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Autore: Hebi_Grin    19/01/2019    0 recensioni
[TakaZura | Zura!PoV | Pre-serie | Post-Guerra | Temi delicati: PTSD | Implicito contesto sessuale | Completa]
***Aggiunto omake/finale alternativo***
Per quanto Katsura tenesse ai suoi vecchi compagni, non aveva fatto mai nulla per cercarli da quando si erano separati. Solo loro tre potevano comprendere la reciproca sofferenza, ma aveva pensato fosse passato troppo poco tempo da quando tutto era andato in pezzi attorno e dentro di loro, ed era stato troppo impegnato a rimetterli malamente assieme e costruire su di sé una gelida ma ancora sottile corazza cui sarebbe bastata qualche incrinatura per cedere. Eppure, non avrebbe rifiutato un contatto con loro se, come ora, cercato.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kotaro Katsura, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'And a Golden Butterfly is Dancing Upon His Ebony Hair '
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Nda: Ciao, sono Grin e ho un problema con gli sfigapairing (questo in particolare). 
Alcune precisazioni veloci, a mo' di appunto: 

. È pensata per essere ambientata prima di Entangled, ma si possono anche leggere indipendentemente.

. Il Rating è arancione per l’implicito contesto sessuale (nel capitolo 2), il rapporto non esattamente sano e la sottintesa PTSD che trapela qua e là (che è anche il motivo dell'avvertimento “Tematiche delicate”).

Insomma, la guerra è finita relativamente da poco (circa un anno) quindi il trauma è fresco. Siccome Katsura non viene mostrato se non per una (1!) immagine in quella fase (e ha un'espressione così triste, malinconica, stanca, eppure determinata, che mi spezza il cuore) da lì ho provato a ricamarci su, inserendo sia elementi che generalmente si hanno nei disturbi post traumatici (come allucinazioni, dissociazione, rivivere il trauma, cercare di evitare gli stimoli che portano a riviverlo, ipervigilanza...) che tratti in trasparenza del Katsura che era e sarà (in particolare quello che si vede alla prima apparizione nella serie, che presumibilmente stava un po' meglio che un anno dopo la fine della guerra pur essendo ancora idealmente più vicino a Takasugi che Gintoki). [Il fatto che non venga approfondito quel periodo come è stato fatto per gli altri allievi di Shouyou è una delle poche cose che rimprovero a Sorachi. T.T]

Funfact: quando cominciai a scriverla, mesi fa, doveva essere una praticamente quasi pwp. Ebbene, la scena smut alla fine non c’è, viene solo evocata; in compenso si sono aggiunti numerosi altri elementi (tutto il resto, praticamente). Come cambiano le idee sulle fic quando le si fanno decantare un po’!

Era anche pensata per essere una OS, ma siccome son venti pagine ho preferito dividerla in due capitoli, dato che era possibile farlo più o meno equamente.

Quanto riportato tra virgolette alte è unicamente il pensiero di Katsura. C'è solo il suo. 

Se doveste notare errori, fatemelo pure sapere!

Ovviamente se noterò qualche errore io stessa, lo correggerò. Così come potrei migliorare qualche passaggio per renderlo più scorrevole. Perché sono una bestia (non quella di 'Sugi) e di solito edito continuamente anche a mesi dalla pubblicazione, ahah. Edit: ops, l'ho già rimaneggiata parecchio.


Glossario:

Samue: abito da lavoro tipico dei monaci buddisti, esattamente come quello che usa Zura.

Andon: lampade tipiche giapponesi


Ulteriori precisazioni a fine capitolo.


Enjoui  Enjoy!
 


 

 

L'abito non fa il monaco


 

Katsura dubitava avrebbe mai imparato ad amare Edo, e men che meno le deboli, arrendevoli persone che la abitavano.

La lunga serie di guerre Joui era terminata il 21 novembre dell’anno precedente, giorno in cui Shouyou-sensei era stato decapitato da Gintoki. Non avrebbe potuto dimenticare quella data che aveva segnato la fine della vita che fino allora aveva conosciuto nemmeno se avesse voluto.

