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Autore: CHAOSevangeline    26/04/2019    2 recensioni
{ Ezio!Centric | Post Assassin's Creed II | Revisionata il 24/08/2021 }
Ezio animato dal vino non era un Ezio troppo diverso dal solito: disinibito lo era sempre, così com’era diretto. Forse, ecco, propendeva per il lasciarsi scucire qualche emozione oltre la superficialità da lui ostentata con dovizia. Diveniva più contemplativo di quanto non fosse nel proprio studio, segregato nella mansarda della villa di suo zio a Monteriggioni; luogo dove pianificava, rifletteva, elaborava più di quanto un giovane della sua età, maturato nella vendetta come gli acini del distillato di quell’uva erano maturati al sole, avrebbe dovuto fare. Si isolava lì come se tutto ciò che lasciava libero di stagnare fra quelle mura dovesse rimanere un segreto.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ezio Auditore
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ispirata al prompt omonimo al titolo presente nella community Piscina di Prompt.




Dum spiro, spero
 
 
 
 
La sua vita era stata costellata di perdite, di morte.
Tutto ciò che gli era stato dato gli era poi stato tolto. Individui egoisti, crudeli e spietati avevano decimato la sua famiglia, corrotto il suo animo. Nulla era stato naturale: si trattava di scelte prese da uomini in vece del destino.
Così aveva compreso: nulla gli apparteneva, nulla era suo di diritto; gli era solo stato concesso.
Per questo lottava con le unghie e con i denti per difenderlo, e come uno scudo umano si era frapposto e si frapponeva ancora fra i superstiti e il pericolo. Non s’arrendeva.
Ezio c’era quando suo padre aveva giurato giustizia ai cospiratori.
Quando Federico aveva esalato l’ultimo respiro.
Quando Petruccio aveva chiuso gli occhi.
Così serrati li aveva ancora quando Ezio aveva raggiunto i loro corpi, ammassati senza alcun decoro vicino al fiume. Guardava Petruccio e sembrava stesse solo dormendo; Ezio lo stringeva tra le braccia proprio come se lo stesse solo accompagnando a coricarsi. Ma in modo distorto, crudele.
Vedere, perdere tutto questo e tutti loro era stato troppo. Un dolore tanto intenso da non fare nemmeno male, in principio, quasi fosse il morso di un freddo tanto feroce da bruciare.
Ma non era bastato perché aveva perso la propria casa, temuto di perdere sua sorella e smarrito sua madre e la sua anima in un dedalo di terrore e sofferenza per un tempo parsogli interminabile.
La sua famiglia si era sgretolata in un istante, dilaniata e cannonata da crudeltà e false accuse. Era crollata su sé stessa ed Ezio era rimasto sotto le macerie, quasi una trave portante, nella speranza di salvare ciò che rimaneva di quel nido. Strideva sotto un peso più grande di lui per scongiurare un collasso capace di mietere altre vittime. Vittime che non avrebbe sopportato di perdere.
«Siamo fortunati ad avere tanto, Ezio», gli diceva sempre sua madre quando passeggiavano per le vie assolate di Firenze.
Quelle vie che sapevano della dolce certezza di una casa, del profumo rassicurante di una fortezza inespugnabile. Lì Ezio era intoccabile, signore delle strade quanto poteva esserlo Lorenzo il Magnifico in persona. Non aveva nulla da invidiargli: forse il signore di Firenze, al contrario, avrebbe dovuto invidiare lui.
Era ancora giovane, Ezio.
Era ignaro.
Ingenuo. E le parole di sua madre ancora non le aveva comprese, al tempo: la fortuna, per lui, era il sorriso della bella Cristina, una notte trascorsa con lei facendosi beffa dei costumi e delle regole.
Perché la sua famiglia, lui lo credeva, lo sapeva, ci sarebbe sempre stata.
E perché avrebbe dovuto essere altrimenti?
«Bella vita, la nostra. Eh, fratello?»
«La migliore. Possa non cambiare mai.»
«Possa non cambiare noi.»
Il suono del cappio che si tendeva.
Secco e fragoroso come un tuono.
 
