Incantesimi
d’amore e
di morte
Salutò il suo amore
Lui
s’imbarcò su una nave
dal molo di San Blas
giurò che sarebbe
tornato
E, bagnata di pianto, lei
giurò che lo avrebbe aspettato.
Mille lune passarono e lei
rimase al molo
Aspettando
Molti pomeriggi si
annidarono
Si annidarono nei suoi
capelli, sulle sue labbra.
(En Muelle de San Blas,
Manà, libera traduzione italiana: Shilyss)
Capitolo 1
La prigioniera
Aveva
le mani macchiate di sangue. Sangue suo. Colava dal naso, scivolava
sulle
labbra, contrastava con la mano che teneva, aperta, davanti a
sé. Una volta, al
Titano che, furioso, lo aveva accusato di aver perso
un’armata e ben due gemme,
aveva raccontato che i fallimenti non esistevano: era tutta una
questione di
prospettive, di punti di vista. Se guardata nel giusto modo, una
sconfitta non
rappresentava altro che l’opportunità di testare
un potere diverso e oscuro,
per poi vincerlo e schiacciarlo sotto i propri stivali. Quella
sicurezza c’era
ancora, da qualche parte nel suo petto, lo sentiva. Esisteva e
raschiava per
poter uscire, ma ora c’era il resto. La lucida consapevolezza
che il passato
non si poteva cambiare o, perlomeno, non quella parte che lui aveva
cercato in
tutti i modi di modificare e, così, l’amaro
presente, suo figlio diretto. Le
sconfitte potevano essere lette come opportunità, ma
bruciavano più delle
ustioni, infettando lo spirito, scalzando via la speranza.
Era
ragionevole che avrebbe fallito, ancora e ancora.
Non
esisteva alcun trucco in grado di ribaltare la sorte, perché
ogni variabile
mutata portava allo stesso, inevitabile, punto, anzi, peggio. La perdeva ogni volta di più.
“È
successo un’altra volta, non è vero?”
La
voce di Thor aveva il suono aspro della delusione ed era gonfia del
rimprovero
tipico del fratello maggiore, giusto e saggio, nei confronti dello
scapestrato
cadetto di famiglia. L’aveva sentito arrivare, ma non per
questo si voltò verso
di lui o gli rispose, né l’altro si sarebbe
aspettato diversamente, del resto.
Erano cresciuti insieme dividendo ogni cosa: avevano combattuto mille
battaglie
schiena contro schiena, con gli stivali affondati nel sangue dei nemici
sconfitti, le armi sguainate in pugno. Nessuno dei due era mai stato
capace di
arrendersi. Thor di questo era evidentemente cosciente, così
come sapeva che Loki
non poteva accontentarsi: non era nella sua natura, del resto. Ecco
perché il
filo tessuto dalle Norne doveva essere mutato a ogni costo.
Il
dio dell’inganno barcollò fino al tavolo
più vicino, prese un fazzoletto, si
pulì il sangue. Sentiva il seiðr scorrergli nelle
vene, bruciandole. Era un
mago potente, un maestro di magia come non se ne conoscevano di
migliori in
tutti i Nove Regni, ma l’incantesimo cui si era ripetutamente
sottoposto negli
ultimi tempi era così corrosivo da debilitare persino il suo
fisico di Jotunn,
altrimenti agile e robusto.
Thor
gli porse dell’idromele e lui ne bevve un lungo sorso.
“Ti sei costruito una
prigione terribile, fratello,” notò amaro.
Loki
serrò la mascella. Il paragone era drammaticamente calzante,
ma non gli avrebbe
mai concesso la soddisfazione di un’ammissione aperta. Il
potere logora,
rosicchia incastra, distrugge e, allo stesso tempo, dona.
“Rivivi
sempre lo stesso momento e, ogni volta, lasci indietro qualcosa.
È
un’illusione. Non cambierai ciò che è
stato, ciò che è.”