Ci aveva comunque provato, per qualche settimana, quando non riusciva più a distinguere la realtà dai sogni – gli incubi – che faceva le rare volte che riusciva ad addormentarsi, non sapendo quale delle due cose fosse peggio.

Per giorni non aveva saputo riconoscere la sua stessa figura riflettersi alle vetrine dei negozi mentre si trascinava stancamente per le strade di quella affollata ed estranea città in cui era appena giunto; il corpo gli sembrava non appartenergli né riusciva a governarlo e procedeva per inerzia, come guidato da una forza maggiore che non riusciva a comprendere ma lo obbligava a proseguire e cercare una strada da percorrere per uscire dal vuoto in cui era sprofondato; la mente ripercorreva in modo sconnesso e frammentario comunque la stessa scena che quel giorno si era consumata davanti ai suoi occhi, impotente di fare alcunché.

Gli ci era voluto del tempo prima di dipanare qualche nodo della confusione in cui versava per capire di provare avversione e odio ed essere profondamente arrabbiato, sentimenti che ardevano in lui come una fiamma inestinguibile e pervadevano la sua intera anima.

Forse, pensava, era stata quella la forza che lo aveva spinto a proseguire.

Abbattere l'ira del Nobile Furioso sul Bakufu, strapparlo pezzo per pezzo, distruggerlo e far risorgere dalle ceneri il Paese, creando un mondo in cui i suoi compagni che non vedeva da quel giorno e Shouyou-sensei avrebbero amato vivere.

Non voler dimenticare era una delle poche certezze che gli rimanevano.

A distanza di qualche mese, camminando con sicurezza e determinazione per le strade polverose e sporche ma ormai note della città, quando la sua immagine si rifletteva alle vetrine ancora gli capitava di non riconoscersi, ma adesso perché aveva fatto tanto suoi certi travestimenti cuciti addosso con cura, uno per uno, che dimenticava di averli indossati.

Katsura il cameriere, il garzone, l’operaio, il buttafuori, il pet sitter.

L’hostess nei nightclub, che con sua grande sorpresa pareva riuscirgli meglio della maggior parte degli altri lavori part-time, senza che nessuno si accorgesse di avere di fronte un uomo, e aveva scoperto essere un ottimo modo per strappare preziose informazioni ai clienti vicini al Bakufu –  che spesso chiedevano la sua compagnia – dopo qualche moina e bicchiere di costosi alcolici.

E Katsura il monaco, come in quel pomeriggio.

Era tutti loro, e allo stesso tempo nessuno di essi.

Ciò che li accomunava era chiamarsi Katsura Kotarou –  Zurako, quando vestiva abiti femminili – e il fremito di rabbia che attraversava loro l'anima sotto la corazza sottile quanto la propria pelle ogni volta che incrociavano degli Amanto o la popolazione di Edo accettava passivamente la loro sudicia presenza.

La popolazione del Paese non voleva essere salvata, dunque poteva essere sacrificata alla causa senza troppe pene né rimorsi. Gli abitanti non erano alleati, non erano compagni. Erano poche le persone che a Edo poteva definire così.

Si trattava perlopiù di parenti e amici dei morti ai tempi della guerra – pochi di loro avevano effettivamente combattuto al tempo – che avevano giurato sul loro onore di non rendere vano il sacrificio dei propri cari, abbattere lo Shogunato che li aveva traditi, espellere gli Amanto dal Paese e fondarne uno nuovo e migliore, radunandosi attorno al Nobile Furioso, l’eroe di guerra, scelto come Leader.

"Un samurai deve servire e proteggere il proprio Signore fedelmente fino alla morte. Ma se è proprio quel Signore a tradire il Paese, allora merita che la punizione divina cali sulla sua testa.

Il vero padrone di un samurai è la sua patria".

Questa era la convinzione di tutti loro e del Leader.


 

*


 

Nell’attimo stesso in cui imboccò la strada della via in cui si trovava il suo appartamento, avvertì una presenza e alzò lo sguardo.

Si fermò solamente il tempo di un lungo sospiro, come se i suoi piedi avessero perso un passo come il cuore saltato un battito.

