Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: ninety nine    13/04/2019    4 recensioni
Brescia, 1932. Alessandro Franzoni è un operaio che non condivide le idee radicalmente socialiste del padre e del fratello Michele, ma nemmeno quelle fasciste che dilagano in Italia. Quando un evento drammatico sconvolge la famiglia Franzoni, Alessandro, Michele e il più piccolo Sebastiano si troveranno a fronteggiare il dolore, la rabbia e lo stravolgimento, contando soltanto sulle loro forze. Tre fratelli maschi dai rapporti talvolta burrascosi, ma forti dell’affetto reciproco, davanti ad una situazione delicata e più grande di loro: riusciranno a fronteggiarla senza lasciarsi dividere?
[Spin off della mia long Guerra, ma leggibile senza conoscere le vicende della long]
[Partecipa al contest “Brother, my brother di Elettra.C sul forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Novecento/Dittature
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
If the sky comes falling down



 

***




Quella sera, Alessandro rientrò stanco a casa. Il lavoro in fabbrica pareva svuotarlo ogni volta, lasciandolo come un involucro vuoto. Tutto quello che sognava a quel punto della giornata era una bella dormita. Il suo lavoro non gli piaceva, ma accettava con muta rassegnazione quella vita, consapevole che c’era gente che stava notevolmente peggio.
Le strade erano praticamente deserte: gli straordinari gli avevano impedito di staccare e aveva finito più tardi del solito. Per di più, si era messo a piovere: la gente probabilmente, a quel punto della giornata, era rintanata in casa davanti a una zuppa di minestra. Alessandro sospirò: anche lui nel giro di poco sarebbe stato al caldo. Stringendosi nella giacca che indossava, il ragazzo si ripromise di ricordare a Michele di smetterla di fare il rivoluzionario. Lui era al sicuro, non potevano toccarlo perché era ben protetto dai colleghi; era dunque Alessandro che ne pagava le conseguenze, in quanto più vulnerabile. Per ora, gli toccavano solamente straordinari non pagati, ma nessuno poteva sapere cosa sarebbe accaduto poi.

Papà è stato licenziato proprio perché faceva il rivoluzionario, non possiamo permetterci che licenzino anche te. Le camicie nere uccidono per molto meno: se arriva loro la voce che non uno, ma due Franzoni giocano a fare i socialisti, possiamo considerarci tutti belli ammazzati. E poi a che cazzo servono gli scioperi e i volantini se finiamo sotto terra, eh, Michele? A farci rivedere mamma, al massimo, ma sinceramente preferirei aspettare ancora un po’!

Mentre camminava, Alessandro preparava il discorso da fare al fratello. Era successo altre volte che litigassero per quel motivo e di solito era Sebastiano che interveniva per calmarli. Prima di morire, loro madre diceva sempre che Sebastiano era destinato a grandi cose, anche se era il più piccolo della famiglia. E anche Alessandro, che pur si limitava ad una visione pratica della vita e delle persone, riconosceva al fratello più piccolo la capacità di vedere la realtà con incredibile lucidità.
Camminando a passo svelto, passò accanto al bar dove i fascisti amavano ritrovarsi. Il ragazzo si sentì i loro occhi addosso e lanciò loro un’occhiata. Un uomo grande e grosso, accanto al quale era seduto un ragazzino spaurito che Alessandro riconobbe come un amico di Sebastiano, rise con disprezzo quando lo riconobbe. Si chinò a dire qualcosa al compagno al suo fianco e alzò il bicchiere nella sua direzione. Tutto il gruppo scoppiò in una risata, tranne il ragazzino. A guardarlo bene, pareva sotto shock.
Alessandro alzò gli occhi al cielo, continuando a camminare. Non si preoccupò troppo di quell’atteggiamento: bastava non aver abbracciato la filosofia dell’olio di ricino e manganello per meritarselo. Ma fu ben attento a non farsi vedere mentre mostrava tutto il suo disappunto: pareva essere l’unico della famiglia in grado di mantenere un profilo basso di fronte ai fascisti e non aveva intenzione di farsi notare proprio in quell’occasione.
A passi svelti raggiunse la casa: una costruzione bassa e tozza, noiosamente simile a tutte le altre del circondario, ma capace di fare il suo mestiere. Sapeva che probabilmente ci sarebbe stato soltanto Sebastiano: nonostante i suoi quindici anni, lui spesso la sera stava a casa dato che gli amichetti erano vincolati al volere dei genitori molto più rigidamente di lui. Michele probabilmente era chissà dove a discutere di libertà e di socialismo e suo padre sarebbe rincasato tardi, come sempre da quando era stato licenziato. Nessuno dei tre fratelli sapeva bene cosa combinasse, ma tutti sospettavano che lavorasse nel mercato nero per guadagnare qualche soldo.
In casa, tutte le luci erano spente, anche quella nella camera che i tre fratelli condividevano.

