Schadenfreude
Il
primo ricordo che Dio possieda è il ricordo di suo padre che colpisce la sua
guancia con uno schiaffo. Ricorda con estrema precisione il susseguirsi di
avvenimenti e conseguenti sensazioni – il palmo della mano di lui che aveva colpito
il suo volto, la forza dell’impatto che lo aveva scaraventato a terra. Per un
momento il mondo si era trasformato in una distesa di candido, bianco nulla;
poi erano arrivati il dolore ed il bruciore, intenso quasi quanto il furore
generato dall’orgoglio ferito, dall’ingiustizia subita.
Non
ricorda la ragione dietro a quello schiaffo, e più gli anni passano più si
convince che non ve ne fosse mai stata una. Ciò che ricorda è il disgusto nel
sentire suo padre, rimasto in piedi alle sue spalle, tirare su il catarro
rancido e sputarlo a terra, poco distante dal suo volto; ricorda di non essere
riuscito a distogliere lo sguardo dal grumo di muco vischioso per quelle che
gli erano sembrate ore, di aver pensato che suo padre fosse quello, esattamente
quello: niente di più e niente di meno che un rigurgito insignificante sul
pavimento. Ricorda di aver imparato ad allora, pur senza conoscerla, il
significato della parola “odio”.
All’epoca,
sua madre era già morta. Di lei Dio non ricorda nulla – e più di ogni cosa al
mondo, più dell’idea che il primo ricordo che possiede sia una vampata d’odio
senza riserve o precedenti, il pensiero di ricordare a malapena il suo viso gli
causa un dolore la cui esistenza non oserebbe mai ammettere a nessun altro, la
cui esistenza fatica ad ammettere persino a se stesso.
La
mano che Jonathan gli ha teso per presentarsi è un perfetto riassunto di tutto
ciò che Jonathan è e rappresenta. A Dio è bastato poco più di uno sguardo per
comprendere che genere di persona fosse, ed un semplice rifiuto perché Jonathan
potesse comprendere che genere di rapporto Dio desidera costruire con lui.
Le
sue teorie sulla personalità di Jonathan non fanno che confermarsi, una dopo
l’altra, nei giorni successivi al suo arrivo alla magione dei Joestar. La mano di Jonathan è abbronzata, le unghie curate
ma sporche di terriccio ed erba: Jonathan passa buona parte del proprio tempo
all’aperto da solo, in compagnia del cane che lo segue ciecamente o assieme ai
propri coetanei; con questi ultimi, così come col bastardino, il rampollo dei Joestar non si esime dall’azzuffarsi – sia per rissa, o per
gioco. Ma alla fine della giornata torna a passo svelto verso casa, al riparo
dai problemi della vita reale, e i pugni che da o che incassa non sono una
difesa da un assalto.
Jonathan Joestar non ha mai rischiato la propria vita, e non conosce
il reale significato del termine “sopravvivenza”. Le sue nocche potranno
scorticarsi e arrossarsi nel colpire qualcun altro, la sua guancia gonfiarsi e
farsi livida a causa di un colpo ricevuto, ma le sue unghie rimangono
perfettamente curate. Non ha mai provato la fame. Non ha ansie, nessun
pensiero, nessuna nuvola che metta in ombra il suo ottimismo.
Il semplice atto di
guardarlo gli fa venire il voltastomaco. La sua voce gli causa emicranie
lancinanti, e a guardarlo Dio teme seriamente che il suo quoziente intellettivo
possa diventare quello di un primitivo, per adattarsi al suo livello.
La stupidità di
Jonathan è però una manna del cielo: con un avversario così inebetito dai
piaceri che la vita gli ha sempre donato non teme alcun confronto. Non si sforza
neppure di sembrare migliore di Jonathan: semplicemente lo è, in tutto e per
tutto.
Pian piano, un
risultato alla volta, Dio prende a derubarlo di possessioni materiali e di
legami. Dapprima è l’attenzione e il favoritismo del suo patrigno: Dio gli
sorride, ma non può fare a meno di pensare che la ragione dell’idiozia di
Jonathan sia in buona parte colpa sua – una benedizione ed una maledizione
assieme. Poi tocca all’attenzione dei ragazzi del circondario, dei giovani
ricchi e dei peggiori figuri che si mischiano senza distinzione in quella
ricerca del più forte, della persona in cui riporre la propria venerazione
cieca ed insensata. Jonathan non è mai stato il più forte ma, nello
sconfiggerlo, Dio lo rende il più debole: ed è guardandolo dall’alto in basso
che per la prima volta l’odio che prova per lui sboccia in qualcosa di diverso,
esilarante.
