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Autore: Avareil    15/06/2019    4 recensioni
Farla calmare, forse, lasciarle la possibilità di conoscere quel posto che lui chiamava casa; concederle del tempo per stare da sola: ecco l’unica e sola strategia vittoriosa in grado di conquistarla.
Il fato è compiuto: non si torna indietro dopo una simile azione, ma Ade, il dio giusto e imperscrutabile, si riscopre incredibilmente dubbioso. Rapire un corpo non è conquistarne il cuore!
Che fare, dunque? Che strategia adottare per ammansire la belva?
🌻Storia vincitrice del contest "Most loved- Il mio personaggio, il tuo personaggio (terza edizione)" - indetto da Claireroxy sul forum di EFP - e del premio speciale "Poliziotto buono, poliziotto cattivo".🌻
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Persefone
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il domatore di belve
 
Il domatore di cavalli, dopo aver ammansito la bestia selvaggia,
va sempre via,
tanto lontano che di lui non si scorge più nemmeno l’ombra.

Nove volte su dieci è il cavallo a tornare.
Aforisma di terre lontane
 
 
Forse, secoli e secoli dopo, l’avrebbero chiamata sindrome di Stoccolma, quella strana e folle passione che anima il cuore del rapito nei riguardi dell’essere più spregevole al mondo: il rapitore, per l’appunto.
Del resto è banale, forse anche scontato legarsi morbosamente a colui dal quale dipende la vita, il respiro e la sopravvivenza: nessuno sarebbe così sciocco da ostacolare l’operato del malevolo figuro, ma anzi accomodanti, calmi e assertivi, diventa necessario piegare il capo e darsi con docile amore alle mani artigliate e imprevedibili.
Ecco, dunque, il motivo della tranquillità criminale: il rapitore non teme fughe e al rapito non resta che fronteggiare da solo questo mostro silente e ambiguo di nome ossessione.
Non segue alcuna logica, la sragionata passione amorosa, non pianifica nulla, lei, ma accecati gli occhi, rese sorde le orecchie e muta la bocca, stravolge la mente del colpito e dipinge realtà altre, magnifiche e agrodolci, care al cuore del naufrago in balia di alte onde.
È questa l’arma più sottile di Eros, figlio bastardo di Povertà e Ricchezza*: che libertà può mai agognare un cuore già in catene, già ingarbugliato nei lacci più sottili del mondo?
Soddisfatto, oramai, esso non desidera cercare altrove quello che pensa di aver trovato per fortuna, caso o coincidenza oscena.
Fosse solo una sindrome, poi, malattia della mente stravolta, Kore capirebbe, tenterebbe di razionalizzare o, quantomeno, fare opera di riflessione al fine di bandire l’assurdo sentimento dal cuore debole.
Fosse solo una conseguenza del rapimento, ratto surreale e improvviso, allora potrebbe anche essere facile scrollarsi di dosso il peso di una passione tanto folle da sembrare irreale.
 
Ma se il rapitore ti guarda con occhi di nebbia, foschi come il mare in tempesta?

Se nelle sue azioni si scorge un cuore addolorato, ma mai cattivo?

Sarebbe ancora una semplice sindrome, malattia di un cuore stravolto, o germoglio di un sentimento paradossale e bellissimo?
 
⸙⸙⸙
 
Erano passati giorni dal terribile atto che l’aveva strappata alle braccia materne.
I fatti erano chiari, lampanti: nessuna scusa poteva essere accampata in difesa di quello strano essere che, con mani gentili ma ferme, l’aveva ghermita all’improvviso: assalto spinto dalla rabbia e dalla foga del rifiuto appena ricevuto.
Ade, infatti, aveva provato in ogni modo a convincere Demetra, dea dei campi rigogliosi, a concedergli la mano della figlia amata, ma quella, morbosamente attaccata alla sua kore*, non aveva accettato l’assurda proposta e, anzi, con parole di fuoco l’aveva cacciato e sospinto lì, presso quei luoghi miseri che lui soleva chiamare casa.  
Ma Eros, dio assetato e manchevole per natura, non accetta un no come risposta e, colmato il cuore sotterraneo di bramosia, dolore e assenza, aveva costretto il dominatore delle anime a compiere il gesto terribile: rapita, strappata alla terra soleggiata come un fiore reciso per capriccio, ecco che l’aveva condotta presso i suoi altari, quelli neri, quelli nascosti agli occhi mortali.
Ai calci, alle urla e agli strattoni disperati Ade aveva sempre risposto con algido distacco – credeva di essere nel giusto, di meritare quella giovane dopo l’attesa paziente!– e più la dea scalciava e mordeva e si dimenava, più lui stringeva, ghermiva e bloccava, a volte rivolgendole parole spezzate; altre mormorando bisbigli a metà strada tra un invito alla calma e una supplica apatica.

