Nono Capitolo
Appartamento di Dana Scully
Una settimana dopo
Ore 9.02 p.m.
Scully
stava scaldando dell’acqua sul fornello. Una bustina di camomilla attendeva di essere
messa in infusione, solitaria, sul ripiano della cucina. Indossava il suo
morbido accappatoio bianco di spugna e aveva intenzione di passare la serata
stesa in divano a guardare un po’ di tv, prima di buttarsi a letto, tra le
familiare e morbide coperte che non vedeva da più di sette giorni.
Era
tornata a casa quella stessa mattina. Mulder l’aveva accompagnata, non
fidandosi a lasciarla sola.
Aveva
passato tutta la precedente settimana nell’ospedale di New York, sotto stretta
osservazione dei medici, di Mulder, di sua madre e di Charlie.
I
suoi familiari erano arrivati la mattina seguente alla disavventura, scusandosi
per Bill e Tara che non erano riusciti a trovare qualcuno che tenesse loro la
bambina mentre erano via.
Sua
madre l’aveva osservata per tutto il
tempo con un’espressione sconvolta sul volto e aveva continuato a chiederle se
era certa di sentirsi bene, mentre guardava con occhi lucidi i lividi e i
gonfiori sul viso della figlia.
Mentre
Charlie non aveva fatto altro che sparare battute a raffica nel tentativo di
distrarre la madre e Scully stessa. I suoi tentativi erano stati sicuramente
apprezzabili, ma non avevano fatto altro che irritare ancora di più la madre,
mentre Scully, che si era sinceramente divertita ascoltando le ironiche parole
del fratello, era riuscita a ridere a tratti, perché la faccia le doleva per
ogni movimento.
I
primi tre giorni, i medici l’avevano obbligata a letto, con suo grande
disappunto, ma erano stati irremovibili. Aveva potuto iniziare a camminare da
sola, almeno per andare in bagno, a partire dal quarto giorno. Sua madre
l’aveva tenuta sempre d’occhio, con sguardi severi e preoccupati, ma Scully non
le aveva prestato molta attenzione. Aveva continuato a ripetere all’infinito a
tutti che si sentiva bene - almeno per quanto si può sentire bene una persona
che ha ricevuto una botta in piena tempia, che le ha provocato una commozione
cerebrale – ma sembrava che nessuno le avesse creduto fino in fondo.
Avevano
continuato tutti a trattarla come una bambina bisognosa di cure e la cosa, dopo
qualche giorno, aveva cominciato a irritarla parecchio, fu per quello che la
sera precedente, aveva gongolato silenziosamente, perché era riuscita a
convincere il suo medico a mandarla a casa, con la promessa di non ritornare
subito al lavoro e di strapazzarsi poco.
Scully
aveva accettato senza troppi tentennamenti. Da medico qual’era, sapeva che
avrebbe dovuto riposarsi e sottoporsi ad alcuni controlli per qualche tempo, ma
l’idea di potersene ritornare a casa, nel suo ambiente, l’aveva resa euforica.
Ma
ora, sola tra le familiari mura, si sentiva vulnerabile e a disagio. E non
riusciva a capire perché.
Uno
psicologo, probabilmente, avrebbe dato la colpa alla brutta esperienza che
aveva appena vissuto, ma lei non era del tutto certa che fosse l’unico motivo.
Di brutte esperienze, in sei anni di X Files, ne aveva fatte parecchie, se
avesse dovuto essersi sentita così tutte le volte, ormai non avrebbe avuto
nemmeno più il coraggio di fare due passi da sola.
Era
vero che questa era stata un’esperienza diversa dal solito, non li aveva
segnati soltanto nel fisico, ma anche nello spirito. Le parole che Ronald
Fresty aveva detto a Mulder, in quella maledetta cantina, sottintendevano
qualcosa che lei non aveva il coraggio di affrontare.
Nei
giorni passati in ospedale, Mulder non ne aveva più fatto parola, e lei si era
ben guardata dal tirare fuori l’argomento. Aveva la netta impressione che lui
non fosse molto propenso a parlarne.
E
se lei aveva interpretato correttamente il significato recondito di quelle
parole, come probabilmente lo aveva interpretato Mulder, capiva perfettamente
perché non avesse più cercato di riflettere con lei sulla questione, e di
questo era contenta. Non avrebbe saputo con che faccia affrontare un argomento
così delicato, che implicava una profonda indagine dei loro sentimenti più
intimi e inconfessati.
Un
bussare sommesso alla porta la distolse dalle sue congetture.
Andò
ad aprire, senza guardare dallo spioncino, tanto sapeva che era Mulder, le
aveva detto che sarebbe passato a vedere come stava.
Lo
fece accomodare, chiudendosi istintivamente con le dita la scollatura
dell’accappatoio.
“Ciao!
Come stai?”, le chiese appena entrato in casa.
“Mulder,
sono sette giorni che non pronunci altre parole”, gli disse in tono ironico,
“Stai diventando monotono”.
