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Autore: Ryo13    28/06/2019    5 recensioni
Segeste si trova in Dacia dove — su comando del padre Sesto — combatte le rivolte delle popolazioni stanziate lungo il corso del Tibiscus. Alla sera di una dura giornata di allenamento presso il campo romano, fa un singolare incontro che gli cambierà la vita. Davanti a un Fato che esige la sua azione per spezzare l'oppressione che ha subito negli ultimi secoli il popolo germanico, Segeste dovrà fare una scelta tra chi è, chi vuole essere e cosa può diventare. Al fianco del fedele amico di infanzia, Krasen, lascerà tutto quello che conosce a favore di una missione che ha il potenziale di farlo diventare grande.
ATTENZIONE: SCENARIO UCRONISTICO
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "La storia che vorrei" al contest “Senza tempo – II Edizione” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP. ❈❈❈
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PREFAZIONE
 

Questo racconto nasce per il contest “Senza Tempo” con lo scopo di creare degli scenari ucronistici a partire da diversi momenti della storia, in base ai pacchetti messi a disposizione: il prompt che ho scelto presupponeva di sovvertire l'esito della battaglia di Teutoburgo del 9 d.C., che vide lo scontrarsi dei Romani, capeggiati da Publio Quintilio Varo, contro i germani, condotti da Arminio.
Nella storia, la vittoria di Arminio segnò l'inizio dello sgretolarsi del potere di Roma che, come sappiamo, finisce per cedere all'onda delle successive invasioni barbariche.
Il periodo medievale vede, infatti, la grande influenza romana per quanto concerne i campi del diritto, dell'amministrazione, della fiscalità, della cultura, ma non quello militare in cui già da prima della sua caduta eccellevano le popolazioni barbariche, al punto che nel quarto secolo 'miles' e 'barbarus' erano termini praticamente equivalenti.
La società germanica, al contrario di quella romana, era una comunità di guerrieri, che esaltavano le virtù militari e l'uso delle armi.
Tacito così li descrive: «[I Germani], poi, non trattano alcun affare, pubblico o privato, senza essere armati; ma è costume che nessuno porti le armi prima che la tribù abbia riconosciuto che egli sia in grado di maneggiarle. Allora nella stessa assemblea o uno dei capi, o il padre o uno dei parenti, provvede della lancia e dello scudo il giovane; far questo è presso di loro come consegnare la toga, è il primo segno di onore della gioventù; prima di ciò sono considerati parte della famiglia, dopo dello Stato». E aggiunge: «I Germani non amano affatto la pace; essi ritengono che il buon nome si conquisti fra i pericoli del combattimento, accanto a un capo al quale sono totalmente devoti.»
Stando così le cose, nella mia ucronia, assecondando l'ipotesi di una vittoria romana ho immaginato che l'unica strada possibile all'Impero per contenere e controllare l'impeto guerresco di queste popolazioni fosse quello di cambiare radicalmente l'atteggiamento che in genere mostrava nell'amministrazione delle sue province: è noto, infatti, che Roma non esercitasse mai un controllo tale da intaccare in maniera irrimediabile la cultura dei popoli che sottometteva e che, anzi, messe da parte le consuete tassazioni, lasciasse piuttosto liberi i popoli di esprimere il proprio credo e i propri costumi.
