La mia altra storia scritta per il concorso “Il Sentiero
dei Draghi” (oltre a “Vivere con Stile”). Tema,
anche in questo caso “l’utopia” e la “distopia”. Questa
storia è anche arrivata tra le dieci finaliste, ma poi non è riuscita a salire
sul podio. Se visiterete il sito del circolo “Il
Sentiero dei Draghi” potrete trovare l’e-book in pdf
contenente questa e le altre nove storie finaliste. Comunque,
al momento, leggete questa – e commentate!
Double
face
di
Gan_HOPE326
Ancora, e sempre, noi urliamo.
Nel buio e nel dolore, ciascuno di noi solo in mezzo a
milioni di altri uguali a lui, urliamo la nostra fame, la nostra sete, la
nostra rabbia e le nostre mille altre sofferenze cui non riusciamo
nemmeno a dare un nome, dovrebbe essere una parola tanto lunga e aspra e
contorta ed amara che le lingue si seccherebbero e si piagherebbero al solo
pronunciarla.
Urliamo perché nessuno può sentirci.
Urliamo per non sentire le urla degli altri.
Urliamo perché non possiamo fare nient’altro.
La città di Aygith
è perfetta, proprio non si può descriverla altrimenti, questo Ianah lo pensa non appena mette piede fuori di casa e tutta
quella bellezza inonda i suoi sensi. Lo splendore dei tetti, dei muri, del
selciato, scolpiti in pietra ambrata e liscia, luminosi
nella luce del Sole, anche se è solo quella soffusa e aranciata del tramonto. Le voci lontane dei venditori che intonano canti in lode delle
proprie merci, modulate secondo note familiari. La sensazione del soffio
dolce del vento tiepido sulla pelle. Gli odori, fieno fresco
e pane e dolci appena sfornati e spezie in casse di legno stagionato, tutti
misti in un unico incantevole profumo. Il sapore che l’aria stessa
sembra avere.
La ragazza resta ferma per un lungo momento e assapora
tutto questo; poi si riscuote e comincia a camminare. Lentamente, perché la
strada da fare è poca, e poi vuole godersi la passeggiata, l’ultima che farà
come una normale ragazza di sedici anni in queste vie. L’ultima. Ad ogni passo,
un’emozione strana, ambigua, tremolante si intrufola
nel petto di Ianah. Non è proprio
paura, nessuno ha mai paura ad Aygith. Però. Deve essere qualcosa che c’entra con quel senso di
fine. Di solito, ben poche cose finiscono, ad Aygith.
La vita della città si ripete in cicli ormai familiari, consolidati in secoli
di tradizione. Perché dovrebbe cambiare, poi? E’
perfetta così. La vita degli uomini, invece, finisce, quella sì: ma lo fa con
dolcezza, al giusto momento, quando la vecchiaia se li porta via piano piano. Ad Aygith la morte non ti
strappa alla vita; ti prende tra le braccia e ti culla
finché non ti addormenti per sempre.
Ianah adesso
cammina nella via degli artigiani, un passo dopo l’altro, ne mancano ormai sì e
no un migliaio all’arrivo, e mentre passa riceve i saluti e gli auguri di coloro che incontra. La fioraia Lilin
le regala un giglio da mettere tra i capelli, ti renderà ancora più bella, giura,
come se ce ne fosse bisogno. La salutano il vecchio sarto Kock
e il falegname Maiak, e poi Terjan
il liutaio, Gidet il fabbro, Krise
l’orafa. Ciascuno di loro solleva gli occhi dal proprio lavoro per un momento,
le fa un cenno e poi torna all’opera, con passione, con amore per l’oggetto che
sta nascendo tra le sue mani. Non c’è
stanchezza nei loro gesti, non può esserci. Il loro lavoro servirà a
rendere Aygith ancor più bella. Non si può che
esserne felici.
E
infine, varcando la cinta circolare delle mura d’oro che racchiude il centro
della città, Ianah raggiunge il Tempio. Altissima
torre di giada che si stringe salendo verso il cielo, la base
un possente piede di gigante, la cima un’aggraziata danzatrice delle
nubi. E cupola dorata che splende rivaleggiando col Sole
stesso. E finestre di vetro sfumato in infinite
varietà di colori. Semplicemente, il Tempio.
Alla base della scalinata, scopre Ianah,
c’è sua madre che la attende, secondo l’usanza. Lei corre in fretta verso di
lei.
Buona fortuna per la Prova, le dice la donna, teneramente.