Dio è felice. La
gioia di poter guardare Jonathan piangere, accovacciato a terra, è tale da
farlo tremare dall’eccitazione. Per un momento sente quasi che potrebbe
esplodere, incapace di contenere quel sentimento così forte da stordirlo – ma
si trattiene, celandosi dietro a parole vuote ed allontanandosi da lui. Se solo
guardasse Jonathan sconfitto un momento di più si sentirebbe mancare dal
delirio di cui è preda. Non ha mai provato nulla di simile in vita.
Le sue dita
stringono poco a poco una corda intrecciata con cura e
dedizione attorno al collo di Jonathan Joestar. La
lentezza con cui esegue il gesto non è dovuta alla cautela, e neppure alla
costanza necessaria a prendere il suo posto, un piano su cui lavora con folle
costanza giorno dopo giorno: no, Dio si muove lentamente per scelta. Prova una
delizia senza pari a sentire il panico soffocare Jonathan poco
a poco, si eccita nel vederlo percepire il pericolo imminente e schiacciante.
Ma
un giorno commette un errore: certo della propria vittoria pecca d’orgoglio e
si concede un istante di respiro, una distrazione; quando rivolge nuovamente lo
sguardo verso di lui, Jonathan è fuggito dalla sua immaginaria morsa. Non
impiega molto a scoprire la ragione di quella fuga: è tanto banale e
stucchevole da far sì che in sua presenza Dio senta nuovamente quel familiare
retrogusto nauseabondo che era stato sostituito dall’euforia.
Una
donna. Jonathan non potrebbe essere più scontato, persino nelle proprie forme
di escapismo. Dio li osserva in silenzio, a distanza di sicurezza, quasi come
se la felicità innocente che emana ogni loro gesto fosse una malattia epidemica
da cui non vuole farsi contagiare. Vedere Jonathan felice non fa solo fallire
miseramente il suo piano altrimenti perfetto: lo disgusta. Un essere così tanto
avvezzo al comodo e alla felicità merita solamente di essere spogliato di tutti
i privilegi ottenuti dalla semplice fortuna di nascere nella giusta famiglia,
con il giusto cognome.
Jonathan
è un idiota innamorato di un senso di giustizia che esiste solo in libri
vetusti e che non ha nulla a che vedere con la realtà; alla stessa maniera la
ragazza che ha deciso di ronzargli attorno come un ultimo irritante baluardo di
gioia sembra essere uscita da un quadro, un’illusione dipinta. I capelli biondi
le ricadono sulle spalle con la grazia di una dea scolpita nel marmo immortale,
gli occhi sono grandi e sembrano non essersi mai posati su qualcosa di
repellente e la sua risata è contenuta, mai volgare.
Guardandola,
Dio scopre di non nutrire per lei alcun sentimento – non odio, né disgusto. Nel
mondo come lui lo concepisce Erina Pendleton è una macchia sfocata sullo sfondo
– e in primo piano, spaventosa costante, Jonathan. Erina è semplicemente una
causa, la felicità di Jonathan uno sgradito effetto: quando la sorprende,
quando la afferra a forza per macchiarla di un’onta che, considerato il suo
carattere, le impedirà di guardare Jonathan negli occhi, Dio non prova
soddisfazione per il gesto in sé quanto per le conseguenze, per quell’ulteriore
legame reciso con disarmante semplicità.
Solo
quella notte, ripensandoci e immaginando la reazione di Jonathan, ha occasione
di ripercorrere le sensazioni provate e riflettere sulla propria smania. Non si
sofferma mai a pensare alla ragione per cui odia Jonathan tanto intensamente – perché dovrebbe fare altrimenti? – ma quel
giorno, nel vedere Erina sciacquarsi la bocca con acqua sporca per cancellare
le prove dell’offesa subita, ha sentito qualcosa di diverso: un sentimento
distaccato da Jonathan, ma non del tutto.