La mia storia parte da un periodo che si distacca di secoli dalla battaglia di Teutoburgo, ma che rimane indefinito: questa scelta è motivata dal genere che ho eletto per raccontarla, ovvero quello epico.
L'epica, infatti, nasce con lo scopo di raccontare le gesta, storiche o leggendarie, di un eroe o di un popolo, mediante le quali si conservava e tramandava la memoria e l'identità di una civiltà o di una classe politica. Ha anche un legame molto stretto con la poesia: in origine, essa veniva trasmessa oralmente con un accompagnamento musicale da poeti-cantori.
La mia idea si è sviluppata intrecciando a doppio filo elementi della letteratura classica a figure della mitologia norrena, che sono diventate materia del racconto: per fare ciò mi sono servita di diversi espedienti cui accennerò brevemente.
La struttura ricalca i poemi epici classici, primo fra tutti l'Eneide di Virgilio, che amo tanto: il testo è diviso in tre libri composti da tre canti ciascuno, con l'aggiunta di un proemio iniziale che ho composto in endecasillabi sciolti (inquadrati a volte mediante sinalefe); la narrazione, invece, è in prosa, ma costruita attraverso vari elementi della poetica per conservare e ricostruire una musicalità e un ritmo che potessero richiamare i racconti dei cantori. Per questo motivo nel testo prevale l'inclinazione all’uso di parole antiche o a una loro inusuale declinazione, a una rima semplice, la narrazione al tempo presente e soprattutto l'uso dell'anastrofe.
Anche il titolo è un chiaro riferimento all'Eneide essendo una citazione del verso 462 del primo libro: "Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt"; "Sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la mente". Augusto Rostagni la traduce così: "La storia è lacrime, e l'umano soffrire commuove la mente". L'ho trovata emblematica perché Segeste al pari di Enea incarna quella moderna figura di eroe che prova pietà per i nemici vinti e per i caduti in battaglia o le vittime innocenti degli eventi. Tuttavia si trova in una situazione impossibile perché lo scontro tra Romani e Barbari si riflette completamente dentro di lui, essendo nato dall'unione di un romano con una donna barbara. Proprio per compensare le ingiustizie che le popolazioni germaniche hanno subito da parte dei Romani, a lui si chiede di uccidere in se stesso il seme del nemico per restituire la libertà al popolo sopraffatto.
Anche la cover che ho creato nasconde una simbologia profondamente legata al racconto: il volto dell'eroe è racchiuso nella figura del corvo, Munin, che interviene ed è presente in tutta la storia. L'occhio dell'uccello e quello dell'uomo sono allineati e insieme formano una prospettiva, una “visione unitaria” delle cose. La texture punteggiata, invece, indica come l'identità e la missione di Segeste nascano e si costruiscano in relazione alla memoria del popolo sottomesso, nella pluralità di voci che lui rappresenta.
Fatte queste dovute premesse, ringrazio tutti quelli che leggeranno questo racconto con la speranza che riesca ad affascinare e sia apprezzato, dato che — com'è intuibile — mi ha richiesto non poco sforzo sia nella fantasia che nella composizione.
Ringrazio in particolare mystery_koopa per avere proposto un contest originale e interessantissimo che mi ha molto stimolato.
Auguro a tutti una buona lettura.

