Ringrazio infinitamente chi ha letto questa storia
in anteprima, perchè senza il vostro supporto e aiuto non
avrei mai pubblicato questa storia.
Voi sapete quanto siete preziose.
E chiedo scusa a chi vorrà leggere questo racconto, avviso
già che troverà una storia ricca di imperfezioni,
di sbagli, e non so neppure io di cosa.
Cercate solo di provare a capirmi, mi sono innamorata follemente di
loro e non sono riuscita a calmarmi fino a quando non ho scritto questo
delirio.
Spero possa comunque risultare piacevole :)
Ad Alice, al Cappellaio Matto. Miei amati.
BLACK HOLES AND REVELATIONS
“Mi vedi? Alice, riesci a
vedermi?”
La faccia del Cappellaio era mal celata dalle fasce rosa del suo
copricapo, la
voce rimbombava nella corona cilindrica e il mento compariva e
scompariva al
pronunciarsi di ogni sillaba versata via velocemente dalla bocca
sanguigna.
Lei rise e spostò il cappello da dinanzi al suo viso,
acciuffando le falde
stinte con le dita e tirandolo verso di sè.
Si coprì la faccia e la sua risata
riecheggiò tra le stoffe, in un’ovatta di
cuciture.
“E tu? Adesso tu riesci a vedermi?”
Aspettò una sua risposta e lui non disse
nulla. Aspettò una sua parola e la
aspettò invano.
Il mondo intorno a lei continuava a rimanere muto. Vuoto e
distante, in una crescente agonia. Agghiacciante, un mondo spezzato in
cocci
rotti di specchi calpestati da ciocche di capelli biondi tagliati,
belle trecce
che cadevano giù e che l’aria tingeva di nero.
Glielo domandò ancora e il cuore nel suo petto si
stropicciò in petali bianchi
dipinti con sottili ciuffi rossi.
Chiamò il suo nome, lo sussurrò a fior di
labbra contro le rughe del ruvido cappotto.
“Cappellaio? Cappellaio?”
Sollevò il capo e i rumori iniziarono a fluire nuovamente
nelle sue orecchie, a
cascare nei suoi padiglioni piccoli piccoli chiusi in bolle trasparenti
di tè.
Tè, sapone, zollette di zucchero al posto di occhi stanchi e
spiritati. Le sue
mani strisciarono fino alle impiastricciate guance scavate del
Cappellaio e il
suo tocco lo trasportò via, lo strappò con
violenza, dalle immagini fugaci di
fuoco e cenere che spesso tornavano a tormentarlo e a giocare con la
sua mente
provata. Fatui fumi di sporco azzurrognolo, lunghi e sinuosi fiumi
attorcigliati in funi.
Arrivò ad accarezzargli l’angolo
dell’occhio sinistro e solo allora, solo in
quel momento, lui sembrò risvegliarsi da un faticoso
torpore.
Sbatté le ciglia
e si imbronciò, scuotendo testa e collo.
“A cosa stavamo giocando?”
“A vederci, Cappellaio. L’hai inventato tu,
ricordi? Fino a quanto riusciamo a
vederci”, gli rispose e ticchettò contro la sua
tempia e poi contro lo spazio
in mezzo ai suoi occhi.
Lui si offese e le strinse il mento e la fronte, parlando svelto e
mordendosi
più volte la lingua.
“Ma è un gioco stupido. Io riesco a vederti,
riesco a vederti sempre. Anche se
tutto nella tua faccia ha dimensioni piuttosto sbagliate, pare quasi
che tu ti
sia messa di impegno per risultare talmente tanto imperfetta e
asimmetrica.”
La sua voce squillante le avvitò le orecchie e il suo
giudizio la divertì,
scucendole dalle labbra un sorriso lungo fino alle sopracciglia e fino
alla
punta delle orecchie. Non riusciva mai a smettere di ridere quando era
in sua
compagnia, non poteva mai
pensare di allontanarsi più di qualche passo
distratto - avanti e
indietro, avanti e
indietro - da quei suoi sguardi
sognanti e penetranti. La sua presenza era il brivido e il divertimento
di
mille bollicine d’acqua che si rincorrevano lungo tutta
la sua lattea
pelle di giovane donna, i suoi respiri - rosse, rosse labbra di garofano -
erano
un marchio indelebile, attorcigliati nei suoi riccioluti capelli di
cenere che
le incorniciavano il viso e i fianchi.