I suoi occhi si posarono sull’uomo con la schiena poggiata al palo dell'elettricità a meno di cinquanta metri da lui, poco oltre la propria abitazione, del quale riusciva a scorgere il profilo sinistro e i lineamenti familiari ed estranei al tempo stesso: un bel kimono e uno haori elaborato e sfarzoso i cui inserti in oro scintillavano alla luce del sole del primo inverno – “Un abito che da solo vale più di tutti i miei averi”, pensò –, il fodero nero e lucente di una katana priva di guardia, una bianca benda a celargli l’occhio sinistro, una kiseru alla bocca da cui uscì immediatamente dopo una piccola nube di fumo.

La benda e la kiseru erano delle novità, e se Katsura sapeva e capiva il motivo della prima, la seconda era un mistero.

L’altro non si voltò nella sua direzione, né Katsura gli rivolse uno sguardo più del necessario. Proseguì invece fino all’ingresso ed entrò. Lasciò la porta aperta in un silenzioso invito a entrare, se volesse, ma si scoprì a sperare in cuor suo che non lo facesse.

Per quanto Katsura tenesse ai suoi vecchi compagni, non aveva fatto mai nulla per cercarli da quando si erano separati. Solo loro tre potevano comprendere la reciproca sofferenza, ma aveva pensato fosse passato troppo poco tempo da quando tutto era andato in pezzi attorno e dentro di loro, ed era stato troppo impegnato a rimetterli malamente assieme e costruire su di sé una gelida ma ancora sottile corazza cui sarebbe bastata qualche incrinatura per cedere. Eppure, non avrebbe rifiutato un contatto con loro se, come ora, cercato.

Aveva tolto gli zori e appena posato il bastone e il copricapo in paglia, quando sentì alle proprie spalle la porta chiudersi.


 

«Ohi, Zura. Ti sei dato alla vita monastica?».

Kotarou sospirò profondamente e chiuse gli occhi, mentre slacciava la pettorina blu sopra il samue nero e cominciava a ripiegarla con cura.

«Mi chiamo Katsura, e non essere sciocco» rispose con forzato distacco senza voltarsi ma scorgendo i suoi movimenti con la coda dell’occhio mentre riponeva l’indumento.

Takasugi sembrava star studiando l’ambiente – scarno, spoglio, spartano –  guardandosi attorno. Le assi sconnesse del pavimento scricchiolavano sotto i suoi passi nell’unica stanza a fare da cucina, salotto e camera da letto. Solo il bagno era a parte.

Un lavandino e un fornello, qualche credenza i cui buchi erano evidenti segni di esser stati tarlosi; un futon non ritirato nell’armadio, ma rifatto con cura; un tavolino basso di legno di rovere che un tempo doveva essere stato costoso e di buona fattura, ma irrimediabilmente rovinato da segni lasciati da lame e che aveva perso la lucidatura.

Una mano di vernice era evidentemente stata passata nei punti in cui potevano intravedersi delle macchie lasciate dall’umidità per le infiltrazioni.

L’odore dell’economico olio di sardina usato come combustibile per le lampade andon era appena percepibile, coperto dall’aroma di fiori secchi di lavanda e buccia d’arancia arsi al fuoco del piccolo braciere al centro della stanza.  

Per quanto ogni cosa sapesse di vecchio e umile, tutto era pulito e tenuto in ordine, risultando dignitoso.

A Kotarou parve una strana cornice in cui vedere muoversi qualcuno vestito tanto elegantemente.


 

«Ci ho messo un'eternità a trovare il tuo nascondiglio».

«Allora evidentemente funziona. I cani dello Shogunato non son svegli come te» rispose Kotarou che voltò appena il capo per lanciargli una fugace occhiata.

«Faccio del tè. Ne bevi anche tu?» domandò con tiepida gentilezza mentre riempiva il bollitore da una caraffa d’acqua.

«Non hai del sakè?».

Katsura posò la brocca, accese il fornello e si voltò del tutto per guardarlo con un cipiglio: involontariamente aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra cominciando a mordicchiare la parte interna di quello inferiore.