Della loro fortuna Maria Auditore non parlava più. Maria Auditore non parlava più di nulla.
Ezio la raggiungeva nelle sue stanze e le raccontava, si raccontava; le illustrava i propri pensieri, i propri turbamenti. Mai avrebbe voluto impensierire Claudia, già scossa a sufficienza. Lui era lo scudo, non poteva ferirla. Era grato almeno lei non avesse dovuto vedere, perché un’immagine come quella che lui invece ricordava non avrebbe potuto cancellarla, dalla mente della giovane. Non c’era rimedio.
L’aveva rivista per giorni chiudendo gli occhi, Ezio, un affresco macabro ad arredare la sala della sua mente. Un marchio a fuoco sulla pelle, ne era certo, avrebbe causato meno dolore.
Ma sua madre aveva visto lo stesso buio da cui Ezio cercava di divincolarsi, tentando invano d’illuminarlo e gettarselo alle spalle come un’ombra.
Sua madre era sempre stata una confidente: da lei correva, prima di avere le spalle larghe d’orgoglio e finta indipendenza, a chiedere conforto. Perché lei una parola d’incoraggiamento l’aveva in ogni occasione, per ciascuno dei suoi figli. Un «siamo fortunati, Ezio. Io sono fortunata ad avervi» lo rincuorava sempre. E lei lo sapeva. Modellava parole con le labbra per placare i suoi tormenti e ci riusciva. Ogni volta, prima ancora che lui se ne rendesse conto, leggeva negli occhi del figlio quanto lui forse ancora non vedeva nemmeno nell’intimità dei propri pensieri.
Ed era ancora la sua confidente, Maria, ma solo perché più di un diario sarebbe stata sicura: sua madre era muta come una tomba. Lo sguardo freddo, gelido come il marmo di una lapide.
Una sera, di ritorno da uno dei suoi allenamenti, Ezio era andato da lei scoprendola ancora sveglia. Si era affacciato nelle sue stanze come faceva a Firenze sull’uscio della camera dei suoi genitori, quatto, per accertarsi dormissero quando lui era di rientro da una scaramuccia notturna o da una fuga romantica con Cristina.
Prima sperava di trovarla addormentata, allora sperò di trovarla sveglia. Aveva bisogno di trovarla sveglia.
Aveva riposto alcune delle piume che tanto Petruccio amava collezionare e che ora Ezio raccoglieva per lei, per sé stesso, per ricordare, e si era seduto a osservarla mentre pregava.
Chi pregasse e perché era un segreto per lui.
Poi l’aveva guardato.
Un miracolo, aveva pensato Ezio. Forse pregare aveva uno scopo.
Non l’aveva chiamata, non subito; temeva di spezzare un incantesimo, una congiunzione ch’aveva permesso alla madre di tornare da lui.
Non aveva parlato per qualche istante, proprio come lei non faceva da settimane. Il fiato era mozzo in gola. Sua madre l’aveva abbracciato, talvolta, ma erano stati gli ultimi barlumi di una Maria Auditore che ancora a lungo non sarebbe tornata, persa sul cammino di un pellegrinaggio tormentato.
Fu mentre lei iniziava a voltarsi, il timore di vederla scivolare fra remoti anfratti di oscurità della sua mente, che di colpo Ezio scelse di parlare. Mostrò una crepa che mai Claudia, suo zio, o la sua amata Cristina avevano visto.
«Madre, ditemi ancora che siamo fortunati, nonostante tutto», supplicò. «Convincetemi che per noi c’è ancora speranza.»
Ma era troppo tardi: la donna stava pregando di nuovo un Dio a cui Ezio non riusciva più a credere o che, peggio, aveva iniziato a odiare.
Forse per questo Maria Auditore non parlava più: non c’era nulla che valesse ancora la pena d’esser detto.
Nemmeno il più bravo oratore può costruire a parole una speranza che non esiste.
 