“Tanto imperfetta e asimmetrica?”
Si aggrappò a lui, al bavero mal piegato e slavato del
cappotto, e lì affondò le
unghie che aveva mangiucchiato, quando era stata nervosa, agitata e sola.
“Non corrispondi minimamente alle fattezze della mia faccia,
non corrispondi
minimamente.”
“Che cosa?”, gli domandò, e poi rise.
Una risata aperta, un suono che curava le
pieghe tristi delle espressioni troppo pensierose di
Tarrant e i suoi
incubi in grado di mangiare intere teste di uomini buoni e cuori
pulsanti,
grondanti oscura pece.
“Te lo dimostro subito. Alice, Alice.”
Avvicinò le loro fronti e gesticolò
frettolosamente con le braccia, arrivando a
stringerle il petto e la schiena libera dalla costrizione del
corsetto.
“Noti? La tua fronte non riempie tutta la mia. È
troppo piccola.”
Fece toccare le punte dei loro nasi, rossi e buffi, buffissimi, e
subito dopo
le calpestò le scarpe azzurre, senza scusarsi e senza
spostarsi da quella
assurda posizione.
Il freddo pungente della foresta era in briciole intorno ai loro piedi,
i rami
scheletrici degli alberi rinsecchiti erano piegati dal vento e
dalle nuvole pesanti che attraversavano pezzi di
terra verde e terra nera.
“E adesso? Non puoi non notare come i nostri nasi siano
differenti. Il tuo naso
è troppo piccolo.”
Lei rise, un insieme di note calde arrotolate sulla pelle cadaverica di
Tarrant, tra i grumi dei suoi occhi, sulle sue pupille roteanti e
screziate dall’oro
e dalla follia, appena nascoste da un bel verde di germogli colpiti dai raggi
del
Sole. Sulla sua risata le posò le labbra e le parlò
sulla bocca.
“Senti? Senti come sono diverse? Non combaciano. Non
combaciano neanche un po’,
non combaciano.”
Percepì solo umido e saliva, un sapore nuovo in gola e nel
punto in cui si era
creato un contatto. Gocce di lapilli sulfurei sulle sue guance, amaro sale tagliuzzato sulle sue stanche palpebre, viola veleno colato lungo la sua lingua rimasta
immobile tra i denti e il palato. La bocca del Cappellaio si era mossa sul suo
labbro inferiore e allora le costole si erano spalancate frenetiche ad abbracciare le sue, ad intrecciarsi in una coda di ossa, un ponte tra i loro cuori e
le loro pance di bruchi blu e di farfalle di metallo arrugginito.
Lui si scostò e
avvicinò i loro menti, ma lei non seguì
più il suo gioco. Cercò il suo
incastro perfetto, gli rubò le parole e la
volontà.
Lo baciò e si sentì male.
Lo baciò e decise di accogliere gli errori e le imperfezioni
di entrambi, di
accogliere le occasioni della sua esistenza bugiarda, di accogliere lui
in lei,
ovunque in
lei, in ogni parte di se stessa. Consumò la sua bocca, la
massacrò,
e costrinse i polmoni a vivere con qualcosa di diverso
dall’aria e
dall’ossigeno. Imparò a baciarlo con la guancia
destra posata sulla sua spalla
sinistra, vicino alla linea del collo, imparò a baciarlo con
il corpo tremante
e le gambe molli. Imparò a baciarlo e a convivere con il
dolore della perdita
di un tassello di quello che era stata e di quello che non avrebbe mai più potuto essere.
“Riflettevo sulle parole che iniziano con la lettera emme.
Ricordi?”
Si ostinò ad appropriarsi di ogni movimento della sua
lingua, di ogni suo
sussulto.