Dopo
aver staccato con un colpo netto la testa a Thanos ed essersi reso
conto di
quanto, in fondo, fosse stato inutile e tardivo il suo gesto, Thor
Odinson aveva
perso buona parte della retorica che gli aveva sempre gonfiato il
petto. Era il
re di un popolo di esuli venuti a vivere altrove, ma il peso di quel
ruolo lo
schiacciava, non lo rappresentava; così, Loki, che per tutta
la vita aveva
creduto di meritare il trono, governava di fatto al posto suo,
prendendo
decisioni ed emanando leggi, ma finendo inevitabilmente per bramare
sempre ciò
che aveva avuto e, senza una spiegazione plausibile, si era ritrovato a
smarrire.
Il
tonante era consapevole di ciò che stava facendo: aveva
contezza sia del bene compiuto
verso la nuova Asgard, che del dannoso tentativo di modificare ancora
il
passato. Non poteva resistere alla tentazione di provare a fermarlo.
Non c’era
mai riuscito, così come non era in grado di guidare il
gruppo di esuli Æsir che
aveva avuto la disgrazia di sopravvivere alla distruzione perpetrata da
Hela
prima, da Surtur poi.
“Ti
distruggerai, Loki. A che serve, saperlo? Perché non provi a
ricostruire la tua
vita, a ricominciare daccapo?”
Aprì
le braccia e indicò il fiordo che si stendeva, magnifico e
immenso, di fronte a
loro. Aveva compreso di essere stato ingiusto e avventato.
Tentò di rimediare. “Quando
sei tornato, era un villaggio di pescatori. Ora
è Asgard.”
Loki
gettò un’occhiata rapida e breve a quella cosa in
divenire, precaria e ben
lontana dai fasti della perduta, meravigliosa, Ásaheimr[1].
Aveva evocato lui Surtur affinché distruggesse ogni cosa,
avverando una
profezia antica e spaventosa in maniera imprevista. Ricordò
il fuoco, la fuga,
il brivido provato quando l’ombra dell’ammiraglia
di Thanos aveva oscurato la
loro lancia rapida e carica di fuggiaschi[2].
Con un gesto istintivo, si massaggiò il collo, dove, sotto
il colletto della
corazza di pelle intrecciata, spiccava una cicatrice antica, ormai
bianca: il
segno che il Titano gli aveva lasciato nel tentativo di rompergli il
collo,
spezzargli il respiro.
♥
Passò
il tempo. Passò così tanto tempo che si
dimenticarono di contarlo.
Loki
fingeva di essersi adattato alla sua nuova vita. Mentiva, sostenendo
che Asgard
fosse stata replicata quasi alla perfezione, ma, soprattutto,
s’illudeva che nessun
tarlo gli rodesse il petto, scavandogli dentro. La soddisfazione non
era nella
sua natura, del resto. Doveva sapere, capire cos’era successo
e quando e
perché, in quale luogo o tempo. Eccola, la sua maledizione:
da sempre era stato
capace di adeguarsi a ogni contesto, a qualsiasi situazione, ma la
conoscenza,
no, non poteva difettargli.
“Se
la liberassi?”
Fu
così che la voce del dio degli inganni spezzò il
silenzio di una notte vuota e
cupa.
Thor
volse il capo verso il fratello che, chino di fronte a un camino,
ravvivava con
l’attizzatoio le fiamme del fuoco tremante. Aprì
la bocca per parlare, ma
l’altro riprese quella cosa a metà strada tra la
confessione, lo sfogo e il
ragionamento ad alta voce.
Il
tonante capì che aveva ceduto un’altra volta al
bisogno di andarla a trovare
nella sua torre solitaria; ecco perché ora voleva tentare
nuovamente
quell’incantesimo pericoloso e crudele, capace di scardinare
il tempo e
rovinare quello che sarebbe dovuto rimanere un ricordo perfetto,
nient’altro.