«No, non ne ho. È una spesa superflua per le mie attuali finanze. E poi sono appena le tre del pomeriggio, sarebbe comunque troppo presto per gli alcolici» cominciò con tono freddo e severo.

Il peso del suo corpo si spostò involontariamente dal piede destro quello sinistro, a segnare il passaggio del testimone da uno stato razionale a uno emozionale.

«Non avrai cominciato a bere a orari inopportuni, spero» aggiunse. Si era sforzato di mantenere un’inflessione neutra ma una lieve nota di apprensione si sarebbe potuta facilmente notare tra le righe.

«Non preoccuparti, mi pareva semplicemente più appropriato del tè per celebrare la mia bravura a scovarti».

Katsura sbuffò e sollevò annoiato gli occhi al cielo.

«Bene, stasera te lo offro io. Così dovremmo risolvere sia il problema di soldi che di orario inopportuno» concluse Takasugi.

Katsura posò la schiena al mobile a fianco al fornello e studiò l'altro con attenzione. Incrociò le braccia e nascose le mani nelle maniche, ostentando una sicurezza che cercava, come se si trovasse nelle tasche interne, in un atteggiamento difensivo.

«Quindi pensi di trattenerti in città» disse più veloce di quanto avrebbe voluto: un velo d’ansia era stato gettato sulle sue parole, sfuggito al suo controllo.

«Ho degli affari da sbrigare» rispose Shinsuke con tono vago, ma la rapida e intensa occhiata che gli era stata lanciata aveva fatto capire a Kotarou che l'altro si era accorto della sua tensione e strinse le dita attorno agli avambracci.

«E hai tempo per andare a bere?». Alzò il mento e gonfiò leggermente il petto, come aveva fatto innumerevoli volte quando l’aveva rimproverato o cercato di far valere il proprio ruolo di Leader dei Quattro Generali nella catena di comando.

«Ho tutto il tempo che decido io di avere, non più, non meno».

«Sbruff–» il sibilo del bollitore lo interruppe. Katsura trasalì al leggero fischio improvviso dietro di sé.

«Salvato dalla campanella, Zura?».

«Katsura. Fa’ silenzio. Il tè prende un cattivo sapore se c’è confusione» rispose piccato. Il leggero tremolio della sua mano mentre infondeva il tè gli diede prova tangibile di quanto fosse forte il proprio nervosismo di fronte a quella situazione inaspettata, e si costrinse a domarlo. Quando si voltò per portare le due tazze al tavolino, le mani erano ferme e non rivelavano più la sua agitazione.


 

Entrambi si sedettero e restarono immobili a lungo, a guardarsi soltanto senza sbattere le palpebre né toccare le tazze.

Katsura provava una strana sensazione allo stomaco, e decise trattarsi di disagio, che aveva la sensazione di essere il solo a provare.

Avvolse le mani attorno alla tazza e trovò confortevole il calore che emanava su di esse, ancora infreddolite dalla bassa temperatura all'esterno.

Si schiarì la gola, risolvendo di dover essere lui a interrompere quello stallo.

«Credevo fossi andato verso Kyoto» esordì fingendo fosse possibile parlare del più e del meno.

Le labbra toccarono la tazza ma non bevette, e si limitò a soffiare sulla superficie per stemperarne il contenuto ad occhi chiusi.

«È così, sto a Kyoto».


 

Kotarou aveva dedotto Shinsuke si fosse recato nella città imperiale perché quando si erano separati le loro direzioni erano opposte, ma i ricordi delle ore precedenti si risvegliarono nella sua mente.

Aver rivisto Takasugi avrebbe potuto rivelarsi uno stimolo alla sua mente per tornare a quella mattina. E non poteva fare nulla per impedirlo.


 

«Devi pulire la ferita» gli aveva detto con tono assente e gli occhi vacui, seduto in ginocchio a fianco a lui.

L’altro era ancora sdraiato per terra, il sangue colava da quello che fino a poco tempo prima – pochi minuti o delle ore, Katsura non avrebbe saputo dirlo – era il suo occhio sinistro e gli sporcava il volto.