“Sebastiano?” provò a chiamare Alessandro, togliendosi la giacca umida di pioggia.

Non ricevendo risposta, il ragazzo si affacciò alla porta della camera e accese la luce. La scena che si presentò davanti ai suoi occhi lo lasciò stranito e preoccupato.
Sebastiano e Michele erano sdraiati nello stesso letto, il che, da solo, faceva temere il peggio ad Alessandro. Sebastiano, infatti, aveva da sempre cercato l’autonomia. Il padre diceva che era un bene voler combattere da soli le proprie battaglie, ma quella ricerca aveva cacciato Sebastiano, fin da piccolo, in parecchi guai. Dal canto suo Michele era sempre stato pronto a rispettare le esigenze del fratellino, vegliando su di lui con costanza, ma senza superare mai le barriere che Sebastiano ergeva intorno a sé. Lo stava facendo anche ora, ma tutte quelle barriere sembravano scomparse, mostrando un Sebastiano bambino, fragile come non lo era mai stato.
Dormivano entrambi: i capelli ricci di Sebastiano erano imperlati di sudore e le sue guance erano evidentemente bagnate di lacrime. Tremava anche nel sonno, come se stesse rivivendo una scena di continuo, senza poter far nulla per evitarla, e stringeva a tratti la coperta tra i pugni. Michele lo abbracciava da dietro, materno, come a volergli trasmettere una serenità che, si capiva dalle sue sopracciglia aggrottate, nemmeno lui aveva.
Preoccupato, Alessandro si accovacciò accanto al letto, poggiando una mano sulla spalla di Michele per svegliarlo. Non appena lo sfiorò, questi scattò con la paura negli occhi.

“Sono io.”

Nel riconoscere il viso famigliare del fratello, Michele si rilassò appena. Ma, sotto la spalla di Alessandro, i sui muscoli continuavano ad essere contratti.
Nel vederlo in quello stato, tutta la volontà di sgridarlo di Alessandro sfumò. Era visibilmente spaventato e sconvolto: di certo qualcosa era accaduto. All’improvviso gli tornò in mente il bicchiere che la camicia nera aveva alzato verso di lui, fuori dal bar: che centrasse qualcosa?

“Michele, cosa è successo?”

Avendo cura di alzarsi piano per non svegliare Sebastiano, Michele si sedette sul bordo del letto. Un paio di lacrime solitarie solcarono le sue guance, ma lui fu rapido ad asciugarle. Con la mano accarezzò i capelli biondi del fratello, scostandoglieli dal viso. Alessandro non sopportava quel silenzio, né il non sapere perché i suoi fratelli fossero così sconvolti. Strinse quindi più forte la presa sulla spalla di Michele, finché questi si alzò.

“Vieni di là.”

A passi stanchi, Michele si spostò in cucina, seguito da Alessandro.

“Michè, me lo vuoi spiegare che cosa è successo? Non avrai mica tirato Seba dentro ai giri rivoluzionari tuoi e di papà, vero? Sei impazzito? Ci ammazzano tutti!”