“È
un
ciclo senza fine, che mi consumerà,” riprese Loki
con improvvisa lucidità. “A volte,
torno indietro e lei poi ricorda, ma troppo tardi; altre, non lo fa, ed
è come
perderla ancora e ancora. In ogni caso, sfugge. Andrà sempre
così,” concluse, “a
meno che io non scopra quel maledetto nome. Allora, Hela sarebbe obbligata
a dirmelo, ma scoprirlo pare impossibile.”
Thor
avrebbe voluto dirglielo: afferrarlo per le spalle, scuoterlo e
gridargli di
andare avanti, di smettere d’ingannare il fato o di tentare
di mutarlo. Lei
a suo tempo aveva scelto e l’ingannatore si era incastrato
nella perenne
ricerca di un modo per mutare un risultato destinato ogni volta a
peggiorare inevitabilmente,
sottilmente, ineluttabilmente.
“Che
vuoi fare?” gli chiese invece.
Alla
luce fioca delle fiamme, gli occhi di Loki scintillavano nella loro
trasparenza, cercando una soluzione che meditava da chissà
quanto. Gli Æsir possedevano
una forza invidiabile, un’intelligenza spiccata, ma nella
longevità quasi
ultraterrena di cui beneficavano era racchiusa la loro
infelicità: al contrario
dei midgardiani, loro non dimenticavano. Il tempo e
la memoria non
riuscivano a cancellare né il dolore né
l’ira né, tanto meno, il risentimento o
l’amore. La nostalgia non velava il ricordo con
l’oblio, non ottundeva i moti
dello spirito: i figli degli Æsir vivevano migliaia di anni,
ma non smettevano
di soffrire nemmeno per un giorno. Thor pensò che, forse, la
mente analitica e
tagliente di suo fratello era riuscita a recuperare quella
lucidità spietata
che l’aveva reso inviso a molti, riconoscendo
quest’ovvietà dolorosa. Pregò le
Norne affinché fosse così, ma invano.
L’ingannatore
fissava le fiamme seguendo pensieri tortuosi: era ora di cambiare piani
e
strategie, certamente. Hela non l’aveva ingannato, forse, ma
gli aveva proposto
un patto che si era rivelato inutile, stancante, improduttivo. Strinse
i pugni,
serrò la mascella. Sul viso affilato campeggiava
un’espressione tirata e seria.
Non si arrendeva facilmente. Era testardo, orgoglioso, fiero e, in quel
momento, stava lottando contro se stesso per giungere a una conclusione
che lo
liberasse da quel ciclo senza fine di strazio e di rimpianto una volta
per
tutte.
“Porrò
fine all’accordo con Hela,” annunciò a
un tratto, senza guardarlo.
A Thor
parve che la sua richiesta fosse stata esaudita. Forse, dato che nulla
era
stato davvero scardinato nell’ordine delle cose, gli Antichi
Dèi[3]
li avrebbero perdonati e, dall’alto della loro ieratica
grandezza, sarebbero
giunti a riconoscere le attenuanti di Loki, affibbiandogli una
punizione blanda
e misericordiosa. Eppure, il biondo Ase scoprì di non essere
affatto felice
della decisione sofferta e sputata dal fratello a denti stretti.
L’amava,
l’avrebbe amata per sempre: quella ricerca
logorante aveva reso ancora meno fattibile qualsiasi
accettazione, distacco, riflessione. E lui non l’avrebbe
ammesso mai. Soffocava
sotto una gelida indifferenza un dolore nero e corrosivo, che gli
sbranava
l’anima e faceva avvicinare sempre di più le ombre
oscure di un tempo. E allora
glielo chiese, perché, pure se era ammantato di tormento,
Loki restava sempre
suo fratello e lui, Thor, ne conosceva il cuore e lo spirito come
nessuno, nei
Nove Regni.
“Rinuncerai?
Davvero?” domandò.
Lingua
d’Argento pensò a lungo, prima di rispondere. Poi
smosse la cenere spingendola,
con la punta dell’attizzatoio, tra le fiamme che avevano
ripreso a guizzare.
“Ha
scelto il suo destino, in fondo. So solo questo.”