E come sua madre, adagio, Ezio aveva smesso di parlare. A lei, a chiunque.
Perché bussare a una porta sigillata è più logorante di ricevere una risposta sgradita. Perché temere di non ottenerne una, o ancora di riceverla e mettere in pericolo era un timore che non poteva permettersi di vedere realizzato: era stato protetto ed era il momento di proteggere.
Vedeva Claudia guardarlo con occhi in cui credeva di scorgere risentimento.
«Avresti potuto fare di più, Ezio», temeva gli dicessero. «Dovresti permettere a me di fare di più. Di vivere.»
Ma non erano gli occhi di Claudia a guardarlo così; erano i suoi, nello specchio. Inquisitori e furenti, cercavano il capro espiatorio più vicino. A volte, era lui stesso.
Ezio aveva reso quella fortezza una prigione.
Ma non poteva rischiare.
Sentiva sua sorella piangere ogni notte, nelle sue stanze. La sentiva singhiozzare e ad ogni respiro spezzato dalle lacrime Ezio si sentiva morire.
Andava da lei e la stringeva.
Cos’altro avrebbe potuto fare?
«Claudia, piccina, mi dispiace. Mi dispiace tanto.»
Non c’era altro che potesse dire, che fosse più vero e sincero di questo.
Era disarmato di fronte a una sofferenza totale, titanica.
Restavano in silenzio, Claudia rintanata fra le sue braccia, fino a quando lei non si addormentava.
Quasi ogni notte, quand’era alla villa. Notte che poi Ezio trascorreva insonne. Aveva iniziato a pensare di essere lui a poter far loro del male, lì; i nemici tentavano di raggiungerlo quanto lui smaniava di raggiungere loro, adirati per la sua ascesa.
Ezio si era allontanato, piano, scivolando nell’oscurità come si era abituato a vivere.
E anche quando si trovava a Firenze per minare le fondamenta di quella congiura, per assassinare i Pazzi e fare giustizia, nell’aria corrosiva e soffocante di una città che non amava e non lo amava più, nell’intima oscurità trapuntata di stelle, sentiva ancora Claudia singhiozzare.
 
Così traeva conforto dai piaceri fugaci, Ezio, cercava una consolazione illusoria perché il tempo, i legami, la sicurezza, tutto ciò che davvero avrebbe dovuto costruire per una pace interiore, lo spaventava. Non la sua presenza, ma la sua improvvisa scomparsa.
Perdere.
Perché poteva aver ucciso, lottato, ma ciò che contava, Ezio lo continuava a perdere.
Non si era liberato del dolore che aveva dentro; stava lentamente marcendo mentre lui tentava invano di guardare altrove, illudendosi che la causa fosse la sua panacea. Che tutto il male fosse stato compresso in un obiettivo. E qualcosa di buono, di quel dolore, ne aveva fatto.
Ma non bastava, non bastava mai.
Nulla è reale, tutto è lecito.
Si rigirava quelle parole nella mente e sulla punta della lingua, si perdeva in un significato chiaro come il sole, limpido come l’acqua più pura, che d’improvviso si faceva torbido, un flutto che lo trascinava a fondo dove la luce non arrivava più.
Forse era il turno della sua anima, di marcire e sgretolarsi fra le macerie del suo passato; la sentiva più sottile ogni volta che la sua lama si bagnava di sangue. Lei avrebbe perso, ora.
Ma l’avrebbe sacrificata volentieri al posto di qualcun altro.
Aveva creduto di poter trarre soddisfazione dall’uccidere, Ezio. Dalla vendetta. In principio era stato così. Se ne era vergognato nel momento in cui era stato meno accecato dalla furia da poter osservare il defluire della vita, lento. il sangue a irrigare le scanalature del torrione su cui si era abbandonato.
Si era sentito un mostro.
Non era naturale. Era una scelta presa da un ragazzo in vece del destino. No, di un torto, del passato. Disperava, senza uno scopo e se nulla poteva dargli sollievo, allora forse l’avrebbe fatto uccidere.
Ma così non era stato.
Non era stato corrotto.
Non era i carnefici che l’avevano forgiato.
Era migliore, aveva rispetto. Non stava a lui giudicare, solo portare il peso di una causa in cui aveva il più disperato bisogno di credere.
Requiescat in pace erano le parole che dedicava alle sue vittime, una preghiera anche per chi non la meritava e che forse sulle sue labbra non aveva alcun valore.
Ma lui glielo augurava.
Per lui non ci sarebbe stato né riposo, né pace.
Quanti colpi avrebbe sopportato il suo corpo, ancora?
Quante pugnalate dai Templari?
Quanto dolore prima che il suo cuore esanime sospirasse un «vi prego, basta, lasciatemi riposare»?
 