“Datemi ascolto”, le diceva; “State calma, siete al sicuro”, le ripeteva spietato: non capiva, il dio dei morti, che i sovrani di sangue sono avvezzi alla violenza e non al candore.

“Cosa vi ho fatto? Che offesa vi ho arrecato?”

Ecco le prime parole di Kore, dea che lui diceva di amare e che, questo motivo, aveva rapito: un singulto strozzato, di preda ferita, proferito con rassegnazione tra quelle braccia che nulla avevano della delicatezza degli amanti.

Vergogna.

Era stato un rumoroso disagio, quasi un assillante fastidio, a costringerlo a sciogliere la presa per lasciarla libera nei pressi della piana degli asfodeli selvatici.
Stanco, afflitto da una debolezza d’animo forse improvvisa, forse sempre stata e taciuta, l’aveva osservata stringersi le mani intorno alle braccia con fare pudico e violato.   
 
“Cosa vi ho fatto? Perché mi prendete così, come una bestia, e mi stringete le carni, e mi violate nella libertà della casa materna?”

Kore aveva parlato con l’incredulità degli innocenti e il timore delle vergini, terrorizzata da un’ombra di cui non riusciva a scorgere che contorni indistinti.
Furono la sua voce tremante, le membra marchiate di segni rossi e gli occhi inquieti – persi nello scrutare luoghi troppo bui e spaventosi –  a gelare i burrascosi modi del dio.
 
Veramente era stato capace di un simile gesto?

Nessun mistero, nessuno sdegno, allora, per quei miti che lo dipingevano come feroce, osceno e violento!  

Perché ferire proprio quell’anima che per secoli e millenni e secondi aveva atteso con addolorata compostezza?

Perché turbarla e sconcertarla, lei che lo aveva ammaliato con un sorriso dedicato a fiori marci e radici secche?

No.

Lui era Ade, sovrano ineluttabile e retto, lontano dalle vergogne di Zeus o dai modi osceni di Poseidone.

Che fare, dunque?

Ascoltare la disperata supplica e ricondurla lì, dove la madre già l’attendeva disperata?

Mai.

Balordo cuore! La voleva. L’aveva desiderata in maniera morbosa fin da quando, in un sospiro di vento nero, l’aveva vista china sulle sponde del lago Pergusa: cantava, la bella Kore, e non si era accorta dell’uomo oscuro alle sue spalle.
Sfortunatamente per lui, però, bramava cose che non si potevano avere con un semplice schiocco di dita.
 
“Voi non mi avete arrecato offesa alcuna, né avete compiuto gesti malevoli, ma mentirei se vi dicessi che è mia intenzione rendervi alla madre.”

Le aveva risposto con voce algida, tanto modulata da nascondere il dolore che quella situazione paradossale gli arrecava.

“Mentirei se vi dicessi che la vostra presenza, anche così, turbata e inquieta, non mi reca una gioia silente nel cuore.”

“Che piacere potete mai provare sapendo che l’ospite che voi bramate vi rifiuta per paura e terrore?”

Una giovane più casta di Atena, più lucida di Artemide lo fronteggiava con occhi fieri eppure velati di lacrime: non aveva trovato la forza di guardarla negli occhi, lui che le anime le scrutava dentro.
Ma ecco un pensiero sottile, improvviso e diversissimo dagli altri, animargli il cuore spezzato e in difficoltà.
 
