami degli alberi.

Avanzarono di qualche passo, trovandosi dinnanzi ad uno spiazzo, in mezzo al quale spiccava una grossa lastra la cui pietra brillava illuminata dal bagliore lunare:
“Leo ma quella non sarà mica una tomba…”

Un po’ impauriti i due si avvicinarono, e videro incisa sulla lastra una scritta:

“Che lingua è?” - domandò Leonidas.

“Greco antico.”

“Eh? Come lo sai?”

“Faccio un corso dopo scuola.”

“E riesci a capire cosa c’è scritto?”
“Mmm… più o meno il significato è questo: a voi ragazzi che siete qui, affido Atena, Aiolos.”

“Affido Atena…”

“La dea della guerra… ma chi è Aiolos?”
“Credo di aver letto di lui in un vecchio libro, mi pare fosse uno dei Cavalieri dello Zodiaco.”

“Chi?”

“Un gruppo di guerrieri, tipo re Artù, solo che vivevano nell’antica Grecia e servivano Atena.”

“Ah, da noi ci sono i cavalieri divini di Odino.”
“Sì, la mamma me ne ha parlato, secondo lei la nostra famiglia discende proprio da uno di quei guerrieri.”

“Anche il mio papà me lo ha raccontato.”

Leonidas si chinò fino al fondo della lastra:
“Non credo sia una tomba, è troppo sottile, e non è conficcata nel terreno, quindi è tutta qui, non c’è altro.”

“Dev’essere un monumento.”

“Già, un monumento ai Cavalieri dello Zodiaco…” - sospirò Leonidas adagiandosi sulla lastra.

In quel momento, Violate si sedette accanto a lui, ed insieme presero a contemplare la volta notturna:
“Hai visto quante stelle, Violate?”

“Sì, in città da voi non si vedono bene, ma qui mi sembra di essere tornata a casa mia.

Leonidas la guardò e sorrise:
“Sono davvero felice di sentirtelo dire.”

Violate ruotò gli occhi incrociando il suo sguardo e ricambiò il sorriso:
“Sai, Leo, anche a me piace stare con te… e a dire il vero, oggi mi sono divertita molto.” - disse per poi sbadigliare - “Ad Asgard non ho molti amici, anzi, credo di non averne affatto, per questo i miei genitori mi hanno mandata qui a passare le vacanze: speravano che facessi amicizia con qualcuno.”

“E ci sei riuscita?”

A quel punto Violate si accoccolò sulla spalla di Leonidas:
“Tu che dici?”

Leonidas la abbracciò, e in pochi attimi la bambina si lasciò andare alla stanchezza e si addormentò tra le sue braccia: anche lui si sentiva parecchio assonnato, ma cercava di rimanere sveglio per poter vegliare su Violate. D’un tratto, al culmine della stanchezza, vide dinnanzi a sé qualcosa che lo lasciò sbigottito: davanti agli alberi, vi era una sagoma lucente completamente bianca.

Lì per lì Leonidas pensò di avere di fronte un fantasma e si spaventò un po’, ma osservando quella figura la trovò estremamente bella, e si sentì affascinato da lei; per un istante poté quasi a scorgervi un viso elegante, dolce, ma dall’espressione indecifrabile.

La figura sollevò un braccio, indicandogli una direzione, dopodiché scomparve nel nulla, e senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio.

Poco dopo, Leonidas udì delle voci, seguite da alcuni fasci di luce, fino a ché, da quella stessa direzione, non vide sbucare dagli alberi un energumeno mastodontico, seguito da altre persone:
“Eccovi qua!” - li salutò felicemente l’uomo andando loro incontro; aveva i capelli corti e castano scuro, ed una barba di tre giorni del medesimo colore che adornava il suo viso bonario.

“Zio Bull!” - esclamò Leonidas sorridendo estasiato; avrebbe voluto corrergli subito fra le braccia, ma per farlo avrebbe dovuto svegliare Violate, che nonostante il trambusto dormiva come un sasso.

“Guarda come ronfa beata!” - commentò Kara facendosi avanti - “Mi avete fatto prendere un bello spavento, razza di monelli…”

“Scusami tanto mamma, è che un cinghiale ci ha attaccato e…”

“Lo so, Minerva e Lun ci hanno già raccontato del mostro gigante.”

“Allora stanno bene!” - sorrise Leonidas allietato.

“Sì, sono tornati quasi subito; ma che cosa vi è venuto in mente? Stavo morendo di paura, non voglio che andiate soli nel bosco, lo sai!”

“Scusa mamma, è che dovevamo fare un cosa…”

“Credo sia colpa mia.”

Diez si fece avanti:

“Avevo detto loro una cosa e credo abbiano capito male.”

“Noi cercavamo Excalibur…”

Kara guardò entrambi basita:
“E-Excalibur?!”

“E’ la spada più forte di tutti, e noi volevamo darla a Soren!”

In quel momento fu proprio il ragazzo a farsi avanti:
“Voi stavate cercando una spada… per me?”

“Sì, ci dispiaceva vederti così abbattuto, e Diez ci ha detto che ti serviva una lama più affilata.”

“Avete fatto tutto questo per me senza neppure conoscermi…”

Diez gli poggiò una mano sulla spalla:
“Perché si vede che sei una brava persona, e che ti impegni, e vedendo proprio il tuo impegno ispiri anche gli altri: sei un esempio da seguire, e sono orgoglioso di essere il tuo maestro.”

Soren era un ragazzo laconico e abbastanza introverso, ma in quel momento, si sentì come avvolto da una calda sensazione di tepore, e dai suoi occhi iniziarono a sgorgare copiose lacrime.

“Maestro…”

L’uomo lo abbracciò:
“Va tutto bene ragazzo.”

“Voglio allenarmi ancora di più, affilare la mia lama, e diventare più forte di voi!”

“Ed io ti aiuterò a farlo.”

 

“N-non piangere Soren” - disse Leonidas turbato - “anche se non abbiamo trovato Excalibur sono sicuro che ci sono tante altre spade fortissime per te!”

“Non si tratta di questo” - gli sussurrò Bull - “vedi, la lama di uno spadaccino non è soltanto l’arma che impugna, ma anche il suo spirito, la sua filosofia, capisci?”

“Credo di sì…” - rispose ruotando lo sguardo, fino ad incrociare quello infuriato della genitrice - “Mi dispiace tanto mamma…”

“Lo so, ma una punizione per questa tua bravata non te la leva nessuno: niente videogiochi né televisione per una settimana.”

Leonidas spalancò la bocca atterrito, ma non ebbe la forza di protestare, sentendosi meritevole di quel terribile castigo:

“Però… posso giocare con Violate, vero?”

In quel momento Kara mutò il broncio nel suo consueto dolce sorriso:
“Ma certo che puoi amore mio.”

Leonidas sorrise rallegrato, dopodiché sbadigliò e si rannicchiò assieme a Violate, finalmente libero di poter riposare.

   
 
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