Il maggiore dei due si stava spazientendo: mentre parlava il suo tono di voce era cresciuto: ora stava quasi urlando. Si avvicinò al fratello e lo prese per le spalle, scuotendolo come era solito fare quando litigavano. Solo che, di solito, Michele rispondeva a tono. In quel momento invece sembrava non avere le forze di fare nemmeno quello.
Guardandolo in faccia, Alessandro notò che aveva un labbro spaccato. Il ragazzo gli strinse il mento con una mano, cercando una reazione.

“Hai fatto a botte con una cazzo di camicia nera, eh? Ecco perché Ghidini se la rideva in quel modo quando mi ha visto passare!”

Nel sentire il nome di Ghidini, Michele parve riscuotersi e si sottrasse con rabbia alla presa del fratello.

“Quel nome è bandito da casa nostra” sibilò tra i denti. Poi si sedette sulla sedia più vicina.

“E comunque non sono state le camicie nere, è stato Seba, dopo che…”

“Cosa vuol dire è stato Seba?” urlò l’altro ragazzo, ormai fuori di sé.

La sua indole pratica gli rendeva intollerabile il fatto che Michele non riuscisse a parlare.

“Vuoi lasciarmi finire, per una volta? Credi che sia facile per me?” urlò l’altro di rimando, scattando in piedi.

“Non lo so se sia facile o meno per te, perché non so cosa è successo! E non è da te essere…così!”

“Papà è morto, Alessandro, cazzo! Papà è morto, sei contento? Ammazzato di botte dalle camicie nere!” urlò Michele, sbattendo i pugni sul tavolo.

Un lampo di terrore passò negli occhi del maggiore. Fece due passi indietro e appoggiò la schiena contro il muro freddo della cucina. La frase gli rimbalzava in testa, come una cantilena che faticava ad acquistare significato.

“Papà è morto” disse di nuovo Michele, questa volta sottovoce, accasciandosi sulle braccia e lasciando ciondolare la testa. Le lacrime presero a scivolare abbondanti sul suo viso.

Alessandro vedeva la sua schiena scossa dai singhiozzi. Si rese conto in un lampo che probabilmente Michele non aveva ancora pianto, perché aveva dovuto mostrarsi forte davanti a Sebastiano. E si rese conto di dover fare lo stesso per lui, in quel momento, anche se avrebbe soltanto voluto correre via per affrontare quella notizia in solitudine. Avrebbe voluto protestare, sbattere i pugni, maledire il mondo, ma non poteva. Non aveva mai visto suo fratello in quello stato. Suo fratello, che urlava contro ogni ingiustizia, che faceva lo spavaldo davanti alle camicie nere, che attaccava volantini socialisti sui muri della città, di notte, incurante del pericolo; il suo Michele, che non aveva mai pianto, nemmeno quando era morta mamma, ora era lì, davanti a lui, scosso da singhiozzi profondi.

“Michele…” lo chiamò piano Alessandro.

Il ragazzo parve non sentirlo, ma il maggiore sapeva che lo faceva perché era arrabbiato con lui, perché non gli aveva lasciato i suoi tempi e gli aveva cavato la verità di bocca costringendolo a bagnare di lacrime salate quella ferita appena inflitta.

“Michele, mi dispiace.”

Facendosi forza gli si avvicinò, piano. Gli appoggiò una mano sulla spalla, quella stessa spalla che aveva scosso per svegliarlo, in cerca di una verità che faceva malissimo.
Il minore cercò di sottrarsi al tocco, ma Alessandro gli strinse anche l’altra spalla e lo tirò a sé, tenendolo ben stretto nonostante sentisse i palmi del ragazzo premuti contro il suo petto per spingerlo via. Piano piano, sentì la resistenza del fratello scemare e lo sentì abbandonarsi contro il suo petto. Lo strinse forte, a lungo, finché i suoi singhiozzi non si esaurirono. Pianse anche lui, sommessamente, sperando che nessuno entrasse in quel momento. Durante il fascismo piangere era inammissibile: ci si poteva ammazzare, ma piangere, quello mai.
Quando sentì che Michele si era finalmente calmato, piano piano lo lasciò andare e si sedette a terra contro il muro. Il fratello gli si accomodò a fianco. Alessandro avrebbe voluto fargli mille domande, ma sapeva che non era il momento. Avrebbe probabilmente suscitato un nuovo scatto di ira e né lui né Michele ne avevano bisogno in quel momento. Rimasero lì, uno accanto all’altro, per un tempo che ad Alessandro parve infinito. Fu Michele a rompere il silenzio.

