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Aprile
2018 –
Nei pressi di Clearwater (Columbia Britannica)
D’accordo,
doveva decidersi a fermarsi.
Diversamente,
il suo camper l’avrebbe abbandonata prima del tempo,
lasciandola a metà strada
tra Grande Roccia Rossa e Immensa Cascata Blu.
Aveva
sempre avuto l’abitudine, in tenera età, di dare
nomi idioti a ciò che vedeva
intorno a sé ma, a essere onesta, quei luoghi dispersi nel
nulla non la
aiutavano a smettere quell’infantile gioco.
Non
v’era anima viva da miglia e miglia, le uniche cose che
poteva vedere dal
parabrezza erano alberi, rocce e cascate, perciò…
Insomma,
non era interamente colpa sua se le
veniva spontaneo sproloquiare con se stessa e inventare cose a caso.
Per
lo meno, Iris si disse questo, quando vide un ponte di tronchi e vi
passò sopra
a velocità ridotta, pensando immediatamente ad accampamenti
indiani, falò e
penne al vento.
«Ponte
Capo Indiano…» mormorò tra
sé, riprovando per l’ennesima volta a recuperare
una
stazione radio decente, in quella marea infinita di montagne e foreste
che era
la Columbia Britannica, in Canada.
Erano
ormai due anni che girovagava senza sosta, con il suo fido e gigantesco
camper,
un Liner Plus 1130GMax della Concorde.
Alla
ricerca di un luogo in cui stabilirsi o, almeno, in cui tentare di
vivere per
un po’ di tempo, aveva iniziato il suo viaggio da Los
Angeles, spingendosi
dapprima verso le Montagne Rocciose e poi verso nord, zigzagando, fino a
oltrepassare
il confine canadese.
Da
quando i suoi genitori erano morti in un incidente stradale causato da
un pazzo
al volante, il mondo le era crollato addosso, ammaccandola ben bene.
L’aggressione
subita poche settimane prima di quell’evento tragico, le era
apparsa irrilevante,
al confronto con quello che era avvenuto a suo padre e sua madre.
L’averli
persi entrambi, e a causa di un paio di ragazzini della Los Angeles bene strafatti di cocaina, era stato
traumatico, per lei. L’aveva mandata davvero a terra.
Solo
la presenza degli zii e delle cugine, l’aveva salvata dalla
follia… e da ciò
che era seguito all’aggressione notturna di cui era stata
vittima a poca distanza
dal suo appartamento in Venice Beach, a L.A.
Ormai
non pensava più a quel delinquente – mai trovato
dalla polizia, tra l’altro –
ma, su di sé, avrebbe portato per sempre il suo marchio, il
suo lascito oscuro.
Iris
lanciò solo una brevissima occhiata al taglio slabbrato che
aveva
sull’avambraccio destro, prima di dedicarsi nuovamente alla
strada, che si
stava inerpicando lungo la valle come un lungo serpente senza fine.
Stava
costeggiando il North Thompson River pur senza vederlo, visto che si
trovava oltre
un basso dirupo a strapiombo e, entro breve, avrebbe incontrato la
cittadina di
Clearwater, dove avrebbe cercato un meccanico.
Nel
frattempo, si sarebbe persa in contemplazione delle sue splendide
cascate, dei
meravigliosi laghi del Parco Nazionale della zona e dei suoi paesaggi
mozzafiato. Dopotutto, quel luogo era famoso proprio per le sue
meraviglie
naturali.
Forse,
se le fosse piaciuto il posto, avrebbe deciso di fermarsi per un
po’. Viaggiare
le piaceva, ma era anche gradevole poter scambiare quattro chiacchiere
con i
propri simili, ogni tanto.
Quando
infine imboccò il Clearwater River Ridge, seppe di essere
arrivata a
destinazione, per quel giorno.
Aprì
quindi il finestrino per inspirare l’aria frizzante di quel
luogo – era un
miracolo che non stesse nevicando, visto che la primavera stentava ad
arrivare
– e ne ammirò il meticoloso ordine.
