Titolo: A Line in the Sand Between You and
Me
Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackermann
Pairing: LevixEren [Ereri]
Rating: Giallo
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo, Sentimentale
Avviso: Shonen-ai, Death-Character,
Tematiche Delicate, Spoiler, What if?
Non aveva mai avuto aspettative sulla
sua vita, un progetto da portare avanti, requisiti da raggiungere, obiettivi da
portare a termine, doveva semplicemente e banalmente sopravvivere; nella
quantità temporale più estesa che avrebbe conquistato. Era tutto quello e unica
nozione che gli avevano impartito nel suo lungo arco vitale, impuntandosi a
fargliela comprendere in tutto il suo insieme, ed era quello che aveva tentato
di insegnare a sua volta.
Ma non era bastato, non sarebbe mai
potuto bastare davanti ad una realtà devastante; non poteva essere sufficiente
per Eren che era marchiato da una data di scadenza.
Tutti, senza esclusioni, ne possedeva
una in quel mondo dannato e bellissimo, ma nessuno di loro ne entrava e ne
sarebbe entrato a conoscenza. Eren, e chi era affine alla sua particolarità,
l’aveva incisa sulla pelle, nelle ossa e negli organi vitali. Non poteva
scappare, non poteva prendersi quel tempo negato in partenza per tergiversare,
ingannare la morte e soprattutto se stessi; non poteva illudersi di avere
un’occasione diversa, una divina provvidenza a stravolgere le carte in gioco.
Eren era condannato alla morte senza
aver potuto scegliere. Senza che fosse stato messo al corrente dell’effetto
collaterale che contraddistingueva la situazione che l’aveva investito, una
decisione che l’aveva maledetto presa in sua vece dalla follia della figura
paterna e per il bene di tutta l’umanità.
«Sono destinato a morire» gli aveva
comunicato una notte, lontano da orecchie indiscrete, sotto le stelle e con
un’espressione rassegnata che Levi non riusciva a sopportare, le labbra senza
allegria che si curvavano verso il cielo, mentre il capitano lo fissava serio
dalla posizione privilegiata in cui si trovava, distesi sull’erba incolta. Eren
poteva mostrare a tutti gli altri, all’intera razza umana, di aver accettato il
suo fato avverso, ma non poteva mentire davanti alla guida che conosceva ogni aspetto
di lui. Levi non era mai riuscito a dimenticare quelle parole ed i lineamenti
rammaricati del suo viso né a farsene una ragione.
Eren aveva esalato il suo ultimo
respiro completamente stremato, il barlume delle sue forze al limite
consentito, guidato dall’enorme determinazione che lo contraddistingueva,
inseguendo quel sogno e senso di giustizia, unito ad un’irrefrenabile prevalsa
di vendetta, che era collimata con la fine della battaglia più importante,
della conclusione della guerra. Eren era vissuto fino a quel momento per
quell’unico, irripetibile istante, svuotandosi della sua linfa vitale.
Eren era morto per dare vita a quel
mondo equo e senza distinzioni, radendo al suolo tutto quello che di marcio era
persistito per millenni e non si era guardato indietro. Nessun timore, nessun
conto in sospeso, poteva lasciare quella terra infausta guardando in faccia la
speranza di ciò che aveva delineato e che coloro che gli erano sopravvissuti
avrebbero portato avanti, fino alla vetta massima.
Si spense davanti agli sguardi
attoniti e trapelanti di dolore delle persone che più l’avevano amato, senza
che lui riuscisse minimamente a metterli a fuoco, ignorando le loro maschere
oltraggiate che tentavano in qualsiasi modo di mimetizzare, regalandogli un
bagliore spensierato nell’atto finale del suo ciclo vitale. A Eren sarebbe
bastato, ne sarebbe stato grato, forse non aveva aspettato altro che quel
canonico momento eterno.
Ma per quanto tutti loro fossero
preparati al peggio, a vederlo scivolare dalle loro dita per la condanna a cui
era soggetto ed alla mortalità della guerra, le buone intenzioni ed il portare
avanti il lascito della Coordinata non scaldava le anime distrutte.
Levi aveva provato, tentato, aveva
cercato di trovare un proprio ruolo nella nuova epoca sognata da Eren ed a cui
di conseguenza aveva imparato ad aspirare anche lui, ma non c’era nulla per
qualcuno che era nato con l’unico talento ed anatema di uccidere e massacrare,
ridurre in poltiglia tutto ciò che si frapponeva tra la sua missione di soldato
e la sopravvivenza. Non c’era nemmeno più Eren da tenere in vita ad ogni costo,
anche con il pegno tra le mani insanguinate di consegnare la propria di vita in
cambio della sua, ma L’Ultima Speranza dell’umanità aveva cessato di esistere
ed il Soldato più Forte era rimasto con la sabbia cocente da stringere, con gli
occhi vacui a vagabondare in quella distesa infinita di acqua blu e salata che
Eren aveva anelato raggiungere e perdersi fin dalla tenera età. Erano perfino
riusciti a macchiare di rosso anch’essa e non aveva mai creduto che al gigante
fosse andata giù, eppure non aveva mai smesso di esserne innamorato, seppur con
tristezza.
In qualche modo il capitano vedeva
quello specchio d’acqua come la fine di un arco narrativo, come il termine di
qualcosa che non c’era più. Non era un romantico, ma trovò poetico e grottesco,
quasi un dispetto ai danni del titano, immergersi ed affondare, smettere di
respirare e lasciarsi riempire i polmoni dal liquido salmastro che Eren aveva
amato con tutto il cuore, quello stesso identico muscolo cardiaco che aveva
donato in ogni suo aspetto al proprio supervisore, all’uomo che era la sua
guida, all’uomo che con sicurezza gli aveva promesso che l’avrebbe ucciso con
le sue stesse mani nel caso si fosse rivelato un pericolo. Ironia, Eren non era
mai stato oggetto di pericolo, il capitano non aveva mai dovuto alzare un dito
su di lui e tutta la sua vita era dettata dal mantenerlo in salute, ma era
stato comunque sprovvisto della propria di guida e non sarebbe mai più ritornata.
Non apparteneva a quel nuovo mondo
privo di guerra e sottratto della sua personale coordinata che gli avrebbe
mostrato come camminare su quel terreno accidentato ed inesplorato.
Non andrai da nessuna parte senza di me, poteva suonare come una minaccia tipica del suo
temperamento burrascoso e dedito al comando, ma era il primo ed unico desiderio
che Levi si era mai permesso di esprimere da quando aveva inspirato per la
prima volta, monito dell’arrivo di una nuova vita nell’universo, ma era anche quello
con cui si sarebbe conclusa.
Aveva costantemente avuto la
sensazione che ci fosse qualcos’altro bloccato nella sua testa, dei ricordi che
non gli appartenevano, una vita che aveva già vissuto, ma rimaneva tutto
sospeso in una nebbia fitta e quasi palpabile, con la vile illusione che
potesse afferrarli e svelare il mistero; a volte era quasi impazzito per
raggiungerli, per dargli un senso e ritrovare la ragione, scacciare la follia
per qualcosa che non aveva mai conosciuto, che non gli era mai appartenuto,
inseguire una realtà che non conosceva minimamente, ma che una parte della sua
mente difettosa dava per vero.
Ma più di ogni altra cosa aveva la
sensazione che stesse cercando qualcosa, qualcuno; una figura costantemente
nella visione periferica che gli urlava di voltarsi e delineare quei tratti
facciali che non riusciva a mettere insieme, a dargli una forma ed un aspetto,
miscelati ad un grigio perpetuo che gli impediva di assegnargli un colore.
Tutto ciò che gli permetteva quella visione periferica, insieme all’enorme mal
di testa che voleva acchiappare memorie mai esistite, era un’incredibile verde
cangiante, il più sfavillante che fosse mai riuscito a scorgere in quel mondo
disseminato di disastri. Era tutto ciò che di più vivo fosse presente nella sua
esistenza senza scopo.
La guerra imperlava nuovamente sulla
Terra, sembrava che non ne avessero mai abbastanza, che ogni battaglia avrebbe
portato a qualcosa di nuovo e diverso, migliore, ma tutto quello che Levi
riusciva a scorgere erano soltanto le numerose vite che venivano stroncate
senza alcun riguardo, senza sapere nemmeno che erano esistite.
Aveva cercato con ogni fibra del suo
essere di venirne escluso, di tenersi il più lontano possibile da quel richiamo
sconosciuto che gli suggeriva di seguire un cammino che conosceva come il palmo
delle mani, che avrebbe fatto la differenza, ma il buon senso, quella fatica
atroce che compiva ogni giorno per cancellare via qualcosa che non gli
apparteneva, il vissuto che non era il proprio, gli intimava caldamente di
rimanere dov’era, di dedicarsi a qualcos’altro. Di cambiare la malvagità atroce
dello stermino con la bellezza dell’arte.
Ciò che il palmo della mano
conosceva più di ogni altra cosa era la pittura, il mettere al mondo
l’incatenarsi dei colori nella più grande delle fusioni.
Il suo progetto, la sua missione era
visitare ogni posto su quel mondo bersagliato, recarsi nei paesi e nelle città
sotto assedio, portare la sua arte in una sfida continua per contrastare la
brutalità della morte con l’incanto della vita, del talento e della cura che
avrebbe comportato coltivarla e dare tutto se stesso per affinarla, lasciando
il segno e il lascito del suo passaggio. La sua arte era una continua
provocazione alla beffa della guerra ed il suo nome era conosciuto da chiunque
incontrasse, in ogni galleria mal assortita in tendoni bucati e privi di pezzi
di stoffa, stanze con tetti caduti o parzialmente saldati, camere piccole e mal
arieggiate; erano i suoi quadri a parlare, le pennellate e la sfumatura dei
pigmenti. Raccontavano la magnificenza che la natura era in grado di dare, il
perfetto equilibrio da cui era composta, l’impronta dell’uomo che sapeva
amalgamarsi perfettamente alla sua forma, alle sue esigenze, lo spettacolo
incredibile che manifestava dinnanzi alle genti che la decantavano. Perfino nel
marcio Levi riusciva a cogliere l’essenza della vita, la scintilla a cui tutto
dava un senso e quel sentimento d’ammirazione ed orgoglio che scatenava negli
osservatori occasionali che volevano osservarla ed in quelli che lottavano
concretamente per raggiungere il luogo designato, trovando la maniera per
sfuggire alla battaglia anche per un solo attimo di beatitudine che ridava la
voglia di continuare ad andare avanti e difendere a spada tratta la propria
incolumità ed i doni di Madre Terra.
Era quello il suo modo di
combattere, diventare un’ispirazione per chi aveva smesso di sperare e per chi
credeva ancora; pennelli ed una tavolozza di pigmenti accuratamente scelti,
totalmente opposta alla sensazione delle sue mani sporche di un sangue che
sapeva di aver versato, ma di cui non aveva alcuna testimonianza, sostituita
dalla pesantezza della composizione delle tempere.
Tempere che in ogni dove cercavano
di riprodurre quelle iridi dal verde impossibile, come se l’autore non fosse
stato ancora capace di raffigurare e trovare il pigmento esatto, intervallato
da colpi di luce del blu marino più maestoso. Per Levi era una croce di cui non
riusciva a disfarsi, propagarsi a far prendere corpo a tutto ciò su cui posava
lo sguardo, ma impossibilitato a rendere concreto ciò che anelava con ogni
fibra del suo organismo, l’istantanea illusoria a cui consacrava la sua follia
ed a cui, di conseguenza, affibbiava tutte le colpe della sua precaria
condizione.
Quegli occhi dalle mille sfumature
di smeraldo e blu cobalto si concretizzavano nella maggior parte delle sue tele
e Levi non poteva fuggirne.
«Sembra stia cercando qualcuno, è
così?» la domanda era posta con riserbo e velata curiosità, ma con un accenno
di rispetto e un’inflessione leggera di allegria.
Non era un interrogatorio, era una
sottoforma di approccio per iniziare una conversazione, una qualsiasi, che
poteva morire esattamente sul nascere. Levi non apprezzava particolarmente gli
approcci delle genti, si limitava nel suo mutismo ed ai cenni espliciti che
comunicavano in sua vece, erano i dipinti che parlavano per lui, che dovevano
dare la forza per lottare e sopravvivere ad una guerra immotivata, ma era
facile cadere nella tentazione di rivolgergli la parola, soprattutto se la sala
che l’accoglieva era silenziosa e con pochi visitatori, mentre il frastuono
delle bombe e granate risuonava in tutto il circondato. Quelle, quelle erano le
persone che non si fermavano davanti a nulla ed affrontavano la malvagità della
battaglia per poter dare una sola occhiata rapida a ciò che le sue tele
volevano raccontare, ma benché li encomiasse e provasse ammirazione per il loro
coraggio, Levi era programmato troppo male per poterli degnare di una risposta
che non fosse un mugugno e un’occhiata periferica prima che si stancasse di
dare un senso a quelle gemme di giada che era consapevole fossero inesistenti.
Era una contemplazione a cui lui medesimo poteva dare un termine ed i suoi
visitatori non gli avevano mai dato troppo peso.
Sentì la suola delle scarpe
consumate del suo ospite avanzare di un passo, dirigersi senza alcuna
motivazione nella sua direzione con portamento fiero ed accurato; sembravano i
passi di un soldato ben addestrato, quei passi che un normale civile non
avrebbe mai potuto sentire, eppure le orecchie dell’artista erano troppo
attente ai cambiamenti, al suono di ogni cosa che lo circondava. Quelle
capacità appartenevano a lui o alla precedente vita? Era talmente eccelso da
percepire un turbamento nella nuova avanzata del visitatore, nei piedi che
quasi incespicarono ed esitarono, l’aria nei polmoni che si statizzava ed il
fiato che rimaneva intrappolato tra i denti. «Capitano».
L’incredulità del ragazzo si diffuse
in tutto l’organismo di Levi ed il sangue si ghiacciò nelle vene, impedendogli
di prendere una nuova boccata. «Non sono-» perché chiamarlo capitano? Non lo
era mai stato, non aveva mai fatto parte della milizia, non aveva mai voluto
dare il suo contributo a quella malattia di distruzione ed annientamento.
Tutto si estinse e gli occhi grigi e
bluastri dell’artista si rifletterono sulle tante decantate iridi di smeraldo.
Perfino la luce che penetrava dal soffitto dismesso di quel luogo dell’orrore
riusciva a manifestare quelle tinte dell’oceano che l’avevano incantato e
dannato. «Eren» lo realizzò in quell’istante, in quella frazione microscopica
di tempo. Realizzò di aver sempre conosciuto il suo nome, il nome del suo
tormento, della sua ricerca, il nome del ragazzo che aveva amato con ogni
cellula del suo essere in una vita cancellata e che gli era morto davanti,
completamente inerte e consapevole della sua incapacità di poter fare la
differenza, di potergli donare la possibilità di bearsi della vita così com’era
di suo diritto. Eren, l’Ultima Speranza dell’umanità, che soccombette al
termine di una guerra vinta e che avrebbe dovuto impedirne di future.
«Mi stava davvero cercando,
capitano» nell’immobilità in cui stagnavano, quegli occhi impossibili avevano
scandagliato i lavori che li circondavano, il marchio contraddistinto che
figurava in tutte e che lo chiamava a gran voce.
Il suo sguardo era ancora attonito,
eppure Eren era riuscito ad identificarlo prima di lui, semplicemente
dall’osservazione del suo profilo, nell’incrocio anticipato dei suoi occhi, la
magia della tanto chiacchierata visione periferica. «Non sono più un capitano».