La ragazza annuisce, poi corre su, per le scale, verso la
soglia del Tempio, dove la attendono i Guardiani schierati in fila, suo padre,
e la Prova.
La vestizione è un rito lungo e complesso, ma dopo un’ora
è quasi finita. I Guardiani assistono in silenzio: spetta al padre del novizio
compierla. Prima c’è la tunica di lino bianco, da indossare sotto l’armatura.
Poi una lunga serie di accessori in cuoio e metallo.
Schinieri, guanti, cotta, spallacci. Il padre di Ianah
veste la figlia lentamente, e nel frattempo le ripete di non preoccuparsi, che
andrà tutto bene, certamente supererà la Prova, non è difficile. E figlio o figlia primogenito di Guardiano diventa sempre Guardiano a
sua volta, è la tradizione. Comunque non c’è da
preoccuparsi, non sei preoccupata, vero, Ianah? Certo
non più di te, papà.
L’uomo sorride mentre finisce di
allacciare alla vita della ragazza la cintura con lo spadino. Poi l’elmo.
Glielo posa sul capo tenendolo tra due mani leggermente tremanti. Il pennacchio
di piume di hyka vibra un po’. Ecco, fatto, dice
infine, e si allontana per osservarla, orgoglioso; Ianah
però fissa il medaglione dorato sul suo petto.
Quello non me lo dai?, chiede.
Il medaglione è il simbolo dei
Guardiani, dice il padre. Lo avrai domattina, dopo aver superato la
Prova. Seguimi, ora.
Tra il silenzio degli altri Guardiani, padre e figlia entrano in una stretta porta e scendono per una scala a
chiocciola. Buia. Lunga. Arrivano alla fine quando
sembra che fine non ce ne sia più e si ritrovano in una stanza di pietra, una
pietra grigia, brutta e mal tagliata che Ianah non ha
mai visto, con poche fiaccole fumose a fare luce e, al centro del pavimento,
una pozza d’acqua che è solo un buco slabbrato più o meno circolare. Il liquido
ondeggia piano ed è nero.
E
poi ci sono i suoni. Strascicati, disarmonici, spiacevoli. Eppure
umani. La ragazza prova una sensazione strana: disagio, la chiamerebbe, se la
conoscesse. Chiede al padre cosa siano quei suoni.
Sono urla, Ianah.
Cosa
sono le urla?
Voci di uomini disperati.
Disperati? Cioè?
Non pensarci. E’ l’acqua della pozza a fartele sentire.
Non sono… reali. Ascolta, devi solo restare qui per
questa notte. Chiaro? Solo questa notte. Resta qui.
Non farti distrarre. Recita l’insegnamento dei Guardiani. Lo ricordi?
Sì, papà. Noi crediamo nella Bilancia del Mondo. C’è peso
e contrappeso: e quanto viene tolto verrà dato. E via dicendo. Lo so a memoria, dalla prima all’ultima
parola.
Brava.
Però
non sono sicura di capire cosa voglia dire, fa Ianah
con un sorriso.
Capirai quando
sarai una Guardiana, conclude il padre.
Imbocca di nuovo le scale, sale su e scompare nel buio.
Ianah
guarda giù, nella pozza, e scorge il proprio elmo, ridotto a
un triste luccichio dorato ad almeno un paio di metri di profondità. E’
successo che dopo la prima ora Ianah proprio non
riusciva a resistere al tormento di quei suoni, quelle
urla, e ha cominciato a cercare di distrarsi, parlando a voce alta, tirando di
scherma con lo spadino; alla fine si è sporta sul bordo della pozza sperando di
vederci qualcosa, e l’elmo le è scivolato giù. Plof.
Così.
Perdere l’elmo non è un bel modo di cominciare la propria
carriera di Guardiano, immagina Ianah, e magari è
anche abbastanza per fallire la Prova. E più ancora di quelle urla la ragazza teme di deludere suo
padre. Perciò si sfila in fretta tutto quello che può dell’armatura,
tutto il metallo e la roba pesante. Resta a piedi nudi con la tunica di
lino. Prende un respiro, si tuffa.
L’acqua è fredda. Gelida. E sembra viscida sulla pelle,
come un groviglio di infiniti tentacoli. Divora la luce, non è davvero trasparente. Le fiaccole già
non si vedono più, Ianah è solo a
un metro di profondità, continua a nuotare, ma le braccia fanno male e l’aria
si consuma in fretta, perché in quest’acqua si fa
fatica, tanta. Ma ormai c’è quasi. Ha raggiunto il
fondo, e l’elmo.