Lo
disse col tono distaccato e freddo che avrebbe usato per illustrare una
nozione
banale ed enciclopedica, come se non gli importasse poi molto, ma nei
suoi
occhi Thor lesse una disperazione infinita, atroce, terribile.
“È
sempre Sigyn, fratello. Qualsiasi incantesimo o patto abbia
pronunciato, deve
averlo fatto anche per
te,” gli
ricordò di getto, all’improvviso, pentendosi
subito dopo per quell’irruenza
che, lo sapeva, Loki non avrebbe tollerato. L’Ase dagli occhi
verdi, difatti,
piegò le labbra sottili in una smorfia. Gli aveva
già concesso abbastanza.
“Qualsiasi
cosa sia stata così sciocca da tentare,
l’ha distrutta, l’ha resa
un’altra persona, Thor.” La
voce dell’ingannatore si era fatta più
bassa, distante. “Ha il suo viso, le sue mani, i suoi occhi:
tutto qui. Forse
ti sembra, guardandola, che sia dannatamente lei – si muove
come lei, persino,
ma in realtà non lo è più, non lo
è mai.”
Lo
sguardo di Loki era perso tra le fiamme. Con le dita, sfiorava le
lingue di
fuoco, in un gesto lento e distratto che, forse, aveva il solo scopo di
distogliere gli occhi di Thor dal suo viso pallido e tirato, dalle
pupille che
parevano quasi luminose e lucide.
“Ma
tenterai un’altra volta ancora, non è vero?
Così avreste più tempo,” insistette
il biondo Ase.
Il
dio degli inganni continuò a fissare il fuoco.
♥
Gli occhi
grigi di Sigyn erano sottolineati da una riga sfumata di bistro che ne
esaltava
la profondità. Sedeva alla finestra, ma non si
alzò, sentendolo arrivare. La
luce del pomeriggio morente dava alla sua chioma bionda riflessi color
miele e
Loki pensò con rancore a tutte le volte in cui aveva
affondato le dita in
quelle ciocche chiare, subito dopo averla avuta, quando, ancora ansanti
e
scossi dal desiderio che li aveva catturati, si crogiolavano in lente
carezze
tra le coperte sfatte – seta e pelliccia contro la pelle,
baci avidi e lenti
che sapevano già di nostalgia e brama. A quel tempo, lei si
abbandonava sul suo
petto, stringeva il corpo snello e flessuoso contro il suo, invitandolo
a
restare anche se sapeva che non lo avrebbe fatto.
Niente
era mai stato semplice, tra loro. Le si avvicinò e Sigyn gli
rivolse uno
sguardo appena sorpreso, inarcando un sopracciglio.
“Mio
signore, non vi aspettavo,” lo salutò, ma il tono
della sua voce era lievemente
ironico, senz’altro freddo. Non gli riconosceva alcun titolo
né potere. Non su
di lei, almeno. L’ultima volta che aveva tentato di baciarla,
memore di quel
passato perduto in cui Sigyn era stata la sua amante, lei gli aveva
morso un
labbro, dicendogli con voce secca che la fedeltà non si
strappava né si poteva
ottenere con l’inganno.
Loki
si sfiorò il collo, lì dove la stretta mortale di
Thanos gli aveva lasciato un
segno ormai appena visibile.
Il
fatto era che la dea della fedeltà non ricordava nulla, di
quel tempo in cui si
inarcava contro di lui e invocava il suo nome, gli cercava le labbra.
Il
passato aveva una stortura che andava corretta, raddrizzata. Era
successo
qualcosa e Sigyn aveva dimenticato non lui, ma se stessa e di averlo
amato.