Le labbra del ragazzo si curvarono
lievemente verso l’alto, il sapore nostalgico che le animava ed i ricordi appena
riaffiorati che si presentavano bersagliandoli senza riguardo. «Sarà sempre il
mio capitano».
Poteva toccarlo? Voleva toccarlo.
«Sei stato qui per tutto questo tempo?» era una città portuaria, poteva essere
un indizio indispensabile.
Eren si strinse nella sua giacca
verde militare, ma non sapeva se dargli atto di aver pensato a mimetizzarsi o
se avesse tutto un altro significato che non voleva conoscere. Voleva portarlo
via di lì, immediatamente. «Sono nato qui e qui sono rimasto».
Era incredibile come la loro vita si
fosse riavvolta, ma la differenza d’età continuasse ad essere troppo grande;
Eren persisteva nell’eterna giovinezza, nel fiore degli anni e Levi non sapeva
se temerlo, se fosse un’indicazione per un futuro che non avrebbero avuto o sperare
in qualcosa di nuovo. «Combatti questa guerra?».
«No» proferì il ventenne, una
smorfia di amarezza e quel qualcosa che non aveva intenzione di cambiare,
malgrado tutti gli sforzi. «Non mi appartiene, non la sento mia. Ma immagino
che in qualche modo il mio essere sapesse di aver già dato tutto».
Aveva dato tutto, ma si chiedeva se
Eren avesse idea di che cosa avesse dato lui, il peccato capitale di cui si era
macchiato per raggiungerlo. «L’umanità non impara mai».
«Così dicono» pronunciò
quell’allegria mistica, quasi del tutto incompresa da Levi, se non l’avesse
visto crescere nel ciclo precedente, perdere tutti i suoi ideali per acquisirne
di nuovi, spegnersi e riaccendersi come una miccia inarrestabile. «Forse ci
vorrà ancora tempo per vederne gli effetti».
Levi non credeva in alcuna maniera a
quella possibilità, ma aveva sempre sostenuto i sogni di Eren, con durezza e
richiamandolo continuamente, quasi sperando che abbandonasse il progetto, ma il
gigante era soltanto diventato più temerario e cocciuto.
Sperava davvero che un giorno
avrebbe avuto ragione, che la sua fantasia si concretizzasse, in un secolo
qualsiasi, in un millennio prossimo all’arrivo, ma sicuramente non erano
destinati a vederlo realizzare.
Ne ebbe la certezza quando le dita
non riuscirono ad arrivare a quelle di Eren, privandolo perfino del miraggio di
poter aver avuto la sensazione di averlo quantomeno sfiorato. Il fascio di luce
accecante arrivò prima del rumore assordante, del botto agghiacciante che la
bomba che era stata sganciata illecitamente sulla cittadina produsse.
Vide Eren sfibrarsi davanti agli
occhi devastati, svanire e ridursi in polvere, cancellare quelle iridi talmente
tanto sognate da diventare un’ossessione, annientando nuovamente l’impronta
della sua ascesa.
Nemmeno in quella vita qualcuno
avrebbe conservato il ricordo di Eren, il titano che corrispondeva all’ultima
speranza dell’umanità, ma con l’ultimo barlume di lucidità prima che anche Levi
si disfacesse, prese coscienza delle innumerevoli tele a cui aveva faticosamente
lavorato che conservavano la sua traccia, la loro traccia, sparse per l’intero
globo. Gliene bastava una, soltanto una in tutto l’universo a testimoniare
della sua esistenza.
Il frusciare del vento gli accarezzò
il folto pelo nero, le zampette procedevano caute sui cuscinetti rosa,
poggiandole sul terreno e procedendo con grazia tra i ciottoli che decoravano
il percorso, saltando su una sporgenza e l’altra, inoltrandosi tra le tende che
svolazzavano imperterrite da una finestra, guidate dall’aria leggera e quasi
paradisiaca che le sfiorava come se fossero piume, guidandolo all’interno
dell’edificio incolore ed accogliendolo, incontrando stanze piene di barelle e
letti occupati di ogni sorta. Incredibilmente c’era una strana aria rilassata,
in mezzo ai colpi di tosse e alla difficoltà di prendere nuovo ossigeno; forse
era ciò che serviva a qualcuno che era stato ferito dalle battaglie affrontate
e giungeva fin lì per essere curato e riprendersi.
«Ehy, ciao» esordì con calore una
voce maschile, uno degli ospiti dell’ospedale militare.
Le orecchie del gatto si rizzarono
ed il muso si voltò in un secondo, alzando la testa per incontrare colui che
fermava la sua avanzata e che minacciava la sua incolumità, ma come in un
passato che tornava a bussare, delle vite che non sapeva gli appartenessero ad
un corpo umano e da uomo che aveva posseduto, riaffiorarono in un terrificante
e tremendo istante. Eren.
Il ragazzo gli dedicò un pio sorriso
di incoraggiamento, un occhio bendato ed un braccio ingessato, insieme ad una
stampella per tenerlo in piedi e non perdere l’equilibrio, apparendo al soldato
come se fosse la cosa più bella e tenera che gli fosse mai capitato di
incontrare davanti a tanta devastazione ed asetticità di una struttura nata per
salvare il salvabile dalla brutalità della guerra. Levi immaginò che la realtà
non fosse troppo distante da quella e… Levi,
si chiamava Levi, si era sempre chiamato Levi. «Hai fame?».
Fame? Levi
provava molte cose, ma la fame era l’ultima cosa che poteva toccarlo; quello era
Eren, il suo Eren. Un Eren che in qualche modo era incappato nuovamente nella
vita della milizia e che si era ancora una volta portato via qualcosa da lui.
Eren si mosse in un momento,
prendendo una ciotola da cui probabilmente aveva mangiato e presentandogli una
poltiglia che il micio non avrebbe degnato di uno sguardo, poggiandolo per
terra a facilitargli il compito con non poca fatica. Voleva conquistarlo? Il
ragazzo pensava seriamente che ne avesse bisogno? Non riusciva a riconoscerlo
in quella forma?
Levi l’osservò per un lungo minuto,
scrutando quell’unica iride che gli era permesso di vedere, ma privato del
tutto di poter scorgere l’incredibile colore che sapeva appartenergli, ma che
non poteva identificare in nessun modo, privato della capacità di ammirare i
pigmenti e la sua memoria latente, ridotta in quel corpo troppo piccolo per
poterla contenere, tentava di fargli presente di quale bellezza fosse. Tutto
quello che la sua forma di animale gli permetteva, era riconoscere che fossero
chiari, molto chiari.
Annusò a malapena la cibaria, troppo
concentrato a gettare occhiate verso l’alto, a quella figura che era sempre
stata di svariati centimetri più in là di lui, ma che in quella particolare
circostanza risultasse un colosso. Era ironico, Eren finiva irrimediabilmente
per essere associato al titano che una volta era stato. Forse era la condanna
della loro condizione.
Eren rise allegramente e Levi lo
fissò truce, non capendo la ragione di quel comportamento. «Non piace nemmeno a
me, ma questo passa in convento» sospirò con sforzo nel sedersi sul bordo del
materasso, scostandosi dal viso disseminato di qualche cicatrice i capelli
cresciuti troppo lunghi e velocemente.
Il felino non riuscì a trattenersi e
si arrampicò con stratagemma sul letto, ruzzolando con grazia sulle lenzuola
sfatte, tenendosi strategicamente a debita distanza, senza riuscire a
togliergli gli occhi di dosso, mentre il soldato ferito rimaneva in silenzio
per tutto il percorso, rispettando il suo approccio diffidente, eppure talmente
incuriosito da portarlo a raggiungerlo.
Sorrise ancora una volta, con quella
nota intenerita e nostalgica che Levi era sicuro di aver già visto da qualche
parte, allungando appena una mano e distendendo un dito vicino al muso,
sprigionando la scia del suo odore con cui avrebbe dovuto tentare di farsi
accettare e che il gatto giurava di conoscere perfettamente, ma in quella forma
sembrava più intenso e perforante, come se possedesse dei sensi amplificati che
potessero presentarglielo sotto una nuova luce. Levi si fece incantare
nell’immediato e cedette in un battito di ciglia al calore lontano di Eren che
già lo investiva, strofinando il naso sulla falange offertagli ed inspirando
profondamente l’odore che gli era terribilmente mancato senza averne cognizione.
Si lasciò accarezzare quasi per
magia e tutto il pelo si arruffò sotto le falangi delicate e gentili,
terribilmente e malvagiamente premurose e piene di affetto. «Non sembravi un
gatto in cerca di attenzioni, mi hai ingannato per bene».
Levi avrebbe voluto protestare,
soffiargli e magari morderlo anche, ma il suo corpo traditore si esibì in
minuscole fusa che rinnegò fortemente, disconoscendole, ma quelle si estesero
ancora di più quando la grande mano di Eren gli percorse tutta la schiena e
Levi sapeva di aver perso in partenza. Ma era colpa sua se poteva finalmente
beneficiare del suo tocco? Quel tocco che gli era stato strappato ben due volte
e di cui non aveva assaporato in alcun modo nella sua ultima vita precedente?
«Signor Jaeger, quel gatto non può
stare qui» la bolla felice di Levi scoppiò così com’era arrivata, come tutto
quello che gli era capitato.
Eren sbuffò per nulla con garbo,
grattando imperterrito sulla testolina del felino senza che il rimprovero
potesse indisporlo. «Andiamo, Doc, penso che rallegri un po’ questo mattatoio».
L’essere che era evidentemente il
dottore che aveva Eren in cura non sembrò essere d’accordo né apprezzare la definizione,
battendo un piede sul pavimento tassativamente e con un significato chiaro.
«Non è igienico».
«Cosa importa, non penso possa
togliermi più di quanto abbia già perso» il tono era ancora quello che Levi
conosceva ed aveva sempre conosciuto, ma da quello poteva intuire che Eren
avesse effettivamente perduto qualcosa che il micio disconosceva.
Il medico sospirò completamente
arreso, senza speranze, conoscitore della testardaggine del suo paziente e di
quanto fosse impossibile sovrastarlo. Tornò sui suoi passi, non prima di aver
controllato la benda all’occhio a cui Eren si mostrò del tutto indifferente,
mentre era evidente quanto bruciasse dentro.
Levi rimase per tutto il tempo
sull’attenti a quattro zampe sul letto del ragazzo, seguendo con malcelato
interesse tutta la procedura e gli salì sulle gambe quando l’intruso sparì
com’era apparso.
Eren lo scrutò in silenzio con la
sua unica iride per diversi istanti, trattenendogli tra i polpastrelli bollenti
la punta di un orecchio, spostando impercettibilmente la pelliccia e Levi aveva
l’impressione che potesse scavargli dentro come un tempo era stato capace in
ruoli inversi. «Sei lui, non è vero?».
Il corpo della palla di pelo tremò
tutto, ma non lo diede a vedere, non mostrò quanto quella dichiarazione lo
stordisse e gli facesse in qualche modo sperare, anche se di quale speranza
avrebbe potuto parlare? Cosa li avrebbe attesi?
«Il fato non prova alcun amore per
noi, capitano» dichiarò il soldato ferito, una cantilena lontana ed amara,
intrisa di un veleno che non avrebbe mai voluto più conoscere.
Le orecchie feline si rizzarono a
quell’appellativo e la concretezza della realtà tornò a bersagliarlo tutto in
un fiato. Eren l’aveva riconosciuto, Eren sapeva chi fosse, chi era stato e
cos’erano loro due. E quanto fosse impossibile relazionarsi come avevano
tentato di sognare in un tempo lontano, in un mondo che non esisteva più e di
cui l’intera razza umana aveva cancellato le memorie della venuta dei giganti.
Strusciare il capo contro il suo
sterno fu istintivo, unico mezzo per comunicargli quanto avesse ragione, che
fosse proprio lui, che era tornato e l’aveva finalmente trovato.
Le dita di Eren corrisposero il suo
bisogno di contatto e lo accarezzarono su un fianco, prendendolo di peso ed
avvicinandolo al viso, depositandogli in un momento di stallo un tenue bacio
sulla testa pelosa, scaturendo un arricciamento del naso da parte del
quadrupede ed il suo dimenarsi, come se non avesse apprezzato il gesto; fu in
quell’occasione che sentì per la seconda volta la risata allegra del ragazzo,
ma una più vera e spensierata. «Forse non è così perfido questo destino se è
riuscita a trovarle l’animale più pulito del pianeta» Levi finalmente soffiò
offeso e per nulla lusingato ed Eren se lo godette tutto. «Riuscirò a farle un
bagno degno di questo nome, capitano, e poi potremo finalmente tornare a casa».
Levi si era chiesto com’era
quell’ipotetica casa, in quale parte del globo si trovassero e fino a dove
fossero stati costretti a viaggiare, ma quello che si dimostrava sicuro era la
benda sul viso sparita, l’iride chiara di Eren che finalmente poteva mostrarsi
in tutto il suo splendore, uno splendore che era precluso ad una vista
completamente basata sui toni del bianco e nero com’era toccata al felino, una
vista che Eren avrebbe per sempre dovuto dimenticarsi nella cornea distrutta
durante la guerra.
L’aria era completamente
irrespirabile, così fitta e pesante da gravare necessariamente sul petto,
rendendo vano il tentativo di prendersi cura di se stessi e sopravvivere alle
lunghe sparatorie, seguite da granate e bombardamenti; nulla in quel campo
presagiva un ritorno a casa, perfino il cielo azzurro preferiva privarsi della
vista e distogliere lo sguardo dal massacro, sostituendosi con una nube di
cenere e cemento che spesso sovrastava l’intero ambiente e che
irrimediabilmente finiva nei polmoni.
Il sottufficiale Ackermann non
doveva più stupirsi di quell’annientamento continuo che l’umanità portava
avanti da secoli e di cui sembrava non saziarsi mai, mentre la terra nella
quale camminavano versava lacrime di liquido scarlatto, non lasciandole mai un
intervallo considerevole per piangere i suoi morti. Era mai esistito un mondo
senza guerra? Ci si era mai fermati a contemplare il circondato e ad osannare
il pianeta in cui avevano avuto la fortuna di nascere? Il genere umano avrebbe
mai abbassato le armi?
«Sottufficiale Ackermann, sono
appena arrivati gli ultimi feriti» Levi fu interrotto da uno dei suoi
sottoposti ligi al dovere mentre controllava per la centesima volta le carte
del territorio, pensando ad un nuovo modo di disporre gli squadroni ed
anticipare il nemico. Non riusciva più a dormire, spremendosi le meningi
insieme ai suoi alti ufficiali, ma per una ragione o per un’altra, affidavano
sempre il lato strategico alle sue dipendenze ben consapevoli che non facesse
parte delle sue mansioni né del suo grado; forse era solo un modo di lavarsi le
mani e sperare in una rapida vittoria o conclusione di qualche tipo, era una
guerra che durava da troppo tempo, da ben prima che Levi venisse alla luce.
Levi arrotolò nuovamente le carte,
scostandosi la frangetta troppo lunga dagli occhi grigi, prendendo un lungo
respiro ed abbandonando la sua postazione, oltrepassando i detriti, saettando
tra i pezzi di roccia e mura disseminati su tutto il campo occupato dalla
conquista. «Qualcuno di grave?».