Come se l’urlo che aveva lanciato contro Gintoki gli avesse portato via l’ultimo residuo di voce, l'altro era rimasto muto e immobile.

Kotarou gli porgeva un lembo di stoffa il più pulito possibile strappato dalla propria casacca e sciacquato con dell'acqua da una borraccia che ora teneva in grembo; la mano a metà strada tra loro, incerto se prendere l'iniziativa e se l'altro fosse disposto a farsi toccare.

Takasugi l'aveva scostata via con forza irrisoria ma da cui trapelava violenta avversione e aveva sciolto il dubbio.

«Almeno lascia che ti pulisca il sangue».

«Che importa, ormai? Lasciami stare» aveva risposto; la sua voce poco più di un sussurro appena udibile.

Katsura si era morso il labbro inferiore fino a spaccarlo, e aveva volto lo sguardo dal lato opposto, verso la schiena di Gintoki e la testa e il corpo di Shouyou-sensei.

«C'è ancora una cosa che dobbiamo fare tutti e tre assieme».


 

Kotarou riaprì gli occhi e guardò Takasugi: non voleva dimenticare, ma nemmeno pensarci e rivivere quei momenti.  

Shinsuke davanti a lui indossava delle bende, sebbene la sua ferita dovesse essere guarita da dei mesi, perlomeno, e ciò gli diede prova tangibile di quale fosse il vero presente, quello a cui doveva tornare. Contrasse le dita attorno alla tazza, quando si rese conto di sfruttare una conseguenza della tragedia a proprio vantaggio, per evitare di rivivere la stessa, nel cui ricordo rischiava di rimanere incagliato come spesso accadeva quando non riusciva a cacciarlo via in fretta e cercò nuovamente di nascondere anche quel senso di colpa sotto la propria coltre glaciale.


 

«Ti sei perso? È dalla parte opposta. Dovevi andare a ovest, e sei venuto a est» rispose senza traccia di ironia; la voce fredda e affilata come la lama di una katana.

«Non dire idiozie. Sono qui perché volevo».

«Per? Fare una visita di cortesia?».

«Lo definirei più un viaggio d'affari».

«Affari» ripeté Katsura; gli indici tracciavano il bordo della tazza. «Che tipo di affari? Ti sei dato al commercio come Sakamoto?».

«Ti ho detto di non dire idiozie. Hai sentito parlare di qualcuno che pare stia radunando i Joui per agitarli contro il Bakufu?» domandò lui allusivo.

Kotarou volse lo sguardo al contenuto della tazza: nessun ramoscello di tè galleggiava in superficie, e non lo trovò un buon segno.

«… Non so di che parli» mentì, senza sapere lui stesso il perché.

Un'occhiata di Takasugi lo informò che già sapeva e mentire era inutile, e lo esortò a dire la verità.

«Sì, sto radunando i Joui».

«Siamo in due».

«Ah sì? Trovato qualcuno?».

«Ho riformato la Kihetai, qualche mese fa».

Katsura posò lentamente la tazza sul tavolino e le mani sulle ginocchia.

«Il tentato omicidio dello Shogun alla visita a Kyoto all’imperatore, il mese scorso… Dunque è stata opera vostra».

«Quella non è andata come speravo, ma sì».

«Hai rischiato grosso, Takasugi. Se ti avessero preso la tua testa sarebbe esposta a marcire in riva al fiume. Una cosa è far cadere lo Shogunato, un’altra capitolare con esso».

«Ho i miei metodi».

«Che ti dico da una vita essere troppo rischiosi».

«Ormai che ti importa?».

Katsura fece attendere la sua risposta, indeciso su quale dovesse essere e in bilico tra la sua parte logica e quella emozionale.

Perché sei mio amico? Compagno? Un ricordo dei momenti felici dell’infanzia? Una delle due persone che possano capire ciò che provo? Una parte di ciò che Shouyou-sensei ha lasciato indietro per proteggere?”.