Mariarita M.

 

Libro I

Proemio

La volva1, profetessa dei germani, annuncia lo sconvolgimento della storia del proprio popolo: destinato dagli Asi a vincere sui Romani nella foresta di Teutoburgo nel 9 d.C., per inganno di Loki la vicenda prende un altro corso ed essi vengono sconfitti. Per ripristinare il Fato, Odino annuncia la venuta di un eroe destinato a portare la libertà ai suoi figli.
 


 

1 Ascolto io chiedo2 vite mortali
per affidare ai cuori accesi
la storia che il mondo non conobbe
ma che il mio occhio vide innante.
5 Io profetessa dei mille destini
provata da Odino spaventoso3
volsi la vista oltre ai confini
sprofondando nel remoto passato
per giunger fin al futuro mai nato.
10 Non creatura è nei Nove regni
che più di me medesima contempli.
Già compiutamente l'antiche storie
dissi; l'aspetto del mondo all'esordio,
la riunione degli Asi4 illustri,
15 dell’intreccio di Yggdrasill5 radici
e la fine con Ragnarök6 ignoto;
Ora mente più volge a intrecci
orditi del tempo gli spersi fili
ove ostacolo ruppe il passo
20 al destino del popolo barbaro
per il quale Varo7 non perse guerra
e a Teutoburgo penetrò la selva
sconfiggendo Arminio8 il Cherusco9
e dando al fuoco in modo brusco
25 popoli di nobili origini,
di eroici guerrieri discendenti,
prediletti figli di Hodur10 cieco,
che andavan di furore ardendo
con svelto passo alla loro brama;
30 brama di guerra, di sangue e morte
ché tra Teutoni insigne valore
han la battaglia, la spada, le spoglie.
Ora dunque mi accingo al canto,
narrar debbo di Loki11 l’inganno
35  — ché un dio insidiante in sé reca
i semi del dubbio di salda presa
su mente cauta che udito presta
a illusorie voci senza volti.
Svia l’astuto d'Irmin12 l’azione
40 resolo preda a romano padrone,
con lui cade l’intera nazione
sotto i fragori della legione.
Perduta è la vita e la Patria
e dall’allora schiavitù regna
45 perché lo spirito che è vitale 
non sa che anelare all'altare;
giorno e notte domanda giustizia
agli Asi che non hanno parole.
Il Fato sconvolto esige riparo
50 presto si alza d'Odino la mano:
decreta che in futuro sovvenga
un eroe di ampio intelletto
che abbia saldo cuore e il braccio;
«Per lui i Goti avranno riscatto
55 dall'oppressione liberi saranno,
non sarà pace finché ciò avvenga:
come flagello sul cuor della Lupa13
saran tormento finché resti muta.»
Così parlò del popolo il padre;
60 temuto è per l'aspetto ferale,
l'occhio che sta coperto14 ha donato 
per poter la sapienza assaporare:
per essa non ha celati segreti
non ignote le scellerate seti.
65 Penetra intanto l'animo umano
puntando il giusto che ha preso per mano.
Lo plasma in un grembo che a seme 
risponda, per impeto del nemico
ché in due mondi radici affonda:
70 di madre barbara e padre romano
nasce Segeste Valerio Luciano.
Illustre eroe di questo poema
dei fratelli guiderà la vendetta 
perché ponga a rovina l'oppressione
75
liberando il fuoco ch'arde erompente
sotto pelle della germana gente.

 