Il soldato lo seguì nell’immediato,
allungando il passo, ma rimanendo costantemente dietro di lui con diligenza; il
sottufficiale Ackermann era incredibilmente veloce per la bassa statura con cui
si trovava, era difficile rispettare la sua avanzata. «Nessuno dei nostri, ma
abbiamo trovato alcuni soldati del comando nemico ed uno di loro non versa
nelle migliori condizioni».
L’uomo al comando oltrepassò
l’entrata dell’ospedale di campo costituito da tendoni e lettini che avevano
visto giorni migliori, gli attrezzi di chirurgia abbandonati a se stessi ed
immersi in qualsiasi liquido o brodaglia che potesse sterilizzarli in qualunque
maniera, accerchiati da bende ed antidolorifici di tutte le specie. C’era
sangue dappertutto, pezze grondanti di denso liquido rubino, lamenti di ogni
sorta, respiri agonizzanti e sofferti, voci rauche e qualcuno che ancora teneva
duro, tentando di far forza a tutta la guarnigione in stato comatoso. Si
chiedeva cosa non fosse grave per il suo sottoposto che con tanto impeto era
andato ad aggiornarlo personalmente sulle ultime condizioni dei suoi uomini;
molti di quegli uomini avrebbero perso parti dei loro corpi, braccia, gambe,
mani e alcuni sarebbero rimasti paralizzati per sempre se i medici affidatigli
non avessero trovato il modo di rendere possibile l’impossibile, ma anche sotto
quella luce, per molti non c’era speranza di ripresa.
Posò lo sguardo su ogni brandina
occupata, il numero dei letti aumentava vertiginosamente e pochi tornavano ai
posti assegnatagli, ricominciando a lottare e sperando di essere fortunati una
seconda volta e tornare al loro paese d’origine, ma la maggior parte ritornava
a casa congedato con tutti gli onori del caso, ma la perdita di tutto il resto.
Levi non riusciva a vedere la fine di quella guerra, non riusciva nemmeno a
calcolare quanto ancora a lungo si sarebbe protratta e quante vittime avrebbe
mietuto.
In quell’arsenale di corpi distesi e
ridotti ad un elenco di ferite, riconosceva il volto di ogni uomo che l’aveva
servito e che desiderava farlo ancora; confidava segretamente nella speranza
che avrebbero ribaltato il risultato. «I nostri ospiti?» domandò riferendosi ai
randagi degli avversari che avevano raccolto come il codice militare e la
morale umana comandava.
«Sono tutti lì, signore» disse
immediatamente l’interpellato, indicando uno degli angoli del capannone
riservato esclusivamente al reparto medico.
Il sottufficiale degnò appena i
corpi di coloro che li stavano sterminando, riuscendo a contare quattro figure
non troppo malmesse di cui in seguito avrebbero deciso le sorti; anche i loro
nemici erano così generosi? Le iridi argentee successivamente volavano da una
parte all’altra, finché non si posarono su una quinta figura più nascosta e che
aveva bisogno di maggiori attenzioni rispetto agli altri. Era pieno di
fasciature ed attaccato ad ogni sacca possibile contenente qualsiasi cosa Levi
ignorasse, ma che serviva a tenerlo vivo; si ricordò dell’appunto del suo
sottoposto che lo metteva in guardia davanti a quell’evenienza.
Spingersi nella sua direzione fu del
tutto immotivato, ma voleva vedere con i propri occhi un uomo in meno con cui
non avrebbe dovuto combattere e cancellare automaticamente dalla sua lista. Non
un uomo, ma un ragazzo. Quel ragazzo.
Come la pellicola di un film, tutto
nel suo cervello si riavvolse, proiettando immagini lontane e vite già vissute,
persone perdute e rammarichi mai dimenticati, il continuo supplizio del fato
che imperterrito si ostinava a separarli senza mai permettergli di
ricongiungersi. «Eren» l’urlo di quel suono mai sentito dal suo comando
echeggiò per tutto il campo, stracolmo di dolore e pentimento, la vita che
quasi iniziava a lasciarlo ancora prima di essersi accertato delle condizioni
di quell’organismo che giaceva senza riuscire veramente ad emettere fiato.
Precipitarsi da lui fu necessario,
un bisogno fisiologico che non avrebbe mai potuto spiegare e trattenere. Si
chinò inginocchiandosi davanti alla sua brandina, incontrando quegli occhi
socchiusi e quasi del tutti coperti dalle bende che gli fasciavano la testa,
imbrattata da troppo sangue, talmente eccessivo che Levi non poteva credere che
quell’unico corpo potesse contenerne così tanto; ogni parte della sua persona
era avvolta in teli che in un tempo remoto erano stati di un bianco immacolato,
ma che trasudavano cremisi ad ogni battito di ciglia. «Eren» chiamò ancora con
la voce spezzata e spaventata, le dita calde che afferrarono quelle quasi
gelate del ferito, completamente imbrattate di quel liquido vermiglio che
portava il marchio del mietitore di anime ad ogni respiro, avvicinandole alle
labbra e baciandone le nocche in una riverenza, infischiandosene totalmente di
sporcarsi e dell’idea che i suoi uomini potessero farsi di lui – che lo
etichettassero pure come traditore se quello li avrebbe fatti stare meglio.
Le ciglia castane sfarfallarono e
Levi poté ammirare dopo ere intere quel magnifico smeraldo che lo seguiva in
ogni dove, sporcato da un blu che tendeva all’oscurità del buio; non era
florido e vitale come l’aveva avuto presente in ogni ciclo in cui era stato
protagonista ed in cui l’aveva incontrato, non era determinato e pieno di
quella carica che Levi aveva sempre invidiato. Tutto appariva spento, un velo
opaco che lo separava dalla via della vita e della morte. Non era difficile
capire in quale sarebbe sprofondato. «Capitano» gracchiò in un ansimo, la voce
arrochita che a malapena era riuscito ad intercettare, la gola che grattava e
che chiedeva pietà.
Una parte di Levi si estinse in
quell’istante. «Perché? Perché hai scelto di nuovo questa vita? Devi stare
lontano dall’esercito» esattamente come avrebbe dovuto fare lui, esattamente
com’era stato quando Eren aveva vinto la guerra dei giganti e Levi era rimasto
con un pugno di mosche. Aveva pensato, calcolato, sperato che il mondo non
avesse più bisogno del Soldato più Forte dell’umanità, ma continuava a
richiamarlo. Continuava ad assoldarli entrambi.
La fatica in Eren era evidente, le
labbra erano completamente cianotiche e spellate, il volto che solitamente era
di uno splendido ambrato si presentava completamente di un bianco cadaverico ed
i battiti che avvertiva sfiorandogli il polso erano ad ogni secondo più lenti.
«La prossima volta me ne ricorderò».
In una ipotetica prossima volta non
avrebbe potuto ricordarlo, nessuno di loro ne avrebbe mai avuto memoria, finché
non sarebbe arrivato il giorno in cui meschinamente si sarebbero incontrati e
tutte le vite passate si sarebbero palesate a danno compiuto. «Nessuna prossima
volta, deve essere questa volta, ti voglio in questa volta» nella mia vita, in tutte le mie vite.
«Capitano, la mia condizione non è
mai cambiata» un colpo di tosse quasi gli spezzò la gabbia toracica e Levi
desiderava soltanto che il simbolo della speranza smettesse di parlare, che
tutto quel male gli fosse portato via. «Sono destinato a morire».
«No, no» gridò in negazione il
sottufficiale, lo strazio che dilagava nei vasi sanguigni, che si appropriava
dei polmoni che gli impedivano di scambiare l’anidride carbonica con
l’ossigeno. «Ti amo, Eren. Mi hai sentito? Ti amo, resta con me. Resta con me».
Tutto quello che di Eren gli rimase
fu l’ultimo respiro che si sgretolò a mezza bocca, delle sottili lacrime che
gli rigarono soltanto una parte del viso macchiato di sangue e la luce
accecante per cui Levi aveva perso la testa spegnersi del tutto in quelle iridi
che contenevano l’intera magnificenza del pianeta blu. Glielo aveva mai detto,
di amarlo? Gli aveva mai confidato che senza di lui non c’era una ragione di
esistere, di resistere?
Il sottufficiale Levi Ackermann
quella stessa notte sparse le proprie cervella con un colpo di pistola in ogni
angolo della tenda offertagli, luogo in cui avrebbe voluto portare e proteggere
il ragazzo che continuava a morirgli davanti ad ogni vita, memore della sua
incompetenza.
La pazienza non era una
caratteristica che in generale lo rappresentava, era l’ultimo aggettivo con cui
qualcuno avrebbe mai potuto descriverlo, eppure esistevano determinate
situazioni che lo richiedevano ed a cui si dedicava con cura.
Ma non avrebbe mai pensato di essere
talmente masochista da testarla e di volerla sottoporre ad uno stress che
potesse farla scoppiare.
Forse la sua vita aveva bisogno di
un punto che resettasse ciò che la difficoltà gli offriva.
Non aveva idea del perché ne fosse
stato così attratto da incantarsi a fissarli, ma un giorno si era ritrovato in
mezzo ad un’enorme distesa verde chiamato da uno di quei momenti in cui aveva
bisogno di evadere dal clamore della città, allontanarsi dalla frenesia del
lavoro assiduo che aveva scelto, ed era rimasto calamitato da un uomo che
liberava il suo falco in volo. Si erano ritrovati entrambi a bearsi dello
spettacolo sopra le loro teste, della grazia che l’animale destreggiava,
dell’eleganza di quelle ali perfette che seguivano ogni suo movimento e
cambiamento di direzione. Levi si era innamorato di quelle ali. Levi le aveva
desiderate.
La sua mente era tornata indietro
nel tempo, ad un’era che nemmeno pensava esistesse, era talmente lontana che si
era perduto e poi aveva incontrato solo il vuoto, delle immagini bianche che
non riflettevano la luce e Levi non vi aveva visto nulla. Per un momento aveva
perso la capacità di respirare e poi tutto si era riavvolto per tornare a quell’esatto
istante che stava vivendo. Non era stato più lo stesso dopo quel giorno, aveva
cercato di riprendersi quella sensazione e scoprirne l’arcano.
Cercare un circolo di falconeria fu
un richiamo del tutto inaspettato, ma che in qualche modo sentiva giusto;
trovarlo non fu particolarmente semplice. L’unico più vicino alla sua città era
a due ore di viaggio in automobile da una parte e dall’altra, per un totale di
quattro, con annesso di traffico, scarichi da marmitte inquinanti ed ogni
scherzo che una statale malriuscita potesse serbargli; il ritorno era anche più
disastroso. Ma non si era arreso, non si era mai arreso e poter instaurare un
legame totalmente connesso ed affine con animali tanto reali era solo un
privilegio.
Eppure era sicuro di non aver ancora
trovato il compagno della vita.
«Abbiamo un esemplare di aquila di
mare particolarmente turbolento» annunciò Erwin Smith, colui che gli aveva
insegnato ogni segreto sulla falconeria, gli approcci ed ogni particolare
dettaglio che potesse servirgli, ma c’erano determinati elementi che avrebbe
appreso soltanto con il tempo e quando avrebbe trovato il partner ideale.
Levi ne aveva cambiati diversi,
aveva provato con i falchi, con le aquile e perfino con i gufi reali; avevano
tenuto duro quanto era possibilmente immaginabile, ma quella scintilla che
legava un essere umano ad un volatile non era mai scattata. «Turbolento
quanto?».
«Diciamo che prima di tornare a
casa, è necessario contare di avere il numero esatto di dita» Erwin lo disse
con un’ironia divertita, quella smorfia ridente da chi ne sapeva più di tutti
che si allargava sull’intero viso.
«Ha cambiato molti partner?» il suo
interesse era interamente accademico, probabilmente perché si trovava nella
stessa barca, a differenza di tutti i suoi conoscenti che avevano trovato
l’affinità con più facilità. Magari era soltanto lui a non aver particolare
pazienza, come aveva sempre supposto.
«Troppi, non era nemmeno destinato a
questo circolo. Diciamo che l’hanno scaricato a noi» Erwin stese il braccio verso
il gufo reale color del miele che volava sopra le loro teste, richiamandolo ed
aspettando che recepisse il messaggio. Il volatile atterrò sull’arto superiore
offertogli in tutta la sua grazia. «Vuoi conoscerlo?».
Levi non sapeva affatto perché
avesse accettato di vederlo, sapeva già che non avrebbe cavato un ragno dal
buco; doveva volersi più male di quanto avrebbe mai pensato, essere rifiutato
era ciò che gli riusciva meglio.
Entrarono nel recinto dedicato ai
pennuti appena arrivati e senza un addestratore a loro legato, furono accolti
da schiamazzi di ogni sorta che non impressionavano nessuno, Levi era così
abituato che era la beata norma.
Quello che lo gelò sul posto fu
quella piccola crocchia in cui era rintanato l’esemplare di Aquila Calva più
maestosa ed immensa su cui avesse posato gli occhi.
Il piumaggio impeccabile sembrava di
nero inchiostro con quella scarsità di luce che entrava dalla guferia, ma Levi
era certo che fosse di un castano scuro e dalle penne più chiare, la testa era
completamente bianca com’era tipica della sua specie, esattamente come la coda,
e gli occhi era di un insolito ed insospettabile verde bosco, con dei richiami
al blu dell’oceano che non sapeva spiegarsi. Quelli non erano per nulla legati
a quella particolare razza. Erano di qualcun altro, erano di quel qualcun altro. «Ha già un nome?».
«No» negò vistosamente Erwin,
accarezzando la schiena del suo gufo, spettinandogli le penne. «Non ne
riconosce nessuno».
No, certo che no.
«Eren» fu tutto quello che biascicò nella propria immobilità.
«Eren?» il biondo lo guardò
stranito, il dubbio sulla sua sanità mentale che per un momento lo attraversò.
«Non mi sembra-» ma non ebbe mai modo di completare il suo dissenso dinnanzi
allo spettacolo a cui assistette.
Le falangi di una mano di Levi si
alzarono ed andarono incontro al becco appuntito e leggermente curvo
dell’aquila, facendosi esaminare per qualche istante e procedendo con cautela,
lasciando scivolare le dita sulle piume candide ed incredibilmente pulite,
accarezzandole con tutto l’amore del mondo.
L’aquila lo accettò nel modo in cui
Erwin non aveva mai visto in vita sua e si abbandonò al nuovo falconiere come
se gli riponesse tutta la sua esistenza. «Eren sia».
Il legame con l’Aquila di Mare
Testabianca fu immediato e Levi riuscì a portarlo fuori dalla recinzione in cui
era confinato nemmeno due giorni dopo. Erano insoliti, non usavano nessuna
delle tecniche su cui era basata la falconeria da millenni.
Non c’erano richiami di alcuna sorta,
nessun suono, nessun gesto di speciale teatralità, nessuna striscia di cuoio da
legare alle zampe o campanelli segnaletici, alcun rivelatore telemetrico. Eren
seguiva il nome con cui Levi lo chiamava ed il lungo fischio con cui l’avvisava
di tornare da lui quando il trascorrere del tempo si dilatava troppo. Non c’era
altro se non la loro connessione silenziosa.
«Nemmeno il cappuccio?» Erwin non
voleva intromettersi troppo, non stava a lui dirgli cosa stava sbagliando e
cosa no, soprattutto se quell’aquila era talmente diligente come non ne aveva
mai viste, eppure aveva assistito a delle dita che quasi non saltavano in aria,
prese di mira dal volatile da coloro che provavano a domarlo. Era l’esemplare
più particolare che avesse avuto il piacere di conoscere.