«Le forze Joui che vogliono veramente abbattere il governo e non meramente sfruttarne il nome come una maschera per fare i propri comodi insudiciando la nostra reputazione sono esigue. Il tuo gruppo ha bisogno del suo generale» disse infine, decidendo per la razionale e salvare per quanto possibile la corazza che sentiva già scricchiolare e cominciare a incrinarsi, prima di bere.

«Zura, a me non interessano queste scaramucce. Io distruggerò questo mondo. Ne strapperò le carni a morsi con le mie zanne, berrò il suo sangue, polverizzerò le sue ossa».

A quelle parole Katsura sgranò gli occhi e per un momento temette gli andasse il tè di traverso; posò la tazza sul tavolino e tossicchiò.

«Scusa, puoi ripetere?».

«Sei sordo? Ho detto che distruggerò questo mondo strappandone le carni con le mie zanne».

«Non sono sordo, sono Katsura. E ti verrà un'indigestione. Il Bakufu è chiaramente avariato».

Shinsuke strabuzzò l’occhio e bevette del tè.

«Sai... Pensavo fossi più ferrato sulle metafore».

«Non sono ferrato sulle metafore, sono Katsura».

«Questo è evidente» rimbeccò Takasugi. «Ciò che intendevo dire è un’altra cosa, Zura».

Prima che potesse correggerlo, Kotarou venne attirato da un movimento dell’altro e notò che le dita della sua mano sinistra erano andate anch'esse verso la tazza, parevano tuttavia averla mancata al primo tentativo, come se avessero provato ad afferrare nel mezzo qualcosa che non si trovava lì. Katsura spostò lo sguardo sul suo viso, ed ebbe la sensazione che fosse perso a contemplare un’altra dimensione.

«Che cosa, Shinsuke?» chiese con un tono notevolmente addolcito, più confidenziale e intimo.

Raramente chiamava Takasugi per nome, mai casualmente, ed era certo che l’altro l’avesse notato.

L’occhio verde smeraldo di Shinsuke incontrò quelli cangianti di Kotarou e la sua espressione mutò improvvisamente da assente a concentrata.

«Tu hai una bestia, Zura?».

«Una bestia?» sbatté le palpebre più volte, serio in volto. «Di che parli?».

«Sto parlando di qualcosa che prende possesso dell’anima e della mente. Qualcosa che ruggisce, ulula, sussurra, urla di uccidere, ed esige come tributo violenza e sangue per placarsi e dare tregua».

Katsura dischiuse le labbra e lo osservò, incredulo e al tempo stesso preoccupato alle sue parole, eppure sul proprio volto non v'era traccia di timore.

«No, non ce l’ho. Sicuramente non nei termini che hai usato».

«Eppure vuoi abbattere il Bakufu».

Kotarou sospirò e socchiuse gli occhi.

«Provo rabbia e odio, sì. Voglio che la paghino e distruggere lo Shogunato per poter gettare le basi di un nuovo Paese, e se per farlo devo sporcarmi le mani o sacrificare delle vite –  beh – si tratta di un sacrificio necessario. Questo lo devo a ogni cadavere, ad ogni sopravvissuto, a ogni persona che speri ancora in un Paese migliore… E a noi».

Tutti e tre noi”.

Takasugi lo studiò per qualche istante e bevette un lungo sorso.

«Sembra che faremo un pezzo di strada assieme».

«“Un pezzo di strada”? Che vuoi dire?» chiese Kotarou; un sopracciglio inarcato e il capo inclinato incuriosito verso destra.

«Non mi interessa la parte sulla ricostruzione».

«Non desideri vivere in un mondo migliore?».

«Non mi interessa esser vivo per allora, Zura. Non voglio ‘riuscire o morire provandoci’. Voglio trascinarli con me negli Inferi tutti, fino all'ultimo, e continuare a ridurli a brandelli lì, ancora e ancora, per l’eternità».

«Così non avrai mai pace».

«La pace non mi si addice».

Katsura abbassò lo sguardo e lo fissò su un punto indistinto al centro del tavolino, non sapendo che dirgli né se esistesse qualcosa che potesse effettivamente aiutarlo.