Alle volte la notte chiudeva gli occhi e la vedeva, impressa a fuoco contro le palpebre chiuse.
Cristina.
Bella da mozzare fiato nel pregiato abito che l’aveva vista indossare al loro primo incontro. Velluto rosso e ricami d’oro, preziosi quanto lo era lei. Gliel’aveva detto e lei era arrossita.
Era stata questo, Cristina. Bellissima e preziosa.
Ed era stata fredda, immobile fra le sue braccia.
E quando era accaduto, Ezio aveva pianto.
Aveva pianto perché l’amava, l’amava davvero. La prima donna che avesse mai amato e di cui avrebbe amato per sempre il ricordo, pur rifiutando divenisse tale: solo un ricordo.
«Non anche lei», aveva pensato mentre correva, i polmoni feriti dal respiro affannoso.
Inseguiva le guardie mentre l’adrenalina pompava il suo cuore, lo spingeva oltre i propri limiti.
Non correva per uccidere, ma per salvare. Salvarla.
«Vi scongiuro, non portatemi via anche lei!»
Non era più sua, ma era viva.
Aveva parlato con Dio quella notte, aveva tentato di riconciliarsi con lui in un ultimo disperato tentativo. Presuntuoso credere un conflitto con lui potesse far dipendere la vita degli altri dalla sua persona, ma la vita l’aveva abituato a crederlo. La stringeva tra le braccia e aveva pregato riconoscendo di non avere il potere di salvarla.
Ma non era servito.
L’amava, Ezio. Amava Cristina Vespucci come amava tutti coloro che aveva perso. Di amori diversi, fraterni e filiali, ma tanto intensi da rendere il ricordo inaccettabile, da rendere l’abbraccio di quella causa che sempre morte lo spingeva a seminare una mera conseguenza.
Che ne sarebbe stato di lui, altrimenti? Quale scopo l’avrebbe tenuto in vita?
Era egoista Ezio, perché voleva solo essere felice. Non voleva dover ricordare, perché voleva non ce ne fosse il bisogno.
Voleva avere tutto.
Voleva che tutto ciò che gli era stato portato via, ancora una volta, gli fosse concesso.
Per Cristina sarebbe stato disposto a patire le pene dell’inferno e anche quelle dell’amore che sempre li avrebbe tenuti uniti, sebbene separati da un matrimonio che non era il loro, pur di sentire. Non la sua voce, non un dolce «ti amo».
Solo il suo respiro.
Questo gli sarebbe bastato.
Forse non aveva pianto davvero, Ezio.
Le lacrime erano congelate, tante da non poter uscire. Sembravano indecise su chi dovesse essere la prima, su chi dovesse macchiarsi del peccato di scatenare un dolore che Ezio non credeva di poter controllare. Non liberare la bestia, se non sei certo di poterla domare.
Chi è innocente scagli la prima pietra.
Ezio pensò a queste parole, sentite durante una delle ultime funzioni a cui la sua famiglia, non troppo religiosa, aveva preso parte.
Non era innocente e non poteva permettersi le lacrime.
Forse non quelle corporee.
Ma la sua anima aveva pianto. Piangeva da anni e nessuno la sentiva.
Gridava sotto le macerie che lo stavano schiacciando, troppo pesanti per i suoi muscoli, per la sua mente, per il suo cuore.
E se non è anche questo il vero dolore, allora che cos’è?
 