❈❈❈

Canto I

La morente luce del giorno getta raggi intorno alla campagna, colorando i colli di nerofumo15 sotto il cielo di fiamma. 
Nel campo romano i soldati sono ancora intenti ad allenarsi, ma per poco, e non prestano attenzione alla natura che di spettacolo ne fa un gioco.
Gli ultimi clangori dei ferri gemono tintinnanti dopo il suono del corno, che segna la fine degli addestramenti. Quando le file si spezzano, gli uomini, tra le tende, un poco di riposo apprezzano.
Separato dai compagni, Segeste si allontana con passo lesto, introducendosi nel fitto del bosco fino all’insenatura di un fiume modesto: lì l’acqua è tanto bassa che riesce a scorgere i sassi sul fondo, nonostante le ombre ormai gli si dilunghino intorno.
Toglie l’elmo liberando un sospiro e l’abbandona assieme alla cotta presso il rivo. Spogliandosi velocemente della corta tunica, stanco si sdraia nell’acqua, che lo lava dal sudore e a svuotare la mente lo aiuta.
Così steso nel meato, non si avvede d’esser spiato.
Nell’ombra, tra i rami, ecco due pennuti vivi di intelligenza che osservano ogni sua mossa: sono Hugin e Munin16, gli scuri corvi di Odino, custodi del Pensiero e della Memoria.
Silenziosi, con un fremito d’ala sincrono, spiovono appoggiandosi a una roccia, continuando a fissare intenti il giovane dalla fatica vinto: galleggia senza il minimo sentore che, da lì a poco, tutta la sua vita avrà un nuovo scopo.
Quando anche l’ultimo raggio di luce scompare all’orizzonte, uno strano vento s’alza impetuoso, smuovendo la cima delle fronde.
I corvi cominciano piano a gracchiare, come volendo dalla selva qualcuno chiamare. Dal buio avanza la forma curva di un vecchio, celato da un manto che lo copre fin sul volto all’orecchio. Lo sostiene una lancia che usa a mo’ di bastone, ma tale è che ben la vedresti a un cavaliere in arcione.
È proprio il ritmico colpire dell’arma sul terreno che avverte Segeste di non esser solo in un baleno: si alza rapidamente, la mano già lanciata verso la spada che ha affissa sul margine del torrente.
«Non avere paura», dice una voce profonda. «Non è da me che ti verrà il pericolo in cui ognuno affonda17
«Chi sei, vecchio?», domanda inquieto. «Ti esprimi in lingua barbara ma ti trovi in confini dove i Romani fanno decreto.»
«La stessa cosa potrei dire di te che brandisci un ferro romano ma un grembo barbaro ti ha generato.»
Segeste corruga la fronte, perplesso dalle parole dello sconosciuto, ma pure risponde: «Non farti ingannare dal mio aspetto. Mia madre era barbara, ma mio padre lo stemma di Roma porta sul petto». E successivamente: «Perché ti interessano le mie origini? Per quale motivo ti trovi tra questi argini?»
«Sono venuto, in effetti, con uno scopo», risponde lentamente poco dopo. E avanzandosi d’un passo, scopre il volto, afferrando da un lembo il suo manto. Quando l’aspetto di quello muta, Segeste, sconvolto, avverte brividi freddi sulla pelle nuda. Lasciando cadere di mano la spada, inchioda le ginocchia sul basso letto del fiume di giada.