Che direbbe Shouyou-sensei?”.

«Ci farai l’abitudine» si limitò a rispondere.

«Io non voglio farci l’abitudine! Dannazione, Zura!». La sua voce si era fatta leggermente più acuta, e Kotarou gli lanciò un’occhiata di rimprovero.

«Per favore, non urlare, sveglierai Victoria».

Takasugi scosse appena il capo e sgranò l'occhio, visibilmente sorpreso.

«… Chi è Victoria?».

«Miao».

Entrambi si voltarono in direzione del verso appena sentito, e videro un grosso gatto nero dal pelo semilungo stiracchiarsi in un angolo, che subito zampettò verso di loro, avvicinandosi a Shinsuke.

«Ecco, lei è Victoria».

«Victoria» ripeté Shinsuke; lo sguardo fisso sul felino che gli annusava le dita della mano destra, a studiarsi vicendevolmente.

«Sì, Victoria. Come la regina straniera».

«Ironico, per un nazionalista che vuole rovesciare l’autorità...».

«Mi piace studiare la storia».

«Zura, riesci a mala pena a cavartela tu, e hai preso un gatto? Non cambi proprio mai, eh?».

«Non l’ho presa, è arrivata da sola. È una randagia, e quindi...».

Victoria strusciò il muso sul ginocchio di Shinsuke e gli voltò le spalle, alzò la coda e si diresse verso Katsura.

«Le piaci».

«Zura, ti sei mai accorto che la tua gatta è un maschio?».

«Cosa? No che non lo è! E sono Katsura».

«Sei il solito idiota testardo che si rifiuta di vedere diversamente da ciò che ha deciso. Ha i testicoli, è sicuramente un maschio».

Kotarou fece salire il gatto sulle ginocchia e prese a fargli dei grattini sotto il mento.

«Ma no… Ha soltanto il sedere un pochino grosso, tutto qui. Sai, la vizio un po’».

«Tu saresti capace di ucciderti da solo per sbaglio».

«Vedi? Le bestie si possono domare...» gli disse Kotarou, ignorando il suo commento.

«Solo quelle che vogliono essere domate» rispose Takasugi, e Katsura non disse più nulla, impegnato a coccolare il gatto sulla pancia.

 

 

 


 

 

Alcune precisazioni:

. Tutti conosciamo il Katsura attuale, quello che ama Edo. Ma personalmente credo che subito dopo la guerra, appena giunto in città, non l’amasse affatto, anzi. Son convinta che all’inizio la odiasse, in quanto sede del Bakufu e pullulante di Amanto. Insomma, immagino un amore nato lentamente.

. Zurako. Mi piace semplicemente pensare che questa sua identità non sia nata con Saigo, ma abbia avuto dei precedenti. Il fatto che nell’episodio 255 Zura dica con nonchalance di essersi travestito da donna per fare da esca e rimorchiare il nemico… Ha fatto il resto!

. Il 21 Novembre, indicato come data della fine della guerra Joui, è il giorno della decapitazione di Yoshida Shoin, personaggio storico a cui è ispirato Shouyou.

. Sì, Victoria è ispirato a Elizabeth. Non solo, mi immagino che siccome era un po’ avanti negli anni già qui, sia morto di vecchiaia poco prima dell’inizio della serie e che Sakamoto abbia regalato Eli a Zura per provare a tirarlo un po’ su con un nuovo animale domestico. ♡

. Per quanto riguarda la Kihetai... Be', ho approfittato della mancanza di cronologie ufficiali, e considerando che Matako all'epoca era poco più di una bambina e ora “non più una ragazzina delle medie né una liceale”, ci sta. Forse.
 

Vorrei porre l'attenzione su una cosa che secondo me è importante: va tenuto conto che il pov è di Zura, e che specie in una situazione del genere... In quanto tale non si può ritenere un narratore completamente affidabile. Le sensazioni che prova lui, specie quando cerca di interpretare Shinsuke, non è detto che siano sempre accurate. Sono più impressioni.

Sicuramente c'è qualcos'altro che volevo specificare, ma che ho dimenticato. 

 

   
 
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