No.
L’elmo, ma non il fondo.
L’oggetto metallico galleggia assurdamente sospeso
nell’acqua. Non ha senso, ma la ragazza non ha il tempo di riflettere, vuole
solo prenderlo, lo sfiora, si slancia in avanti, e nello stesso istante in cui
lo raggiunge e lo afferra sente un capogiro scuoterla. Il sangue le fa uno
strano su e giù nelle vene e la bocca dello stomaco le si
stringe mentre Ianah capisce di non sapere più
dove sia la superficie. La logica le dice che deve
essere dietro di lei, lei non si è mai voltata, ma i suoi sensi le dicono di
proseguire in avanti, che quello è l’alto, e infatti Ianah
lo fa, continua in quella direzione, spinge con le braccia, e quando è troppo
stanca per nuotare procede afferrandosi con le mani alle pareti del pozzo, come
se stesse scalando un muro, sempre con il dubbio di stare sbagliando direzione
e stare solo scendendo verso la morte.
La superficie arriva salvifica. Per prima cosa Ianah beve una sorsata d’aria, avidamente, grata; poi
riapre gli occhi mezzo accecati dall’acqua.
Non è più nella stanza. E’ all’aperto. Il paesaggio è
spaventosamente monotono; ovunque, grigie montagne di cenere, un suolo di sassi
taglienti, nemmeno un albero, sotto uno scuro cielo più che notturno. E soprattutto le urla. Non è più come nella stanzetta sotto
il Tempio; qui l’aria stessa sembra fatta di urla.
Saltano su e giù impazzite tra cielo e terra, cielo dove pesanti nuvole
violacee continuano a dissolversi, turbinare e riformarsi, e terra, dove tra le
dune e la sabbia nera si agitano e barcollano bianchi
spettri di cenci che, capisce Ianah adesso con
orrore, non sono altro che uomini e donne nudi, ridotti al minimo di sé, uomini
che ora avanzano verso di lei, occhi scavati, petto scheletrico, sguardi da
bestie in gabbia, mugghiando e ululando con le bocche spalancate. La ragazza
caccia un urlo e vorrebbe rituffarsi in acqua ma non
ci riesce prima che una mano scheletrica le afferri il braccio. Viene trascinata fuori dalla pozza tra parole sconnesse e
ammassate l’una sull’altra, chi è, che cos’è, che cos’è, una donna, una
ragazza, e cos’è questa cosa che ha addosso – e mani afferrano e strappano la
tunica di lino – ha un odore che non ho mai sentito, cosa c’è qua dentro, è una
cosa bianca e morbida – Ianah si è portata in tasca
una pagnotta fresca come spuntino – si mangia, assaggia, assaggia – bocche si
chiudono su quel pane disgustosamente zuppo d’acqua nera e lo divorano con
ingordigia – allora forse anche lei, anche lei, sì, sì – e Ianah
ha il tempo di sentire un morso all’altezza del polso destro prima di riuscire
a liberarsi con un grido da quella marmaglia, non è tanto difficile perché sono
molti ma hanno corpi spaventosamente magri e pallidi, liberarsi e tuffarsi
nuovamente in acqua. Le mani si tendono verso di lei. Le restano pochi secondi
per andarsene; prende un ultimo profondo respiro di quell’aria fetida e si
prepara a immergersi.
L’ultima cosa che vede di quel mondo orrendo
è lo sguardo di un uomo, in mezzo agli altri, puntato su di lei. Un uomo che non si agita né annaspa verso di lei, solo la fissa con
occhi gelidi che improvvisamente capiscono qualcosa. Tu vieni dall’altra parte del pozzo, dice.
Ianah scompare
sotto la superficie. Il suo capo e i suoi capelli
dorati si curvano in avanti per scendere sott’acqua, ed è come se annuisse.
L’uomo resta immobile, poi grida forte: lei viene dall’altra parte, lei viene dall’altra parte. Tutti gli altri raddoppiano le proprie
grida rabbiose e bramose e corrono a tuffarsi nella pozza ruggendo.
L’uomo, fermo, lascia che gli corrano intorno, e aspetta.