Come
tutti i paesini canadesi era pulito, ben organizzato, e la gente non
sembrava
pazza o sotto l’uso di sostanze stupefacenti, mentre guidava.
Inoltre,
nessuno usava il clacson come estensione della mano sul volante.
Grazie
al GPS integrato, individuò subito un meccanico, in cui
avrebbero potuto
sicuramente controllare quanti secondi di vita avesse ancora il suo
pneumatico
anteriore destro.
Da
quello che aveva potuto constatare alla sua ultima fermata, tutti i
santi del
Paradiso dovevano essersi messi a intonare benedizioni, visto che era
da circa
settanta miglia che viaggiava come sulle uova.
D’altra
parte, non ne aveva caricata una di scorta – accidenti a lei!
– e l’unico
sistema per sopravvivere era stato raggiungere il primo paese degno di
tale
nome che potesse averne di ricambio.
Quando,
perciò, inforcò il cortile dell’Insight
Tirecraft, si concesse un sospiro di sollievo…
esattamente come lo
pneumatico, che esalò l’ultimo respiro prima di
esplodere.
Con
un pssst a fare da colonna sonora
al
suo arrivo, e un progressivo affossamento del camper verso destra, Iris
bloccò
il suo mezzo nei pressi del parcheggio e, soddisfatta, uscì
per ammirare il
danno.
In
quel mentre, uno dei meccanici raggiunse l’esterno
– attirato certamente dal
suono dello pneumatico – e, nel notare la giovane accanto al
camper e il suo
sguardo divertito, esordì dicendo: «A quanto
sembra, ha tirato le cuoia al
momento giusto.»
Sorridendo
spontaneamente, Iris annuì all’indirizzo
dell’uomo, barbuto e dal volto abbronzato,
e disse: «Erano settanta miglia circa che viaggiavo con il
patema d’animo, e i
sensori del mio camper non mi hanno aiutata, ricordandomi con le loro
lucette
le condizioni pessime della gomma. Meno male che non ho dovuto fare
delle
salite impervie.»
«Non
devo neppure chiederle se devo cambiarle lo pneumatico»
ironizzò l’uomo, allungandole
una mano. «Wilford Johnson, molto piacere. Sono il
proprietario della baracca.»
Iris
strinse la sua mano protesa, asserendo: «Iris Walsh, piacere
mio. Sa per caso
se, al Clearwater/Wells Gray Camping abbiano posto, in questo periodo?
Camper a
parte, mi piacerebbe fermarmi per un po’.»
Sorridendo,
Wilford replicò: «Mio nipote e mia cognata
gestiscono il campeggio. Provo a
chiamare subito.»
«Molto
gentile, grazie. Il posto è molto bello, e credo valga la
pena di visitare
questo scorcio di Canada» dichiarò Iris, poggiando
le mani sui fianchi e
guardandosi intorno.
Sì,
quel posto le piaceva e, per qualche tempo, avrebbe potuto essere la
sua casa.
Wilford,
allora, chiamò uno dei suoi ragazzi perché si
prendessero cura del camper di
Iris e, nel contempo, telefonò a suo nipote per avere lumi
circa le
prenotazioni al camping.
All’okay
di Wilford, Iris si tranquillizzò.
Non
sapendo che altro fare – gli operai stavano uscendo per il
break di mezzogiorno
e il camper non sarebbe stato pronto che nel pomeriggio – si
incamminò a piedi
verso il centro, così da trovare un posto dove sgranocchiare
qualcosa.
Dopo
aver camminato con passo quieto per qualche centinaio di metri, si
fermò dinanzi
all’ingresso dello Strawberry Moose,
un localino dall’aria affascinante e curiosa.
L’insegna, oltre a essere enorme,
era abbellita da una buffa renna rosa che sembrò darle il
benvenuto.