«Sorgi, guerriero», l’invita Odino con voce tonante. «Sono venuto a chiamarti al destino del quale tu sei il fante. Il tempo non può attendere oltre che si compia la storia quale all’origine essa era indotta.»
«Vegtamr18, le tue parole mi creano confusione. Se del compiersi di un destino ti interessi, perché a un mezzosangue come me ti appressi?»
«Sono io che tale ti ho voluto: il tuo sangue misto infatti distrarrà di Roma il suo fiuto. Per questo rifonderai l’antico regno in una nuova ed eterna forma.»
Con un cenno del dio, Segeste s’alza e in fretta si riveste. Quando ha rimesso la tunica e la spada lo cinge al fianco, torna al cospetto di Odino in atteggiamento più franco.
Questi, rivolgendosi ai suoi pennuti servi, affida il racconto per il quale un futuro è possibile leggervi.
Dei due corvi aggrappati alle sue spalle è Munin a schioccare il becco girando lo sguardo su tutta la valle. Poi, con uno sbatter d’ala, si solleva in volo, disegnando un cerchio sopra le teste simile a corona d’alloro. E a ogni giro potenti vortici genera per i quali l’energia fin dentro di lui penetra. Quando infine spalanca il becco non si ode un semplice gracchiare, ma nel verso Segeste avverte le voci di un mondo sommerso.
Non sapendo spiegare esattamente come, comincia un canto di milioni di vite scomparse nel tempo che raccontano al suo cuore della romana oppressione.

"Teutoburgo la vittoria segnata
mai vide la luce ch'era sua brama:
Arminio sconfitto caduto al suolo
è destino inflitto dell'inganno
il patrono, il qual pose arguzia
in scherzo crudele che tolse vita
e vittoria ai Barbari e fede.”


Conclusa così la storia e, assieme a quella, la tempesta, il gracchiare di Munin infine si arresta. Torna sulla spalla del padrone ma, questa volta, è il compagno a prendere l’azione.
 

"Segeste barbaro uscirà romano
perché percuota dal ventre il nemico
e vittoria ottenga per sua mano.”

 

In tal modo, il custode del Pensiero indica con quale decreto divino il fato sia stabilito. E se l’uno gli rivela il passato, l’altro, con forza magica, gli svela quanto ancora non è nato.
Ammutolito, Segeste non smette di fissare i due pennuti, i quali volteggiano ora silenti al limite di certi rami nudi. Ma non ha il tempo di formulare parola che Odino, dalle pieghe del mantello, tira fuori una lama gloriosa.
«Appartiene a Hermod19 il coraggioso. Te la dono affinché tu ascenda presto della vittoria il suo trono.» 
Ciò detto va via svelto, lasciandogli una strana sensazione al petto.
Segeste soppesa sul palmo l’arma, ammirandone al raggio di luna il baluginio di fiamma. Quando comprende il peso del destino che lo attende, si volge attorno come alla ricerca di un appiglio a cui la mano tendere.20
Ma non vi è alcun uomo su cui fare affido, solo resta il piumato corvo nero che con un gracchio gli lancia un invito.
Fissandosi a vicenda, Segeste nell’occhio della creatura si profonda: e riudendone il canto nella mente, solleva il gomito in direzione di quello che, atterrando, nella carne l’unghia affonda.