Il braccio di Levi era già teso, ma
non dava l’impressione di volere la sua aquila lì con lui, ma che gli stesse
augurando un buon viaggio. «No, Eren li odia» non c’era nulla di più tremendo
di un sacco nero che gli calava sul capo, privandolo della vista e
sottraendogli tutto quello che aveva intorno. Privarlo degli stimoli
circostanti poteva essere un’ottima tecnica per ogni altro volatile, ma non per
Eren.
«Non hai paura che non torni più?»
le strisce di cuoio, i campanelli ed i cappucci neri, perfino il rivelatore
telemetrico, facevano tutti parte dell’addestramento ed ogni falconiere ne
usufruiva. Erano delle bestie che più di altre amavano la libertà avendo ogni
caratteristica che permettesse loro di esserlo.
«Non si allontanerebbe mai da me» dichiarò
il lontano Soldato più Forte, puntando gli occhi verso l’Ultima Speranza che si
destreggiava nel cielo dall’azzurro intenso, mostrando le sue capacità aeree
perfette e l’amore profondo che provava per il volo. «Ma se preferisse la
libertà, gliela darei» non erano più tornati sull’argomento.
«Le aquile sono animali
incredibilmente fedeli e le Testabianca in particolar modo» Erwin elargì quella
nozione in un giorno imprecisato, dopo che aveva osservato Levi ed Eren per
mesi interagire tra loro, creare il più grande duo tra allevatore ed allevato
mai conosciuto. «Scelgono un solo compagno per tutta la vita».
L’impassibilità di Levi era famosa,
nessuno se ne preoccupava particolarmente, ma quando si toccava la sfera
emotiva che lo univa ad Eren, le cose cambiavano leggermente, il falconiere
veterano poteva vedere delle espressioni sul suo viso dai lineamenti perfetti.
«Un solo compagno?».
«Sì» confermò il biondo, mentre
l’interpellato planava su di loro, atterrando sul braccio del suo padrone e
salendo fin sopra la spalla, appollaiandosi con ogni tranquillità possibile,
ricercando sempre un maggior contatto con il suo partner di caccia. «Un solo
amore» forse non si poteva parlare dell’amore come lo consideravano
canonicamente gli umani, ma dal modo in cui l’aquila strusciò la testa candida
su quella corvina, piena d’affetto e sicurezza, era quasi certo che Eren ne
conoscesse il significato esatto.
Erano giunti vicinissimi al tramonto
e l’Aquila Calva aveva volato per tutto il giorno, scrutato con parsimonia dal
basso dallo sguardo attento di Levi, lo spazio senza confini che gli concedeva
e la totale possibilità di esprimersi come più preferiva. Atterrò con tutta la
fierezza di cui era intriso sul braccio preparato del suo capitano e le falangi
erano già pronte ad accarezzarlo per ricompensarlo, per dargli il bentornato.
«Non potevi essere nient’altro che un’Aquila di Mare» disse Levi più a se
stesso che al suo interlocutore silenzioso che lo osservava con le sue grandi
iridi espressive, capaci di perforarlo ed invitarlo a seguirlo per sempre.
«Scegli sempre il mare» era il grande amore di Eren dopotutto, Levi nella vita
originale l’aveva seppellito sulla spiaggia e mesi dopo se l’era tolta su
quella stessa riva. «Forse nella prossima vita è lì che dovrei cercarti» ma non
se lo sarebbe mai ricordato, non avrebbe neppure potuto lasciarsi degli indizi
da qualche parte, non rinasceva mai nello stesso luogo, mai nella stessa città
e nazione.
Eren gli beccò con leggerezza una
guancia, con l’unico scopo di risvegliarlo dalla malinconia in cui era caduto e
Levi si permise di curvare leggermente le labbra verso l’alto dopo tantissimo
tempo. Accarezzarlo di riflesso era tutto quello che gli era permesso. «Sai,
nell’unica vita che abbiamo vissuto serenamente, io ero un gatto e tu un umano
pasticcione» esattamente com’era in realtà, ma con la stessa grinta e
convinzione che l’aveva accompagnato ovunque, riuscendo nei suoi piani, anche
se era un veterano ferito, privo della vista da un occhio e con una mobilità
parziale in un braccio. «Forse anche questa sarà la volta buona» era il miglior
contentino che potessero ricevere, portandolo a domandarsi se l’anatema che li
aveva colpiti fosse davvero così malvagio ed ostile da non permettergli di
incontrarsi, di viversi come due esseri umani che si amavano oltre ogni
dilatazione e distorsione del tempo.
Eren sembrò acconsentire, sbattendo
le lunghe ali e volteggiandogli sopra il capo, mettendole in bella mostra ed
esibendosi in un doppio giro mortale, con un cambio di direzione preciso e
stupefacente. Eren aveva realmente guadagnato quelle decantate ali della
libertà che aveva costantemente sognato da bambino e che entrando nella legione
esplorativa aveva conquistato. Levi avrebbe fatto di tutto per non tarpargliele
e difenderle finché fosse stato capace di vibrare in aria, divenendo un
tutt’uno con l’elemento, in qualsiasi ciclo vitale gli sarebbe toccato.
Fare silenzio, mantenerlo, possedere
un passo felpato erano dei punti cardine nella sua condizione vitale. Il
respiro non doveva manifestarsi, il movimento del corpo doveva essere
controllato al millimetro e non doveva essere presente nemmeno il rumore appena
accennato di un fruscio del vento.
Era invisibile. Non esisteva.
Il suo corpo era un tutt’uno con
l’ambiente circostante, percorreva il sentiero individuato come se volasse,
mimando ai propri uomini di mantenere il passo, di essere migliori di lui e
cessare di cercare ossigeno. Avevano una missione, uno scopo e per il bene del
loro paese dovevano agire nel modo più consono possibile, portando il miglior
risultato, con le perdite al minimo e senza farsi scoprire.
Levi c’era passato tante volte, far
parte dell’ala più oscura degli agenti segreti, talmente nascosta che le loro
identità quasi sparivano, ritrovarsi a credere di non avere nemmeno una casa in
cui tornare, qualcuno che in qualche modo li stesse attendendo per accoglierli
e dargli il bentornato, accertarsi che fossero ancora vivi e circolavano nel
mondo, camminando sulla calda terra.
In realtà Levi non aveva mai avuto
nessuno, se non esclusivamente il lavoro.
Era mai esistita una persona per lui
in qualche luogo, da qualche parte, in un tempo qualsiasi?
Sono destinato a morire,
era tutto quello che la sua mente riportava, l’unico insieme di parole che
pressava nella sua testa caotica, che lo metteva in allarme e gli creava un
senso di disagio e disturbo, un dolore sordo che il suo intero organismo
comprendeva, ma che lui disconosceva completamente. Eppure, eppure sapeva di
non averle mai udite, che non c’era mai stata una figura a lui conosciuta che
le avesse pronunciate, neanche una di passaggio; non erano nemmeno un pensiero
scaturito dal suo cervello da spia dannata. Pensare alla morte era un fattore
che non poteva permettersi, perché avrebbe intralciato la missione. Ma chi le
aveva pronunciate? Perché il suo sangue ribolliva di rabbia quando tornavano a
tormentarlo?
Accucciato su un ramo di una quercia
infinita segnalò alla sua squadra perfettamente addestrata un momento di pausa
e massima allerta. La notte era maestosa, la luna immensa e spaventosamente
luminosa, così tanto da oscurare le stelle. Era una notte pericolosa, vi era
troppa luce e muoversi nell’ombra richiedeva degli sforzi massimi, un lavoro di
mimetizzazione senza precedenti, una singola distrazione avrebbe mandato tutto
in malora, perdendo l’occasione di recuperare e rubare i piani per un prototipo
di una bomba ad idrogeno che non minacciava solo l’incolumità del loro paese,
ma del pianeta intero.
Levi saltò su un ramo più basso, le
orecchie tese, lo sguardo torvo che penetrante fendeva tutto il circondato,
mantenendo il segnale di assoluta fermezza. Neanche le foglie si muovevano e
l’aria era palpabile, così tesa che avrebbe potuto squarciarla. Sono destinato a morire.
Il movimento a lui estraneo lo
percepì in ogni frequenza, si mosse talmente rapido da non essere captato dai
suoi stessi uomini ed il misfatto fu compiuto troppo in fretta, senza avere il
tempo di essere fermato, di pensare. O
loro o noi.
Il colpo del suo fucile di
precisione ed insonorizzato andò a segno in meno di un secondo, senza lasciare
traccia, senza che fosse stato annunciato e rimanessero tracce del suo
transito; nessuno avrebbe mai saputo che fossero passati di là, finché non
sarebbe stato trovato il cadavere e le indagini sarebbero iniziate, insieme
alla coincidenza della sparizione di quelle carte diaboliche troppo pericolose.
La sua abilità compì il suo compito,
ma quando premette il grilletto dopo aver preso velocemente la mira, gli occhi
argentei incontrarono per la prima e ultima volta le iridi del verde più
abbagliante perfino nell’oscurità latente dell’unico satellite della Terra. Il
verde che rispondeva ad ogni quesito che non gli dava tregua.
«Eren» proferì quel nome mai udito
tra le labbra strette e scioccate, il corpo senza anima che precipitava nel
vuoto, la testa che sbatteva sul terreno e le ossa che si rompevano a contatto
con le rocce sottostanti. Era finita.
Era finita ancora prima di iniziare.
Levi si catapultò di sotto senza
trattenersi, il fucile buttato da un lato e le gambe che correvano verso quella
persona che avrebbe dovuto proteggere. Aveva fatto una promessa, si era
prefissato di non tagliargli mai le ali.
Si specchiò in occhi vitrei e privi
di quella luce incredibile su cui il lontano Soldato più Forte aveva vigilato
ogni giorno per anni prima che la maledizione dei giganti glieli sottraesse.
Incontrò un volto distorto, le labbra semichiuse come se fossero state in
procinto di pronunciare qualcosa, un ultimo gruppo di lettere, le iridi
incredule che non accettavano quella crudeltà del fato inaspettata,
l’irregolarità della postura del suo corpo e quel proiettile in pieno petto, al
centro di un cuore che non batteva più e che non avrebbe mai ricominciato a
pompare, insieme a quel fiume scarlatto che cadeva sul terreno fertile.
«Eren» si accasciò in ginocchio a
peso morto accanto alla figura di quel ragazzo che non aveva mai visto, a quella
figura che corrispondeva al suo nemico, a qualcuno che attentava alla sua
sicurezza ed a quella di tutta l’umanità. Accanto all’amore di tutte le sue
vite. Ogni singola, ripetuta ed amara vita.
Le mani si mossero da sole ed
accerchiarono il viso ancora tiepido del peccato di cui si era macchiato,
dell’errore madornale che aveva compiuto, mentre le dita del lato sinistro
affondavano tra i capelli del mogano, riconoscendoli immediatamente e soffrendo
per ogni tocco, ad ogni centimetro di epidermide che esaminavano. Era Eren in
tutto e per tutto ed ogni suo atomo riusciva a realizzarlo, a dannarsi ed
autoflagellarsi, a maledirsi.
Non riusciva a metabolizzare
l’evento, a metterlo in ordine ed a dargli un senso. Era pietrificato. Com’era
potuto accadere? Come aveva potuto percepirlo, ma non riconoscerlo in tempo?
L’aveva tradito.
Tutto il suo percorso, ogni vita che
si ritrovava a ripetere daccapo aveva l’unico scopo di ricongiungerlo ad Eren.
Di riportarlo da lui. Che fosse per un momento, un giorno o stagioni intere,
avevano il diritto di viversi come meritavano. Levi non l’aveva permesso. Levi
l’aveva strappato al mondo troppo presto.
Si era strappato il suo stesso cuore
dal petto da solo.
«Rivaille» qualcuno della squadra
lo chiamò con il suo nome in codice, attirando l’attenzione ed accertandosi di
qualcosa che l’Ackermann non poteva vedere. Il silenzio era stato spezzato.
Levi congiunse la fronte a quella di
un Eren che aveva cessato di esistere, beandosi e dannando quel lieve calore
così simile a quello reale da farlo stare male, da odiarsi. Gli era mancato
talmente tanto in quei secoli che avrebbe potuto vivere solo per quell’unica
ragione. Non era mai riuscito in nessuna vita a toccarlo davvero, non erano mai
riusciti a riunirsi come avrebbero dovuto. Il loro circolo ripetuto era una
condanna senza pietà.
Gli baciò la bocca dischiusa ancora
scarlatta, il primo bacio dopo talmente tante vite rivissute da averne perso il
conto ed ognuna senza che il suo compagno fosse con lui. «Mi dispiace,
perdonami» affondò il viso nel suo, inspirandone l’odore mischiato alla morte,
depositandogli un nuovo bacio sull’arco di Cupido, abbracciando tutto il suo
organismo. «Ti amo».
L’aveva condannato, aveva espresso
quello sciocco e maledetto desiderio di non essere separati nel momento del
suicidio, era stato così stolto da non essere mai stato capace in nessuna nuova
opportunità offertagli di donare ad Eren la vita che si meritava, di cui aveva
diritto. Era stato così incapace di difendere l’essere che gli si era affidato
ere ed ere precedenti, che aveva giurato di proteggere a costo della propria
vita, da sporcarsi lui stesso del suo sangue. Aveva ucciso intenzionalmente il
ragazzo che amava e che inseguiva in ogni ciclo vitale.
«Rivaille» era un nome senza
importanza, tutto aveva perso d’importanza. Nessuno di loro poteva capire la
situazione, quanto fosse distrutto, che cosa avesse appena perso. Cosa
continuava a perdere. Ma mai era stato così avventato da essere il carnefice di
Eren di prima mano.
Quando la sua squadra provò a
separarlo dal corpo senza speranza di quel ragazzo troppo giovane per morire,
un ragazzo che continuava a morire nel pieno dei suoi vent’anni, Levi estrasse
uno dei pugnali legati ad una gamba che si portava sempre dietro come arma di
riserva e si lacerò di netto la carotide, spargendo il proprio sangue ovunque,
lasciando senza riguardo che schizzasse sull’epidermide perfetta di Eren e
creando dei vocii di sconcerto ed orrore negli uomini che l’avevano
costantemente seguito in totale silenzio nel lungo percorso da spia. Silenzio
che nessuno di loro, da Levi stesso, al termine di ogni cosa rispettò.
Un attimo prima che la coscienza lo
abbandonasse, si chiese quanti Levi Ackermann nel tempo fossero morti dopo la
dipartita di Eren Jaeger.
Non era completamente privo di meta,
ma spesso camminare senza dover giungere da qualche parte era ciò che sentiva
di dover fare, nessun pensiero e delle falcate che non andassero né troppo
velocemente né lentamente.
Forse in cuor suo c’era qualcosa che
lo spingeva a dover mettersi in marcia, girare ogni angolo della città ed
imporsi di prestare attenzione a ciò che gli si parava dinnanzi; eppure la
distrazione era qualcosa che lo caratterizzava, la totale indifferenza per il
circondato, sempre immerso in dei pensieri che in un modo o nell’altro non
sentiva come propri, ma di qualcun altro, di un’era che non sapeva se fosse
stata veritiera.
Forse la risposta a quelle domande
che non prendevano mai consistenza nel vortice della mente, l’aveva perduta
secoli antecedenti ed il suo inconscio continuava a cercarla.