Iris
lasciò quindi che i morsi della fame avessero la meglio su
di lei – come al
solito – ed entrò nel locale in legno e vetro con
un sorriso speranzoso in
viso.
Ancora
una volta, si era spinta a mangiare più tardi del
necessario, indebolendosi più
di quanto non avesse bisogno. Avrebbe dovuto darsi una regolata o,
prima o poi,
l’avrebbero trovata sdraiata in mezzo a una strada, priva di
sensi.
La
grande sala da pranzo era interamente in legno e, pur se un
po’ spartana,
denotava pulizia, ordine e un
senso di
gradevole benvenuto. Apprezzò subito il tepore che le
accarezzò la pelle, oltre
all’indubbio aroma di cibo di quel luogo.
Il
localino era davvero grazioso, e l’onnipresente renna rosa la
faceva da
padrone, così come i menù sfiziosi e
coloratissimi posizionati a ventaglio su
tutti i tavolini.
Una
cameriera in tenuta bianca e rosa e con i pattini ai piedi si
avvicinò a lei
tutta sorridente e, palmare alla mano, la accompagnò a un
tavolo prima di
prendere la sua ordinazione e schettinare via veloce.
Iris
sorrise di fronte a quella scena in stile anni ‘80 e, nel
curiosare volti e
persone presenti, cominciò a farsi un’idea del
posto.
Era
mezzogiorno passato, molti stavano fermandosi per il pranzo e, ben
presto, quel
locale sarebbe stato caotico e pieno di persone tra le più
disparate.
Un
luogo ideale per capire se, tra quella gente, avrebbe potuto sentirsi a
proprio
agio oppure no. Aveva davvero bisogno
di capirlo, o non avrebbe potuto fermarsi in nessun modo, neppure in
quel luogo
apparentemente così grazioso.
Circa
dieci minuti dopo aver ordinato, la stessa ragazza in rotelle
tornò con il suo
vassoio e, sempre sorridendo, le consegnò una bistecca al
sangue e una generosa
dose di verdura cotta.
Dopo
averle lasciato lo scontrino, si involò verso uno dei tavoli
che stava
riempiendosi e, subito dopo di lei, altre due ragazze uscirono dalle
cucine,
tutte dotate di pattini.
Una
di loro, aveva persino le corna rosa della renna dell’insegna.
Al
bancone del bar comparve un giovane sui trent’anni, alto e
piacente, dalla
chioma fulva e gli occhi azzurri come il cielo che, immediatamente, ci
diede
dentro con la macchina del caffè.
Le
chiacchiere presero a crescere d’intensità, come
una marea che monti lentamente
ma senza scampo e Iris, sorridendo tra sé, decise di
lasciarsi travolgere.
Dando
libero sfogo alla sua fame, lasciò che quel chiacchiericcio
le facesse
compagnia e, dopo il primo morso – la carne era ottima
–mangiò di gusto e sperò
che la fame passasse così come era venuta.
Scalpiccio
di piedi, voci possenti, gran risate e dialoghi disparati la
accompagnarono per
tutta la durata del suo pranzo, ma fu solo quando giunse un piccolo
tornado in
miniatura, che levò il capo per la curiosità e il
divertimento.
Una
bimba dai capelli nerissimi e lisci, su cui spiccava un berretto da
baseball,
salutò con ampi gesti le cameriere per poi piazzarsi sicura
a un tavolo
d’angolo.
Lasciò
quindi cadere la cartella a terra assieme al borsone della palestra e,
tutta
contenta, sorrise all’uomo al suo fianco, di certo
più ombroso e serioso rispetto
a lei.
Iris
ne curiosò il volto abbronzato e dai lineamenti forti, in
parte nascosti dalla
barba scura e dai capelli lasciati un po’ lunghi e selvaggi
intorno al collo
taurino.
Era
imponente, constatò dopo un attimo.
Le
spalle erano davvero ampie, forse dovute al lavoro che svolgeva, o
forse a
causa di una cura maniacale per il proprio corpo, Iris non poteva
saperlo.