 

❈❈❈

Canto II

Trascorso un tempo che è parso indefinito, un raggio d’alba scuote Segeste colpendolo sul viso.
Seduto su di una roccia ha trascorso la notte in profonde riflessioni, mentre sopra di lui il cielo nero punteggiato di fulgide stelle ha compiuto mezza volta. La pausa è finita e deve tornare all’accampamento; poco distante da lui volteggia Munin in elegante portamento. 
Avanza il passo tra la sterpaglia, rompendo il silenzio coi secchi crepitii dei rami che paiono paglia. 
Tornato alle tende, muto scivola nella propria, dove trova per terra Krasen, suo fidato amico, cui del sonno espropria.
«Krasen, svegliati», lo chiama con voce grave. E questi sorge svelto, tirandosi al petto le lame.
«Non siamo sotto attacco, calma. Ti devo parlare.»
L’uomo punta lo sguardo confuso sull’amico, prima che i dintorni cominci a osservare. 
«Ieri sera non sei tornato», piano commenta. 
«No», dice seccamente Segeste per conferma. «Ma se ti dicessi per qual motivo, ne rimarresti schiantato come colpito da Thor21 divino.»
«Krasen, mio buon amico, ho da riferirti un fatto di grande importanza che necessita segretezza, e pure tanta. A te lo posso dire perché so che mi sei fedele da che le nostre madri posero vicini i nostri capi in cuna e ci nutrirono di miele. Non temo dirti cosa ardita che tu non comprenda e per la quale, con coscienza, mi dirai cosa far convenga. Adesso presta ascolto al mio racconto e assimila svelto, ché non resta molto tempo prima che ci tirino giù dal letto.»
Con voce bassa e concise parole, Segeste riferisce all’amico del suo compito e di chi a ciò lo vuole. Infine, per dar di tutto prova, tira fuori la lama argentea che di posare in terra non osa.
Krasen, dopo uno sbigottito silenzio, prende parola: «Non a tutti i mortali è dato di assistere a eventi che segnano per sempre il corso della storia. Ma io li vedrò se mi concederai il vanto d’esser teco in tanta prova. E sul mio onore di guerriero giuro ancora un volta e con più forza eterna fedeltà a te, giacché non solo amico mi sei, ma liberatore designato per la gente nostra. Da questo momento nasci come astro, e Bragi22 canterà perpetuamente le tue gesta e il tuo retaggio. Se per seguirti mi verrà morte, benigno egli mi accoglierà al Valhalla23 come compagno della tua battaglia».
Ciò detto, si piega in ginocchio, impugnando la spada all’elsa e puntandola davanti, in affondo.
Segeste, commosso, incrocia con lui la lama: tale è il segno che il suo giuramento è stato accolto; poi risoluto gli offre la mano per stringerlo in un abbraccio di accordo.
«Devo lasciare il campo, Krasen», annuncia. «E tu verrai con me perché alla tua presenza, questo amico, non rinuncia.»
«È necessario, infatti», afferma. «Ma come pensi di fare senza che alcuno intervenga?»
Segeste ha ricevuto il compito dal padre funzionario delle alte sfere di Roma di fiancheggiare l’Evocatus24 Acilio nell’addestramento delle truppe daciche, in vista di future battaglie: a causa delle turbolenze tra le popolazioni sottomesse, un piccolo esercito è stato stanziato ai margini della regione; da mesi si sposta lungo il corso del fiume Tibiscus25, sedando piccole rivolte.
Segeste sa che quello non è altro che uno sfoggio di potere da parte dell’Impero il quale, per affrontare la minaccia costituita dalle molte popolazioni barbariche, ha preso a esercitare con più forza e maggiore autorità il proprio dominio.
Sottrarsi all’incarico non è cosa facile poiché ogni decisione deve passare dalla mano di Sesto Valerio Lucio, uomo oltremodo riluttante a concedere qualsivoglia indipendenza, finanche al figlio.
Non fa in tempo a formulare una risposta che la tenda è presto mossa. Compare l’alto pennacchio d’un soldato dell’armatura completa bardato. 
Il messaggero annuncia per lui convocazione nella dimora del suo padrone.
Non c’è da perdere altro tempo, e con un breve sguardo lascia il compagno.
Acilio l’accoglie vestito ancor della sola tunica: la testa canuta e il volto segnato raccontano di una vita spesa per la guerra, ma ha la ricchezza di avere un animo saldo. Gli offre di sedersi assieme a della frutta, e non passa molto tempo che lo mette a parte della notizia giunta.
«Il prode Sesto ti richiama: hai ricevuto l’ordine di lasciare le mie fila e di incamminarti per la tua Patria.»
«A quale nuovo compito sono destinato, savio Acilio?», domanda intento.
«Leggi da te», gli dice, indicando la pergamena a stento.
Segeste scorre veloce tra le parole e apprende di nuove turbolenze nella sua natìa regione. Sesto, dunque, lo vuole al capo di uno squadrone per placare la ribellione. L’occasione è cosa opportuna per mostrare valore a Cesare e a Roma, e aumentare così del proprio nome la fortuna.
«Partirò appena posso, ma prima ti ringrazio: ho appreso tanto dalla tua ampia esperienza e, ricco di buoni consigli, mi hai reso più saggio. Non so se il fato vorrà farci incontrare ancora, ma fino ad allora: addio.»