Farla calmare, forse, lasciarle la possibilità di conoscere quel posto che lui chiamava casa; concederle del tempo per stare da sola: ecco l’unica e sola strategia vittoriosa in grado di conquistarla.
Ritirarsi alla vista e alla presenza, soffocare sul nascere una battaglia logorante, fatta di frecciatine al veleno e singhiozzi strozzati, per vincere la guerra del cuore giovane e inesperto: questa la strada.
 
“Avete ragione, gentile signora, ma, se lo vorrete, questo regno saprà esservi caro, proprio come voi lo siete per me fin dal tempo in cui mi si fu mostrato…* libera andate per queste distese e libera conoscete gli anfratti nascosti.”

Palesate le intenzioni gentili e ossequiose – ammesse quasi a denti stretti come farebbe un re abituato al sangue e al ferro ma non all’amore e alle carezze, il dio aveva sollevato l’elmo prodigioso rivelando le proprie sembianze: lui, oscuro, fiero e ferrigno, si opponeva a lei, minuta, generosa e forse stupita dal trovarsi al cospetto di un uomo dall’aspetto nobile.

“Devo credere alle vostre parole, ambiguo signore, o ai vostri gesti? Parlate di ospitalità, ma mi avete rapita, trascinata sottoterra con l’inganno. Dite di affetti predestinati, ma io non vi conosco: di voi è nota solo la grande severità, e l’apatia che vi rende belva sorda alle suppliche e alla pietà.”

“Se fosse come voi sostenete, ragazzina, come sarebbe mai possibile questo?”

Le aveva afferrato delicatamente il polso – primo contatto rispettoso da quando i loro cammini si erano incrociati –  per adagiarne la mano contro il freddo metallo apposto all’altezza del cuore.

Un lento e inesorabile battito risuonava nel vuoto dell’Averno, ed era feroce, come chi tenti di rimanere attaccato all’esistenza con ogni sua forza.

“Vedete? Ogni cosa conosce mutamento.”

Saggio e misterioso come colui che vorrebbe dire e non dice – che sa altro e tace – si era dissolto nelle ombre del regno nero in un inchino, lasciandola sola e stranamente emozionata: la bocca rossa non appariva più arricciata a mo’ di fiera, stirata e livida per il terrore; ora morbida e dolce, si arrotondava in uno stupore improvviso per colpa di quelle sembianze diversissime dal turpe mito che di lui parlavano al pari di un mostro.
  

 
Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.

Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.

Assenza, Attilio Bertolucci
 
L’immagine di lui, algido e tormentato, rimase scolpita nella sua mente per molto tempo, concedendole, alla fine, una sorta di quiete paradossale.
Quel dio oscuro e pallido, infatti, così diverso dalla schiera dei divini belli e focosi che popolava le distese celesti, le aveva rivolto parole gentili, troppo gentili, e mai forzandola ad atti osceni – lì, in quelle terre di cui pur lui era signore assoluto – si era dileguato tra le ombre, permettendole, in cambio, di vagare libera come un’ospite ben voluto.
E le sfuggiva, lo strano re di quei luoghi: quasi come un reietto, egli faceva ben attenzione a tenersi lontano da lei affinché gli occhi di miele non scorgessero più le sembianze particolari e… seducenti.
Sì, la sconcertante ammissione l’aveva travolta solo qualche tempo dopo e risiedeva nella consapevolezza di volerlo incontrare ancora: non le bastava più il ricordo di quelle fattezze eleganti e altere né, tantomeno, l’ombra di quel cipiglio serio che nascondeva mille altre parole e mille altre emozioni.
Certo, era anche vero che, in un primo momento, aveva odiato ogni cosa di quel luogo, dall’aria pesante agli abitanti assurdi che popolavano le lande aride.
Avvilita da un Fato avverso, tanto da paragonarsi ad un’anima persa per l’Averno – proprio lei che ancora viveva la vita dei vivi! –  con ansia aveva creduto che quell’essere, che tutti chiamavano signore in un misto di amore e reverenza, fosse, invece, il dio malevolo della sua storia.
Ma dopo, quanto il giusto tempo aveva quietato il timore e la paura, era stato proprio il fumoso ricordo di quello sguardo di nebbia, così profondo e tormentato, a farsi balsamo per il cuore solo: era a quegli occhi che Kore pensava quando la notte eterna avvolgeva le anime spettrali e il piede si muoveva verso le camere finemente arredate.
Era a quel volto spigoloso e stanco che rivolgeva i pensieri, quando lamenti angoscianti o suppliche di gioia giungevano alle sue orecchie inesperte.
E non capiva perché, la giovane dea, quello continuasse a evitarla, a lasciarla sola.
Ma, soprattutto, non riusciva a trovare una spiegazione per quell’assurdo desiderio di vederlo ancora, proprio lui che con forza e freddezza l’aveva strappata alle sponde del lago Pergusa al pari di un barbaro, di un mostro, per poi trattarla coi modi di un sovrano giusto e imperscrutabile.
 