Di
sicuro, era un lavoratore indefesso; le sue mani apparivano ruvide e
con le
unghie cortissime. Portarle anche solo un poco più lunghe,
avrebbe voluto dire
rompersele di continuo.
Uno
spaccalegna, forse?
Iris
ipotizzò fosse possibile, visto che in zona erano presenti
molte falegnamerie e
piccole botteghe di artigiani del legno.
In
ogni caso… perché continuava a fissarlo?
Tornando
in fretta alla propria bistecca, Iris non poté comunque
esimersi dall’ascoltare
il trillante cicaleggio della bimba. Esso galleggiava
nell’aria come un profumo
speziato, solleticandola e incuriosendola.
Sorrise
perciò spontaneamente quando, simile a una radio, ella
iniziò a raccontare tutto
della sua giornata a quello che, come Iris scoprì durante il
suo monologo, era
il padre.
Per
tutto il tempo, Iris si aspettò di veder comparire anche la
madre della
ragazzina, ma nessuna donna giunse, se non una cameriera più
intraprendente
delle altre, che salutò la bimba prima di fissare con
insistenza l’uomo.
La
bambina le dispensò un sorriso cauto, mentre
l’uomo si limitò a un ‘ciao,
Alyssia’, e poco altro.
La
giovane parve sospirare spazientita ma prese l’ordinazione e,
poco dopo, questa
venne servita da una delle ragazze dotate di schettini.
Molto
più tardi e diversi monologhi dopo, a pranzo fu terminato,
Chelsey – come
scoprì Iris verso la fine del loro interludio –
balzò dalla sedia e passò di
tavolo in tavolo, salutando tutti i presenti.
Il
padre la lasciò fare, guardandola con amorevole
esasperazione.
Evidentemente,
lì la conoscevano tutti, e quello strano ficcanasare non
dava fastidio a
nessuno.
Iris
si aspettò di essere bellamente esclusa da quello strano
rituale, essendo
un’estranea, ma si sbagliò di grosso.
Tutta
impegnata a finire le sue verdure, la giovane si sorprese, infatti,
quando nel
suo campo visivo comparvero gli stivaletti lucidi di Chelsey.
Levando
il capo per la curiosità – la bambina profumava di
muschio e di fiori – Iris le
sorrise cordiale e disse: «Ehi, ciao…»
«Ciao
a te. Sei nuova, vero?» rispose per contro Chelsey,
inclinando il capo di scuri
capelli per scrutarla con aperta curiosità con i suoi
profondi occhi nocciola.
«Colpita
e affondata. Vengo da Los Angeles» asserì allora
Iris, accentuando il suo sorriso.
La
bambina sgranò gli occhi, a quella notizia, esalando un ‘wow’ sorpreso e
ammirato.
Già
sul punto di chiederle altro, il vocione profondo del padre la fece
sobbalzare,
e un lento rossore si impadronì delle gote naturalmente
bronzee della bimba.
Che avesse sangue indigeno nelle vene?
Volgendosi
entrambe in direzione del suono di quella voce – il padre si
trovava al bancone
del bar, intento a pagare le loro consumazioni – Chelsey
sorrise contrita e
disse a mezza voce: «Non disturbo, davvero!»
Poi,
volgendosi speranzosa in direzione di Iris, aggiunse:
«E’ vero che non disturbo?»
Iris
sorrise maggiormente di fronte a quella richiesta di aiuto e,
nell’annuire,
lanciò poi un’occhiata all’uomo e disse:
«Va tutto bene, sul serio.»
«Se
le dà fastidio, la cacci pure. Chelsey deve imparare a farsi
gli affari propri»
brontolò l’uomo, tornando a parlare con il giovane
al bancone del bar.
