Disclaimer
I
personaggi e le ambientazioni sono proprietà di Yoshihiro
Togashi.
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
-
«Senritsu,
aspetta!», mi chiamò Leorio. Non feci in tempo a
voltarmi che si
era già accovacciato a fianco a me. Tossicchiò.
«Per
favore, abbi cura di Kurapika», mi sussurrò,
«In genere è un tipo
calmo, ma può diventare imprudente. È
intelligente, ma non sempre riflette
sulle sue azioni. Sembra che con te si sia aperto molto,
perciò… potresti
frenarlo quando serve?»
Mi venne spontaneo
sorridere a quel giovane così premuroso, dal battito del
cuore ameno.
«Lo
farò. Non temere».
Let
me down
slowly
“This
night is cold in the kingdom,
I
can feel you fade away
from
the kitchen to the bathroom sink and
your
steps keep me awake”
Conto
ogni passo che faccio, ogni gradino che scendo.
Cerco
di focalizzarmi sul rumore delle mie suole che poggiano sulla
superficie marmorea dell’angusta rampa di scale conducente al
seminterrato. È
un suono penetrante, pastoso, lievemente riecheggiante; fastidioso per
le mie
orecchie, ma necessario a stroncare sul nascere ogni pensiero scomodo.
Odo
sempre più nitido il battito del cuore che da tempo ho
imparato a
riconoscere, studiare, amare, temere; il battito che presto
diverrà impazzito a
causa mia.
Guidata
dalla fioca luce delle candele che sagomano il breve corridoio, mi
fermo sull’uscio della tua stanza.
«È
permesso?», parlo. La voce mi trema. So che sei qui,
Kurapika: lo
percepisco forte e chiaro.
Di
fronte a me si smuove un’ombra; quest’ultima non
è altro che la tua
divisa scura che si mimetizza perfettamente con il buio circostante,
attenuato
dal bagliore emanato dagli occhi scarlatti da te trovati e disposti su
un
altarino.
Raddrizzi
la schiena e ti volti piano verso di me, come restio ad
intrattenere qualsiasi tipo di conversazione, mostrandoti seduto su uno
sgabello. I tuoi capelli sono spettinati, il tuo viso stanco e pallido.
Reggi
in mano il tuo cellulare.
I
tuoi occhi spenti e infossati mi guardano; mi domandano, senza che tu
apra bocca, il motivo della mia presenza in quello che io definisco
‘il tuo
cantuccio’.
Prendo
fiato e parlo.
«Capo,
come avevi previsto, l’artista Ikeda si interessa spesso a
certe
merci di scambio che circolano unicamente nelle aste sotterranee;
è, infatti,
alleato con Higashimura, uno dei più acerrimi nemici dei
Nostrade, con il quale
ha un rapporto do ut des. Ieri sera, mi ha
riferito Basho, era
presente alla cessione nella quale vi erano gli occhi scarlatti che
stai
cercando. Se li è aggiudicati probabilmente grazie a qualche
patto stipulato
con Higashimura. Tuttavia, nel corso del pedinamento notturno, si
è scoperto
dell’altro».
Continuo
a fissarti. Colgo i lineamenti del tuo volto accigliarsi di poco,
come qualunque volta in cui accadono imprevisti o sorprese che non hai
previsto.
«Dove
risiede Ikeda, egli tiene esposti oggetti che crediamo possano
risalire ad altre tribù. Sembra un fanatico di queste cose;
dipinge, tra
l’altro, diversi motivi tribali e figure anatomiche
incomplete».
Ecco,
scorgo le tue pupille rimpicciolirsi, le tue labbra dal colorito
cianotico schiudersi, il tuo essere riprendere vita. Sento il molesto
battito
cardiaco della consapevolezza, del cattivo stupore,
dell’apprensione che torna
a serpeggiare nella tua coscienza.
«Il
suo obiettivo non è soltanto tenere i suoi tesori come mero
oggetto da
esposizione: egli punta a trovare un esperto di Nen che possa compiere
in lui
un incantesimo di trasmutazione». Aggrotto la fronte,
sentendo un senso di
nausea travolgermi. «Lui li vuole… come parte
integrante di se stesso».
*
“Don't
cut me down, throw me out, leave me here to
waste;
I
once was a man with dignity and grace;
now
I'm slipping through the cracks of your cold
embrace,
so
please, please…”
Nessuno di noi
è veramente sorpreso qui dentro, nel salotto della nostra
attuale residenza. Il profilo psicologico di quell’artista
rappresenta solo una
delle molteplici sfaccettature che caratterizzano le persone addentro
alla
malavita, con le quali noi abbiamo sempre a che fare.
Tuttavia,
il tuo cuore, Kurapika, è ancora troppo vulnerabile
perché te ne
faccia una ragione. Tali notizie comportano uno squilibrio nel tuo
già
trepidante mondo interiore; ti sconvolgono, ti alterano,
poiché in fondo non
riesci ad accettarle totalmente. Sai che non puoi permetterti di essere
così
affettivo e rancoroso, ma è questa la
tua persona; perciò, sfrutti
disperatamente queste tue debolezze per incrementare la tua ambizione.
Fai di
ogni dilemma una causa personale.
Ora
ti vedo come cerchi di combattere questi tuoi demoni interiori, mentre
metabolizzi l’esistenza di quell’individuo. Studio
ogni angolo, lineamento del
tuo volto provato dallo stress; un volto comunque grazioso e giovanile,
che per
nulla si addice al posto che occupi in questo ambiente corrotto; un
volto
alquanto sfiorito dei suoi vividi colori naturali, delle sue morbide
forme,
deturpato dai vizi, dalle ossessioni e privazioni che ti imponi.