Aiuto, aiuto, la voce si intrufola
su per le scale a chiocciola, rimbomba nello stretto cunicolo di pietra, aiuto,
giunge nelle sale superiori del Tempio, dove il padre di Ianah
e gli altri Guardiani vegliano in attesa, aiuto, e in pochi istanti è un
clangore di armature, uno schioccare di stivali d’acciaio su pietra, i
Guardiani sono in piedi e corrono giù, con le mani alle spade. Trovano Ianah seminuda, fradicia di acqua
nera, che striscia sul pavimento verso l’uscita e continua a implorare aiuto,
aiuto. Suo padre la raccoglie e fa presto a coprirla con un mantello e portarla
in un angolo, insieme a due degli altri. Qualcuno si affaccia sull’orlo del
pozzo.
Il primo degli uomini dell’altra parte sbuca fuori dall’acqua con un verso animalesco; un Guardiano
indietreggia disgustato, poi estrae la spada ed è veloce a finirlo. Dal collo
tagliato uno schizzo di sangue spruzza fino addosso a Ianah, che ora si guarda allucinata le mani rosse. Sangue
in vita sua ne ha visto solo quanto ne può sgocciolare dal naso di un bambino
che ha fatto un ruzzolone. Che succede, balbetta, che
gli hanno fatto. L’hanno ucciso, spiega suo padre,
stringendola. Non avere paura, è tutto a posto, adesso. E’ morto.
Il Guardiano ribalta col piede il cadavere del bruto. Che schifo, dice. L’hanno seguita, mi sa.
Significa che la ragazza ha visto l’altra parte, ha visto
Htigya.
Htigya?, chiede Ianah,
Quel posto orribile?
Sì, quello. E’ una cosa che sanno
solo i Guardiani. Avremmo dovuto dirtela dopo. Non dovevi saperla così. Ecco,
guarda: e così dicendo il padre si sfila il medaglione d’oro, quello che la
figlia gli ha chiesto prima. C’è in rilievo la figura di una spiga di grano
rigogliosa su un sole. Nel porgerglielo lo gira, con un breve movimento delle
dita, e ne mostra l’altra faccia, che Ianah non ha
mai visto.
E’ nera e opaca come carbone, e
vi campeggiano un ramo secco e un teschio.
Questo medaglione, comincia a spiegare, rappresenta il Mondo,
Ianah. Ciò che noi custodiamo è il vero senso della
Bilancia. Il Mondo è fatto come questo medaglione: due facce, e su ognuna vi
sono montagne, città, e persone. Noi viviamo su questa, e indica la faccia
dorata, cioè Aygith; l’altra
è quella che hai visto, Htigya. L’unico collegamento
tra i due lati è quella pozza. Attraversandola, tu sei passata dall’altra
parte, l’avrai anche provata quella sensazione di capogiro, sì?, è la gravità che si sposta, quella, l’alto e il basso che
si ribaltano. I Guardiani difendono questo passaggio. Quelli dall’altra parte
non sanno nulla. Se qualcuno di loro arriva per caso
fin qui, dobbiamo impedire che vada a raccontarlo.
E lo
uccidete.
Sì.
Perché? Perché vivono in quel modo?
Ianah, è
stato stabilito così. E’ una forma di equilibrio. E’
la Bilancia. Come la materia non si può creare né distruggere, così anche gioia
e dolore hanno un loro modo di conservarsi. Loro devono esistere perché esistiamo noi. Sono la nostra controparte. Aygith la splendente e Htigya l’oscura, città gemelle e indivisibili. La loro sofferenza
bilancia la nostra abbondanza, le loro urla i nostri
canti. Il passaggio deve restare aperto, anche questo è stato stabilito; ma se
li lasciassimo passare, se unissimo le due metà, tutto cadrebbe in un solo
grigiore, un mondo in cui tutti sono costretti a vivere in una perpetua
alternanza di felicità e sofferenza, un mondo assurdo, confuso. Vorresti vedere
sparire la bellezza di Aygith
per questo?
La ragazza non risponde nemmeno, sconvolta com’è, e
guarda invece verso la pozza. Un’altra ventina di quelle persone sono riuscite ad arrivare a nuoto da questa parte; i
Guardiani hanno trucidato tutti con sistematica seraficità. I più sono stati
decapitati, qualcuno trafitto. Uno ha la testa spaccata in due ed è ancora
scosso da qualche spasmo. Il sangue rosso e l’acqua nera allagano il pavimento.
Dovrai tenere il segreto,
le dice il padre. Non potrai essere una
Guardiana, hai fallito la Prova. Ma non dovrai
riferire a nessuno quello che hai visto. La maggior parte della gente di Aygith non tollererebbe un
simile orrore. Questo è un fardello che portiamo solo noi Guardiani, per il
bene di tutti. D’accordo?