Lui
fece spallucce. “Come stai?”.
“Bene…”,
rispose allora Scully in tono accondiscendente, sbuffando leggermente.
Mulder
la osservò. Il livido sulla guancia era diventato di una sfumatura giallognola,
ma il gonfiore si era sicuramente attenuato. Il labbro aveva ripreso la sua
dimensione normale, restava solo una brutta cicatrice a ricordare il taglio.
L’occhio, invece, si era sgonfiato come la guancia, ma era ancora piuttosto
tumefatto e Scully faceva ancora fatica ad aprirlo del tutto.
Attorno
alla tempia non aveva più la fasciatura, ma un semplice quadrato di garza che
le copriva e proteggeva la ferita. Ora era perfettamente bianca e pulita, e
Mulder sospirò tra sé e sé, perché la paura dei medici era che la ferita si
riaprisse e ricominciasse a sanguinare.
Era
accaduto il secondo giorno di degenza.
Era
andato in hotel per una doccia veloce e, quando era ritornato in ospedale,
aveva visto la madre di Scully ferma in corridoio, i denti che tormentavano le unghie,
in uno stato di evidente preoccupazione. I punti di sutura avevano ceduto e la
ferita alla tempia di Scully aveva ripreso a sanguinare copiosamente, tanto che
i medici si erano chiesti se non fosse il caso di farle una trasfusione, per
aiutarla a ricostituire un numero adeguato di piastrine, per la coagulazione
del sangue.
Fortunatamente
non si era rivelato necessario e la ferita non si era più riaperta, ma la paura
di Mulder riguardava il suo ritorno a casa. Temeva che il trambusto avrebbe
potuto provocare un altro trauma, in fondo lei non si era ancora rimessa
completamente in forze, ma fu felice di constatare che i suoi timori erano
infondati.
Scully
appariva in buone condizioni, un po’ provata e stanca di sicuro, ma comunque
serena e rilassata. Probabilmente l’aria di casa stava giovando alla sua
convalescenza.
“Mi
stavo preparando una camomilla. Ne vuoi una?”. Scully lo riscosse dai suoi
pensieri, dirigendosi verso la cucina e tirando via dal fuoco una teiera
fumante
“Basta
che poi non mi addormenti al volante…”, rispose con il suo solito tono
canzonatorio. “Vuoi una mano?”, aggiunse avvicinandosi a lei.
“No,
grazie… direi che posso ricominciare a cavarmela da sola, no?”, nelle parole
c’era dell’ironia, ma anche una punta di frustrazione. Non le piaceva affatto
sentirsi così controllata in ogni suo movimento, era abituata ad essere una
donna adulta ed indipendente e tutte quelle attenzione morbose le stavano dando
ai nervi. Era vero che lui lo faceva col cuore, perché teneva a lei e alla sua
sicurezza, ma a volte aveva l’impressione di soffocare.
Si
sedettero al tavolo e sorseggiarono la bevanda bollente.
“Sai…”,
disse Scully! “… oggi pomeriggio è passato a trovarmi Skinner…”.
Mulder
deglutì e posò la tazza sul piattino. “Cosa voleva?”.
“Sapere
come mi sentivo, principalmente. Ma poi mi ha informata sul caso dei Fresty”,
prese un altro sorso di camomilla, “Mi ha detto che sono detenuti
provvisoriamente nel carcere di New York e che il loro processo è previsto tra
tre mesi, nei quali contano di raccogliere più prove possibili per avvalorare
la loro confessione. Sperano di riuscire ad ottenere l’ergastolo… anche se
Skinner era più propenso per un esecuzione capitale”, sorrise leggermente alle
sue ultime parole.
Mulder
alzò un sopracciglio. “Davvero? Non credevo che Skinner fosse un fervente
sostenitore della pena di morte”.
“Infatti
non lo è… credo che in questo caso giochi un ruolo importante la rabbia nei
loro confronti per averci messi in pericolo. Forse è un modo contorto di
sentirsi meno in colpa per non essere venuto in nostro aiuto subito…”.
Mulder
finì la sua camomilla e iniziò a raccontarle di un caso in cui si era
imbattuto.
Lui era rientrato in ufficio la mattina stessa,
dopo averla accompagnata a casa, e aveva iniziato a sistemare un po’ di scartoffie,
quando gli era balzato agli occhi un caso risalente al 1956, che non era mai
stato risolto. Le raccontò i dettagli, le indagini, i risultati delle autopsie
e disse, limpidamente, che secondo lui era stata una bella gatta da pelare, per
quegli anni, perché implicava la presenza di fenomeni paranormali, come il
poltergeist e lo spiritismo. Scully sorrise e gli rispose che secondo lei una
spiegazione razionale avrebbe sicuramente potuto risolverlo senza tanti
problemi.
Con
una punta di soddisfazione, Mulder la indusse a ragionare assieme a lui al
caso, scuotendo rassegnato la testa ogni qual volta lei liquidava le sue
fantasiose teorie con congetture noiosamente scientifiche e scontate.