“Sebastiano ha visto tutto” disse piano.

“È morto davanti ai suoi occhi.”

Alessandro sentì il cuore sprofondargli nel petto. Non avevano alcun diritto di far provare quel dolore a nessuno. Non a Michele, non ai suoi vent’anni, ma soprattutto non a Sebastiano, che di anni ne aveva quindici e non avrebbe dovuto portare il peso di tutta quella violenza. All’improvviso, sebbene bruciasse dal bisogno di sapere, Alessandro volle proteggere Michele anche solo dal ricordo di quello che avevano vissuto.

“Non devi raccontarmelo. Non se ti fa male.”

Michele scosse la testa.

“Hai il diritto di sapere. Non è facile, ma ho fatto di peggio, no?”

Michele sorrise amaramente. Pareva voler sdrammatizzare la situazione con quelle parole, ma le sue spalle chine e contratte e la smorfia che aveva sul viso rendevano vano il tentativo. 

No pensò Alessandro.

No, questa è decisamente la cosa peggiore che ti sia capitata.

Tuttavia annuì, intravedendo in quella frase l’ombra del Michele che aveva conosciuto fino all’ora prima.

“Sono venuti a prenderlo in fabbrica. Hanno detto che non aveva alcun diritto di stare lì. Non so perché ci fosse venuto, non ne ho idea. Ma ho visto che lo trascinavano via e che lo picchiavano. Ho chiesto a Simone, sai chi è?”

Alessandro annuì. Conosceva bene il collega di suo fratello e si fidava di lui. Ovviamente, a Michele non l’aveva mai detto, aveva sempre criticato le sue compagnie, ma sapeva del legame che li univa ed era certo che mai si sarebbero traditi. Ammirava quel loro cameratismo, quella cieca fede reciproca: dimostravano una fiducia nell'umanità altrui che lui aveva perso da tempo. Quella sera, tutta la speranza che gli era rimasta si era sgretolata.

Papà continuava a pensare mentre Michele parlava.

Papà.

“Ecco, ho chiesto a Simone di coprirmi e gli sono corso dietro. Ho perso un po’ di tempo, ero parecchio indietro, se no forse avrei potuto fare qualcosa.”

“No, Michele, avrebbero ammazzato anche te, lo sai.”

Alessandro fu rapido a fermare il fratello su quel punto. Il senso di colpa dilaniava dentro, e lui non voleva che Michele lo provasse. Non era colpa sua e non doveva pensarlo: ne sarebbe uscito distrutto. Alessandro gli leggeva in viso la consapevolezza della sua impotenza, ma anche il fatto che non poteva che sentirsi colpevole. Quella cosa lo faceva stare ancora peggio. La sofferenza del fratello era un boccone amaro che gli si fermava in gola, accrescendo la sua angoscia.

“È quello che ho detto anche a Sebastiano: l’ho visto correre davanti a me, penso li abbia visti in piazza, non lo so bene, ma urlava come un pazzo di smetterla, che era suo padre, che l’avrebbero ammazzato. Allora ho raggiunto lui, l’ho tenuto stretto. Non voleva arrendersi, ma non gli ho permesso di fare cose che l’avrebbero messo nei guai. Però io continuo a chiedermi cosa sarebbe successo se fossi intervenuto, se avessi potuto salvarlo in qualche modo.”

Nuove lacrime scivolarono sulle sue guance.

“L’hanno preso a pugni, a calci, a manganellate… nessuno è intervenuto. Nessuno. Chiudevano le finestre, cazzo, pur di non sentire le urla.”