Può sorgere, quindi, da una terribile angoscia, un sentimento tanto nobile come l’affezione?
 
Se sì, è bene assecondare tale passione?
 
La fortuna sfacciata di Ade, il grande assente, risiede nella strategia adottata: da sola, infatti, Kore non può lasciarsi spaventare dalle parole di fuoco delle ninfe né, tantomeno, farsi annichilire dai rimproveri della madre. Libera, come la donna destinata a essere già dal primo sangue, la casta dea ha la possibilità di scegliere il proprio destino, facendosi anche tentare dal ricordo sempre più evanescente di quel sovrano che per lei ha abbandonato i suoi regni; che per lei ha smosso le ire di un intero Olimpo.
 
⸙⸙⸙
 
Non era nella sala del trono.
La sua sagoma nera non si stagliava contro le pareti dei lunghi corridoi regi, illuminati da fiaccole traballanti.
Perso, come ombra tra le ombre, di quel dio che aveva osato prenderla e lasciarla così, come un bel fiore reciso, non le rimaneva che il ricordo sfumato dal tempo e dal silenzio.
Ingenua, troppo giovane per comprendere il senso della caccia amorosa, si era illusa di volerlo vedere per urlargli contro tutta la rabbia e l’infelicità scatenate da quella situazione terribile in cui lui l’aveva precipitata solo per bieco egoismo. Si ripeteva che cercarlo in quel modo sottile, fatto di occhiate laterali e esplorazioni silenziose, fosse solo il blando tentativo di esorcizzare la propria condizione di prigioniera. Si convinceva, innocente dea, che quel sentimento che sentiva attorcigliarle le viscere al suo solo pensiero non fosse altro che angoscia mista a paura: e il suo stomaco si torceva, diamine se si dimenava come una serpe braccata nelle alte siepi!
Anche il cuore, disgraziato traditore, faceva la sua parte, e batteva forsennato tutte quelle rare volte in cui l’eco di un passo marziale risuonava per le vie nere: lei, allora, mossa da una forza sconosciuta, correva verso quel caro rumore ma, voltato l’angolo, solo il vuoto l’accoglieva; lasciandola forse triste, forse delusa.
Eppure non aveva sempre agito in quel modo scriteriato, anzi.
Con terrore aveva temuto che lui varcasse le soglie dei suoi appartamenti nell’ora più nera.
Con ansia aveva creduto che quel dio osceno l’avrebbe sozzata, corrotta.
Con timida speranza aveva immaginato che, prima o poi, qualcuno sarebbe giunto in suo soccorso per trarla in salvo dalle grinfie dell’oscuro dio.
Ma nessuno era accorso per lei e il re dell’Averno aveva continuato ad ignorarla in maniera tanto poco delicata che la rabbia e la paura si erano fatte, poco a poco, curiosità e insofferenza.
La verità era che lei aveva smesso da tempo di considerarlo il mostro cattivo, il terribile dominatore delle anime che tutti, lì in superficie, amavano dipingere con tinte fosche e scure.
Le voci dei trapassati le avevano regalato la conoscenza del Fato e la saggezza pacifica che si conquista esalando l’ultimo respiro: non scorgeva più il fantasma dell’aldilà terribile né un mostro spregevole e infido. Quel dio, indecifrabile, evanescente e invisibile, si era consacrato alla giustizia eterna e pulsava il suo cuore, scattavano i muscoli tonici, tremavano i nervi sotto l’epidermide diafana!
Lei lo aveva visto: possedeva una bellezza eterea, consumata, mascolina e quel maledetto profumo, che sapeva di ambra, anice e tempo antico, la folgorava ancora con violenza al ricordo di sé schiacciata contro il petto vestito di metallo e stretta da mani gentili e forti.
Per questa ragione tormentosa aveva deciso di dargli la caccia: lei, giovinetta appena donna, era giunta alla risoluzione finale che solo un incontro avrebbe potuto dissolvere i dubbi e le incertezze dell’animo confuso.
 