“Andiamo
Scully! Un po’ di fantasia!”, la canzonò dopo una mezzora buona di botta e
risposta scettici, da parte di lei, e inverosimili, da parte di lui.
Lei
sorrise, scuotendo la testa.
Le
mancava quello squallido e minuscolo ufficio del seminterrato. Dopo sei anni
vissuti lì dentro era diventata come una seconda casa. Non l’aveva mai
veramente detto a Mulder, ma quando fu incendiato, circa un anno prima, aveva
sofferto quasi quanto aveva sofferto lui.
Il
dolore che gli aveva letto negli occhi, mentre il fumo gli si rifletteva nelle
iridi, le aveva stretto il cuore in una morsa. Quell’ufficio, quei casi, quelle
strane foto… il suo poster, erano la sua vita, lei lo sapeva perfettamente.
Avergli portato via gli X Files, per Mulder, significava avergli portato via
una ragione di vita.
Ma
non si sarebbe mai aspettata di provare anche lei una sofferenza così radicata.
Ormai,
la crociata di Mulder era diventata
anche la sua…
Sarebbe
tornata al lavoro il lunedì seguente, e, in quel momento, i sei giorni che la
separavano dal rientro, le parvero immensamente lunghi e vuoti. Sospirò
leggermente.
“Cosa
c’è?”, le chiese Mulder.
“Niente...”,
disse guardando le nervature del legno del tavolo da cucina, “Pensavo solo che
mi manca il lavoro”, sollevò il viso verso di lui con un sorriso triste sulle
labbra.
Mulder
la guardò per qualche istante, leggendo nei suoi occhi la sofferenza di
doversene stare pressoché chiusa in casa con le mani in mano. Era una donna
dinamica, intelligente, amava il suo lavoro. Capiva come doveva sentirsi.
Le
coprì il dorso della mano, dal polso slogato, con la sua.
“Devi
rimetterti bene in forze”, le disse serio. Poi tolse la mano dalla sua e si
posò, a braccia incrociate, allo schienale della sedia. “Non voglio una partner
più di là che di qua, che non mi riprende ogni volta che provo ad esporre una
teoria leggermente fuori dagli schemi!”.
Scully
alzò il sopracciglio sano. “Leggermente
fuori dagli schemi?”, fece una risatina, “Riduttivo direi!”.
Si
stuzzicarono un altro po’, battibeccando maliziosamente sui loro differenti modi
di guardare alle cose, poi Mulder buttò l’occhio sull’orologio e pensò fosse il
caso di lasciarla dormire.
Si
offrì di sciacquare le tazze, ma Scully gli disse che lo avrebbe fatto lei
l’indomani.
Prese
il cappotto dallo schienale del divano e si diresse alla porta.
Nel
momento in cui Scully lo vide in procinto di andarsene, provò una forte
sensazione di abbandono, che la lasciò momentaneamente spiazzata.
Non
voleva stare sola, questo era stato chiaro fin dal mattino. Ma che cosa voleva
fare? Chiedergli di restare a dormire sul divano?
Avrebbe
pensato che aveva paura a restare sola e si sarebbe preoccupato, continuando a
soffocarla di attenzioni, sincere senza dubbio, ma troppo pressanti.
Ma
perché non voleva restare sola? Non era paura, era qualche altro sentimento che
la faceva sentire inadeguata, ansiosa e l’unica cosa che le risollevava il
morale era l’idea di averlo vicino a sé.
“Bè…
buona notte Scully”, disse Mulder, una mano sulla maniglia della porta, “Ci
sentiamo domani”.
Scully
esitò un momento.
“Mulder…”,
ma si pentì immediatamente di averlo chiamato con quel tono quasi supplicante.
“Qualcosa
non va?”, chiese subito lui preoccupato.
“No.”,
si sforzò di rispondere prontamente Scully. “No, niente. Vai pure”, e gli
sorrise per rassicurarlo.
Lui
la fissò per qualche istante, tentando di capire se era vero che non c’era
nulla, ma lei abbassò il capo e gli negò l’accesso ai suoi pensieri e alle sue
emozioni.
Mulder
sentì l’impulso di andare da lei, stringerla e tenerla nel suo abbraccio tutta
la notte. Ma non ebbe la forza di farlo, né il coraggio. Se glielo avesse
chiesto lei sarebbe stato diverso, non se lo sarebbe fatto ripetere due volte.
Ma,
a quanto sembrava, lei non aveva intenzione di chiedergli una cosa del genere.
Non
sarebbe stato in stile Scully.
Lei
aveva sempre affrontato i suoi demoni da sola, raramente aveva chiesto aiuto…
Decise
di lasciarle i suoi spazi. Lei sapeva che se aveva bisogno di lui, sarebbe
accorso immediatamente.
Così
abbassò la maniglia della porta, pronto ad uscire.
“Ok…”,
disse infine. “Allora… buona notte Scully”.
Scully
alzò il viso su di lui e gli rivolse un sorrisetto.
“Buona notte Mulder”.