Chi
si crede di essere, lei, per umiliarlo in quella maniera sfrontata? Che
rapporto crede di avere con Jonathan, per potersi permettere di cancellare con
la sporcizia ciò che lui le ha fatto, la testimonianza che è riuscito ad
intaccare anche quel poco che di bello era rimasto nella sua vita?? “Non sei
niente”, avrebbe voluto dirle; “Una macchia insignificante…”
Chiude
il libro che ha smesso di leggere da qualche minuto e spegne, una ad una, le
quattro luci del candelabro che illumina la sua stanza. Seduto al leggio,
immobile, non può fare a meno di pensare a lineamenti graziosi e a chiome
bionde; non può fare a meno di sollevare una mano e carezzare una ciocca dei
propri capelli, sovrappensiero.
« Perché l’hai fatto? »
La
pelle del volto è gonfia e livida là dove Jonathan l’ha colpito. È una sensazione
con cui ha uno strano rapporto di lontana familiarità – come tornare a casa
dopo anni di pellegrinaggio. Distoglie lo sguardo dal proprio riflesso e lo
rivolge verso Jonathan, che siede sul bordo del letto a capo chino.
È
la volontà di George Joestar che passino la notte
nella stessa stanza, a riflettere sugli errori commessi e a cercare una
soluzione pacifica al loro problema. Se osassero riprendere a fare a pugni,
come poche ore prima, i servi sarebbero rapidi ad intervenire e le conseguenze
sarebbero gravissime. Dio sorriderebbe al pensiero che Jonathan, giustificato
nella sua furia, sia comunque divenuto il capro espiatorio della faccenda – ma
il volto gli fa male, i muscoli sono stanchi. Erano mesi che non si sentiva
così, e la sensazione non gli piace.
Nella
semioscurità della notte, dove l’unica fonte di luce è la luna che invade tenue
la stanza, il profilo di Jonathan è tanto immobile da somigliare più a quello
di una statua che a quello di un ragazzo. Dio è interdetto nel constatare che
il tono con cui gli pone quella domanda non contiene accuse – irritato, quasi.
Cammina sull’orlo del baratro e Jonathan, perfetto damerino, si rifiuta di
avvicinarsi e guardarvi dentro abbastanza a lungo da consentirgli di spingerlo
oltre il bordo. C’è arrivato vicino quel pomeriggio, molto vicino, ma ora
sembra aver preso le giuste distanze di sicurezza.
Non
lo sopporta.
« Di cosa stai parlando? », domanda; Jonathan si volta, gli
occhi grandi visibilmente pieni di lacrime anche nella penombra.
« Di tutto quanto. », risponde; non sembra incline ad
elaborare – ma di nuovo evita di accusarlo di alcunché, genuinamente curioso di
conoscere le sue motivazioni. Dio abbandona la sedia del leggio per avvicinarsi
al letto, cauto.
« Non ho mai fatto segreto del fatto che ti odio. », mormora,
sincero. « Non ho intenzione di cominciare a farlo
ora. Sei un bamboccio viziato, insopportabile, positivo senza alcuna ragione,
accecato dalla tua stessa visione infantile del mondo. Vuoi che continui? Posso
andare avanti tutta la notte. »
Nel
parlare si aggrappa ad uno dei pomelli del letto di Jonathan, stringendo il
legno sotto le proprie mani fino a sentirlo incrinare. Contenere la rabbia si
dimostra sempre una sfida, soprattutto in sua presenza.
Jonathan
scuote la testa. « Non mi riferivo al motivo per cui
mi odi. Quello lo posso comprendere, sai? »
Passivo,
Dio annota mentalmente. Oltre che stupido, Jonathan è pure passivo: accetta
senza protestare ogni ragione Dio gli presenti, per quanto assurda possa sembrare
agli occhi di una persona con un cervello funzionante. Accondiscendente,
accomodante… gli si avvicina, posando un ginocchio sul materasso, predatore
glaciale. Jonathan non fa una piega, non si fa neppure indietro. Dio ripensa
all’euforia provata nel vederlo finalmente reagire alle sue crudeltà,
l’eccitazione di poterlo finalmente malmenare a viso aperto, senza riserve,
secondi fini o giustificazioni.