Scontrarsi ed urtare contro un corpo
a lui estraneo era nettamente letale per i suoi nervi non propriamente saldi,
Levi non era qualcuno che tendeva a scostarsi o a far passare il prossimo, era
più qualcuno che si doveva intercettare da lontano, comprendere il tipo di
persona con cui si sarebbe entrati in contatto ed evitarlo autonomamente per
prevenire problemi. Levi era nato come spartiacque.
Ma era evidente che colui che non
aveva osato cambiare direzione era un vero inetto. «Ragazzino» l’inetto in
realtà era proprio lui.
Quando Levi si voltò per
fronteggiare e riprendere la figura alta e maschile che l’aveva colpito ad una
spalla, cantagliele senza un motivo particolare, incontrò dopo millenni interi
gli occhi dello smeraldo più vivido che le sue memorie non volevano cancellare,
manifestandogliele nella cornea ogni volta che serrava le palpebre, senza avere
alcun indizio di dove li avesse mai visti. Ma sapeva dove li aveva visti,
sapeva perché si ritrovava ad amarli ad ogni nuova nascita, era consapevole
della motivazione che lo portasse a cercare qualcuno di cui non conservava
minimamente alcun ricordo. «Eren».
Eren lo guardò senza vederlo
davvero, ma stranamente consapevole di avere qualcuno davanti, le iridi del
verde intenso della natura che non si accesero di alcuna scintilla ed il dubbio
che gli creò una ruga tra la fronte. «Ci conosciamo?».
Mai, mai in nessun nuovo ciclo
vitale erano stati privati della capacità di ricordare una volta incontratisi.
Dovevano trovarsi uno di fronte
all’altro, occhieggiarsi, far incrociare le pupille, il processo partiva in
automatico e tutto riaffiorava; potevano rientrare a conoscenza l’uno
dell’altro, colmare il grande vuoto che li accompagnava ad ogni ripetuta
nascita. Ritrovare loro stessi.
Ma non quella volta ed il mondo del
capitano andò in frantumi. «Non sai chi sono?».
«La voce mi sembra familiare, ci
siamo già conosciuti?» domandò il titano con titubanza, un eco lontano che in
qualche modo tentava di riportare indietro, di rivangare, di dargli una
sostanza. «Potrebbe parlare ancora?».
Levi era stato talmente catturato
dalla figura di Eren, sottomesso, accecato dalla sua presenza che non era
riuscito a vedere altro, ad allungare il suo campo percettivo e cogliere tutto
l’insieme, qualcosa che non fosse il ragazzo che aveva amato e amava in ogni
singola vita. Ma c’era altro, c’era quel lungo bastone sottile di metallo
ritraibile dal manico rosso che tastava il terreno, lo avvertiva dei
cambiamenti del suolo su cui camminava, degli ostacoli che si sovrapponevano
tra lui e la sua marcia tranquilla ed il più indolore possibile, che gli faceva
presente se esistessero avvallamenti o fossati, scalini che doveva superare,
tracciandone l’altezza, o i lunghi scivoli improvvisi sui marciapiedi. Era un
bastone che Levi avrebbe dovuto notare prima di tutto il resto, era il motivo
per cui avrebbe dovuto essere lui a cambiare la sua direzione e non far
avvenire l’impatto. Eren non poteva vedere.
Eren lo esortava a parlare perché
era l’unico modo per collocarlo tra le sue conoscenze nell’oscurità che
l’avvolgeva perpetuamente.
L’Ultima Speranza non avrebbe mai
potuto sgranare le sue enormi iridi di giada, accendersi nel momento in cui
ogni memoria sarebbe affiorata e l’avrebbe riconosciuto, vivere con lui l’amore
che condividevano da ere infinite.
Eren non l’avrebbe mai ricordato.
Eren non avrebbe mai saputo chi fosse, chi fossero. Qual era la loro storia.
«No, non ci siamo mai conosciuti» il
cuore di Levi sanguinava, piangeva lacrime vermiglie inarrestabili, il suo
intero destino era soltanto stracolmo di amarezza e dalla specie peggiore di
burlone. Era la sua punizione, era il suo compenso per le mani che si erano
sporcate del sangue del gigante nell’esistenza precedente.
Le sopracciglia del ragazzo si
arcuarono verso l’alto e le orecchie reagirono al dolore che il tono vocale
dello sconosciuto aveva controllato, ma che il suo udito estremamente allenato
aveva percepito. «Oh, va bene».
La presa sul bastone si fece più
ferrea, pronto a riprendere il suo percorso e Levi si chiese se quella sarebbe
stata l’ultima volta in cui si sarebbero incontrati, se fosse l’unica occasione
in cui avrebbe potuto vederlo, se quel nuovo capitolo si sarebbe concluso lì,
in quel momento, senza la morte che si frapponesse tra loro. «Posso
accompagnarti?» l’impulso l’aveva guidato incontrollato e Levi si odiò per
quella proposta sbagliata, talmente erronea che avrebbe dovuto maledirsi per
sempre; peccato lo fosse già.
Le labbra di Eren si schiusero
appena e l’intera sorpresa Levi la vide dipinta sullo splendido viso che
avrebbe potuto cospargere di baci se la fortuna non fosse stata tanto angusta.
«Siete uno stalker?».
Forse lo sarebbe diventato. «No,
devo solo tornare comunque indietro» Levi non voleva che lo classificasse come
qualcuno che provava pietà per lui, che voleva in qualche modo aiutarlo perché
lo considerava incapace di occuparsi di se stesso. Non voleva apparirgli un
ipocrita che si presentava come un eroe senza macchia, era l’unica trovata che
l’aveva attraversato per allungare quell’interminabile istante in sua
compagnia. Non era mai stato bravo a rinunciare ad Eren, nemmeno davanti alla
malignità beffarda del regno di Ade in attesa.
«Ha dimenticato qualcosa?» domandò
il castano di riflesso, non persuaso dalla proposta.
«Devo soltanto tornare a casa» dove
il suo unico amore in migliaia di anni non sarebbe stato. «Mi stavo schiarendo
la mente» ed era stato mal ripagato.
Eren lo fissò meditativo, come se sapesse
esattamente dove fosse e chi si presentasse dinnanzi, scrutandolo a leggergli
l’anima. «Le è servito?».
«È una domanda a cui non so ancora
rispondere» forse non ci sarebbe mai riuscito, forse non sarebbe stato in grado
di sopravvivere.
«Allora va bene, può accompagnarmi»
gli concesse Eren con parsimonia, indicandogli una direzione qualsiasi.
Una parsimonia che Levi accettò
nell’immediato, senza lasciarsi sfuggire l’unica occasione che gli veniva
offerta. Forse erano i sensi amplificati di Eren che avevano pietà di lui, che
si immolavano come suo eroe.
«Siete sicuro di non esserci già
incontrati? La sua voce mi sembra di conoscerla» non riusciva a scrollarsi la
sensazione dalle ossa, il ritmo armonioso di quella vocalità che sapeva fosse
nel suo quotidiano da una quantità temporale incalcolabile.
«Sì, Eren» rispose con una
malinconia che avrebbe dovuto conservare dentro di sé finché avrebbe avuto
fiato in corpo.
«Però conosce il mio nome» lo
inchiodò un passo dopo l’altro, con una leggerezza che svuotò il capitano.
Si era dato la zappa sui piedi da
solo. «Non so rispondere nemmeno a questa domanda, magari ho solo tirato ad
indovinare».
Come se Eren potesse essere un nome talmente comune da essere sulla bocca
di chiunque e primo pensiero da esprimere. «Tirato ad indovinare, eh» si perse
nei suoi pensieri, il vento fresco che gli scuoteva i capelli ed ogni mistero
del mondo che l’accompagnava nella meditazione. «Posso provare anch’io?».
«Se ci tieni» forse l’avrebbe
distratto, forse tutto sarebbe stato dimenticato ed avrebbe preso una direzione
diversa.
Eren sorrise al nulla ed il Soldato
più Forte non poteva frenarsi dal trovarlo incantevole, a guardarlo con
quell’amore traboccante e soffocante che non avrebbe mai potuto dedicargli. «La
sua voce…» proferì al mondo che li avvolgeva, a quella camminata che si era
trasformata in un’inaspettata passeggiata dai bizzarri scontri, accompagnata da
una devastante sensazione ancorata ad un passato misterioso. «Levi» proferì
nella nostalgia più attanagliante, nella melanconia che lo trafisse in un
istante.
I piedi del capitano si gessarono e
si pietrificarono esattamente dov’erano, rimanendo indietro, superato da un
Eren ignaro di ciò che aveva esternato. «Levi?».
Il gigante si fermò in conseguenza,
dalla mancanza totale del passo che lo seguiva, del calore corporeo che gli
stava con rispetto a fianco e dalla domanda attonita che gli venne impartita.
«È solo una prova, ne penserò un altro».
Perché la loro mente era così rotta
da far affiorare soltanto alcuni frammenti di quello che erano stati nella loro
vita originale? «No, è giusto».
«Davvero?» chiese di riflesso,
perché era inconcepibile che avesse azzeccato al primo colpo, ma Eren lo sentì
asserire in assenso. «Levi… è un nome insolito» non sapeva nemmeno la motivazione
che l’avesse spinto a dirlo ad alta voce, quella familiarità improvvisa che
aveva provato nel momento in cui gli aveva dato consistenza, scandendo lettera
su lettera dalla bocca. «Ha un bel suono» un suono che gli scorreva nelle vene
fin dal primo vagito.
Levi seppe con certezza di essere
stato incastrato ancora una volta dall’essenza destabilizzante che emanava Eren
Jaeger.
«A volte penso che mi manchi un
pezzo, una parte di me stesso» Eren non si riferiva mai alla sua cecità, non la
classificava in nessun caso come un difetto né lo faceva chi viveva con lui da
sempre.
Levi aveva dovuto imparare ad
accettarlo. Se l’era imposto.
Aveva sperato che quando le calde
mani di Eren gli avessero toccato il volto, le dita che prendevano confidenza
con i suoi lineamenti, ispezionando, creando del contatto, disegnando ed
assimilando l’idea che i tratti del viso potevano suggerirgli, si sarebbe
attivata quella memoria latente della loro vita originaria; che i palmi delle
mani sarebbero divenuti i suoi occhi, il modo in cui poteva vederlo
chiaramente. Ma non era accaduto. I ricordi di Eren non si sarebbero mai
manifestati. «Non c’è nulla che non vada in te».
Il titano sospirò al vento, la
brezza marina che l’avvolgeva in ogni dove, il divano da esterno stracolmo di
cuscini dov’era seduto, proprio lì, ad affacciarsi dalla sua piccola casa di
legno bianco sulle rive dell’oceano; Levi non era affatto rimasto stupefatto
dalla coincidenza. «Eppure lo sento. Lo sai anche tu, Levi».
Levi, non capitano, non capitano Levi, un appellativo completo che usava con i suoi
compagni con cui fraternizzava maggiormente perfino quando il Soldato più Forte
era chilometri lontano da lui; era soltanto Levi, nel modo più intimo e
familiare che potesse esserci, nella confidenza più estrema senza titoli, senza
barriere di chi possedesse un grado più alto, il rispetto continuo che Eren
provava per lui ad ogni ripetuto ciclo vitale. Non gli creava alcun fastidio,
ma era la prova continua che non era completamente Eren in ogni sua sfumatura,
nel suo modo egoistico di non staccarsi dal passato, eppure l’enorme sentimento
che gli dedicava non vacillava, ma non poteva sottrarsi dalla fitta che di
tanto in tanto gli attaccava il cuore. «Ci sono alcuni aspetti di noi che ci è
impossibile conoscere».
Eren portò lo sguardo esattamente
davanti a sé, nel medesimo punto in cui sentiva provenire la voce e la
temperatura corporea dell’uomo con cui condivideva una storia da quasi due
anni. «E ti sta bene?».
«Ti piace il mare, Eren?» domandò
invece il capitano, ignorando qualcosa a cui non avrebbe mai dato risposta.
Il
ragazzo rimase di stucco, sbalordito da una richiesta che si sarebbe aspettato
in tempi diversi, agli inizi. Eppure sapeva bene che il rapporto che aveva
creato con Levi era stato insolito, quasi meccanico, una facilità che non gli
era mai capitata con nessuno; fidarsi dell’uomo era stato autentico istinto,
qualcosa che non avrebbe mai potuto spiegare a terzi. E Levi… Levi aveva sempre
conosciuto tutto di lui, senza che avessero toccato un particolare argomento.
Eren aveva cercato in ogni modo fattibile di non fargli notare come si tradisse
nel negare che fosse pieno di informazioni su di lui. L’idea probabile che l’uomo fosse uno stalker
non era così blanda, ma era un conoscere diverso, erano degli aspetti che Eren
stesso non aveva esternato ad anima viva, radicati nel cranio. «Mi piace il
suono delle onde» dichiarò a compiacerlo, ancora lievemente stordito, ma
immerso nella contemplazione. «Lo schiumare delle onde, la sensazione di
avvolgimento, conforto e libertà, qualcosa di forte e completamente amalgamato
con se stessi» era tutto quello che gli era concesso. «Ma non posso vedere
quanto sia realmente bello».
«Lo vedi perfettamente» lo
contraddisse il Soldato più Forte, immutabile, incisivo. «Esattamente come io
vedo te. Posso dubitare di tutto su questo pianeta, ma mai del tuo amore per il
mare».
«Non me lo dirai mai, vero?»
esistevano tanti segreti in Levi, qualcosa che purtroppo gli era precluso. Eren
non poteva accertarsi con i propri occhi delle espressioni che l’uomo gli
celava, dei significati ed emozioni nascoste che segregava dentro iridi di cui
non conosceva l’aspetto, dei lineamenti distorti che il suo viso manifestava,
rendendo chiaro ciò che pensava, ma Eren poteva toccarlo, toccarlo come a
nessun altro era permesso, una sua totale esclusiva; conoscere a menadito la
consistenza dell’epidermide sotto i polpastrelli, l’esatta posizione delle
pieghe d’espressione, il tipo di sentimento che provava in quello specifico
istante. A volte aveva perfino la sensazione di sapere perfettamente come
apparisse, una figura nitida e leggermente sbiadita sui bordi di che forma
fosse, da quali colori fosse circondato ed Eren non era mai stato in grado di
vederli, non ne conosceva il significato, il nome, non sapeva descriverli anche
se la gente ci aveva provato, ma si poteva descrivere un colore per qualcuno
che non ne aveva mai visto uno? Eren immaginava ciò che l’avvolgeva a modo
proprio, astratto, senza certezze, continuamente instabile e soggetto a variazione,
ma con Levi non accadeva, era una diapositiva indelebile nella mente, quasi gli
fosse stato concesso di sbirciare attraverso l’oscurità come fosse fatto; come
se in una vita diversa avesse avuto la fortuna di vederlo ed imprimersi ogni
aspetto di lui, senza poterlo dimenticare. Levi era tutto quello che le sue
retine difettose riuscissero a vedere.
«Non c’è nulla che tu debba sapere,
Eren» Levi si prodigò verso di lui e lo accarezzò con le falangi, nell’identico
modo con cui l’Ultima Speranza comunicava con lui, depositandogli un bacio
leggero come ali di farfalla ad un angolo della bocca. «Ma non devi mai
dimenticare che ti amerò sempre, a prescindere da tutto» dalla morte, dai
giochi pessimi del destino che li faceva incontrare in strani modi ed in forme
discutibili, dall’impedimento totale di recuperare le loro vere essenze.