“Non avreste potuto fare nulla. Michele, ascoltami, non è colpa tua. Non è colpa tua, d’accordo? Cacciatelo in quella tua testa vuota, non è colpa tua.”

Così dicendo gli afferrò la testa tra le mani, tirandolo a sé, come faceva il padre quando dicevano qualcosa di stupido. Soltanto in quel momento si rese conto che erano rimasti da soli, loro tre, e che il peso di Michele e Sebastiano ora era completamente sulle sue spalle. Si sentì all’improvviso piccolo di fronte a quella responsabilità. Come previsto, Michele si divincolò in fretta.

“Lo so.”

Restò in silenzio qualche istante.

“Anche Arturo c’era.”

Alessandro percepì la fatica con cui quelle parole uscirono dalla bocca di Michele.

“L’amico di Seba? Era con voi?”

Michele scosse la testa.

“Era con loro. Con i fascisti.”

Alessandro sentì un conato di vomito risalire il suo stomaco. Dunque il marcio era arrivato a toccare anche persone che ne erano state immuni fino a quel momento. In che mondo vivevano, se gli amici diventavano nemici e arrivavano ad ammazzare i tuoi famigliari? Arturo era terrorizzato dal padre, certo, ma fino a quel momento Sebastiano era stato capace di tenere l‘amichetto lontano dalla violenza. Iniziava a capire ora perché fosse tanto sconvolto. In pochi minuti aveva perso il padre e il migliore amico. Iniziava anche a capire la rabbia che aveva sempre animato Michele e papà, il senso profondo dei loro discorsi di antifascismo.

“E Seba?”

“È sconvolto. Dice di odiare Arturo e sostiene che noi non abbiamo fatto abbastanza per salvare papà.”

“È per quello che ti ha rotto il labbro?”

“Non sgridarlo.”

Alessandro scosse la testa. Di certo Sebastiano non aveva bisogno di un rimprovero in quel momento. Alessandro conosceva la sensibilità del fratellino e per un istante percepì tutte le emozioni che doveva provare in quel momento. Erano schiaccianti.

“Credi che lo farei, proprio ora?”

Michele si lasciò scappare un sorriso amaro.

“Quando i fascisti se ne sono andati, Seba si è precipitato da papà. Io l’ho lasciato fare, non pensavo che fosse morto, Quando mi sono reso conto che lo era…”

 A Michele scappò un singhiozzo e Alessandro fu pronto a posargli una mano sul braccio. Il più piccolo inspirò profondamente.

“Quando mi sono reso conto che lo era, gli sono stato vicino. Avrei dovuto andarci io per primo e portare Seba via da lì il prima possibile, per risparmiargli la visione. E invece ho lasciato le lo abbracciasse, che sentisse il corpo freddo contro il suo, che quell’immagine si fissasse nella sua mente. Non sembrava più nemmeno papà, era…”

Il ragazzo fece una pausa. Le parole non gli uscivano di bocca. Michele, sempre così chiacchierone, così prolisso, capace di dire cose che gli altri a malapena sapevano pensare.

“Non riesco nemmeno a dirlo. Lo vedo, davanti a me, lo vedo ma non riesco a descriverlo. E so che anche Seba lo vede, ed è colpa mia, che non l’ho tirato via abbastanza in fretta di lì. Non dire che non lo è, non dirlo nemmeno.”

Alessandro, che stava proprio per dire che non era stata colpa sua, rimase zitto. Michele aveva bisogno di sfogarsi ora: sarebbero tornati su quella parte di discorso un’altra volta.

“Non so quanto siamo stati lì; tanto, credo. Per un po’ Arturo ci ha fissato, non so se volesse scusarsi, poi è scappato via come un coniglio.”

“Non dirlo, Michele. L’ho visto, c’era anche lui al bar con Ghidini: era terrorizzato. Non sa quello che sta facendo.”
Stava davvero difendendo uno degli assassini di suo padre?

Sì, perché in fondo quel ragazzino gli faceva pena. Nient’altro che pena.