Squadro tutta
la tua figura esile ma autorevole che fa avanti e indietro per la
stanza, che
riflette e concretizza paranoie sicuramente non necessarie. I tuoi
occhi sono
lucidi e socchiusi per la stanchezza; chissà da quanto non
riposi.
Aspettiamo
tutti che tu proferisca parola, che cominci a ragionare con noi
e prenda le prime decisioni; io e il resto dei tuoi sottoposti siamo al
tuo
servizio anche oggi.
«Posso
andare un attimo in bagno?», rompe il silenzio Basho, che
tiene le
gambe incrociate in maniera alquanto buffa.
Gli
altri tentano di celare risolini. Io raggelo. Kurapika, ti hanno
risvegliato dal tuo flusso di coscienza, ed ora pianti i tuoi occhi a
mandorla
e scuri – hai imparato a portare le lenti come fossero lembi
della tua pelle –
sul nostro collega con aria inquisitoria.
C’è
così tanta rabbia in te che a momenti non riesci a
riconoscere chi ti
sta davanti. Siamo così insignificanti nei tuoi progetti per
la missione
ventura?
Somatizzi
sempre il tuo dolore con incredibile maestria, lasciando che ti
roda il fegato. Se io fossi una totale estranea e non avessi la
capacità di
spogliarti della tua corazza, forse non mi avvedrei dei tormenti che
celi
dietro la tua espressione flemmatica.
«Siete
già a conoscenza dei pessimi rapporti che la nostra famiglia
ha con
Higashimura. Di egli, purtroppo, non mi sono ancora potuto occupare per
stipulare qualche accordo e rimediare ai danni del mio predecessore
Light
Nostrade, rivelatosi incompetente sotto troppi punti di vista; o fare
in modo
di sbarazzarmi direttamente di questo nostro avversario, nel caso
dovesse
intralciarmi oltremodo», cominci a parlare poggiando le mani
sulla scrivania di
fronte alle nostre poltrone, ignorando la richiesta di Basho.
Nessuno
osa dissentire.
«La
sua accertata alleanza con Ikeda, colui che mi deve una sua
proprietà per
diritto, è dunque un problema». Strizzi
un attimo gli occhi; ho
l’impressione che la vista ti vacilli e che fatichi a
metterci a fuoco. «Una
parte di me continua a dirmi che forse attendere il suo recupero degli
occhi
non è stata la scelta più conveniente; nondimeno,
la presenza di ciascuno di
noi all’asta di ieri sarebbe risultata impropria per ragioni
analoghe alla
precedente: sulla nostra famiglia gravano ancora vecchie
responsabilità e
circolano dicerie che mettono tante persone contro di noi. Ora che io
mi
ritrovo in questa situazione, azzardare una qualsiasi prima mossa
decisiva è
rischioso, poiché Ikeda potrebbe preparare trappole di
qualunque genere mentre
finge la più blanda diplomazia; e noi non siamo ancora a
conoscenza di
eventuali suoi scagnozzi o affiliati che potrebbero saper usare
discretamente
certi tipi di Nen».
Smetti
di parlare e osservi tutti vagamente spaesato. Ti sei appena reso
conto di stare affrontando più un monologo con te stesso
anziché un discorso
con noi.
Ti
accorgi di Basho e della sua ormai angosciata smorfia; chiudi gli
occhi,
tenti di riacquisire lucidità e il tuo battito diviene
più pacato.
«Per
farla breve…», riprendi, «…
la priorità va comunque al conseguimento
degli occhi scarlatti, e mi aspetto l’ausilio di tutti
voi».
Assottigli
lo sguardo e chiami per nome uno dei tuoi nuovi sottoposti: un
ragazzo basso ma corpulento, di indole abbastanza audace.
«Adam,
mi avevi chiesto di concederti un giorno per andare a trovare tuo
fratello».
«Sì,
capo».
Ce
ne ha parlato una volta in privato: un severo caso di mononucleosi.
«Non
posso più concedertelo», sentenzi, mettendo a
tacere persino le nostre
menti. Adam impallidisce.
«Ma…»
«Ti
ricordo che hai la mia fiducia da riacquistare da quella volta in cui
hai rivelato di proposito informazioni delicate sulla mia persona
all’uomo
d’affari di Nagoya. Devo stabilire se mi conviene continuare
a tenerti»,
asserisci, «Inoltre, non sappiamo se l’alleanza tra
Ikeda e Higashimura
comporterà un probabile attacco a sorpresa; non possiamo
stare singolarmente
fuori dalla mansione e sprovvisti di difese. Ti incaricherò,
dunque, di
svolgere un lavoro molto importante per ottenere maggior
informazioni».
Lo
sento forte e chiaro, il battito frenetico, convulso, rimbombante del
cuore di quel giovane ora agitato e pieno di frustrazione.
Per
la prima volta in diversi anni prendo la parola. Mi alzo dalla
poltrona.
«Capo,
Adam non è mentalmente predisposto per affrontare altre
missioni,
ora come ora. Il timore per la salute vacillante del fratello
è troppo grande.
Ha bisogno di stargli vicino, altrimenti i sensi di colpa rischiano di
attanagliarlo».
Tengo
lo sguardo fisso sul tuo di ghiaccio. Spero tu colga il senso di
queste mie ultime parole, perché non rappresentano altro che
un sentimento che
sta logorando soprattutto te da anni, e che per
primo dovresti
intendere.