Segeste si congeda raccogliendo la sua tenda e da presso lo segue Krasen per seguirne la leggenda.

 

❈❈❈

Canto III

 

Segeste siede sullo scranno di legno intagliato presso di Munste il campo romano. Ha preso possesso della legione cui è stato incaricato: ad accoglierlo c’è il milites romano Clodio il quale porge rispetto obbligato.
«Vi attendevamo da settimane, insigne Valerio Luciano. Vi è stato già illustrato l’incarico a voi affidato?»
«Brevemente e solo per messaggio. Gradirei più ampia illustrazione di ciò che sta nel paraggio.»
«Voi conoscete bene le difficoltà di Roma con questa provincia. Le turbolenze non cessano da secoli, sebbene il pugno fermo della Patria nostra ponga un freno a chi aperte ribellioni forgia. Tuttavia, ultimamente, sono state organizzate rivolte programmate a cui il governatore Gaio non ha potuto rimediare: di conseguenza è stato costretto a una richiesta di rinforzo inoltrare.»
«Tutto questo era evidente nella missiva, Clodio. Ciò che mi preme sapere sono le informazioni inerenti i gruppi dei ribelli al podio: i nomi dei capi, i luoghi degli avvistamenti, la struttura della fazione...»
Strabuzzando gli occhi e scuotendo il capo, Clodio risponde: «Proprio questo è il problema: costoro colpiscono in maniera apparentemente separata ma a cadenza regolata. Non conosciamo nomi di capi o di mandanti, perché nell’ombra agiscono questi briganti! Si vocifera di sacche di ribelli nascoste tra le foreste, lì dove il controllo militare è meno stretto e nel territorio la sorveglianza fa difetto».
«Quali azioni sono state intraprese, dunque, da queste persone?»
«Furti, prevalentemente», mio signore, «e in alcuni villaggi sono stati uccisi i capi dei presidi Romani. La situazione è molto tesa. Il governatore vuol che si ponga presto rimedio, prima che i Barbari abbiano gonfio l’orgoglio e colpiscano a maggior danno.»
Concluso il colloquio, Clodio è allontanato. 
Krasen, rimasto da sempre in disparte, prende la parola: «La situazione pare migliore di quel che si comprova».
Segeste alza gli occhi a fissar l’amico e gli fa cenno di continuare con un dito.
«Tu sai che sono originario di una zona vicino a questa. Sin dalla mia infanzia so che i capi tribù del popolo hanno organizzato una segreta resistenza. Da che ci furon tolte l’armi e il diritto di imparar l’arte della spada, gli antenati hanno pensato di tramandare l’onor patrio nel segreto delle foreste nordiche. Nel ventre delle caverne e nel fitto dei boschi, giovani Germani hanno allenato i loro corpi perché non si perdesse nel servilismo a Roma il fuoco delle guerre che da sempre ci divora.»
«Dunque pensi che in questo modo gli scontri siano mandati avanti.»
«Non trovo altra spiegazione se non questa: i semi del passato, cresciuti nell’ombra della terra, hanno messo radice e pianta, e solo ora Roma ne intravede i primi pomi.»
«Amico mio, ti do ragione. E aggiungo che nulla di ciò avviene senza una cagione.»
La mente furba di Segeste è già lanciata avanti e vede, nelle trame presenti, occasione per la realizzazione dei futuri eventi.
Prende possesso dell’esercito e del campo, girando poi di villaggio in villaggio.
In ogni luogo ha occasione di testar la gente e raccogliere informazioni accuratamente.
Il giro, tuttavia, imprime nella pupilla e nella mente scene di povertà e di morte imminente.
Studia il suo popolo che si trova al collasso, abbassato in asservimento al nemico e al suo laccio.
Le città fangose quasi non conoscono più l’antica gloria, perché vietata è stata resa la scrittura della storia; gli uomini cenciosi se ne stanno a lavorar la terra e le madri di bambini affamati chiedono all’angolo di strada la moneta.
Rivive nel cuore di Segeste il pensiero della madre, dalla quale fu staccato ancora imberbe per esser trapiantato nella famiglia del padre.
E mentre il piede vaga e pure la mente, si ritrova ad assistere alla scena seguente: tre militi romani circondano una povera preda, una giovanottina dalla gonna linda e dalla figura piena. La circondano ai lati e la premono in ressa, mentre lei con mano tremante la parete appressa.
«Vogliate lasciarmi, soldati», li prega. «Ho da tornar a casa, e ciò non vi faccia offesa.»
Così dice stringendosi al minuto seno un canestro pieno per metà di ortaglia. Ma quelli la deridono e l’invitano a ben altra tavola con parola beffarda.
«Lasciatela stare», prorompe Segeste, il quale non è riconosciuto perché cammina in celata veste.
Lo fissano male i tre omaccioni, dicendogli svogliatamente che aspetti il suo turno per far valere ragioni.
Continuerebbero nella loro molestia, se d’improvviso il nostro uomo non ponesse mano all’elsa: l’estrae repente, respingendoli poi con malgarbo. 
La zuffa attira l’occhio della gente intorno, ma non trascorre molto tempo che Segeste impone loro scorno.
Fuggono quelli, tra gli improperi dei plebei, e allo stesso modo sta per dileguarsi Segeste, ma una mano piccina e sottile lo trattiene per la veste.
«Come posso dirvi il mio grazie, signore, per avermi salvato? Sono povera e non conosco parola che copra del dovuto onore la vostra prova.»
«Potreste, se voleste, farmi cosa molto grata, rivelandomi, se la sapete, l’ubicazione della forza barbara.»
A queste parole, la giovane con un sobbalzo si ritrae, ma Segeste con dolcezza di modi e parola la persuade.
«Non ho cattive intenzioni, anzi molto buone. Mi avete visto lottare e scacciare i soldati romani: lo stesso intendo fare con la loro guarnigione. Cerco una forza che mi sostenga nel mio proposito perché nel mio cuore desidero libero il mio popolo.»
Scrutandolo negli occhi, allora la giovane risponde: «Se tale è dunque il vostro desiderio, recatevi a mezzanotte alla fonte del frassino e dell’olmo».
Ciò detto, nel reticolo delle stradine scompare, lasciando Segeste con un piano da approntare.