“Cosa devo fare? Perdonarlo? Porgere l’altra guancia e farmi ammazzare anche io?”

Michele si era scaldato nuovamente e si era alzato sulle ginocchia. Tirandolo nuovamente seduto, Alessandro si scusò.

“No. Hai ragione, sono stato stupido a dire quella cosa ora.”

“Ma la pensi.”

Il tono del ragazzo era accusatore.

“Michele.”

Alessandro non era dell’umore giusto per sentire una delle tirate di Michele sul fatto che, poiché non faceva nulla per andargli contro, anche lui appoggiava il fascismo e aveva permesso a Mussolini di salire al potere. Non con il fantasma di suo padre che pareva osservarli da ogni angolo buio della casa.
Evidentemente, nemmeno Michele era dell’umore giusto, perché si lasciò rabbonire subito. Alessandro poteva comprendere solo in parte le emozioni che dilaniavano il suo animo in quel momento.

“Fatto sta che Sebastiano ad un certo punto si è alzato ed ha iniziato a camminare verso casa. Sembrava un automa tanto era freddo. Non piangeva, non più, camminava con i pugni stretti e basta. Non sapevo cosa fare, e gli sono corso dietro. È arrivato così fino a casa, poi è scattato di colpo. Come una molla carica, mi ha fatto paura. Ha iniziato a dirmi che mi odiava, perché non avevo salvato papà. Che mi odiava perché l’avevo lasciato lì a bordo strada e non avevo nemmeno portato il suo cadavere a casa. Che mi odiava perché non l’avevo lasciato intervenire. Era un fiume in piena, ci ho provato a farlo ragionare, ma non c’è stato verso. Ad un certo punto si è scagliato contro di me e ha preso a picchiarmi. L’ho lasciato fare, sapevo che doveva sfogarsi. Forse mi sentivo anche troppo in colpa per fermarlo: sentivo di meritarmi tutti quei colpi.”

Michele abbassò lo sguardo trattenendo altre lacrime.

“Dopo poco si è fermato, ha guardato me, poi le sue mani, ed è corso in camera sbattendo la porta.”

La voce di Michele tradiva il dolore che provava nel rivivere quei momenti. Alessandro era come pietrificato. Vedeva davanti agli occhi tutto ciò che Michele gli stava raccontando e non riusciva nemmeno a capire quale fosse l’emozione che prevaleva. Si sentiva dilaniato, ma ammirava il fratello per la forza che aveva dimostrato. Non sapeva se lui ce l’avrebbe fatta.
Sentendo che il fratello non diceva nulla, Michele continuò.

“Ho provato a chiamarlo, a farlo uscire, non volevo entrare e violare il suo dolore. Ma ero preoccupato, lo sentivo piangere e non volevo lasciarlo solo. Allora sono entrato: era sdraiato sul letto, raggomitolato su sé stesso e piangeva in una maniera che mi stringeva il cuore. Mi ha chiesto scusa, ha detto che si odiava perché picchiandomi era diventato come loro. Ha visto che il mio labbro sanguinava e ha iniziato a piangere ancora di più. Non gli ho detto nulla, mi sono solo sdraiato accanto a lui e l’ho abbracciato fino a che non si è addormentato. Era sfinito, ma neanche il sonno gli ha portato via il dolore. Ad un certo punto, non so bene, mi sono addormentato anche io. E poi ci hai trovati.”

Silenzio. Solo silenzio.
La storia era finita.
Sembrava un incubo, ma non c’era possibilità di svegliarsi.
Alessandro aprì la bocca, ma non gli uscì alcun suono.
Non sapeva cosa dire: tutta la sua pragmatica razionalità era scomparsa.
Gli uscì un suono che sembrava un rantolo.

“Non sai cosa dire.”