Nella bottega di Leonardo, una notte, un codice più difficoltoso degli altri da decifrare per il virtuoso artista – Ezio poteva solo pensarla, quella definizione: Leonardo voleva essere molto di più –, si erano attardati con del buon vino.
Si chiedeva se avrebbe perso anche quell’amico, Ezio, quel fratello che più volte era stato in grado di aiutarlo. E Leonardo di domande se ne poneva altre, meno macabre, le guance imporporate dal rosso distillato in quel di Monteriggioni, portatogli in dono come ringraziamento anche se Ezio, di ringraziarlo, non aveva alcun bisogno. Senza quel nettare in corpo Leonardo da Vinci non avrebbe azzardato tanto, a chiedere: c’erano verità da svelare e verità che, al contrario, andavano taciute.
Ma lui voleva cambiare il mondo e per farlo doveva prima comprenderlo.
«Sei un mistero per me, Ezio», aveva cominciato.
Ezio animato dal vino non era un Ezio troppo diverso dal solito: disinibito lo era sempre, così com’era diretto. Forse, ecco, propendeva per il lasciarsi scucire qualche emozione oltre la superficialità e al distacco da lui ostentati con dovizia. Diveniva più contemplativo di quanto non fosse nel proprio studio, segregato nella mansarda della villa di suo zio a Monteriggioni; luogo dove pianificava, rifletteva, elaborava più di quanto un giovane della sua età, maturato nella vendetta come gli acini del distillato di quell’uva erano maturati al sole, avrebbe dovuto fare. Si isolava lì come se tutto ciò che lasciava libero di stagnare fra quelle mura dovesse rimanere un segreto.
«Hai dentro più di quanto tu voglia ammettere», gli aveva detto una volta Leonardo.
«Solo io vedo qualcosa di sbagliato in questa frase?»
Allora, con i doppi sensi e la malizia, Ezio era riuscito a impedire a Leonardo di capire che aveva ragione.
Ma quella notte era diverso: c’era il vino. E a giudicare dalle parole di Leonardo, Ezio era un mistero. Leonardo, i misteri, rifiutava rimanessero tali.
«È una frase che amo udire dalle donne, questa: significa che non possono più fare a meno di me e che il mio pensiero porterà loro via il sonno.»
Più dissoluto dell’amico, Ezio amava metterlo in difficoltà.
Dubitava Leonardo lo pensasse altrettanto intensamente e allo stesso modo di una donna, ma ciò non cambiava il fatto che Leonardo aveva sbuffato, irritato dalla sua poca serietà e dalla punta d’imbarazzo che doveva averlo colto. Che lo aveva di certo colto: Ezio non sprecava energie in battute incapaci di sortire il desiderato effetto. E lui adorava mettere Leonardo in imbarazzo.
Ma Ezio sapeva che se c’era qualcosa che Leonardo voleva chiedergli non sarebbero stati ostacoli né la sua frase, né lo sbuffo di risata sfuggitagli nel vedere la reazione del poliedrico amico.
No, Leonardo non si sarebbe arrestato: aveva quel guizzo negli occhi, quello di vivace curiosità che lo poneva a metà strada fra il bambino e il genio.
«Ho sempre voluto costruire, lo sai», cominciò. «Se esistesse un tipo di struttura solida come lo sei tu… se la scoprissi»
Ezio spesso faticava a seguire Leonardo: faticava a comprendere quale cifratura avesse riconosciuto per decrittare una delle pergamene che gli consegnava, faticava a seguire le sue elucubrazioni scientifiche o anche solo a tenergli dietro con gli occhi quando schizzava da un angolo all’altro della bottega perché «questo devo proprio appuntarmelo!»
Aveva detto che come Ezio era agile sui tetti delle città, lui era agile con la mente. Per questo le sue visite alla bottega di Leonardo erano un ottimo momento per recuperare la stanchezza perduta strada facendo.
Aveva provato a farsi spiegare i suoi ragionamenti, ma avevano ben presto rinunciato di comune accordo: Ezio guardava al risultato ed era più bravo a tessere reti di persone e a costruire legami con gli esseri umani, che macchine e marchingegni.
Ma grazie al cielo c’era Leonardo a farlo per lui.
«Leonardo, stai vaneggiando», gli fece notare, le sopracciglia aggrottate.
Ezio ancora vedeva un motivo per ridere, ma il suo sesto senso gli suggeriva di stare in guardia.
«Nulla ti ha fatto crollare. Qual è il tuo segreto?»