Lei aveva un livido allo stomaco, lui un taglio tra le vertebre.
E
l’amore è un insieme di increspature e di cigolii.
“Magia. Meraviglia. Miracolo.”
Tarrant allontanò il viso e la osservò sbattendo
le palpebre, sfarfallando con
le ciglia.
“Miracolo. Vorrei che tu fossi davvero qui con me”,
le disse, e poi chiuse gli
occhi.
“Io sono qui.”
“Lo dici ogni mattina.”
Prese le sue mani fasciate da bende consumate, le congiunse alle
proprie e le
portò sul suo corpo, una sul seno e l’altra sulla
pancia. Lui non le mostrò le
iridi e allora lei mosse le loro mani unite, tra le sue scapole, la
base della
schiena, le cosce.
“Alice. Sei come un becco di corvo che preme, costantemente,
nel mio cuore
gonfio di sangue. Non te ne vai mai, Alice. Sei la mia illusione
più bella. Il
mio delirio più gratificante. Alice, Alice.”
“Sono reale, non è un sogno”, lei
tentò di rivelargli, di mormorargli tra i
pensieri e le idee che fuggivano via e si precipitavano lontano.
“E chi può dirlo?”
Il Cappellaio sollevò le palpebre e sorrise.
“Mi tocchi. Esisto, sono reale.”
“Alice, la mia Alice”, le cantilenò,
piano.
Tarrant sfiorò con due dita il suo
corpo ingabbiato da un vestito blu, di boccioli neri a ghirigori
merlettati,
mentre lei gli accarezzava il profilo della mandibola con
l’indice e l’anulare.
“Sei tu? Sei tu tu?”
“Sì. Sì, sì, sì
sono io.”
“Alice. Non sono mai riuscito a dirti di essermi innamorato
di te. Mi sono
sempre dimenticato.”
Ma io l’ho
sentito. Ho sentito il tuo amore ogni giorno, in ogni istante in cui
avrei potuto sentirmi abbandonata, ho sentito il tuo amore e
l’ho seguito fino
a quando non mi ha ricondotta qui. Qui, da te.
“Alice. Sei davvero la mia Alice.”
Le infilò le mani tra i capelli, le ingabbiò le
orecchie tra i palmi, e allungò
il collo verso di lei. Il mondo era una bambagia di melodie e sinuose
composizione drammatiche, il cielo viola era spaccato in due
dall’incudine di
una qualche divinità furiosa e vendicatrice.
E loro, umani, perdevano il conto
delle foglie calpestate e del numero dei frammenti dispersi.
“Mi lascerai di nuovo solo? È
così?”
In un delirante aprirsi di cicatrici dorate lei comprese che non
avrebbe mai
più potuto vivere in un mondo senza Tarrant. Il suo respiro,
la sua vita, la
sua mente tanto diversa da quella di tutte le altre persone che aveva
incontrato in
venti anni di mera illusione ottica, di statica diffrazione delle
aspettative
altrui: non voleva mai
più essere divisa da lui.
Perché se davvero esisteva ancora un mondo del genere, un
mondo senza il
Cappellaio, allora non era degno di essere vissuto, allora non era
reale,
allora non era il suo mondo. Risplendevano due universi di possibili
scelte,
tra le nebbie dell’oppio, e lei aveva un cuore soltanto.
È
così? Alice, è così?
Scosse il capo.
Scosse il capo e sussurrò
‘no’, lo mimò con le
labbra, lo sillabò tra due
lacrime.
Due gocce di pianto dolce, due archetti tramutati in spade
d’alabastro, due
cerulee iridi vergate da rossi uncini.
Disse
‘no’ e la terra tremò
quando gli porse la mano, in un movimento di polso
che la faceva essere - la
faceva assomigliare - ad una sposa con il velo bianco
scucito e logorato dalle tarme.
“E sei felice? Perché sembri tanto
triste?”
Una tempesta di sensazioni, emozioni, sentimenti folli e smisurati.