« Dev’esserci una ragione dietro al tuo comportamento. », mormora
Jonathan. « Nessuno nasce cattivo. »
Dio
si ferma, il volto pochi centimetri sopra a quello di Jonathan, in una
posizione che ricorda quella di un avvoltoio pronto a calarsi sulla propria
preda. Ora come ora però non ha alcuna voglia di divorarlo: se ne sta fermo,
gli occhi sgranati, intento a processare ciò che Jonathan ha appena detto. « Cosa… », sussurra, senza fiato; gli occhi di Jonathan sono
fissi nei suoi, lo trapassano come non avesse consistenza, nessuna barriera. « Come… »
Come
può offrirgli una mano d’aiuto come non fosse passato un singolo istante dalla
prima volta in cui l’ha rifiutata? Come può fingere che dal loro primo incontro
Dio non abbia fatto altro che pensare a come distruggere la sua vita?
Lo
afferra per il bavero della camicia, le mani che tremano, irragionevole. Vede
la bocca di Jonathan aprirsi, forse per chiedergli di fermarsi o forse per
chiamare aiuto. Non si concede il beneficio del dubbio: termina la propria
discesa feroce su di lui, sollevandolo contemporaneamente verso il proprio viso,
fino a che le sue labbra non incontrano quelle di Jonathan in quello che più
che a un bacio somiglia ad un morso, un tentativo di dilaniarlo. Sente le mani
di Jonathan afferrare i suoi polsi e tentare di allontanarlo, i gemiti dentro
la sua bocca – ma a quel punto non ragiona più, non riflette sulle proprie
azioni o sulle conseguenze che esse avranno.
“Nessuno nasce cattivo”; quelle tre
parole sono tutto ciò che sente e risente mentre strattona Jonathan, mentre si
sistema meglio per ancorarlo al letto, salendogli a cavalcioni. Affonda i denti
nel suo labbro inferiore, strappandogli un guaito di dolore. Per qualche
ragione quel suono riporta alla sua mente il ricordo vago e nebuloso di sua
madre – senza un volto, senza un nome, senza una sola caratteristica che non
sia un senso di sicurezza e pace che ha imparato ad associare alla sua
presenza. Il ricordo di lei è come una miccia accesa, e le conseguenze
dell’esplosione risentono solamente sulla sua psiche – trema, incespica,
sragiona. Strattona Jonathan fino a costringerlo a cadere contro il materasso,
lo assale e strappa la camicia che indossa.
Il
suono di un bottone che rotola per terra, piccolo ed insignificante, gli
rimbomba nelle orecchie – più forte dei gemiti, più debole della voce di
Jonathan che ripete, come un mantra, che nessuno nasce cattivo.
Sente
una delle sue mani stringere forte sui suoi capelli quando affonda il viso
contro il suo collo e morde, con l’intento di fargli male. Si prepara ad essere
strattonato via, ma dopo un primo momento iniziale le dita di Jonathan si
rilassano contro il suo scalpo.
È
in quel momento che Dio realizza di essere in trappola. Non c’è fine all’orrore
che può causare a Jonathan, perché non c’è fine alla buona fede che è disposto
a riporre in lui. La realizzazione solleva gli angoli delle sue labbra in un
ghigno che non ha nulla di divertito, la smorfia di un uomo sconfitto.
« Jonathan », lo chiama; come pronuncia il suo nome si trova
a riflettere su quanto spesso l’abbia pensato, nei mesi passati, su come abbia iniziato
ad associare a quel nome il duplice significato di odi et amo, uno di propria
spontanea volontà e l’altro inconsciamente. « Jonathan,
io ti odio. »
Si
solleva per guardarlo in volto. Jonathan invece evita il suo sguardo, il viso
rivolto ad un punto lontano e le guance rigate di lacrime. «
D’accordo. », sussurra. Non gli domanda il perché, passivo ed
accomodante.
« Niente cambierà mai il fatto che ti odio più di chiunque
altri al mondo. », continua. Jonathan annuisce, perfettamente consapevole.