Ezio avrebbe dovuto capire, sapere che l’intimità delle ore notturne, il vino sulle guance di Leonardo e nelle accorate descrizioni da Ezio stesso dipinte di una Firenze passata, di come la ricordava, dettagliate quasi fossero uno dei paesaggi che Leonardo si dilettava talvolta a schizzare, a questo avrebbero portato. E Leonardo non era in condizioni di mortificarsi; non c’era motivo perché lo facesse, comunque.
Ezio Auditore da Firenze non si apriva, non parlava più nemmeno con sua madre, ammutolita dal dolore.
Un forziere chiuso dall’interno.
Ma di Leonardo si fidava; si era gettato da una torre per testare la sua bizzarra macchina volante, diamine. Ecco cos’era stato: galeotto non fu il vino, ma Leonardo. La fiducia che Ezio riponeva in lui.
Aveva scosso le fondamenta e gli aveva provocato un singulto che era stato incapace di soffocare.
Così Ezio scelse di rispondere, di esternare una sola, piccola frase che forse sarebbe servita a dare coraggio a sé stesso e a rispondere a lui. Tanto Leonardo era ubriaco: l’indomani avrebbe dimenticato.
Un sorriso amaro sul suo viso e un sospiro di malinconica rassegnazione.
«Dum spiro, spero
E Leonardo gli chiese di spiegarsi, ma Ezio decise che l’amico aveva bevuto troppo e che lui era stato oltremodo sentimentale per una sola notte, così lo aveva trascinato di peso nella sua stanza per rinchiudercelo e appropriarsi poi di una delle sue compagne preferite: le sedie della sala principale della bottega, dove aveva dormito mille e una volta.
«Ezio, voglio davvero saperlo!» protestò Leonardo mentre Ezio faceva per accomiatarsi.
Non aveva mai sperimentato un Leonardo privato di ciò che desiderava, senza una spiegazione. Forse diventava aggressivo quanto lui quando veniva ferito nell’orgoglio.
«Giusto, è latino», fece solo Ezio, pronto a tradurre.
«Al diavolo il latino!» s’infiammò Leonardo. «Non m’importa la traduzione. M’importa cosa significa per te.»
Ezio s’impietrì.
Chi gli aveva mai chiesto cosa significasse qualcosa per lui? Come stesse vivendo la sua vita lui?
Forse fu la domanda posta in quel modo, la disperata curiosità negli occhi di Leonardo che, Ezio lo dubitava, a quel punto volesse solo studiarlo per scoprire un principio da applicare – e come avrebbe dovuto fare, poi? – all’architettura.
Esitò.
«Finché vivo, finché vive almeno una delle persone che amo, riesco a sperare in una felicità che non vedo, che mi è estranea ormai da anni. E che temo non proverò mai più.»
La sua infelicità trasparì da ogni parola, sillaba, lettera. Tutto il dolore e la malinconia, l’angoscia, stipati in un’unica frase. L’ansia che ogni caro, di colpo, gli venisse sottratto.
Ezio non piangeva mai, ma la sua anima era arida di lacrime.
«Adesso dormi», quasi il rimprovero di un fratello maggiore quello di Ezio, fatto della buona severità capace di far sentire amati perché volta al bene, come se al posto di Leonardo ci fosse un capriccioso Petruccio.
Leonardo avrebbe voluto sapere di più quella notte, scoprire e aiutare, e di certo non sapere Ezio solo nella stanza accanto. Proprio come Ezio odiava lasciare sola Claudia.
Leonardo lo immaginò insonne per la sua domanda, provato, perché aveva avuto una conferma: la perfezione non c’era e stava proprio nella sua mancanza, la vera bellezza. Persino nella struttura che più al mondo credeva solida aveva intravisto una crepa.
Ezio era un capo indiscusso, d’un carisma invidiabile. Era destinato a grandi imprese ed era senza dubbio un protagonista, di quelle persone forse discrete ma che tutti ricordano, vedono.
Ma era il vero Ezio, che guardavano, o l’Ezio che doveva essere?
Costruiva su fondamenta solide e su cumuli di macerie. Teneva in equilibrio sulle spalle un peso che nessuno, meno fra tutti un giovane come lui, avrebbe dovuto sorreggere da solo.
Fra i fumi dell’alcool e le nuove consapevolezze, lo scopo di Leonardo divenne d’improvviso ideare una panacea miracolosa capace di curare non tanto il corpo, bensì lo spirito.
Leonardo aveva chiesto e si era trovato sotto le unghie la polvere e i detriti di un crollo.
I singhiozzi di Ezio, quelli silenziosi e di cui si vergognava, che credeva di non poter rivelare, Leonardo li aveva sentiti.
 