Ianah si
stringe un po’ più forte nel mantello che la veste e chiude
leggermente gli occhi che fino ad ora ha tenuto spalancati.
Non mi importa nulla di non
diventare Guardiana, sussurra. E non dirò niente a
nessuno. Solo, portami fuori di qui. Non voglio più sentire queste urla in vita
mia.
A Htigya, l’uomo che ha capito fissa
la pozza nella quale sono spariti i suoi compagni. Vede un filo rosso salire
fino alla superficie. Ci intinge il dito, lo assaggia.
Sangue. Capisce che dall’altra parte non esiste speranza. Probabilmente non c’è
modo di superare chi guarda quel passaggio; e se anche fosse sufficiente essere
in gran numero, nessuno si persuaderà ad oltrepassarlo. Quelli che l’hanno
fatto si sono convinti solo perché hanno visto la ragazza, ma adesso sono tutti
morti.
Ma
lui andrà a dirlo, decide. Girerà la sua terra in lungo e in largo. Lo
racconterà a tutti, che esiste un mondo migliore, e
che loro ne sono esclusi. Anche se servirà solo, per
contrasto, ad aumentare la loro disperazione, a rendere più acute e dolorose e
penetranti le loro urla. In fondo, urlare è l’unica cosa che possono
fare.
Urliamo, quindi, pensa mentre si
allontana.
La prima ad accorgersene è Ianah,
una notte. Le succede perché lei quelle urla le sogna spesso, ora, e quando si
sveglia di soprassalto le sente svanire assieme al sonno. Stanotte non
svaniscono. Stanotte, distanti, flebili, sono reali. La ragazza capisce che ora
non potrà più liberarsene, nemmeno di giorno, da sveglia, mai. Si rannicchia
tra le lenzuola e le viene da piangere.
Poi è la volta degli animali, che si fanno inquieti.
Alcuni deperiscono e muoiono. Altri impazziscono. Un cavallo imbizzarrisce e
storpia un ragazzino con un calcio; non è mai successo niente del genere ad Aygith. Nessuno sa cosa fare. Il ragazzo non viene curato, la gamba gli si gonfia sempre di più e si fa
nera. Muore di cancrena un mese dopo, quando ormai le urla sono diventate così
forti che possono sentirle tutti. La gente di Aygith conosce per la prima volta la perdita, e la vita
della città si disfa poco a poco, avvelenata dalla paura e dall’angoscia che
quelle urla trasmettono.
I Guardiani organizzano una spedizione a Htigya per indagare. Salta fuori che c’è qualcuno che gira
e predica in quelle terre l’esistenza di un altro luogo da cui loro sono
esclusi. La gente di Htigya si è
fatta più rabbiosa, le sue urla sono più aspre. La spedizione riposta
indietro anche un prigioniero, ma, abituato com’è al dolore, resiste ad ogni
tortura ed è impossibile estirpargli informazioni sul sobillatore. Una seconda
spedizione parte, e non torna più. Tra i suoi membri c’è anche il padre di Ianah.
Ad Aygith la vita
serena è solo un ricordo. Le urla hanno distrutto la tranquillità, hanno
devastato gli allevamenti, hanno minato la ragione degli abitanti; ora
cominciano ad essere tanto potenti da insidiare gli
edifici. Le vetrate del Tempio scoppiano una ad una, lasciando l’edificio
imbruttito da molti fori frastagliati. Poco tempo dopo non resta una sola
finestra intatta in tutta la città, e sono i muri a cominciare a creparsi. Le
case più deboli iniziano a crollare.
Presto non avranno più limite. Presto la predicazione
giungerà in ogni angolo di Htigya, e allora le urla
supereranno ogni immaginazione. A quel punto, sotto la spaventosa pressione di
quei suoni, vibrando all’unisono con migliaia e migliaia di gole sofferenti, le
montagne si sbricioleranno, il suolo si frantumerà, laghi e fiumi tracimeranno,
la città verrà rasa al suolo, e infine il disco stesso
del Mondo si spezzerà in due, distrutto dalle grida. Quel giorno, prima che la
morte giunga per tutti, gli abitanti di Aygith avranno il tempo di provare un ultimo istante di
dispiacere per la loro magnifica città destinata a scomparire, e avranno
ragione; e gli abitanti di Htigya potranno solo
gioire per aver finalmente ottenuto vendetta, o giustizia, e aver messo fine
all’ipocrita bugia di un’abbondanza fondata sulla sofferenza, di canti che
coprono le urla.
E
avranno ragione anche loro.
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