Avrebbe setacciato l’intero Averno, se fosse stato necessario.
 
Avrebbe affrontato il suo nemico a testa alta e richiesto, con effetto immediato, la sua liberazione.
 
Questo si ripeteva nella mente, e molto altro ancora, mentre il ricordo degli occhi grigi le faceva tremare il cuore e fremere le mani per l’impazienza.
 
⸙⸙⸙

“Radamanto.”

“Sì, mio re?”

“La giovane è ancora dietro il mio altare?”

“Sì, mio signore.”

“Bene.” Un leggero ghigno increspò le labbra del sovrano.

“Vuole che la inviti ad andare via?”

“No.”

“Come desiderate, sire.”

All’inchino reverenziale del fedele giudice era seguito un gorgheggio silente, quasi gutturale.
Rideva, il signore dei morti: nel petto antico echeggiava la sottile risata del predatore che attende pazientemente la preda.
Ovviamente anche lui li aveva contati.
Aveva segnato uno per uno i giorni in cui, letteralmente, si era negato alla vista della dea di superficie: reietto per i suoi stessi luoghi, era andato vagando come un’ombra, serrando le porte alle proprie spalle, svanendo nel nulla della notte.
Anche per lui era stato difficilissimo resistere al richiamo ancestrale di quell’anima che, fin dal primo sguardo, lo aveva stregato anima e corpo: perché Kore, eterna bambina dei campi, molto aveva della madre, Demetra rigogliosa, eppure anche altro si nascondeva tra i suoi ricci selvaggi o nell’indole sfaccettata… e quel nome, tenero e infantile, non le rendeva piena giustizia.
L’aveva scorta in compagnia delle ninfe, colorata da un sorriso radioso: lì era Kore, fanciulla allegra.
Ne aveva saggiato la figura sottile, persa nel silenzio di boschi solitari, muta e in contemplazione di fiori marci: quella era Persefone, il suo destino oscuro.
Doppia, duale per natura – solo come una donna può essere –  egli l’aveva amata e adorata fin dal primo momento: Kore e Persefone, la bambina eterna e la donna che coglie il mutamento, erano sue per volere del destino, ma quella fantasia d’unione – che in cuor suo veniva già coronata da eterna fedeltà – era stata però stroncata dal categorico rifiuto della dea madre.
 
Forse gli olimpi credevano che, sposata la dolce Kore, ne avrebbe ghermito e consumato le carni senza rispetto?
 
Pensavano che l’aria d’Averno gli avesse gelato il cuore e ottenebrato la mente?
 
No. Lui era ancora capace di profondissimo amore e incondizionato rispetto.
 
Eppure l’hai rapita.
 
Gelato da quella riflessione e un po’ meno convinto della legittimità di quel ratto, perse il sorriso di fiera soddisfatta: l’aveva rapita e, non contento, si era anche negato per giorni, sprofondandola in una curiosità insofferente di cui lui era l’idolo.
La dimostrazione lampante di tutto ciò risiedeva, per l’appunto, nel buffo tentativo di agguato intrecciato per lui dalla sua splendida ospite: credeva, quella, che nascondersi dietro il suo altare – come soleva fare per acciuffare le amiche ninfe –  sarebbe bastato per agguantare lui, dio dei morti!

Ah… sciocca dea! Per prendere lui era servito molto meno!

Un solo sorriso.
 
⸙⸙⸙
 
Quatta quatta, nascosta dietro il grande altare, Kore iniziò a sospettare che mai nessuno avrebbe varcato le soglie della camera sacra.
Non si udivano passi né, tantomeno, riusciva a percepire il suo odore.

Sei diventata un segugio?

Complimenti.