L’ingannatore
si guardò attorno, finché non abbassò
gli occhi su un disegno che lei stava
abbozzando. Nella stanza c’erano numerosi altri schizzi,
libri e appunti,
perché Sigyn doveva trovare un modo per trascorrere i giorni
della sua prigionia,
lenti e sempre uguali. Così, sfogava la sua sete di vivere
scrivendo, leggendo,
intrecciando collane di fiori, oppure disegnando, a seconda
dell’umore incerto
e ballerino. Quest’ultima passione veniva fuori di rado, il
dio dell’inganno lo
sapeva bene. Era stato vedendo un suo ritratto riprodotto da lei che,
anni e
anni prima, aveva compreso quanto Sigyn lo amasse. Ricordò
di aver preso in
mano il foglio per osservare, stupito e ammirato, il sentimento svelato
nell’attenzione con cui la ragazza aveva tracciato il suo
profilo affilato, si
era soffermata sul dettaglio del sorriso spesso sbieco, colto la nota
di
tristezza che velava i suoi occhi chiari, avidi, penetranti. Loki le
aveva
chiesto il conto di quel disegno che valeva più di mille
dichiarazioni e lei,
fiera e magnifica, non si era vergognata di ammettere che
sì, era innamorata:
per questo lasciava che la cercasse e s’infilasse nel suo
letto, tollerando la
sua natura scostante, spesso volubile e fin troppo crudele. Era stata
capace di
vedere che, in lui, la propensione a ingannare e a mentire per piegare
la
realtà al suo volere si accostava anche ad altro: a una
fierezza spiccata, a un’intelligenza
arguta, a uno spirito orgoglioso e sempre nobilissimo.
Non
le raccontò del ritratto delineato con infinita cura e
amore, bruciato assieme
alla bella Asgard dalle torri d’oro; non avrebbe avuto senso.
“Era
tanto tempo. Senz’altro troppo, mia signora.”
In
momenti come quelli, la recita cui entrambi sottostavano si trasformava
in
qualcosa di ancora più crudele. Intrecciò le mani
dietro la schiena. “Ti ho
portato un dono,” esordì, fissandola di sottecchi.
“Lo avevi chiesto la scorsa
volta.”
Lei scosse
la testa e sospirò stancamente. “Cosa mi hai
regalato, oggi? Una collana, un
anello? Desidero solo una cosa, Loki: la libertà.”
Avrebbe
voluto risponderle anch’io e smettere di
guardarla e pensare che fosse
bella. Serrò la mascella, sollevò appena il
mento, raddrizzò la schiena già
altera. Assomigliava maledettamente a quella che era stata, ma si
trattava di
un’illusione, nient’altro. Lo sapeva; era il dio
degli inganni, dopotutto.
Cambiò
discorso, ignorando la sua richiesta. Le porse una rosa, fatta apparire
con uno
schiocco di dita. Una sola, semplicissima rosa dai petali bianchi.
Lei
allungò la mano, esitante, perché era il suo
fiore preferito e lo sapevano
entrambi. Giocò con lo stelo puntellato di spine,
sfiorò i morbidi petali
chiari con delicatezza estrema. Forse il regalo le rammentò,
effettivamente,
qualcosa. Il lago, per esempio, quello che si affacciava sul fiordo.
“Un
dono semplice. Loki Laufeyson è anche capace di
questo,” osservò inclinando il
capo.
“Mi
conoscevi abbastanza da non stupirtene, un tempo.”
Sigyn
si riscosse. “So quanto il tuo spirito sia inquieto, ma non
puoi avere ogni cosa,
principe di Asgard. Liberami!”
Sarebbe
stato meglio ritrovarla come l’ultima volta, scalza e persa
nei suoi
vagheggiamenti a raccontare alle bambole storie inesistenti.
“Liberarti,”
soffiò l’Ase spostando di nuovo
l’attenzione sui disegni: alcuni rappresentavano
luoghi fantastici e mai visti, altri posti fin troppo noti.
“Riportami
ad Asgard. Avrai il mio perdono per… per tutto
questo,” insistette Sigyn,
indicando la stanza ingombra di schizzi, libri, abiti e dei
più disparati
oggetti.
“Non
esiste
più, Asgard.”