Non
mi sono mai azzardata a ribattere, ma tu non sembri affatto sorpreso;
è
come se te l’aspettassi.
Con
una calma che stona con la pesantezza di quell’atmosfera, di
avvicini
di più a me, sufficientemente prossimo per sottolineare in
qualche modo la tua
ormai consolidata superiorità, e dici: «Senritsu,
non sei nella posizione
giusta per contestare le mie scelte».
*
La pioggia di quel
tardo pomeriggio scrosciava incessantemente, picchiando
sul marciapiede ormai sgombro e sulle nostre teste. Essa bagnava la mia
pelle,
la penetrava; scorreva nelle mie viscere come lacrime, dando un senso
concreto
alla metafora “piangere il cuore”.
Tu, Kurapika, mi eri
accanto infreddolito, fremente di gelo e rabbia; dai
tuoi grandi occhiali, che appartenevano al meticoloso travestimento,
osservavi
impotente la gente da te ciecamente odiata portare via i tuoi amici, la
nuova
famiglia che avevi trovato il coraggio di rifarti.
«Non
possiamo avvicinarci a loro: la Brigata ha già innalzato la
sua
barriera difensiva, e sono molto più cauti di
prima», spezzai il silenzio.
«Merda»,
ti sentii inveire quasi impercettibilmente.
Dovevo mantenere il
sangue freddo; per te, me, tutti.
«Non puoi
permetterti di stare in apprensione», iniziai a consigliarti,
scrutando ogni centimetro teso del tuo volto con una certa
austerità. Per
quanto io percepissi il tuo profondo dolore, in quel momento mi era
impossibile
giustificare appieno il tuo atto impulsivo ed egoista. Non potevo
negare di
esserne alquanto delusa.
«Lo so
benissimo», sbottasti con insofferenza.
A quel punto non ero
riuscita a reggere. Era evidente che non volessi
capire.
«No, tu non
lo sai!», alzai lievemente il tono, aggrottando la fronte,
«Gon
e Killua sono in pericolo per colpa del tuo insensato inseguimento. Sai
perché
si sono sacrificati e fatti catturare? Se tu fossi stato scoperto qui,
non ci
sarebbe stato più nessuno in grado di fermare la
Brigata!»
Udite le mie parole,
tu, con mia sorpresa, ti calmasti quasi subito,
dandomi prova che in fondo avevi bisogno di essere spronato.
Chiudesti gli occhi
per concentrarti e smettere di tremare, poi mi
rivolgesti un flebile «Mi dispiace».
Ti sorrisi; non
riuscii a metterti il broncio per neanche un minuto.
«Ognuno di noi sperimenta momenti di sconsideratezza.
Contrattaccheremo
insieme. Non essere ansioso».
Già, non
aveva senso esserlo, perché sarei rimasta sempre al tuo
fianco.
*
“Don't
cut me down, throw me out, leave me here to
waste;
I
once was a girl with dignity and grace;
now
I'm slipping through the cracks of your cold
embrace,
so
please, please…”
Da
quanto tempo non riesco ad essere spontanea in tua presenza? Da quanto
tempo mi menti su ogni cosa e pretendi di essere forte, nonostante tu
sappia
che io riesco a leggere il tuo cuore?
Da
quanto ti sei fatto così distante da me, da tutti i tuoi
amici,
impedendoci di lenire anche con una sola parola le ferite del tuo animo?
Da quanto non apri il
tuo cuore a qualcosa che non sia il tuo nocivo scopo
di vita? Da quanto non contempli la bellezza della vita, dei paesaggi
rigogliosi di un giorno di primavera? Da quanto sei così
pretenzioso da non
riuscire a riconoscere e abbracciare la semplicità dei
piccoli gesti?
Queste
domande mi tormentano ogni notte, quando le mie paure e la
solitudine che la mia mente cova per tutta la giornata si schiudono,
accolte dalla
placida ma pesante quiete che regna e dalle tenebre che gettano nel
sonno ogni
creatura sfinita.
Io
non ci riesco perché non sono come gli altri,
perché la mia
ipersensibilità viola – mio malgrado
– le coscienze di chi mi è vicino;
così le loro sofferenze diventano anche le mie.
In
realtà c’è tanto rumore. Ciò
che per gli altri è silenzio, per me non lo
è affatto: i nostri timori più profondi ci
parlano proprio in questi momenti in
cui siamo più vulnerabili, poi noi li soffochiamo la mattina
seguente per non
distrarci dagli impegni della giornata.
E
tra le aure più tormentose, la tua ha sempre quella nota
amara e
inconfondibile.
Il
tuo sonno non è tranquillo, oppure non riesci ad
addormentarti. Le
vulnerabilità che reprimi quando lavori imperversano proprio
quando dovresti
recuperare le forze; sembra l’ennesima punizione che hai
deciso di infliggerti,
o in alternativa sono ore in cui ti concedi di lasciarti andare, e in
un certo
senso consolarti. Un attimo catartico che possiamo comprendere
solamente noi
due, paragonabile all’agognato sollievo, benessere che si
ricerca nei massimi
momenti d’intimità.
Quante
grida di rabbia o dolore stai soffocando sul tuo cuscino? Quanto ti
stai maledicendo per le lacrime che ti rendi conto di essere ancora
capace di versare
come un debole? Quante preghiere stai levando ai tuoi cari chiedendo
costantemente la forza necessaria per perseguire i tuoi fatali
obiettivi?