La vocina sarcastica nella sua mente la rimproverò per quella riflessione automatica: la verità amara era, però, che se avesse potuto, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di rivederlo per un solo istante, anche pregare su quell’altare troppo grande e… troppo vuoto.
Le sembrava, infatti, che nessuna libagione fosse stata versata sulla lastra marmorea; pareva che da troppo tempo, oramai, nessuno pregasse e rendesse omaggio al lastrone avernale.
Eppure Ade non era un signore dimenticato: il suo abbraccio avvolgeva ogni cosa e, sia mortali che divini, avrebbero dovuto accettare, prima o poi, l’inesorabilità del suo potere.
Risoluta come la madre, quindi, e con quel cipiglio particolarissimo che la faceva cosa diversa e terribile, Kore afferrò l’antica anfora per poi versarne una generosa quantità di liquido sacrò sul nero marmo. 
 All’azione sicura, però, non era seguita una preghiera decisa: che cosa avrebbe dovuto dirgli, poi?
 Che alla rabbia era seguita la curiosità e alla curiosità una sottile e sibilante emozione che chiedeva di lui, sempre?
 
“Che genere di dio rapisce e abbandona, prende e lascia?
Che tipo di divinità mi promette amicizia e accoglienza, ma poi scompare nel gelido Averno?”

Non si era accorta, la giovane dea, degli occhi rapaci che, dal tutto che la circondava, la osservano come preda e premio, vittoria dolce e amaro castigo.

“Ade, sovrano dei morti, dove si muove il vostro piede? Cosa vi tiene lontano dall’ospite che definite caro al cuore?”

Le mani tremanti, a quel punto, avevano lasciato il recipiente prezioso per stringersi al bordo dell’altare.

“Mentirei se vi dicessi che non desidero incontrarvi anche così, ghermita e portata lontano dalla madre amata. Sarebbe una menzogna se non vi confessassi che vi penso la notte o che, misera me, il ricordo dei vostri occhi ancora mi tormenta. Dove siete, allora? Forse l’ospite non vi è più gradito?”

Scettica, ben consapevole del disinteresse dei divini nei riguardi delle faccende altrui, Kore non pensò di venir ascoltata: non era possibile che quello che tanto amabilmente la evitava, la udisse con interesse; non era concepibile che il dio nero, severo e implacabile, la seguisse come uno spettro lungo i sentieri aridi e neri che conducevano alla cinta muraria.
Eppure lui l’ascoltò, la seguì e la vide coi propri occhi mentre ricercava conforto proprio lì, tra gli spiriti evanescenti che, ingiustamente, popolavano i miti paurosi delle ninfe.
 

 
 “Si conobbero.
 Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo.
 E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.”
Il barone rampante, Italo Calvino
 
“Mio signore, per quanto tempo ancora eviterete la vostra ospite?”

“Non la sto evitando, le sto dando del tempo per conoscere questo posto… per capire me.”

“Non credete che quello significhi già qualcosa?”

Radamanto, incerto e pensieroso, scrutava il suo re che, perso nella contemplazione del vuoto dinnanzi a lui, reggeva tra le mani lo stelo di un asfodelo in fiore: uno strano colorito ne animava il volto immobile.
Vergognoso al cospetto di quel gesto che parlava di innocenza e candore, l’imperscrutabile dio provò, per la prima volta, un logorante malessere. Un solo atto gentile – era chiaro fosse stata lei a lasciare quel pegno di amicizia sul grande trono – era stato capace di dimostrargli come tutte le pretese che aveva vantato nei riguardi di quella non fossero che prepotenze di una mente viziata dalla solitudine, corrotta dal dolore del silenzio.
Aveva creduto di meritarsela, che fosse una sorta di suo diritto ancestrale e innegabile quello di reclamarla non appena il tempo avesse fatto il suo corso.
Aveva strenuamente pensato che Persefone fosse sua, sua soltanto, sua in una sorta di contrappeso risarcitorio che l’avrebbe ripagato per le ingiustizie patite fin dall’alba dei tempi.
Ma non era vero, non era vero nulla: la giovinetta, che tra le sue lande aveva riscoperto un animo più maturo e pacato, era un premio, un tesoro da curare, una fiamma da difendere contro il soffiare gelido dell’apatia.
E lui, che non l’aveva meritata mai, avrebbe fatto bene a ripartire dal principio, fare come lei: spogliarsi di quella natura inadeguata all’amore, per abbracciarne un’altra, più consapevole.
 