A
quel punto, Iris e Chelsey si guardarono divertite e
quest’ultima, afferrando
la sedia libera al fianco dell’adulta appena conosciuta,
asserì: «Papà non ama
molto che io mi impicci degli affari degli altri, ma in fondo non
faccio nulla
di male, no? Tu avevi finito, vero? E due chiacchiere fanno piacere a
tutti. Poi,
qui a Clearwater girano un sacco di turisti, ed è bello
sentire da dove
vengono, cos’hanno fatto prima di venire qui
e…»
Chelsey
continuò per diversi minuti quel monologo sfacciato quanto
delizioso, e Iris si
perse in contemplazione di quegli occhi nocciola colmi di eccitazione e
curiosità.
Non
tentò minimamente di interromperla, annuendo alle sue
esternazioni e
rispondendo brevemente alle sue domande.
Era
letteralmente affascinata da quell’autentica esplosione di
energia formato
bambina e, quando un’ombra calò su di loro, si
sorprese non poco, sobbalzando
in risposta.
Non
si era affatto accorta dell’arrivo del padre di Chelsey!
Levando
il capo fin quasi a farsi dolere al collo –
quell’uomo era davvero alto! – Iris
gli sorrise cauta e disse: «Sua figlia è
un’autentica forza della natura, sa?»
«Un
modo carino per dire che è una radio senza interruttore per
lo spegnimento»
replicò l’uomo, sorridendo per contro alla figlia,
che non se la prese per il
lieve rimbrotto.
«Ci
rivedremo ancora, Iris Walsh di Los Angeles, allora? Sono sicura che il
parco
ti piacerà molto. Le cascate piacciono a tutti!»
esclamò a quel punto la
bambina, balzando via dalla sedia per afferrare la mano del padre.
L’uomo
fissò scocciato la figlia, e Chelsey fece la lingua come per
scusarsi.
«E’
un’impicciona. La scusi» brontolò a quel
punto l’uomo, lanciando un’occhiata
distratta a Iris.
«Nessun
problema, davvero» replicò però la
giovane, salutando poi con una mano Chelsey,
che stava trascinando via con sé il padre. «A
presto!»
«Ciao!»
esclamò la bambina, sbracciandosi con la mano libera.
Il
padre scosse il capo e, ancora, non la redarguì ma,
nell’uscire dal bar, le
ricordò alcune regole sull’educazione prima che
lei gli ridesse in faccia con
ironia.
Iris
li seguì con lo sguardo finché non svanirono
oltre l’angolo del risto-bar e, a
quel punto, non trovò altri motivi per restare.
Pagò
il tutto, ringraziando per il buon pranzo dopodiché, a passo
tranquillo, tornò
verso l’officina e si appoggiò al guard-rail per
aspettare la riapertura.
Lì,
lasciò che il sole le illuminasse la lunga chioma color
biondo platino rilasciata
sulle spalle. Suo padre le aveva sempre detto che sembravano raggi di
luna.
Sospirando,
Iris desiderò parlare con lui, in quel momento.
Le
sarebbe piaciuto discorrere del suo viaggio, delle sue decisioni
– indecisioni, per meglio
dire –, di come
avesse deciso giorno per giorno il suo itinerario, ma tutto
ciò era ormai
impossibile.
Il
suono del suo cellulare la ridestò da quei tristi pensieri
e, quando Iris notò
chi fosse all’altro capo, sorrise spontaneamente.
«Zio
Richard… ciao» esordì Iris, lanciando
uno sguardo attorno a sé.
La
foresta si inerpicava selvaggia su per i pendii, mentre il via vai
delle auto procedeva
placido e tranquillo, lungo la statale. Sì, era davvero un
luogo pacifico e
senza grosse pretese.
«Allora,
come sta la mia nipote preferita?» replicò
l’uomo all’altro capo.
Iris
rise, asserendo: «Sono la tua unica nipote, zio. Comunque,
sto bene. Sono in
Canada, ora. Columbia Britannica.»
«Sei
a caccia di vampiri, tesoro?» ironizzò
l’uomo.