Davvero
la tua gente desidera questo da parte tua? Che non ti goda la vita
e ti immoli perché convinto di avere colpe da espiare, di
non avere il diritto
di sorridere?
Ed
io cosa mai posso fare per te, oltre a disperarmi al tuo stesso modo e
desiderare invano di abbracciarti? Ora che hai preso il comando,
nessuno può
più permettersi queste cose con te. Ci hai elusi dalla tua
vita, credendo di
ragionare col cervello ma affidandoti invece alla tua egoistica
dipendenza.
Eppure
sai, mi ricordi sempre di più il mio defunto migliore amico,
caparbio e sensibile come pochi, che non sono riuscita a proteggere
perché ai
tempi ero immatura.
Lui
è in te; lui è te. Ne sono
certa. È un richiamo a non commettere
lo stesso errore. Altrimenti come spiegherei un sentimento, una
connessione
così forte?
*
“I
hold on to little pieces of what we were;
I
know we're long gone, but take it easy
because
it hurts”
Quando eri ancora un
nostro collega – seppur leader della squadra –,
nella
tua aura vi era una risolutezza più pacata, più
facilmente malleabile, che ti
esortava a tenere a freno certe pericolose ambizioni, specialmente
perché non
avevi ancora scavalcato il gradino che rappresentava la tua dipendenza
dal
capo.
Forse
è vero che spesso, quando è impossibile avere la
piena libertà, si
diventa molto più sensibili e attaccati alle poche cose
preziose che rimangono.
Per
tutto il periodo in cui Light Nostrade ha comandato, sebbene ci
estenuasse con le sue folli richieste, io, te e Basho abbiamo legato
ulteriormente tra una missione e l’altra che ci obbligava a
lavorare sempre
insieme.
Ricordo
con affetto un giorno in cui ci è stata concessa una serata
libera.
Io e Basho abbiamo optato per un aperitivo al pub; volevamo invitare
anche te,
ma temevamo che quel genere di svago non fosse nelle tue corde. Invece,
quando
te l’abbiamo proposto, hai accennato un sorriso e risposto
«D’accordo».
Non
abbiamo potuto intrattenere conversazioni ridondanti
all’interno di
quel locale alquanto caotico dalle luci bluastre, ma ci siamo
rilassati, seduti
al nostro tavolo con i cocktail in mano e le orecchie tese verso i
brani al
pianoforte suonati da un musicista. Quest’ultimo ha invitato
sul palco chiunque
sapesse suonare quest'ultimo, e Basho non ha esitato ad indicarmi
nonostante il
mio imbarazzo; poi, quando le mie dita allenate hanno cominciato a
scivolare
con leggiadria sui morbidi tasti del piano, che richiamava al mio
elemento
naturale, ogni incertezza è svanita e mi sono ritrovata ad
improvvisare,
concretizzare sotto forma di note la melodia che sentivo scaturire dal
mio
battito spumeggiante. Quando mi giravo verso il pubblico rapito dalla
mia
performance, ti vedevo così concentrato in ciò
che suonavo che tenevi gli occhi
chiusi e sorridevi, e cercavi forse di scoprire quale incantevole
duetto
potesse venirsi a creare tra esso e la rilassata melodia del tuo cuore.
Ricordo,
purtroppo, anche gli episodi più sconfortanti: i campanelli
d’allarme manifestati per la tua tendenza a strafare e
sfruttare oltremodo i
tuoi poteri Nen. Non mi hai mai voluto spiegare bene come funzionino,
nemmeno
ai tuoi più cari amici, ma in cuor mio sento che tralasci i
particolari più
importanti: l’arma a doppio taglio che quelle catene in
realtà sono, che in
qualche arcano modo risucchiano la tua linfa vitale.
I
tuoi frequenti svenimenti dopo mansioni particolarmente estenuanti ne
sono un esempio. E non si tratta di semplici mancamenti dettati dalla
stanchezza, ma molto di più a me tuttora ignoto; la febbre
che ti sale ciascuna
di quelle volte, talmente alta e anomala da far divenire inefficaci i
miei
tentativi di mitigare il tuo animo col mio flauto, è la
prova più terrificante.
Sei
arrivato a delirare in maniera nettamente peggiore di quando io, Leorio
e gli altri lo abbiamo sperimentato con te a York Shin.
Una
volta in particolare sono rimasta a vegliarti tutta la notte. Light non
riteneva ancora necessario esporti e portarti in
ospedale, e ammetto che
in quel momento ho provato verso di lui i sentimenti più
crudeli. Egli non
tollerava più nemmeno che io ti suonassi qualcosa, come tu
stesso, con voce
roca, mi chiedevi.
Ti
divincolavi nel letto, preda dei peggiori incubi e allucinazioni; eri
sudato e paonazzo in viso. Il tuo battito oscillava forsennato tra una
cadenza
fiacca e sommessa ad una repentina, vertiginosa, come se il tuo cuore
fosse sul
punto di scoppiare.
Mi
sentivo impotente mentre passavo con delicatezza un panno pulito sulla
tua fronte per asciugarla, prima di depositarvi l’ennesimo
impacco di acqua
fredda. Ti ero vicina fisicamente ma non mentalmente; eravamo
più fragili di
quanto avessimo mai potuto immaginare.
Nei
momenti migliori, però, ti insegnavo il più
possibile a dare priorità
alle azioni necessarie per la tua salute psicofisica, e alla cura
dell’ambiente
al quale appartieni. Se tu non fossi più stato capace di
ammirare il mondo con
gli occhi di un bambino curioso e altruista, allora io sarei stata
quegli
occhi, i tuoi occhi.