Oltre il
concetto stesso di tempo e spazio, oltre il suo palmo teso e i baci che
Tarrant
lasciava sui suoi polpastrelli e le dita, le linee della mano, il
polso. Oltre
l’altalena delle sue vene e la tenerezza della concretezza
delle labbra del
Cappellaio che sfioravano il suo corpo e il suo amore più
profondo.
Attraversare a piedi una tempesta di chiodi, saltellare in una cascata di fuoco, distruzione e dolore con le braccia e le
ginocchia
legate. Mangiare briciole
di sonno, infreddolite e spaventate, in un diluvio di sogni e improbabili
realtà.
Tra vapori blu e corolle di fiori color pesca, lei non aveva mai pianto
in sua
presenza, lei non era mai stata spaventata. Il volto ancora stupito,
l’espressione estatica, le labbra tese in un sorriso di
speranza: la stessa
spossante aspettativa di un animo che ha appena espresso un desiderio,
le
braccia aperte verso una torta di compleanno e gli occhi chiusi dal
fumo delle
candele spente.
“Non me ne vado, non ti lascio più”, gli
promise e la musica continuò a
suonare.
Note bellissime di un violino rotto e privo di corde tese. Solo capelli
argentati e forbici protese a spezzare le loro vite disperate.
“Sono triste perché mi dispiace averti reso
infelice in passato, Cappellaio.
Succede questo quando si ama qualcuno, no? Si soffre insieme, si
è felici
insieme.”
Si gettò sul suo petto e si strinse a lui, lo
abbracciò racimolando ogni
briciola di forza.
Intrecciò le dita, le une alle altre, dietro alla grande
schiena di Tarrant e affondò il naso al centro del suo sterno.
La fronte contro il
cuore.
La bocca contro il cuore.
“Ti prego. Lasciami vivere tra le tue braccia, lasciami
restare qui per
sempre.”
Serrò le palpebre e si arrossò i palmi.
Il Cappellaio le sciolse i nodi dei capelli con i polpastrelli,
toccò il suo
collo, allontanò le falangi e poi rimase in bilico un
momento, la pausa di tre
battiti.
Si avvicinò al suo orecchio sinistro e immerse le nocche tra
i suoi ricci
biondi.
“Ti vedo. Alice, io ti vedo.”
Continuò a lisciarle le ciocche, a massaggiarle il capo, a
baciarle il lobo e
la guancia.
Lei sentì il suono dei suoi respiri sulla pelle e tra le
vene,
sulle tempie e tra i nervi.
“Non ti ho mai persa.”
Il cuore si scontrò contro le costole del seno sinistro e la
gola cominciò a
pizzicare, a solleticare le stanche pupille.
“Non mi hai mai persa”, gli confermò, e
fu lei a sporsi verso di lui e a baciarlo, a
bocca aperta e con una mano intrecciata ai capelli della sua nuca. Per incontrarsi insieme,
per vivere
insieme in una corona di fulmini e macabre sinfonie di incubi che si
tramutavano in meravigliose realtà. Lui continuò
a stringerla tanto forte da
farle dimenticare di avere un corpo, da sottrarle i respiri, in un
rincorrersi
che aveva il gusto della disperazione, in un insieme di parole dette o
forse
solo immaginate.
Nella follia della lontananza, tra goffi scontri
di labbra e denti, tra desideri e immaginazioni magnifiche, i sogni
assumono la forma di noci spezzate in cui rigirarsi e in cui si spera di ritrovare se stessi, inciampando nei lacci
slacciati delle bugie del caos.
Eppure non esiste altro
posto in cui vorrei essere.
Perchè Alice Kingsleigh amava davvero il
Cappellaio Matto. Con una tale profondità che, ne era
certa, tempo prima l'avrebbe spezzata.
L'ho compreso solo
adesso.
Amare lui significava guardare ogni giorno il proprio riflesso e non
averne
paura. Sentire la vita in maniera profonda, completa, totale. Scegliere di
essere e non di apparire. E credere a sei cose impossibili
prima di colazione.
Ci fa male stare
lontani. Ci fa proprio male.