Eren sorrise sotto le labbra del
capitano e rispose con uno schiocco impercettibile, ma di un impatto
sconvolgente. «Vale anche per me» era buffo, ma il primo ad approcciarsi nella
vana speranza di creare un legame che andasse oltre la conoscenza superficiale,
era stato proprio Eren, mentre Levi tentava di non influenzarlo troppo e
dipendere da lui. L’aveva sorpreso, esattamente come il primissimo ti amo che non era stato pronunciato
dalla sua bocca monosillabica.
«Nella mia intera esistenza ho amato
una sola persona e quella sei tu» aveva dichiarato il Soldato più Forte in un
giorno e momento imprecisato, con ogni verità impressa parola per parola, la
pesantezza dei numerosi cicli di cui erano stati protagonisti, il fardello
della ricerca e della perdita, l’inevitabilità di quanto l’Ultima Speranza
valesse i respiri emessi di decade in decade.
Eren l’aveva ricambiato come se
comprendesse la realtà celata di ogni singolo vocabolo.
La loro maledizione, mascherata da
benedizione, aveva delle pretese che Levi non avrebbe mai compreso a fondo –
erano destinati ad innamorarsi malgrado le difficoltà che gli impedivano di
incontrarsi? Erano esistite delle volte in cui gli era stato negato? In cui
Levi stesso non aveva mai recuperato i ricordi ed Eren era rimasto ad amarlo in
silenzio?
Quella sarebbe stata una delle vite,
se non la vita, che avrebbe goduto al meglio insieme al ragazzo per cui
continuava a rinascere in sequenza. L’esistenza migliore che potesse sognare.
Ma Eren non sarebbe mai stato in
grado di ricordarla nel nuovo ciclo, nemmeno quando si sarebbero incontrati
davvero e la capacità di vedersi attraverso gli occhi dell’altro fosse
nuovamente possibile.
Per Eren era un arco della loro
storia che non sarebbe esistita in nessuna circostanza e Levi sarebbe stato
l’unico testimone di quella memoria. La memoria di essere riuscito finalmente
ad amarlo come avrebbe voluto e di essere amato allo stesso identico modo.
Ma se era l’esclusivo testimone, era
esistita veramente?
Viaggiare era una conseguenza del
suo lavoro da affarista, non aveva mai pensato chissà quanto alla possibilità
di allontanarsi dalla sua città natale e girare il pianeta, a lui andava bene
così come le cose venivano. Avrebbe accettato con disinteresse qualsiasi cosa
la vita avesse in serbo per lui, l’avrebbe appoggiata e scaricata nel caso non
gli suscitasse nessuna emozione. Fantasticare sul girovagare da paese a paese,
da località a località non l’aveva mai sfiorato, ma non era nemmeno qualcosa su
cui avesse emesso un veto, eppure quando il primo viaggio di lavoro si
presentò, eliminando tutte le seccature burocratiche ed il muoversi in un
determinato modo da un posto ad un altro, ebbe come un’epifania.
Fu colto da un senso di nostalgia
devastante, una sensazione di libertà di cui non sapeva neanche di aver bisogno
e di aver mai manifestato. L’esperienza di aver visto tutto, ma senza
accontentarsi; non era abbastanza perché il mondo era in continua evoluzione. Gli
apparteneva?
Quello stato di essere perpetuo non
l’abbandonò mai, come il suggerimento continuo che con un filo di voce lo
pregava di fare attenzione, di tenere i sensi in allerta e non abbassare mai lo
sguardo, poggiando gli occhi su qualsiasi cosa attirasse l’attenzione. Levi non
sapeva cos’è che stesse cercando.
Era un viaggiatore solitario, con la
sua ventiquattrore costantemente in mano a seguirlo dappertutto, il cellulare
nella tasca interna della giacca che suonava in continuazione; nient’altro, la
sua vita era tutta lì.
Il vento portato dal treno ad alta
velocità gli scompigliò leggermente i capelli corvini, ma non se ne preoccupò
minimamente, imperturbabile ai ritardatari che gli correvano accanto per
affannarsi a non perdere la coincidenza, continuando a guardare con noia il
tabellone alla sua destra ed attaccato al tetto della stazione che a caratteri
cubitali scandagliava il tempo d’attesa per la corsa che avrebbe dovuto evitare
di perdere. Venti minuti, tks.
Armeggiò per qualche secondo con lo
smartphone, inviando un messaggio di un paio di lettere a Hanji,
sperando che smettesse di dargli il tormento quantomeno per la lunga durata del
viaggio di ritorno che l’aspettava, riponendo l’oggetto nel solito posto ed
alzando la visuale, mentre le porte del treno che si preparava a ripartire si
chiudevano ad un palmo dal suo naso.
Fu devastazione.
Eren con il fiatone e le gote
arrossate per la corsa sbatteva i pugni contro il vetro appena serratosi, gli
occhi dello smeraldo più splendente che si specchiarono per la prima volta in
quelli d’argento, attoniti, spaventati e l’inevitabilità che ancora una volta
si prendeva gioco di loro.
Il ragazzo lo chiamava a gran voce,
ma Levi non riusciva bene a comprenderne il suono, ovattato dagli sportelli
sigillati, dal rumore assordante della stazione, dal fischio che annunciava che
il convoglio ferroviario stava iniziando il suo viaggio. Capitano, Levi sapeva ancora leggere il labiale, conosceva
perfettamente la forma di ogni lettera che componeva il titolo con cui Eren
l’aveva chiamato secoli prima e che continuava ad utilizzare per appellarsi a
lui.
«Eren» lo urlò di slancio, in coro a
quello del titano che si dibatteva all’interno del vagone, i passeggeri e le
persone che attendevano come e con lui che li guardavano sgomenti e perplessi,
non comprendendo il siparietto ed ignorandone completamente il significato, ma
con il volto indirizzato verso le porte che non potevano essere aperte per
nessuna ragione.
Eren sbatté ancora più forte le mani
che fecero vibrare gli sportelli, scuotendoli, ma Levi lo vide sparire così
com’era apparso.
Un attimo prima aveva un enorme
mezzo di ferro e ruggine davanti agli occhi, la noia di come far trascorrere il
tempo in attesa della sua corsa, e quello successivo gli veniva negata la motivazione
che lo costringeva da ere di rinascere per ricongiungersi all’Ultima Speranza,
con il treno intercontinentale che procedeva nella direzione opposta a quella
che avrebbe presto intrapreso lui.
Levi rimase immobile davanti a dei
binari vuoti, il vento fulmineo che ancora una volta lo scosse completamente,
ma lo sconvolse interamente, insieme a dei mormorii che non cessarono di
accerchiarlo. L’aveva perso di nuovo. Era un’altra vita in cui non avrebbe
concluso ciò che si era prefissato, una vita che non aveva motivo di esistere
dinnanzi al suo cadere davanti allo scacco matto eterno del suo beffardo
destino.
Per quanto Levi ci avesse provato, sviscerando
ogni strada possibile, continuando a viaggiare, a scomodare tutte le persone
più influenti che conoscesse, rifiutandosi categoricamente di temere il peggio,
non ebbe mai il privilegio di ritrovare Eren. Che fosse una punizione perpetua
per essere stato il suo mietitore personale in alcune esistenze trascorse,
marchiato per l’eternità dal suo sangue e condannato a non viverlo?
Più leggeva quel manoscritto e più
lo trovava spaventosamente familiare, affine a qualcosa che non gli apparteneva
affatto, ad una storia che non aveva mai udito.
Levi odiava avere a che fare con i
dilettanti, le giovani possibili promesse che doveva istruire passo dopo passo,
delineando, limando, facendogli abbassare la cresta e rispettando allo stesso
tempo il loro stile di scrittura, senza permettersi mai di alterarlo, di
inquinarlo e lasciare il suo passaggio, snaturandolo. Con gli autori già
avviati e con una forte personalità, un’idea ben precisa del loro linguaggio,
un’impronta evidentemente ben delineata, era tutto più facile ed il suo lavoro
si limitava ad un’accurata correzione, i vari suggerimenti che un redattore
aveva il dovere di dare.
Gli era toccata, quella patata
bollente su cui puntava spudoratamente la casa editrice di cui era dipendente,
la Colossal, così tanto da affidarlo a lui che aveva sempre rifiutato di avere
a che fare con chi era alle prime armi. Il suo direttore sapeva bene come
incastrarlo ed il lavoro era lavoro dopotutto, poteva astenersi fino ad un
certo punto, ma finché non gli era capitata quella prima bozza tra le mani, non
era riuscito a capire perché l’editore desiderasse ardentemente pubblicare
quell’opera e costringerlo a partecipare al progetto ben conoscendo le sue
riserve. Levi aveva dovuto ricredersi alle prime cinque pagine.
Non l’avrebbe mai ammesso nemmeno
sotto tortura e si ostinava a non darla vinta a quel pivello che l’aveva
conquistato fin dalle primissime battute, procedendo nella lettura, senza
fermarsi quando invece era necessario. Lo divorò in un giorno.
Lo chiamò la mattina successiva,
armeggiando con gli auricolari seduto alla scrivania del proprio ufficio,
fissando il suo nome sulle carte che riportavano il numero telefonico, il nome
con cui firmava quel romanzo da cui non riusciva a svincolarsi. Eren Jaeger.
A primo impatto, alla conclusione
dell’ultima pagina, che lasciava bene intendere che ci fosse un seguito, non
aveva minimamente fatto caso a quella firma, ma rimase pietrificato quando gli
occhi caddero su quelle due specifiche parole. Ebbero il potere di scuoterlo
più di quanto non avesse fatto la storia che aveva ingurgitato.
Non riuscì a comprenderne la
motivazione e cercò di dimenticarsene, ma nelle vene scorreva sangue di
ghiaccio.
«Pronto?» la domanda di rito non
ebbe alcuna pietà per il curatore.
Quando Levi sentì per la prima volta
la voce dell’autore che avrebbe avuto in carico, pensò che non sarebbe
sopravvissuto. Dare un significato a quelle sensazioni di strazio e ritrovata
opportunità fu qualcosa che non riuscì a compiere. «Hai scritto una storia molto
interessante» fatta di giganti, estinzione dell’umanità ed una guerra senza
fine.
Un singolo respiro si trasferì
attraverso l’altoparlante ed il silenzio la fece da padrone per alcuni attimi.
«L’ha letta?».
«È il mio lavoro» ma forse non
avrebbe aiutato a rendere chiaro con chi il ragazzo parlasse. «Sono Levi
Ackermann».
«L’editor?» l’interlocutore scattò
subito sull’attenti ed il tono crebbe di furore, qualcosa che assordò Levi in
modo fatale. «La leggenda?».
«Se è così che vuoi chiamarmi» era
davvero una leggenda, i migliori autori dell’ultimo ventennio erano passati da
lui e li aveva resi di manoscritto in manoscritto solo più grandi.
«Non pensavo che… avrebbero affidato
questo compito a lei» l’emozione era palpabile dalla voce ancora scettica del
giovane.
Una voce che per Levi appariva fin
troppo familiare e che faceva dolere il petto. «Allora, Eren, parliamo di
questi tuoi giganti» pronunciare ed assaporare quel nome che mai aveva sentito
nella propria vita fu un impatto che quasi lo uccise.
In genere il redattore tendeva a
dare delle linee generiche come inizio e ad analizzare i pezzi più turbolenti
soltanto in seguito, passando il documento da una parte all’altra come una
pallina da tennis per le dovute modifiche, ma in quella particolare situazione non
riusciva a rimanere distaccato come la nomea che lo precedeva. Passava ogni
attimo possibile al telefono con Eren, a discutere dei più inutili dettagli che
non avrebbe notato nessuno, se non la sua testardaggine. «Hai già un’idea da
quanti volumi sarà composta?».
«Non saprei, forse cinque o sei» il
ventenne non rifletteva molto sulle risposte, era come se in qualche modo le
avesse già incanalate dentro di sé o fosse soltanto molto impulsivo.
«È un progetto molto lungo per un
esordiente» sarebbe stato in grado di gestirlo?
«Non dovrebbe?» non c’era ansia nel
tono pieno di vitalità del giovane scrittore, ma a volte sembrava ci fosse
della sfida.
«Non sta a me dirlo, è la tua
storia» se significava poter lavorare con lui per molti anni a venire, Levi si
sarebbe immolato.
«Sì, la mia storia» la sfumatura che
investì l’editor lo lasciò inebetito, con un profondo senso di vuoto allo
stomaco, quasi come se in qualche modo ci fosse di più. Eren volesse comunicare
di più, ma fosse ostile perfino a lui. Esistono
segreti perfino per noi stessi.
«Hai già qualcosa di pronto per la
seconda parte?» glielo chiese alcuni giorni dopo, quando si ritrovò a
riflettere un po’ troppo su un paragrafo in particolare, delle parole che
contenevano qualcosa che gli sfuggiva e che erano strettamente in sintonia con
il proprio modo di essere.
«Sì» Eren asserì con leggera
incertezza, non sapendo bene se potesse esporsi o esistesse una risposta
diversa che non conosceva.
«Potresti mandarmela?» era una
richiesta che in genere non andava fatta, Levi in primis non si permetteva mai
di estenderla, ma con Eren sentiva il bisogno di muoversi in modo differente.
«Perché?» chiese di riflesso,
attendendo nervoso alla linea telefonica.
«Ho bisogno di capire a quale
direzione stai puntando» era qualcosa che non riusciva ad ignorare.
«Stiamo lavorando soltanto al primo
volume, non sappiamo se venderà abbastanza da fare uscire un seguito» lo scrittore
si agitò, producendo rumori sinistri dall’apparecchio di comunicazione.
«Non importa, qualsiasi sia il
verdetto, un lavoro deve sempre essere perfetto» era un aspetto su cui Levi non
transigeva. Non bisognava mai puntare alla mediocrità e alla possibilità che se
le cose fossero andate bene, allora si sarebbe proseguito con un’opera degna di
quel nome, né l’evento inverso; si doveva dare il meglio di sé in qualsiasi
situazione, senza guardare al futuro, al profitto o alla mancanza di esso. «E
poi non accetto casi senza speranza».
Eren sospirò dal ricevitore,
mordendosi le labbra ed abbandonandosi con ancora qualche riserva contro lo
schienale della sedia. «È solo una bozza, non l’ho mai corretta».
«Non importa, fa parte del mio
lavoro occuparmene» per un autore era impensabile mandare qualcosa che non
avesse mai visto una rilettura, una virgola aggiunta giusto per dare una
cadenza particolare ad una frase, il modo migliore per comunicare il
significato desiderato; la reticenza di Eren la capiva bene, ma Levi aveva
bisogno di conoscere di più, che fosse anche soltanto un paragrafo.
Ciò che il giovane Jaeger gli mandò
fu l’intero secondo volume della saga, perfetto nella sua prima stesura e con
le evidenti migliorie che il tempo gli aveva concesso, affinando la sua tecnica
rispetto al capitolo precedente a cui stavano lavorando estenuantemente.
La sensazione che quelle parole
raccontate facessero parte del suo quotidiano si ramificò, che quella fosse
anche la propria di storia. Levi non riusciva a viverla benissimo.
«Ho detto di no» sbraitò l’autore
emergente, inferocito e per nulla propenso ad accordarsi.
Eren non era accondiscendente in
nessun caso, si infervorava, si batteva a mani nude per ciò in cui credeva e
non cedeva mai. «Devi solo sfoltirla» Levi sempre più spesso si ritrovava ad
avere a che fare con un’emicrania che non gli dava tregua.