«Quelli
sono a Forks, zio, nello Stato di Washington»
ironizzò Iris, rammentando bene
quanto Richard l’avesse presa in giro, a suo tempo, per la
sua cotta per uno
degli attori di Twilight.
«Oh,
giusto. Strano che tu non sia lì. Non avevi detto che vi
avresti fatto tappa?»
«Alla
fine ho fatto il giro lungo, ma conto di andarci, prima o
poi» dichiarò Iris,
sistemandosi distrattamente una ciocca dei capelli ribelli.
Una
folata di vento glieli aveva scompigliati e, visto che mal sopportavano
qualsiasi tipo di elastico, spilla o altro, non poteva che portarli
slegati.
«E…
per l’altra cosa, come
siamo messi?»
si informò allora Richard, calando di un’ottava il
tono della voce.
Iris
dubitava che stesse chiamando da un luogo in cui altri avrebbero potuto
sentirlo, ma sapeva bene quanto lo zio fosse turbato dal suo scomodo
segreto.
In
fondo, lo era anche lei.
Non
sapeva un accidente di niente del suo involontario quanto ingombrante
lato
oscuro, e non aveva la più pallida idea di come avrebbe
potuto risolvere il
problema.
Non
si trovavano dei cartelli, lungo la strada, dove stava scritto ‘sciamano pronto a tutto per
voi’,
oppure ‘studioso di stranezze, che
più
stranezze non si può’.
Il
suo viaggio era iniziato anche per questo, non solo per tenere nascosto
a
parenti e amici ciò che le era successo quella
notte, quando era stata aggredita.
Richard
– e anche Iris, alla fine dell’opera –
aveva pensato sarebbe stato meglio per
lei sparire per un po’, inventarsi quel viaggio con la scusa
di riprendersi
dalla morte dei genitori.
Schiarirsi
le idee era stato imperativo in ogni caso ma, in cuor suo, aveva anche
sperato
di poter trovare qualcuno con il suo stesso problema.
Costui
– o costei – avrebbe potuto aiutarla a venire a
capo di quel guaio e, magari,
anche guarirla.
Nessuno
dei due sapeva se esistesse una cura a ciò che entrambi
definivano ‘disturbo’,
ma era una cosa da tenere
assolutamente nascosta.
Una
notizia simile avrebbe scatenato il panico nell’opinione
pubblica, Iris sarebbe
quasi sicuramente finita in qualche laboratorio d’analisi, e
la ditta ne
avrebbe risentito.
Iris
era la prima a non voler danneggiare ciò che i genitori
avevano messo in piedi
con così tanta fatica, e sapere che lo zio se ne stava
prendendo cura, la
rincuorava.
Essere
l’azionista di maggioranza non l’aiutava, e ormai
gli altri membri del
Consiglio cominciavano a mordere il freno, sapendola lontana, ma lo zio
era
stato bravissimo a gestire ogni cosa.
Non
poteva, in ogni caso, permettere che le cose proseguissero a quel modo
a
oltranza. In un modo o nell’altro, avrebbe dovuto trovare una
soluzione al suo
problema, oppure tornare a casa con esso, e con tutti i suoi dubbi a
farle da
mantello.
«Diciamo
che, per ora, gironzolare per riserve indiane è servito a
poco. Anche se ho
fatto delle conoscenze interessanti» riassunse Iris,
scrollando le spalle anche
se lo zio non poteva vederla.
«Sono
sicuro che, prima o poi, troverai qualcuno. Come è successo
a te, sarà successo
anche a qualcun altro, ti pare? Anche se immagino che nessuno
pubblicizzi la
cosa» tentò di rincuorarla lo zio.
«Per
lo meno, ho degli indubbi vantaggi sul piano personale. Non devo temere
che
qualcuno mi infastidisca» cercò di ironizzare la
giovane, scrutando la propria
mano libera con espressione dubbiosa.
«E’
l’unica cosa che mi fa stare tranquillo, sapendoti lontana,
anche se… come va, in quei giorni?»