Erano passati anni da quella notte.
Anni di morte e di vendetta, di una causa che logorava Ezio tanto quanto gli portava sollievo. Le due parti si annullavano e lui si sentiva ancora il ragazzino smarrito in Piazza della Signoria, immobile dinnanzi una forca allestita da amici vestiti di false promesse, che si erano rivelati serpi. Di fronte ai corpi di suo padre e dei suoi fratelli.
Erano passati anni.
Si era convinto, illuso di poter avere una tregua. Ma sbagliava.
Ancora non c’erano né riposo, né pace.
Aveva perso un padre per la seconda volta.
E anche allora, mentre Monteriggioni crollava e lui era ferito ed esanime al suolo sotto un cielo rosso di fiamme e soffocato dal fumo delle esplosioni. Mentre la sua casa veniva ancora una volta espugnata e ciò che aveva costruito crollava. Mentre quel che restava della sua famiglia, ancora una volta decimata, fuggiva insieme alla sua gente. Mentre i Borgia calpestavano la sua casa gettando sale su ferite mai rimarginate, Ezio si aggrappò alla solida struttura incrollabile che era per Leonardo.
La strada era ancora lunga.
Prese un respiro, e lo pensò.
 
Dum spiro, spero.






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Note: "Dum spiro, spero" è una locuzione latina tratta dalle Lettere ad Attico di Cicerone e che letteralmente significa "finché respiro, spero". L'interpretazione che comunemente viene data a questa frase è quella che spiega Ezio.
Piccolo appunto riguardante la questione del latino e la risposta un tantino acida di Leonardo: il latino era per lui un tasto dolente, non essendo mai riuscito a impararlo, cosa che l'ha reso un "omo sanza lettere", ovvero incapace di comprendere tale lingua. Stando a quanto so l'ha con il tempo reputata una conoscenza inutile, essendo il volgare capace di spiegare qualsiasi concetto volesse esprimere.


Lavoro a questa storia da qualche giorno, anche se ammetto che controllando la data di creazione del file pensavo di averla avuta in cantiere molto più a lungo.
L'ho letta e riletta, aggiungendo pezzi e togliendone altri, modificando e rendendomi conto che c'erano ancora mille altre cose da dire. E la sto postando ora perché sennò continuerei ad aggiungere e aggiungere, ma penso che al momento la storia abbia raggiunto il proprio equilibrio.
Sono nel fandom di Assassin's Creed da otto anni ormai e come periodicamente faccio ho ripreso in mano il secondo capitolo e Brotherhood - fra gli altri. Gli ultimi eventi della fanfiction si concentrano infatti proprio sulle prime vicende del secondo capitolo della trilogia di Ezio su cui, con mio grande rammarico, ho realizzato di aver buttato giù solo qualche idea confusa.
Fra le convinzioni che ho ritrovato in questi lavori mai conclusi appare anche l'idea - o forse convinzione a questo punto - che quel povero ragazzo parli molto meno di quanto non dovrebbe. E beh non mi dilungo, perché tutte le idee in merito al suo aver affrontato tanto dolore e sofferenza le ho espresse lungamente nella storia.
Ezio è uno dei miei personaggi preferiti della saga ed è stato bello mettersi nei suoi panni, per quanto doloroso: senza dubbio questa storia è stata terapeutica.
Mi auguro di non averlo mandato fuori dal personaggio e che questo flusso di pensieri e di tempo vi sia piaciuto. Fra parentesi non sono riuscita a evitare le battutine fatte a Leonardo, chiedo venia.
Mi farebbero molto piacere dei vostri commenti e ringrazio chiunque vorrà lasciarmene, ma ringrazio anche chi ha semplicemente letto e ovviamente la persona che credo ormai anni fa ha proposto il prompt che ho utilizzato.
Spero di tornare presto nella sezione, ad aggiornare magari la mia long ferma da anni o con qualche nuovo lavoro.
Alla prossima!
   
 
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