“Dove andate, sire?”

“Ad accogliere un’ospite”.
 
⸙⸙⸙

L’aveva trovata a pochi passi dai grandi cancelli: ammirava l’orizzonte grigiastro, sottile linea di confine tra il cielo nero e il suolo pallido; il vento le smuoveva la chioma e la veste sottile.
Sembrava lontana, quasi eterea, mentre un turbinio di sentimenti le lacerava il cuore; perché lei sapeva, sentiva, di averlo alle spalle –  silenzioso come un’ombra, smascherato dal profumo penetrante, ma aveva ben chiara la strategia che avrebbe dovuto mettere in atto per provare il vero dietro quella innata fiducia che nutriva nei suoi riguardi.

“Riportatemi a casa” fu la prima asserzione, la prima richiesta.  

“Ad una condizione: lasciate che vi accompagni.”

Si era voltata stupita, rincuorata da quella risposta che raccontava l’intima bontà di un dio ferrigno, ostile solo per colpa della solitudine forzata.

“So cosa vi ha spinto a rapirmi: non vi perdono, non vi condanno; mia madre fu spregevole. Quello che vi domando è il perché di questa assenza: mi avete in odio? Volevate punirmi, umiliarmi?”

“Come potrei mai odiarvi? Vi ho attesa per così tanto tempo.”

“Perché allora?”

“Volevo aveste del tempo per comprendere questi luoghi… e me che ne sono il signore.”

Capì, Kore.

Comprese il senso di quelle parole pronunciate con timore, forse imbarazzo, mentre un colorito vivo animava il volto del sovrano.

“Temevate che una proposta gentile potesse turbarmi?”

Il tono argentino, quasi sarcastico, stupì il dio regalandogli una serenità nuova.

“Permettetemi, allora, di rimediare alle mie mancanze: gentile Persefone, sarei lieto di condurvi per queste lande come mia ospite cara.”

Le porse la mano in un invito cortese e, per la prima volta insieme, passeggiarono per gli oscuri domini d’Averno, che mai sembrarono così luminosi.
 


Le anime raccontano di averli sentiti ridere e scherzare amabilmente.

Chi fosse il domatore e chi la belva, tra i due, non è dato sapere.
 
 
 
 
 
 







Note
 
*1 Secondo Platone, Eros non sarebbe il figlio di Afrodite e Ares, quanto piuttosto il frutto dell’unione tra le divinità Ricchezza e Povertà. La motivazione risiederebbe in quella particolare condizione che colpisce colui che ama: è ricco se possiede l’oggetto amoroso, povero se ne è privo; generando quella particolare condizione precaria di manchevolezza nel cuore dell’innamorato.
*2 Kore, scritto in minuscolo e in corsivo, sta ad indicare il suo significato originario: in greco, infatti, significa “bambina”.
*3 I punti di sospensione vogliono indicare un’omissione da parte di Ade: egli non vuole perdersi nel racconto drammatico del momento in cui ebbe la visione della sua unione con Persefone.
Le ripetizioni ( mentirei- mentirei; e- e) dove presenti, sono assolutamente volute: nella mia mente, infatti, queste divinità mantengono toni solenni e classicheggianti. 
Avvertimento mai banale: la mitologia greca è ricca, ricchissima di violenza, rapimenti e sangue. Questa storia non giustifica alcuno di questi motivi, si limita a trattarli per come riportati dai grandi classici.


Angolo Autrice
Cari lettori, care lettrici, spero di cuore che questo momento mancante possa avervi fatto sorridere ed emozionare: le divinità sono vive, umane - troppo umane forse - e patiscono e soffrono proprio come noi. Nessuna trattazione classica dice cosa accadde lì, nel profondo Averno. Alcuni sostengono che Persefone ebbe in odio Ade, altri, invece, che si fosse innamorata a primo sguardo.
Questa è la mia versione: l'amore si conquista, non si ruba.
In attesa di una vostra parola gentile/critica/ciabattata,vi saluto con grandissimo affetto.
Avareil

 
  
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