*
Era
dicembre dell’anno scorso quando hai rimpiazzato il nostro
precedente
capo. Tale opportunità ha fatto scattare in te
un’irrefrenabile bramosia che ti
ha portato a rifilare subito ordini ed elaborare i primi piani
intricati per il
conseguimento del prossimo paio di occhi; così come ricerche
e addestramenti
Nen per diventare sempre più forte, quasi invincibile,
indipendentemente dal
prezzo psicofisico da pagare.
Ti
toccavano, però, anche altre questioni lasciate in sospeso
da Light; ciò
ti riempiva ulteriormente di stress e nervoso, che sfogavi prima di
tutto su te
stesso. Come un autolesionista digiunavi, passavi giornate intere ad
allenarti
fino a svenire e talvolta a rimettere; maltrattavi il tuo corpo
– divenuto
scarno nel giro di poche settimane – e la tua mente
già psicolabile.
Gli
altri bersagli erano i nemici della mansione, e soprattutto pezzi
grossi che tu ribattezzavi “questioni
personali”, poiché interessati alle
tue stesse cose.
Tu
non ci volevi mai nei paraggi quando dovevi contrattare
con loro,
ma io immaginavo cosa facessi una volta rimasto insieme a loro.
È
così che hai cominciato a perdere frammenti della tua
dignità:
minacciando, ricattando, torturando con apparente cinismo, nonostante
il tuo
cuore piangesse sangue scarlatto, poiché non è
nella tua natura provare piacere
ad abusare di qualcuno o togliergli la vita.
Quando
perdi i contatti con le persone che ti sanno tenere a freno, il tuo
io impietoso esce allo scoperto.
Non
ho perso le speranze: ho messo da parte pregiudizi e timori, ti ho teso
la mano, ti ho offerto una spalla su cui sfogarti.
Tu
questo lo hai capito eccome, e i tuoi sentimenti al riguardo sono
sempre
stati contrastanti. Nei tuoi sguardi spesso torbidi riuscivo a
percepire
paradossalmente un “grazie per la pazienza”.
Un
esempio di ciò risale ad una di quelle sere, nella quale
ognuno si
riposava o badava ai propri affari dopo una faticosa mattinata. Io
sedevo sulla
poltrona del salotto e pulivo il mio adorato flauto traverso mentre
canticchiavo. Tu mi hai raggiunto, uscendo dal tuo dormitorio. Avevi
ancora in
dosso la tua divisa, segno che non ti eri ancora dato una rinfrescata e
coricato. La tua cera era terribile, ma nei tuoi occhi avvertivo una
certa rara
vigoria.
«Hai
qualche minuto?», mi hai chiesto.
«Sì,
certo».
«Seguimi.
Voglio mostrarti una cosa».
Potevo
tirare un sospiro di sollievo: non mi volevi assegnare altri
incarichi. Tuttavia, la tua richiesta insolita mi stupiva.
Ti
ho seguito fino alla tua stanza sotterranea, dove custodisci il tuo
prezioso tesoro ed unico ricordo materiale del tuo popolo. Mi hai
condotto
proprio di fronte al mucchio di occhi scarlatti disposti ordinatamente
sull’altarino ornato di statuette, fiori e candele accese.
Avevi preparato due
sgabelli su cui sederci; ho supposto che il tuo ipotetico discorso
dovesse
durare un po’.
Mi
hai invitato ad osservare un paio di occhi in particolare, gli ultimi
da
te recuperati: risplendevano di un vermiglio cangiante, e le sue
pupille erano
così vivide da sembrare che mi stessero scrutando viso e
anima.
«Appartengono
a mia madre».
Mi
è mancato il respiro. Ho sbattuto diverse volte le ciglia
prima di avere
il coraggio di guardarti di nuovo. Dalla tua espressione sempre
criptica non
traspariva alcuna emozione; ma i tuoi occhi certamente scarlatti dietro
le tue
lenti a contatto erano fissi su quelli di fronte a te. Li ammiravi
rapito, con
rispetto.
Il
tuo cuore ti tradiva come sempre, emettendo battiti paragonabili alla
risacca di un mare in tempesta, micidiale ma inconsistente.
«Oh»,
ho emesso. Temevo che anche un semplice “mi
dispiace” o “capisco il
tuo dolore” avrebbe potuto peggiorare il tuo stato
d’animo. «Ne sei certo?»
Hai
annuito. «Osserva bene l’occhio destro».
In
effetti vi era una quasi impercettibile macchia di un rosso
più scuro
che copriva una parte sottile dell’iride.
«Mia
madre aveva il mio stesso colore chiaro degli occhi, ma in quello
destro presentava eterocromia settoriale. Quella parte che vedi era
marrone»,
mi hai confessato, «Ne sono più che
certo».
Poi
non mi hai più rivolto la parola; io ero talmente affranta
ed
emozionata che per la prima volta ogni saggio consiglio o conforto mi
moriva in
gola.
Non
potevo, però, lasciarti così. Tu mi avevi aperto
il cuore, fidandoti di
me, e avevi condiviso quel segreto così intimo, rendendomi
spettatrice della
tua immensa sofferenza. Non avevi secondi fini, né una
logica ragione per
farlo; l’hai fatto e basta.
«Puoi
andare, se vuoi. Non sei obbligata a restare. Scusami se ti ho
disturbata», mi hai detto.
«Kurapika»,
ti ho chiamato rivolgendoti un sorriso rassicurante. Ho giunto
le mani e ti ho chiesto: «Posso pregare insieme a
te?»