«Me
ne sto alla larga da tutti, non temere. Non voglio rischiare di fare
del male a
qualcuno. Anche per questo, ho sempre scelto destinazioni lontane dalle
grosse
città» rabbrividì leggermente Iris,
rammentando fin troppo bene cosa era
successo la prima volta che il problema si era palesato.
Aveva
dato di matto, quando si era risvegliata il mattino seguente, nel bel
mezzo del
suo appartamento… distrutto da
cima a fondo.
Incredula,
aveva subito controllato le registrazioni del circuito interno delle
telecamere
che aveva fatto installare, e ciò che aveva visto
l’aveva quasi mandata al
manicomio.
Per
giorni si era chiusa in se stessa, evitando le chiamate preoccupate dei
genitori e dei parenti e, quando finalmente si era decisa a parlare,
papà e
mamma erano morti.
Il
mondo si era frantumato sotto i suoi piedi e, quando aveva visto zio
Richard in
ditta, pronto a dirigere il Consiglio degli Azionisti per quella
riunione straordinaria,
aveva ceduto.
Gli
aveva detto tutto, pur se all’inizio lui non aveva voluto
– o potuto –
crederle.
Già
presagendo una simile reazione, gli aveva mostrato le registrazioni e,
alla
fine del video, lo zio era quasi svenuto sulla sua poltrona, incredulo
e
spaurito.
In
silenzio, aveva poi estratto il disco dal computer, lo aveva chiuso
nella sua
cassaforte e le aveva fatto promettere di mantenere il segreto.
Naturalmente,
Iris aveva accettato, lieta che lui le avesse creduto e non
l’avesse scacciata
come il mostro che era diventata.
Richard,
allora, le aveva consigliato di partire, di stare alla larga da L.A.
per un
po’, di capire cosa le fosse successo senza dare troppo
nell’occhio, mentre lui
si sarebbe occupato della Walsh Inc.
Iris
aveva assentito piena di gratitudine e, presenziando alla sua prima
riunione come
azionista di maggioranza – avendo ereditato le azioni dei
genitori –, aveva
lasciato la gestione delle sue quote associative nelle mani dello zio.
Al
Consiglio era stato detto che Iris avrebbe continuato a seguire
l’azienda in
remoto, mentre Richard avrebbe presenziato fisicamente anche per lei
alle
riunioni.
Iris
veniva per questo costantemente aggiornata sull’andamento
aziendale e, prima di
ogni consiglio direttivo, le copie degli ordini del giorno le venivano
mandati
sul suo palmare.
Se
non ci fosse stato suo zio, quell’intero viaggio sarebbe
stato infinitamente
più complesso, forse impossibile da portare avanti.
«Sei
una ragazza in gamba, Iris. Sono sicuro che ne salterai
fuori» le ricordò
Richard con tono affabile.
«Oppure,
mi costruirò una baita in Alaska e svernerò
lì per il resto dei miei giorni»
replicò lei, salutandolo prima di chiudere la comunicazione.
Sospirando,
Iris lanciò un’altra occhiata ai boschi,
inspirò con forza il profumo della
resina dei pini, ascoltò lo stormire delle fronde mosse dal
vento… e lo scalpiccio di alcuni
cervi muli nel
bosco.
Poco
importava, per una come lei, che fossero a diverse miglia di distanza,
rispetto
a dove si trovava in quel momento.
Un
lupo mannaro poteva fare un sacco di cose, a ben vedere tranne, forse,
vivere
una vita normale.
N.d.A.: come promesso, eccoci all'inizio di una nuova avventura, stavolta incentrata su licantropi che non sanno nulla del proprio passato, e che devono imparare davvero 'da zero' a essere ciò che sono, con tutti i rischi che questo comporta.
In questo caso, sarete voi gli/le esperti/e, e non loro e, spesso e volentieri, vi ritroverete a dire 'ma perché non fa questo, o quello?'
La dura battaglia del sapere è dunque iniziata... vedremo chi ne uscirà vincitore! Buona lettura!