Quella di Michele non era una domanda: era una costatazione.
Alessandro scosse la testa: il dolore gli chiudeva la gola. Gli pareva di non riuscire a respirare, ora che aveva sentito tutta la storia. Avrebbe voluto trovare le parole per confortare suo fratello: dirgli che sarebbe andato tutto bene, che non c’era pericolo, ma sapeva che non era così e non gli riusciva essere ottimista. Sapeva che ogni giorno passato senza i fascisti alla loro porta poteva essere considerato un dono, da quel momento in avanti.
All’improvviso, in corridoio si sentirono dei passi. I due ragazzi scattarono in piedi. Ma a comparire fu soltanto Sebastiano. Aveva l’aria confusa, intorpidita dal sonno e dal dolore. Alzò verso di loro i suoi occhi azzurri, ancora arrossati per le lacrime.

“Seba…” fece per parlare Alessandro, ma il ragazzino fu più rapido.

“Vi ho sentito litigare, prima.”

Il senso di colpa attanagliò Alessandro e lo stesso lampo passò negli occhi di Michele. Presi dal discorso, entrambi si erano dimenticati che Sebastiano era nell'altra stanza che dormiva. Immaginò il suo orrore, nello svegliarsi senza nessuno accanto in preda ai ricordi.

“Va tutto bene, Seba, abbiamo risolto.”

“Non lasciamo che ci dividano, per favore.”

Nelle sue parole, Alessandro percepì l’ombra di una paura irrazionale: quella dell’essere lasciato solo dai fratelli. Non lo avrebbe permesso che accadesse. I fascisti non li avrebbero divisi.

“Non succederà, Seba. Davvero, non succederà” disse Michele.

Ci credeva davvero o stata soltanto rassicurando il fratellino?

“Vieni qui” lo chiamò Alessandro, tornando a sedersi, come prima, con la schiena contro il muro.

Michele fece lo stesso, e Sebastiano si sedette nello spazio lasciato libero tra i due.

“Li odio” constatò Sebastiano.

Dal suo tono si capiva che non si aspettava una risposta, soltanto la comprensione e la vicinanza dei fratelli maggiori. La sua voce era vuota di rabbia per il momento: suonava soltanto esausta. Sia Michele che Alessandro tuttavia sapevano che sarebbe arrivata e che sarebbe stata devastante per lui. Ma Sebastiano era forte: già quella constatazione dimostrava che stava scegliendo di non arrendersi di fronte al dolore. Aveva però bisogno di qualcuno che gli stesse vicino, in quel momento come non mai.
I due piegarono la testa in modo da appoggiarla a quella del fratellino.
Rimasero così, spalla contro spalla, testa contro testa, nella cucina di una casa che all’improvviso sembrava troppo grande per loro tre. Erano rimasti soli e presto quel silenzio avrebbe iniziato a pesare come un macigno sulle loro vite.
Alessandro serrò gli occhi, ricacciando indietro le lacrime. Non serviva il suo dolore, ora: serviva speranza. Quando sentì Sebastiano addormentarsi di nuovo, appoggiato alla spalla di Michele, solo allora si alzò. Guardo Michele, vigile, che accarezzava la spalla del fratello e nel frattempo lo fissava, aspettando la sua prossima mossa.
Alessandro ingoiò il groppo che aveva in gola e lottò per far uscire le parole.

“Preparo qualcosa da mangiare. Okay?”

Michele annuì.

“Grazie, Ale. Ti voglio bene.”

“Anche io.”

 
***


 

Buongiorno a tutti, I’m back! Sono tornata con uno spin off della mia mini long Guerra, dove il focus passa dal rapporto tra Arturo e Sebastiano a quello tra Sebastiano e i suoi fratelli, Alessandro e Michele. Come credo abbiate notato, la storia è leggibile anche senza conoscere la long (almeno spero!). Non ho granchè da dire, se non che la storia è ambientata nel 1932 a Brescia. Spero che si sia colto il senso della storia e che sia stata capace di emozionarvi. Fatemi sapere, se vi va, cosa ne pensate!
Colgo l’occasione per ringraziare anche la gentilissima Lucilla aka Occhi di nebbia che ha betato questa storia. Grazie carissima!
Ringrazio anche tutti voi per aver letto!
A presto, 99
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: ninety nine