Hai
posato subito il tuo sguardo visibilmente sorpreso sul mio.
«Sempre
se non ti dispiace. Spero che ai tuoi cari sia gradita la mia
presenza», ho aggiunto, e senza esitare ho chiuso gli occhi
per concentrarmi.
Ho
sentito una melodia tutta nuova provenire da te; un tintinnio dolce che
mi ha rammentato la leggerezza delle gocce di pioggia che si depositano
e
imperlano i delicati petali dei fiori. Esso era quieto e inondato di
sensazioni, colori, musiche meravigliose, plasmate di gratitudine,
gioia,
affetto.
Ho
percepito il bene che ti avevano fatto le mie parole, e ne ho gioito
così tanto da provare il tuo stesso orgoglio di stare
rendendo onore al tuo
popolo, da invocare su di te la protezione dei tuoi stessi cari.
Dopo
un po’ ho rivolto di nuovo lo sguardo verso il tuo. Tu eri
sempre lì a
vegliare con me in silenzio, con gli occhi chiusi, il volto
concentrato, le
labbra che sussurravano sommessamente preghiere, e la tua guancia
destra
solcata da una lacrima che aveva tradito la tua solenne compostezza.
*
“Could
you find a way to let me down slowly?
A
little sympathy, I hope you can show me;
if
you wanna go then I'll be so lonely,
if
you're leaving baby let me down slowly”
Uno scontro ad armi
pari causato da una trappola tesaci in uno dei nostri
rifugi destinati agli interrogatori: è ciò che
stiamo vivendo ora.
Ikeda
nascondeva molti più segreti. È addentro alla
mafia da tanto tempo,
così come il suo rapporto di convenienza con Higashimura. Si
coprivano
malefatte e si scambiavano merci d’interesse mettendo
l’uno una buona parola
all’altro. Non è un caso che Ikeda abbia avuto
inaspettatamente una scalata
sociale, nonostante il suo discutibile stile artistico.
La
questione della sua ossessione per macabre operazioni chirurgiche e il
fascino per gli occhi scarlatti ci ha portato a riscoprire un vecchio
conto in
sospeso con lui non indifferente: macchiarsi del delitto di un nostro
collega
vari mesi fa, per un piano di sabotaggio organizzato dal suo stesso
capo.
Ci
troviamo di fronte ad uno psicopatico carente di intelletto ma lesto in
ambito di azioni, manovrato dall’altra mansione, che quindi
doveva essere
immediatamente tolto di mezzo. L’abbiamo rapito per
interrogarlo, ma nonostante
la nostra sorveglianza armata e utilizzatrice di Nen, siamo stati
comunque
scovati grazie a peculiari abilità di altri suoi scagnozzi
che hanno percepito
non solo la presenza di Ikeda ma anche quella degli altri occhi
scarlatti che
conserva Kurapika a distanza di qualche chilometro.
All’improvviso,
in un momento in cui ho la schiena appoggiata al muro,
quest’ultimo si smuove assumendo una consistenza
tutt’altro che solida. Un
braccio spuntato da dietro mi circonda il collo; sento qualcosa di
appuntito
puntare contro la mia gola.
Resto
paralizzata. Capisco a grandi linee cosa sta succedendo.
«Fermi
tutti, o la vostra amica ci rimette le penne!», urla proprio
Ikeda,
materializzatosi accanto a me.
Tu,
Kurapika, ti volti subito nella nostra direzione, insieme agli altri.
Il tuo viso ha diversi graffi, e un rivolo di sangue sta colando dalle
tue
labbra. È sempre arduo combattere con altri esperti facendo
affidamento solo ad
un quarto dei tuoi poteri.
Mi
guardi esterrefatto.
Come
ha fatto Ikeda a materializzarsi qui da dove era prigioniero? La
risposta ci arriva all’istante, quando lui ci rivela di
appartenere alla
specializzazione dalla sua nascita, e di possedere semplicemente
un
fisico capace di adeguarsi a qualsiasi tipo di potere Nen venga usato
su di lui
come ausilio; difatti, un suo affiliato gli aveva dapprima trasfuso la
capacità
di plasmare la solidità del proprio fisico.
«Tu»,
si rivolge poi a te, «Sei il loro capo, giusto? E il
detentore di ciò
che mi interessa, no? Perché non me lo dai e la facciamo
finita? Non
costringermi a darti un dispiacere con la morte di un altro tuo
sottoposto. Non
te ne fai niente di quegli occhi. Li collezioni e basta. Io so come
usarli; io
li devo usare. Per me, per essere più
forte, speciale… Ne ho bisogno!»,
farfuglia. Riesco a scorgerlo con la coda dell’occhio: ha un
aspetto davvero
orripilante.
Tu
lo fissi con occhi colmi di collera.
«Guardami!
Lo capisci? Vedi il mio fisico orrendo e deforme? Voglio il
meglio per me! Quello che non ho mai avuto! Sono stufo di essere
sminuito e
schernito da tutti! La bellezza, la rarità intrisa nelle mie
opere ugualmente
incomprese deve essere anche propria della mia persona!»
Passano
diversi interminabili, dolorosissimi secondi.
Non
cessando di fissare con aria minacciosa colui che rischia di strapparti
via la tua unica soddisfazione, che ti vuole costringere a barattare un
tuo
affetto per un altro, sollevi la tua mano destra, fai apparire le
catene e
punti il mignolo verso il tuo petto. E ti sento pronunciare con tono
sfacciato:
«Uccidi me, piuttosto. O provvederò io
direttamente».