Ma
è una bugia: Dio sa benissimo che non esiste una persona al mondo che potrebbe
odiare tanto quanto odia Jonathan, perché non esiste al mondo una persona che
lo meriti quanto lui – che meriti di essere il suo antagonista, ed il
protagonista dei suoi pensieri. Nel suo essere puro è il suo riflesso, la
figura che ha inconsciamente cercato nel ricordo di sua madre per tutti quegli
anni. Si china nuovamente verso di lui e posa la fronte contro il suo petto.
Il
cuore di Jonathan batte all’impazzata, tradendo la paura che l’espressione
malinconica cela perfettamente.
« Promettimi che non mi lascerai mai. », sussurra; o forse
lo pensa soltanto. Ma rimane addosso a lui fino a sentirlo addormentarsi,
mentre pensa e ripensa a se stesso e al significato
del suo legame a lui – a come sia arrivato ad ottenere una versione spettrale
di ciò che desidera realmente: il casato Joestar, e
Jonathan.
Nessuno
nasce cattivo, ma è altrettanto innaturale che qualcuno nasca puro e tale
rimanga fino al giorno della sua morte. È nella natura nell’uomo errare.
Dio
è certo che Jonathan non sia affatto privo di peccati. Se continuasse a vivere,
probabilmente finirebbe a commettere gli stessi errori di molti: odiare,
uccidere, tradire. Parte di lui desidera che viva per vederlo fallire e
ricadere nella massa di peccatori che costituisce il mondo – ma l’altra parte,
più irrazionale eppure ben più vocale nelle proprie proteste, preferisce
mantenere l’immagine che ha di lui di qualcosa di puro contro ogni aspettativa.
È
notte fonda, e ha abbandonato il calore del corpo inerme di Jonathan a favore del
freddo della notte. Al suo risveglio Jonathan troverà solamente una stanza
vuota, e forse penserà di aver sognato l’intera discussione. Se è abbastanza
sveglio noterà i pallidi segni di morsi sul labbro e sul collo ma, innocente
com’è, proverà comunque a trovare una soluzione logica ad un problema inesistente.
Dio
fischietta la semplice melodia di “My Fair Lady”, annodando un filo di rame
attorno al muso del cane che giace inerme di fronte a lui sul selciato che
circonda la casa. Non vede il corpo di Danny avanti a sé, ma l’espressione di
Jonathan – di JoJo
– divenire una maschera esangue di dolore. È una prova, per se
stesso quanto per Jonathan; più di ogni altra cosa, ora, desidera sapere quanto
in là può spingersi prima che lui si rompa, prima di perderlo per sempre.
Si
solleva in piedi, battendo le mani l’una contro l’altra per rimuovere il
sudicio. Nasconde il terreno macchiato di sangue rivoltandolo su se stesso con un piede, ammirando con soddisfazione i frutti
dei propri sforzi. Di lì a breve solleverà il corpo di Danny e lo chiuderà in
una cassa: saranno i servi a gettarla nell’inceneritore, scambiandola per
immondizia. Per allora lui sarà già lontano di casa, lontano dai pensieri di
Jonathan, dal suo sguardo d’accusa.
Al
ritorno si dimostrerà dispiaciuto per l’accaduto, quasi affranto. Poserà una
mano sulla spalla di Jonathan e si abbasserà al livello del suo volto per
mormorare: « Sono qui, qualsiasi cosa tu abbia bisogno
». Guarderà Jonathan negli occhi, e solo in quel momento scoprirà il risultato
della propria sfida.
Ma non ha nulla da
temere: già allora, mentre termina la propria parte in quell’ultimo atto della
tragedia, pregusta la vittoria. Vede già l’espressione del ragazzo, addolorata
ma empatica, priva di ogni sorta di accusa. Jonathan, pensa, non lo odierebbe
neppure se gli strappasse la vita dal corpo con le proprie mani nude.
Sorride. La
tentazione non è mai stata così forte.
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E pensare che io JoJo nemmeno volevo
vederlo. E pensare che io, dopo aver iniziato JoJo, credevo
che non avrei shippato nulla.
Mi sbagliavo di grosso. Maledetti.
Spero vi sia piaciuta e mi farebbe molto piacere ricevere del feedback
con commenti, opinioni e, perché no, correzioni o spunti di riflessione!
Alla prossima!
-Joice