«Quel pezzo è in questo modo per un
motivo» si dibatté Eren, la tenacia che non demordeva.
«Se fosse per te, non dovremmo
nemmeno utilizzare dei sinonimi» l’editor aveva lavorato con davvero tanta
gente, ma nessuno gli aveva mai dato talmente tanto filo da torcere.
«I sinonimi vanno bene, ma quando
sono giusti e non cambiano il senso del racconto» non sempre il suo curatore
riusciva a capire che cos’è che volesse esprimere ed il giovane si ritrovava
più frustrato di quanto non lo fosse in precedenza. Le parole erano importanti,
per Eren erano ossigeno, sbagliarle lo comprometteva.
«Ti ho solo chiesto di renderlo più
fruibile, più scorrevole» Levi amava la scrittura di Eren in modo viscerale, ma
in diversi momenti non era per un pubblico più vasto, certe cose rimanevano
chiare soltanto tra loro due e non andava bene; non era una storia di loro
esclusività. «Voglio che l’intero pianeta capisca cos’hai da dire».
Convincerlo era spesso una battaglia
persa in partenza, quando il redattore gli cambiava una singola virgola, Eren
esplodeva, immergendosi in una spiegazione di che cosa ci fosse dietro e perché
fosse stata stilata in quell’ordine. Levi era infatuato dalla passione, della
cura e dell’amore che Eren provava per la sua opera, ma non poteva dargliela
vinta tutte le volte.
In genere, dopo ore di litigate al
telefono per una singola preposizione, Eren svolgeva il suo compito
egregiamente, valorizzandolo e Levi non doveva mai ritoccarlo. «È decisamente
meglio di quel che mi aspettassi, non sei soddisfatto anche tu?» Eren si
rifiutava di rispondere ripetutamente, non era qualcuno che dava soddisfazione.
«Il tuo protagonista è innamorato
del suo capitano?» Levi non era riuscito ad evitare di chiederlo, soprattutto
dopo che aveva ingurgitato il secondo volume che non avrebbe dovuto leggere; ma
l’idea non l’aveva abbandonato, si era soltanto concretizzata.
Eren quasi cadde dalla sedia con
tutto il telefono. «Cosa? Perché?».
Perché? Non
esisteva domanda più sbagliata di quella. «È un’impressione».
«Non ho previsto storie d’amore» non
c’era minimamente tempo, chi poteva concentrarsi su qualcosa di così superfluo?
«Soltanto perché non l’hai previsto,
non vuol dire che non ci sia. A volte i personaggi si scelgono un percorso
diverso da quello che avevamo previsto per loro» Levi l’aveva visto accadere
spesso, era quasi paradossale, ma esistevano sempre dei percorsi alternativi
che prendevano il sopravvento e richiedevano più attenzioni di altri. A volte
venivano ascoltati, altri rimanevano inespressi ed era la fantasia di qualcun
altro a portarla avanti.
Lo scrittore rimase per alcuni
attimi in silenzio meditativo, scrutando qualcosa oltre la finestra. «Il
protagonista prova molto rispetto per il capitano».
Come quello che provi per me? Si rifiutò di esternarlo. «Magari deve ancora
metabolizzarlo» non parlarono mai di ciò che invece il capitano provava per il
protagonista. Un capitano da cui Levi si sentiva eccessivamente rispecchiato,
ritrovandosi nella sua figura in ogni aspetto: nell’atteggiamento, nelle
decisioni, nel modo di muoversi e per ciò che nutriva per Eren. Perfino l’idea
che si era fatto di Eren stesso l’associava alla somiglianza del personaggio
principale. Valeva anche per il futuro esordiente?
Un giorno nella sua cartella di
posta, il curatore si ritrovò il terzo volume quasi del tutto completo ed era
sicuro di non averglielo richiesto. Era certo che Eren non avesse pronta anche
quella parte di materiale, ma doveva ricredersi; da quanto tempo ci stava
lavorando? Prendeva mai delle pause? Il completamento per la correzione totale
del primissimo libro richiedeva ancora qualche accortezza e Levi si ritrovava
già pieno di lavoro per diversi anni a venire.
Pensa ci sia ancora amore?
Quella era l’unica nota che Eren gli inoltrò insieme al file di Word.
Levi si isolò completamente per
perdersi in quelle nuove parole e ciò che provò non lo fece stare bene con se
stesso.
Chiamò il numero del ragazzo che
aveva salvato tra le chiamate rapide – ed era un male – d’impeto, agitato e con
una colpa evidente che non riusciva ad abbandonarlo. «Quando l’hai scritto?».
Eren dovette faticare non poco per
seguire un filo del discorso non espresso, senza avergli nemmeno dato il tempo
di rispondere per bene allo squillo. «Qualche mese fa».
«Prima della nostra telefonata?»
Levi aveva assolutamente bisogno di saperlo, di non averlo influenzato in
qualche modo. Di aver rovinato la splendida forma d’argilla che l’emergente
poteva diventare.
«Sì, prima. Non l’ho mai ritoccata»
prima che gli suggerisse che il protagonista provasse qualcosa di romantico per
il capitano. «Al momento sto lavorando all’ultima parte».
L’editor non aveva mai creduto che si
sarebbe ritrovato a trattenere il respiro tanto a lungo da soffocare. «Il
capitano ama il protagonista» ammetterlo ad alta voce lo distrusse e interruppe
la conversazione prima che Eren potesse ribattere.
«Perché sei legato così tanto a
questa storia?» domandò il redattore settimane dopo, quando le acque in qualche
modo sembravano essersi calmate e l’evento che voleva dimenticare si fu
raffreddato, non toccandolo come invece era accaduto.
«Per risvegliare le coscienze» Eren
aveva sorriso nel dirlo e Levi l’aveva percepito interamente.
«Sei un moralista?» non lo trovava
nemmeno così lontano dalla realtà, ma era sicuro che Eren fosse qualcuno che
avrebbe agito nel modo sbagliato, incompreso da chi lo circondava.
Aveva ridacchiato all’uscita del
curatore ed era stata una coltellata al cuore. «Potrei, non mi sento a mio agio
con le ingiustizie».
«Mi sembri quel genere di persona
che scende in battaglia disarmata, piuttosto che una che cerca la perfezione
delle parole per combattere» era un’immagine che con il tempo aveva cercato di
togliersi dalla mente, proiettare l’idea che si era fatto di lui su un campo di
battaglia gli toglieva il fiato e non lo lasciava dormire, tenendolo sveglio
nelle infinite ore della notte. Ringraziava di non conoscerlo fisicamente, di
non avere neanche una sua foto che gli suggerisse come fosse fatto; sarebbe
stata soltanto più dura.
«Sono abbastanza impulsivo, non
sarebbe impossibile» ma il modo in cui lo disse, non aveva una connotazione
positiva.
«Eren» Levi cercava spesso di non pronunciare
quel gruppo di lettere, per tutto quello che gli suscitava e per quanto
indietro nel tempo lo facesse andare, ma certe volte non poteva esimersi.
Il ragazzo sospirò all’altoparlante,
stringendosi nelle spalle e fissando il tetto che aveva cosparso di stelle
luminescenti. «Ho bisogno di esternarla, fa parte del mio essere da più di
quanto mi sia permesso ricordare».
Era spaventoso quanto Levi si
ritrovasse in quelle medesime parole.
«Ami il mare?» il redattore lo
chiese in un momento di fatica estrema, quando entrambe le loro menti avevano
fumato più del dovuto e cominciavano ad impantanarsi.
«È una domanda a trabocchetto?» Eren
riemerse dai pensieri minuti successivi, dopo aver litigato per l’ennesima
volta sull’intoccabilità del suo progetto.
«Il tuo protagonista lo ama» era un
fattore importante come quel personaggio amasse l’interminabile distesa d’acqua
che non aveva mai avuto l’occasione di vedere. Non sapeva nemmeno se fosse
reale, ma il suo obiettivo era raggiungerlo e constatare che cosa fosse, a
prescindere da qualsiasi avversità si sarebbe frapposta tra lui ed il suo
desiderio.
«Tiriamo fuori il discorso che un
autore rivela più di se stesso nella propria opera che dei suoi personaggi?»
c’era un po’ di stizza nella voce, ma in qualche maniera era leggera e
profonda.
«Un autore scrive ciò che conosce»
infarcendola per bene, miscelando tutto con la propria fantasia fino a
perdersi, ma aveva sempre bisogno di una base solida a cui ispirarsi.
«Sono nato e cresciuto su un’isola,
ci vivo ancora. Cercare il mare sembra lo scopo della mia vita» Eren dovette
arrendersi, ammettere ciò che era palese. «A lei piace, signor Ackermann?».
Levi odiava sentire quel nome
pronunciato dalla voce familiare di Eren, aveva la sensazione che fosse
l’appellativo sbagliato, che non era quello il modo corretto con cui avrebbe
dovuto rivolgersi. Ma cos’era che voleva sentirsi dire? Con cosa avrebbe potuto
correggerlo? Poteva permettersi di farlo? «Non ci ho mai riflettuto».
«L’ha mai visto?» chiese di riflesso
l’esordiente, come se la risposta avrebbe fatto la differenza.
«L’ho intravisto» e quello tanto gli
bastava.
«Forse dovrebbe vederlo con me» se
l’esclusiva voce di Eren aveva tanto potere su di lui, era assodato che giammai
avrebbero dovuto ammirare l’oceano insieme.
In genere era una pratica che
funzionava soltanto quando si avevano delle opzioni da mostrare, davano
l’occasione all’autore di delineare più o meno un’ideologia tipo per la
copertina del libro e successivamente gli mostravano le scelte che erano state
create, ma l’ultima parola non era mai dello scrittore. Levi ben sapeva che con
Eren stesse sbagliando alla grande.
Gli aveva chiesto di inoltrargli le
linee guida di come immaginava la fantomatica copertina, ben sottolineando che
gli avrebbero dato solo uno sguardo e poi avrebbero proseguito di testa loro,
ma quello che gli mandò il ragazzo gli sottrasse tutto l’ossigeno di cui
necessitava. «Che cos’è?» gli chiese a labbra serrate, un fiatone che non
poteva far trapelare, insieme al disagio.
«Un quadro» proferì candidamente
Eren, del tutto ignaro del tumulto che attraversava l’editor.
«Lo vedo» rispose con ovvietà il
redattore, stringendo i denti e facendo trapelare quanto infastidito fosse.
«Cosa dovrebbe rappresentare?».
«Non ne sono sicuro» dichiarò
l’esordiente pensieroso, fissando di riflesso la riproduzione che troneggiava
sullo schermo del suo computer. «Ma ho questa immagine in mente da sempre ed in
qualche modo sembra comunicare quello che voglio esternare».
Levi avrebbe preferito che Eren esternasse
di meno. «Eren» il curatore non riusciva a capire perché quel singolo quadro,
che non aveva mai visto e di cui non conosceva nemmeno l’esistenza, potesse
annientarlo come poche cose nella sua vita.
Era una tela che rappresentava una
semplice cascata, piccola, aggraziata, nel suo ristretto antro di paradiso,
l’azzurro e i blu che la facevano da padroni e un verde intenso, dalle
sfumature di smeraldo che oscuravano tutto il resto, insieme alle rocce di
sabbia e pennellate grigie che sul bordo cominciavano a sgretolarsi,
annunciando la distruzione che inevitabilmente stava giungendo. La distruzione di cosa?
Ma ciò che faceva raggelare il
sangue di Levi erano degli enormi occhi di quell’ineguagliabile giada e
riflessi di zaffiro – una ninfa? –, riconosciuti dal suo subconscio da qualche
strana malia, che si intravedevano sotto il pelo dell’acqua cristallina,
scrutando con sfida e provocazione chiunque vi si riflettesse. Chiunque
provasse ad attaccarli, promettendogli l’annientamento. E Levi, con orrore, si
rese conto di conoscere a menadito quell’espressione fiera ed impavida, come se
li avesse dipinti lui stesso. Il pennello in mano, le setole piene di tempera
che scalfivano la tela e l’accarezzavano per dare visibilità ai suoi tormenti.
«Parla della guerra» annunciò lo
scrittore nel silenzio, la voce che si faceva più bassa e meditativa. «L’autore
girava tutte le terre colpite dalla guerra e mostrava i suoi quadri che
decantavano la bellezza della natura, perfino ad un passo dal disfacimento. Era
il suo modo di combattere, di far vedere il sole nell’oscurità, di invitare a
ribellarsi e resistere, che davanti alla miseria ci sarebbe stato sempre
qualcosa ad accoglierli».
O qualcuno,
ma Levi doveva tenerlo per sé, non poteva rivelare quanto la presenza, benché
soltanto vocale, di Eren avesse incrinato l’asse del suo intero mondo. «Chi è
l’autore?».
«Oh, questo è divertente» il
ridacchiare leggero del giovane non aiutò la sanità mentale del curatore già
brutalmente in bilico. «Levi Ackermann».
«Mi prendi in giro?» Levi non aveva
proprio voglia di giocare. Mai.
«No, affatto» ma il tono del ragazzo
era ancora allietato e l’uomo poteva sentirlo perfettamente. «Sei un suo
discendente?».
«Non mi risulta di essere
imparentato con pittori» e meno che meno con quello.
«È vissuto tanto tempo fa, secoli e
secoli ci dividono, per quanto possiamo saperne, potresti esserlo» c’era una
nota di venerazione nelle sue parole, unito ad una di autentica nostalgia che
Levi provava insieme a lui in qualsiasi occasione. «È l’unico quadro che gli è
sopravvissuto, magari un giorno salterà fuori qualcos’altro».
Eren amava le cause perse, in
qualche modo si era preso a cuore quell’opera di qualcuno che era stato
dimenticato. «Vuoi davvero usare quest’immagine per il tuo libro?».
«Non lo so, qualcosa di similare.
Sono soprattutto gli occhi che mi interessano» affermò Eren senza giri di
parole, contemplando l’idea che gli era ben chiara.
«Gli occhi?» chiese in una eco il
redattore, irrigidendosi sulla poltroncina reclinabile.
«Sì» confermò Eren con vigore,
accendendosi. «Sono gli occhi di un combattente, di un guerriero. Sono gli
occhi del mio protagonista».
Gli occhi tanto amati dal capitano, Levi poteva quasi capirlo, erano gli stessi che vedeva nel
medesimo personaggio ed in Eren. «Vedrò cosa posso fare, ma non ti prometto
nulla».
Eren sorrise più a se stesso,
accarezzando lievemente il verde rigoglioso delle iridi a lui fin troppo
familiari. «Si dice che li disegnasse su ogni tela, che quasi sostituissero la
sua firma. Si dice che stesse cercando qualcuno di introvabile».
«Ogni artista è dannato a modo
proprio» ed il curatore avrebbe preferito non conoscere quella particolare
sfaccettatura dell’intera faccenda.
«Sì, ma com’è una vita dedita alla
ricerca di qualcuno? Avrà sofferto?» domandò l’esordiente a nessuno in
particolare, ma a se stesso, entrando in una personale sfera da sognatore,
vagliando possibilità di ogni sorta.
«Tutti cerchiamo qualcuno, Eren» era
la condizione umana, era la propria.
«Davvero? Anche lei?» chiese di
conseguenza, incitato dalle risposte controllate dell’editor che non si
esponeva in nessuna circostanza.
«Sì» confermò l’uomo, massaggiandosi
le tempie appesantite.