Sgrano
gli occhi, la vista mi si annebbia per lo shock. Hai davvero
pronunciato quella condanna a morte a mente lucida? Il tuo battito
è
terribilmente regolare, seppur pullulante d’ira.
Stai
anteponendo te stesso allo scambio poiché ritieni il tuo
sacrificio
migliore di ogni altra eventualità a quella scelta che non
avresti mai il
coraggio di fare.
Se
succedesse qualcosa ai tuoi occhi o ai tuoi compagni, e tu ne fossi
cosciente, non te lo perdoneresti mai. In alternativa al peggio
inevitabile,
porresti prima fine alla tua vita, senza voler pensare alla nostra
sofferenza
perché in fondo non ti sei mai sentito totalmente accettato
e compreso.
È
questo il tuo nefasto, aberrante difetto: egoismo
nell’altruismo,
una spiccata sensibilità verso il mondo che paradossalmente
ti porta a
focalizzarti su te stesso, poiché conscio di non essere
altro che una ruota
dentata di un ciclo della vita crudele che a malapena puoi controllare
in
funzione dei tuoi desideri.
«Tsk,
non mi è chiaro se hai in mente qualche trucco o sei
semplicemente
uno sprovveduto», commenta Ikeda alle mie spalle,
«Mi stai dicendo che i tuoi
stessi poteri possono ucciderti?»
«Sto
aspettando una sola risposta da parte tua. Hai intenzione di uccidermi
o aspetti che sbrighi io il lavoro?», reiteri,
«Posso utilizzare la mia
calibro, se ciò può renderti meno
scettico».
«Non
ti posso uccidere! Tu mi servi per recuperare il bottino!»,
ringhia
Ikeda, realizzando insieme a me il pericoloso trucco.
«Certo.
Io sono l’unico che sa come accedere al mio antro protetto
dal mio
Nen. So bene come ho realizzato il tutto, e posso assicurarti
che ci
vorrebbe parecchio tempo per scoprire come scardinare ogni cosa, se
ci
riesci», riveli con furbo sorriso, «Se proverai a
fare scherzi con la mia
sottoposta o chiunque altro, io mi toglierò la vita. Bada
bene, non mento; la
morte è una possibilità che mi accompagna fedele
dal giorno in cui ho smesso di
vivere».
È
il tuo cuore di ghiaccio a parlare. Ogni cosa da te detta, persino la
più
enigmatica, è vera; la tua serena accettazione della morte
porta lo stesso
Ikeda a tremare.
«Ti
do dieci secondi per decidere», lo avverti.
«C-Chi
mi dà la certezza che manterrai la parola se la
libererò?»
«Devi
fidarti del tuo istinto. Hai libertà di scelta, ma devi
anche saper
scegliere».
*
Quasi
un mese dopo
La
notte a Manhattan non regna quasi mai completamente: le luci delle
strade trafficate e dei palazzi risplendono eccessivamente, come
diamanti, ed
emanano bagliori a intermittenza. È come se il manto di
stelle del cielo - ora
fosco - si fosse manifestato sulla nostra terra, accanto alle fonti di
vita.
Io,
che osservo l’immensità della metropoli
– pregna di movimento e colori
nonostante il tardo orario – dall’ottavo piano
dell’edificio in cui alloggio,
non posso ignorare tale curioso fenomeno.
Tuttavia,
questo crepuscolo così vivace e caotico non tange alcuna
delle
mie ormai sopite emozioni, e per la prima volta osservo lo spettacolo
in cui
sono immersa come una distaccata spettatrice che sente, stavolta, di
appartenere alla triste volta celeste, contaminata dallo smog e quasi
spoglia
di astri.
Siedo
nel balcone sulla mia sedia ad ammirare un paesaggio che, seppur
affascinante, non sento mio; vestita con una nuova,
attillata, scomoda
divisa che non sento mia; attraversata da un senso
di solitudine che non
dovrebbe appartenermi.
Kurapika,
non mi hai nemmeno dato la possibilità di salutarti,
parlarti,
domandarti tante cose, guardarti in faccia un’ultima volta,
quando ho appreso
per mezzo di un nostro collega divenuto leader la tua decisione di
licenziarmi
dalla mansione e trasferirmi da un tuo affiliato. La stessa sorte
è toccata a
Basho, che risiede attualmente a Detroit.
Non
hai avuto il coraggio di affrontarci per una scelta che probabilmente
avevi preso da diverso tempo e che stavi cercando di attuare tramite
una scusa.
Non
potevi più sopportare che altri tuoi cari corressero
pericoli a causa
tua, e non riuscivi più a tollerare che questi ultimi ti
sviassero dai tuoi
obiettivi di vita; perché noi siamo la tua debolezza
più grande, e non puoi
accettare di anteporci alle tue necessità egoistiche.
Ti
sei sbarazzato di chiunque avessi a cuore, magari facendoti odiare di
proposito, per essere poi libero da vincoli, rimpianti, e poter
così scivolare
nell’abisso della perdizione.
E
mi ritrovo qui, da sola, a ricominciare una nuova vita a causa di un
tuo
capriccio, lontana dai rapporti che ero riuscita a intrecciare in
precedenza.
Tu non vuoi pensare a come possiamo sentirci in
questo momento,
strappati ai nostri affetti, al nostro habitat esattamente come
è successo a
te.