NOTE:

[1] La volva è una maga esperta nella divinazione e negli oracoli: veniva consultata anche dagli dèi, ai quali predisse le vicissitudini future della famiglia divina (cioè la morte di Baldr e la fine dell'universo). È una veggente e una sacerdotessa presso il popolo dei Germani e nei paesi nordici.
[2] Hljóðs biðk, «Ascolto io chiedo». È probabilmente la stessa formula che veniva utilizzata nelle assemblee vichinghe per imporre il silenzio e richiamare l'attenzione dei presenti, e che riecheggia con forza l'antica formula omerica kéklute óphr' éipō «ascoltate affinché io dica».
[3] “Molto spaventoso”, epiteto di Odino.
[4] Nella mitologia scandinava, classe di divinità legate al cielo, alla sapienza e alla guerra.
[5] Yggdrasill, nella mitologia norrena, è l'albero cosmico, l'albero del mondo.
[6] Ragnarök,“Destino degli dèi”: Nell'escatologia scandinava ha questo nome l'evento che, alla fine dei tempi, porterà gli Asi a scontrarsi con i giganti in una battaglia in cui gli dèi morranno e il cielo e la terra arderanno nell'incendio universale.
[7] Publio Quintilio Varo (Cremona, 47 o 46 a.C. – Foresta di Teutoburgo, 9 d.C.) è stato un politico e generale romano.
[8] Arminio (Hermann o Armin; Weser, 18 a.C. – Germania Magna, 19 d.C.) fu un principe e condottiero della popolazione dei Germani Cherusci, ex prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano.
[9] I Cherusci erano una tribù germanica che abitò nella valle del Reno e nelle pianure e foreste della Germania nord-occidentale tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.
[10] Hodur nella mitologia norrena, è il fratello cieco di Baldr e figlio di Odino, il cui nome significa guerra, che si scaglia come una furia cieca sugli uomini.
[11] Loki è il dio dell’astuzia e della furbizia, ma anche della malvagità. Secondo alcune leggende è figlio di Odino, ma secondo altre nacque dalla dea Laufey e dal gigante Fàrbauti. Rappresenta il caos, la distruzione e l’inganno, ma allo stesso tempo anche il fuoco.
[12] Arminio è una variante latinizzata di quello germanico Irmin, ‘grande’.
[13] Lupa, simbolo di Roma.
[14] Odino è raffigurato senza un occhio: secondo le leggende, se lo cavò per offrirlo in pegno a Mímir per attingere un sorso di idromele da Mímisbrunnr, la fonte della saggezza che il gigante custodisce.
[15] Anche definito “nero di carbone”, sostanza che si produceva mescolando l'olio bruciato usato nelle lampade insieme ad acqua e resina. Il popolo egizio lo usava per la scrittura.
[16] Odino possedeva due corvi di nome Hugin (in norreno ‘pensiero’) e Munin (‘memoria’), che avevano il compito di riferirgli tutto quello che vedevano e sentivano nel mondo, in modo da accrescere la sua conoscenza.
[17] Si riferisce ai pericoli comuni a cui sono soggetti tutti gli uomini, che in genere si temono dagli estranei: di essere derubati o uccisi.
[18] Odino viene dipinto come un dio viandante, che cammina per le vie del mondo. Onde per cui egli è detto anche Vegtamr (‘viandante’).
[19] Hermod (Hermóðr) il Coraggioso (in lingua norrena "spirito della guerra") è una figura della mitologia norrena, figlio di Odino e Frigg.
[20] Segeste è scosso e si sente come un naufrago nella tempesta, quindi, per un moto istintivo, allunga la mano sperando che qualcuno gli offra un’àncora di salvezza.
[21] Dio del tuono.
[22] Il più saggio degli dèi, signore della poesia. Dal suo nome, è detta bragr l'arte poetica e bragi viene chiamato chi possiede al massimo grado il dominio sulla parola. Dimora nella Valhalla, dove accoglie i guerrieri morti in battaglia
[23] Valhalla, Valhǫll vuol dire «salone dei caduti in battaglia». Rappresenta l’aldilà della mitologia norrena.
[24] Evocatus era un militare dell'esercito romano, tenuto in servizio oltre la durata legale, con incarichi vari che andavano dalle esercitazioni all’amministrazione di una legione.
[25] Il fiume Timiș (o Tamiš), nell'antichità, era conosciuto come Tibiscus. È un fiume lungo 359 km, che nasce nei Monti Semenic, in Romania e sfocia nel Danubio, nella Serbia settentrionale.

 
 

 

 
   
 
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