«L’ha trovato?» continuò Eren con
voce soffusa, il calore che attraversava l’altoparlante e gli assordava i
timpani.
«No» sì, ancora una volta il suo subconscio voleva avere la meglio su di
lui, dettare legge, pretendere di conoscere qualcosa che lui ignorava, ma per
una volta Levi non poteva dissentire.
«Crede davvero che il capitano ami il
protagonista?» Eren aveva la brutta abitudine di uscirsene con le domande più
disparate quand’era meno opportuno e spesso Levi poteva rimanerci secco.
«Eren, è ancora troppo presto per
pensarci» il redattore non voleva pensarci minimamente, mai nella vita; non
avrebbe mai dovuto alzare quel polverone che spesso metteva in crisi Eren
perché Levi vedeva qualcosa che lui non riusciva a scorgere, eppure continuava
a scrivere, continuava a mettere parole e parole che attestassero quanto fosse
vero, quanto il rapporto tra i due personaggi che il ragazzo nemmeno sapeva di
star scrivendo fosse fondamentale. «Concentriamoci sul concludere il primo
libro e poi vedremo» ma il fantomatico volume era quasi pronto per la stampa e
poi non sarebbe esistita ragione per cui Levi avrebbe dovuto passare tutto quel
tempo con il ragazzo al telefono. Sarebbero arrivate altre cose, un giorno si
sarebbero dovuti concentrare su come creare dell’ottima pubblicità, presentare
al mondo Eren Jaeger, ma era qualcosa che sarebbe venuto molto dopo.
«Non finirà bene» rivelò in un
fulmine al ciel sereno l’esordiente, fermando il proseguimento temporale.
«Per chi?» Levi era sicuro di
essersi perso qualcosa, che Eren stesse portando avanti un ragionamento tutto
suo che aveva bisogno di esternare ad alta voce, per rendere concreto ciò che
la sua mente stava partorendo; non era neanche una cosa insolita.
Ci fu un interminabile intervallo
privo di alcun suono, quasi l’autore avesse bisogno di prendere coraggio per
ciò che aveva da dire. «Per loro».
«Ah» un groppo alla gola colpì Levi
ed una terribile sensazione di déjà-vu lo invase.
«La morte è inevitabile» per Eren
non esisteva un’alternativa diversa da quella. «È questa la loro storia».
«Separati o insieme?» l’editor non
avrebbe dovuto avere l’ardire di porre quella domanda, ma c’era qualcosa in lui
che gli suggeriva di conoscere già la risposta.
«Separati» il loro destino era quello
di rimanere divisi in ogni aspetto, non c’erano scappatoie.
«Chi dei due?» era incredibile come
il curatore fosse tanto masochista da voler affrontare un argomento che
avrebbero dovuto intraprendere quando sarebbero arrivati soltanto alla
conclusione ed era sicuro che ci sarebbe voluto tanto tempo, anni, ma Eren
l’aveva scolpito in testa e Levi non poteva ignorarlo.
Eren sussultò al ripetitore e
l’agitazione lo colpì come se lo riguardasse. «Il protagonista».
Si sopravviveva alla morte della
persona amata? La risposta che la mente del redattore gli concesse non gli
piacque minimamente. «E cosa ne sarà del capitano?».
«Non lo so» confessò Eren
completamente smarrito, il dubbio che non poteva colmare. «Ho un vuoto su di
lui dopo quel momento».
Levi invece aveva un’idea che voleva
scartare e che per una frazione di secondo si impossessò dell’intero organismo.
«È rilevante per la trama?».
«No» affermò convinto il ragazzo,
riprendendo quella grinta che momentaneamente aveva perso. «Il lettore potrà
immagine lo sviluppo che preferisce».
«Allora non preoccupartene» ed in
qualche modo sentiva di star andando contro se stesso, ma allo stesso tempo era
rincuorato da una nozione che Eren ignorava.
«Mi sembra così ingiusto» proferì lo
scrittore con rammarico, il dissenso verso la sua medesima persona. «Non è
corretto nei suoi riguardi».
Il calore che gli partì dal centro
del cuore Levi avrebbe dovuto ignorarlo, non sarebbe mai dovuto esistere,
insieme alla fitta che mal bilanciava l’intero assetto; era una condanna.
«Magari un giorno si ricongiungeranno».
Seppe di aver detto la cosa
sbagliata quando Eren precipitò nei più assordanti dei silenzi.
«Reincarnazione?».
Il suo scetticismo avrebbe dovuto
fargli provare molto dolore. «Qualsiasi cosa, la storia è tua, Eren».
«Crede a queste cose, signor
editor?» il turbamento dell’esordiente aveva lasciato spazio ad un’ironia
latente che veniva fuori quando più se ne aveva bisogno; forse era l’unico modo
per stemperare qualcosa che non andava sfiorato.
«È un’opera di fantasia, non è
soggetta alle limitazioni terrene» al contrario delle condizioni in cui si
trovavano loro, per quanto la sua mente deviata che gli giocava strani scherzi
avesse delle obiezioni in proposito.
Eren borbottò in assenso e Levi
sapeva benissimo che conoscere i significati di tutti i suoi mormorii non fosse
una cosa propriamente sana. «Ma non è quel tipo di storia».
«Lo so» se c’era una cosa che Eren
non evitava mai, era sottolineare come stessero realmente le cose.
«Però può immaginare qualsiasi futuro
per loro» gli concesse magnanimo l’autore, rimarcando sulla sua idea iniziale
di libertà di pensiero sul finale della sua opera. Il problema consisteva in un
Levi che voleva privarsi della capacità di immaginarli. In qualsiasi
circostanza.
Levi Ackermann era conosciuto per
essere risoluto, inflessibile, impeccabile nel suo lavoro e diffidente fino al
midollo, provare ad avere un rapporto amichevole con lui era pressoché fuori da
ogni cognizione ed in genere si veniva fulminati sul posto, perfino se si era
soltanto alla stessa linea telefonica. Essere imparziale era una prerogativa
che gli riusciva perfettamente, come il totale distacco, l’inesistenza di
secondi fini.
Sì, era un uomo che non permetteva
legami, finché un manoscritto su giganti che mangiavano gli esseri umani non
era capitato sulla sua scrivania ed aveva composto il numero dell’esordiente
più promettente che fosse capitato alla casa editrice da decenni.
«Voglio mostrartelo io» gli aveva
comunicato quando aveva ricevuto finalmente la prima copia stampata del romanzo
a cui lavoravano da mesi. La doppia copertina, una rigida e l’altra con le
alette di carta lucida, la trama accurata sul retro e l’immagine in primo piano
come la fantasia di Eren l’aveva sognata, con il suo nome ben impresso alla
base del volume e quegli enormi occhi minacciosi di smeraldo che raccontavano
ogni cosa. Era perfetto.
«Dove mi vuole?» Eren non si era
fatto trovare impreparato alla richiesta, frastornato e destabilizzato
all’inizio, ma ad un certo punto sarebbe dovuto accadere.
«Lo sai» ma Levi ci aveva pensato
abbastanza attentamente da voler rendere concreto il loro primissimo incontro?
Il verso dei gabbiani fu ciò che
sentì immediatamente, insieme allo schiumare delle onde, la salsedine che gli
appestò l’olfatto, il vento sul viso e l’enorme distesa della sabbia cocente,
la completa ignoranza di che aspetto avesse quello scrittore da quattro soldi
che gli dannava l’esistenza.
Procedette di un passo sul terreno
di una grana sottilissima, sprofondando lievemente e dirigendosi verso la
battigia dove vi erano pochissime figure a fissare l’immensità dell’oceano,
quasi tutti in gruppi o coppie ed una soltanto in completa solitudine,
totalmente immersa nella contemplazione del blu che continuava all’infinito e
senza sosta, fino a raggiungere il sole, senza spegnerlo.
Si immobilizzò ad un paio di
centimetri dietro la presenza dell’estraneo, incerto che fosse proprio lui, ma
guidato da quell’inconscio che continuava a volerne sapere maggiormente. La
fisionomia gli appariva spaventosamente familiare, come tutto quello che lo
riguardava, la sola voce che conosceva e di cui non poteva fare a meno.
Lo vide girarsi al suono delle
scarpe che muovevano la sabbia, i capelli castani che andarono in ogni
direzione per via della brezza marina, le incredibili ed indimenticabili iridi
del verde più intenso e splendente che avesse visto, con plateali sfumature di
un azzurro incantevole, i lineamenti decisi ed identici alle sue memorie che
riaffiorarono in un istante, collegando ogni pezzo e mettendolo davanti alle
innumerevoli vite in cui si era ammattito per trovarlo senza saperlo,
perdendolo ogni singola volta. «Eren».
Eren si irrigidì nell’immediato, il
viso che perdeva colore e gli occhi che si sgranarono, inumidendosi, rimanendo
a corto d’ossigeno. «Capitano».
Dopo tutti i millenni che li avevano
separati, dopo tutte le volte a cui aveva assistito alla sua morte, al continuo
muro creato dal destino beffardo e dalle coincidenze che si sprecavano, era lì
in tutto il suo fastidioso splendore. «Sei tu, fin dall’inizio» quel maledetto
quadro che l’esordiente aveva preso come guida, Levi l’aveva seriamente dipinto
di propria mano, pennellata dopo pennellata, inseguendolo. L’aveva raggiunto
con ere di ritardo.
Il labbro inferiore di quello che
era stato l’Ultima Speranza tremò ed una singola lacrima scappò a quello
sguardo troppo emotivo fin dalla notte dei tempi, irrigandogli uno zigomo ed
immortalando il momento. «A quanto pare».
Levi non resistette – era certo che
non sarebbe riuscito a farlo in qualunque caso, che innamorarsi ogni singola
volta di Eren fosse inevitabile – e si precipitò verso di lui, incorniciandogli
il viso tra le mani e cancellando la stilla d’acqua cristallina che morì tra le
falangi, abbandonando la ventiquattrore di pelle nera sulla riva che conteneva
la fantomatica prima stampa che raccontava realmente ed inconsciamente la loro
storia, con sovrapposta l’unica tela sopravvissutagli che un Levi del passato
sognava di dedicargli e di cui l’attuale Eren aveva sentito il richiamo.
Toccarlo, toccarlo davvero, dopo gli
infiniti secoli, vivo e pulsante, lo uccise.
Levi lo inchiodò con le iridi
dell’argento e dello zaffiro ed Eren rimase completamente tra le sue dita,
mentre le pupille del Soldato più Forte sondavano qualcosa alle loro spalle,
sopra le loro teste e perfino sotto i piedi. «Cosa sta cercando?» prendere
coraggio, elencare quelle poche parole che lo mettevano in allarme, fu una
sfida notevole, qualcosa che fino a qualche minuto prima gli era apparsa
incredibilmente facile. Parlare con il suo redattore, con Levi, era ciò che di più elementare potesse compiere.
L’attenzione ritornò sul ragazzo e
per la prima volta si specchiarono veramente l’uno nell’altro. «Mi sei stato
strappato troppe volte, Eren».
«Oh» soffiò l’autore con una
comprensione che finalmente si palesava, troppo concentrato su chi aveva
dinnanzi ad assicurarsi che fosse in carne ed ossa. «Nessuna bomba, nessuna
guerra o missione suicida. Nessun treno che mi porterà via».
Tutto l’assetto di Levi cambiò, la
consapevolezza che la Coordinata conservasse i medesimi ed identici ricordi che
possedeva, i drammi che insieme avevano affrontato e che li avevano condannati,
eppure aveva colto che il titano non conoscesse minimamente ciò che accadeva
dopo la sua tragica dipartita. Non avrebbe mai dovuto sapere quante volte
l’avesse seguito nell’oblio, macchiandosi del peccato più grande. «Lo spero».
Una mano di Eren risalì fino a
quella dell’uomo, intrecciandone le dita sul suo stesso volto, senza pensare di
poter sciogliere il contatto, di privare colui che l’aveva guidato nel passato
a cui appartenevano del tocco di cui necessitava per concretizzare la verità,
schioccando un bacio d’aria che sfiorò l’epidermide del pollice. «Capitano, sono
qui. Proprio qui».
L’orrore delle antiche memorie di
Levi tornò a tormentarlo ed il bisogno di cancellarlo, di sovrastarlo e
sostituirlo con qualcosa di diverso, qualcosa che non fosse legato alla morte,
lo sovrastò, portandolo a congiungere le labbra con quelle di Eren, ad
incatenarlo a quel bacio con cui voleva mangiarlo per non essere più separarti,
per annullare le volte che nella disperazione si era ritrovato a reclamare
perché non poteva lasciarlo andare, anche se non era più con lui.
Erano calde, pulsanti, piene di
vita, stracolme dell’essenza di Eren, così opposte a quelle che aveva baciato
quando ogni scintilla era svanita, lasciando soltanto un corpo vuoto e tutto
quello che erano nel disfacimento. Così simili a quelle di un Eren privo di memoria
che l’aveva ugualmente amato sopra ogni cosa. Erano casa. «Sì».
Eren sorrise un po’ inebetito a
quella morsa, il rossore che primeggiava sulle gote e Levi poté soltanto
rinnovare quel contatto tra le loro bocche. «Forse aveva ragione sul
protagonista innamorato del capitano».
Le dita del redattore scivolarono
tra i capelli color del mogano che continuavano a scappare al fruscio del
vento, catturandone una ciocca ed entrandovi dopo secoli nuovamente in
confidenza; nemmeno le fibre del cuoio capelluto erano cambiate. «Di un’altra
cosa sono sicuro» proferì con certezza, i polpastrelli che non sembravano
volersi saziare di lui. «Il capitano ti ama».
Dalla bocca di Eren scappò un
singhiozzo e le iridi di smeraldo si inumidirono senza eguali, tremando sotto il
suo tocco ardente e per la prima volta, dopo ere intere, Levi poté permettersi
finalmente di sorridere tra le sue labbra bollenti, mentre l’Ultima Speranza lo
avvolgeva con le lunghissime braccia, sullo sfondo dell’oceano che Eren amava e
che Levi aveva imparato ad amare con lui.
Forse è questa la volta buona.
A volte vorrei sapere perché mi inoltro
in queste avventure pericolose, ma le dita nella maggior parte dei casi
scorrono da sole sulla tastiera.
È la shot più lunga che abbia
scritto e fin dall’inizio non sapevo se sarebbe stata una storia da un solo
capitolo o da più, alla fine credo sia un intermezzo e dividerla perderebbe
abbastanza di senso, quindi niente, per una volta ce la terremo bella
chilometrica così com’è.
Non credo ci sia tantissimo che
possa aggiungere su di essa, spero che i così detti spoiler siano talmente
amalgamati e poco toccati che non si percepiscano nemmeno, soprattutto per chi
segue l’anime.
Avere mille versioni dello stesso
nome non è mai una felicità, alla fine ho scelto quelle con cui mi relazionavo
meglio e che combaciano con l’idea che mi sono fatta dell’Attacco dei Giganti
in generale.
Vorrei ringraziare la mia Beta (EarthquakeMG) che
come di consueto mi ha seguito in quest’ennesimo lavoro infinito, che deve
subirsi sempre il mio interrogatorio perché non c’è lettore più severo di me
stessa.
Ringrazio chiunque passerà di qui,
chi le lascerà qualche parola, chi l’apprezzerà e chi si perderà nel vortice
del tempo in cui sono caduti Levi ed Eren, in una rinascita continua.
Alla prossima,
Antys