Eppure,
chi mi manca di più adesso sei proprio tu, l’unico
che
paradossalmente può colmare il senso di vuoto da te stesso
causato. Non posso
fare a meno di richiamare alla mente quella notte di settembre, di
tanto tempo
fa, in cui entrambi ci siamo rivolti la parola in un terrazzo, mentre
osservavamo le variopinte luci cittadine di York Shin e il cielo quella
volta
stellato, cullati dalla brezza che ci carezzava la pelle e ci spingeva
a dare
voce alle nostre emozioni più profonde.
Ecco,
questa vista analoga, i palazzi imponenti, la desolazione interiore:
tutto mi ricorda te, che ora non mi sei accanto perché hai
rifiutato la mia
spalla. Fa male.
Ti
conosco a sufficienza per immaginare che anche tu, in questo istante,
sei fuori dal tuo balcone ad osservare il mondo esterno per consolare i
tuoi
affanni. O almeno, un tempo eri solito farlo; ora chissà.
Da
quanto non apri il tuo cuore a qualcosa che non sia il tuo nocivo scopo
di vita? Da quanto non contempli la bellezza della vita, dei paesaggi
rigogliosi di un giorno di primavera? Da quanto sei così
pretenzioso da non
riuscire a riconoscere e abbracciare la semplicità dei
piccoli gesti?
Tiro
fuori il mio cellulare e, senza riflettere troppo, osservo la nostra
chat, ossia l’unico mezzo che può ancora
permettermi di raggiungerti. Controllo
il tuo ultimo accesso: tre minuti fa. Un po’ mi sorprende,
sebbene ritengo tu
non l’abbia usata per contattare qualcuno al di fuori del tuo
lavoro.
Ciò,
però, non mi frena.
“Come
sono le stelle del tuo cielo?”,
ti scrivo soltanto.
“And
I can't stop myself from falling, down;
And
I can't stop myself from falling, down;
And
I can't stop myself from falling, down;
And
I can't stop myself from falling, down”
La
tua risposta non arriva, né dopo dieci minuti, né
dopo mezz’ora. Forse
ti pè apparsa la notifica, e per questo non hai
visualizzato. Agisci così anche
con i tuoi vecchi amici, suppongo.
Mi
sfugge un sorriso mesto, e accetto la situazione.
Anche
il silenzio è una risposta, e il tuo in particolare vale
più di mille
parole.
© Alyss
Liebert
•••
{Note e curiosità}
I contest e le
challenge del forum mi
permettono spesso e volentieri di mettere su carta idee in cantiere da
tempo
immemore, e di tenere attivo questo profilo.
Volevo tanto
(tornare a) cimentarmi in
un racconto su Kurapika e Senritsu, specialmente perché mi
interessava
interpretare il motivo dell’apparente
“separazione” constatata negli ultimi
capitoli del manga tra Senritsu e la famiglia Nostrade presieduta da
Kurapika.
Lei era andata a visitare Gon insieme a Leorio, e non sembrava avere la
minima
idea di dove si trovasse Kurapika (altrimenti Leorio non avrebbe
tentato di
contattarlo disperatamente e non si sarebbe scervellato ad immaginare
la sua
posizione). Quindi Senritsu non era più accanto a lui da un
po’ di tempo,
sebbene quest’ultimo l’avesse poi
“assunta” di nuovo per la questione dei
principi, e tra i due sia tuttora rimasta una certa amichevolezza.
In questo
scritto ho dato una personale
interpretazione, e devo ringraziare mille volte il contest a cui sto
partecipando. Quest’ultimo si incentra su un difetto da
applicare al personaggio
principale (in questo caso Kurapika agli occhi di Senritsu); vi posso
assicurare che non è stato facile eleggere l’egoismo
fra molti altri.
La citazione
del pacchetto è stata
inserita non letteralmente ma nel suo significato, applicato
soprattutto a
certe riflessioni di Senritsu e alle azioni di Kurapika.
La scena bonus
si ha nel momento in cui
Kurapika è costretto a scegliere se salvare lei o meno, e ho
complicato la
questione inserendo come oggetto dello scambio proprio gli occhi
scarlatti, i
suoi “affetti” più grandi insieme ai
suoi amici. Decisione che lui è
praticamente incapace di prendere e che, come avrete letto, ha rigirato
sapientemente (con una buona dose di follia).
Mi interessava
anche fare confronti con
momenti passati, alcuni accaduti davvero nell’opera
originale, dove i
cambiamenti di Kurapika sono più evidenti.
Per quanto
riguarda la fine della
vicenda di Ikeda, potete interpretarla a vostro piacimento. Che tipo di
baratto
ha fatto Kurapika per liberare Senritsu, se
l’ha fatto? Che ne è stato
degli occhi da lui fino a quel momento collezionati? E di Ikeda?
Avrà
architettato dell’altro? It’s up to you. Non
l’ho voluto approfondire perché mi
avrebbe sviato dal fulcro principale della storia.
Riguardo al
rapporto tra i due
personaggi, anche qui vi lascio campo libero (non a caso ho inserito
entrambi i
tipi di coppia “nessuna” e
“het”). C’è qualcosa di
particolarmente profondo fra
loro o si tratta di un rapporto più
“materno”? Io ho le mie idee, ma non vi
influenzerò.
Il titolo, le
citazioni e – se vogliamo
– l’altra metà
dell’ispirazione provengono dal brano “Let me down
slowly” di
Alec Benjamin e Alessia Cara, che penso riassuma perfettamente il tutto
(link per ascoltarlo).
Spero davvero
di aver fatto un buon
lavoro, e vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Non esitate a
lasciarmi i
vostri pareri, anche di poche righe: essi sono sempre
stimolanti per uno
scrittore.
Jā ne,
Alyss