La
notizia fece ammutolire la dea della fedeltà, ma forse non
quanto avrebbe
dovuto. “Cosa vuoi da me?” chiese. La sua voce
aveva una nota d’urgenza.
“Perché
pensi di essere qui, Sigyn? In fondo tu…” Loki
s’inumidì le labbra sottili, in
cerca delle parole adatte, del concetto più giusto da dirle.
“Mi hai sempre
accordato la tua benevolenza, mia signora.”
La
giovane donna s’adombrò. “Ma poi hai
tradito tuo padre, tuo fratello, Asgard. A
Vanheim si sono combattute guerre feroci dovute alle tue azioni
sconsiderate,” concluse,
fiera e puntuale.
“Odino
mi mentì. Mi ha condannato a giocare una partita truccata,
dicendomi che avrei
potuto essere degno di un trono che, in realtà, è
sempre spettato a un altro –
al mio tronfio e arrogante fratello, graziato da un provvidenziale
esilio.
Asgard stessa mi tradì: ha riconosciuto troppo tardi gli
inganni e le manovre
che ho compiuto al solo scopo di renderla più
grande.”
Loki
aveva lasciato che lo sdegno per quello che considerava un affronto
impossibile
da perdonare gli infiammasse nuovamente il petto, spingendolo a
guardare una
ferita che si era cicatrizzata col tempo, forse sì, ma che
avrebbe continuato a
prudere, a tirare, a deturpargli la pelle per sempre, poiché
era il segno
indelebile dell’inganno che aveva dominato la sua intera
esistenza di principe
cadetto, di inconsapevole erede di un trono di mostri. Solo che dirlo a
lei era
inutile, sciocco, controproducente, persino.
“Eppure,
alla fine, li hai salvati tutti,” mormorò Sigyn,
acuta e consolante. “Ma questo
non ti basta; devi avere di più, hai bisogno di possedere
ogni cosa,” soffiò,
avvicinandoglisi con la grazia delicata di un tempo. Un fruscio leggero
della
bella e ampia gonna di seta e gli posò le dita sul petto
coperto dalla corazza
di pelle intrecciata, come aveva fatto in un passato lontano.
“Potresti
essere migliore di così. Guardati attorno, Loki. Tutto
questo non serve e non
ti aiuterà,” disse, facendo scorrere i
polpastrelli delicati fin sulla mascella
virile e sbarbata, diritta e decisa.
L’ingannatore
sorrise a quella lusinga, resa più carezzevole dalla voce
dolce di lei, dal suo
tocco gentile e lieve, ma non privo di un’insidia celata,
anzi, di molte. Gli
aveva sfilato un pugnale dalla bandoliera e ora tentava di trafiggerlo,
di colpirlo
al fianco.
La
disarmò con un gesto rapido e fulmineo, afferrandola per i
polsi sottili. “Non
sei mia prigioniera. Sei pazza. Totalmente. Sei
rinchiusa qui perché è
l’unico modo per controllare che tu non ti faccia del male.
Non sono io la
causa della tua condizione, ma quello che ti sei fatta.”
Sigyn,
pallida in volto, tentò di fuggire, di indietreggiare, di non
ascoltare.
Le
tremarono le labbra, distolse lo sguardo. “Tu
menti.”
Loki
sapeva che le avrebbe risposto in quel modo. Le aveva fatto quello
stesso
discorso così tante volte da perdere il conto, da
convincersi che fosse inutile
raccontarle ancora ciò che era stato e quello che lei era
diventata.
Un
giorno entrava nella torre e si trovava di fronte una bambina svagata
che gli
offriva una tazza vuota di tè, quello dopo era una donna che
lo fissava
impaurita e non riconosceva né lui né se stessa,
un altro ancora era la sua
Sigyn, innamorata e divertente, ma durava sempre troppo poco
– un pomeriggio o
un’ora.
Allora
non lo accusava di essere sua prigioniera, ma gli buttava le braccia al
collo e
si metteva in punta di piedi per cercargli le labbra e donargli un
bacio
intenso o leggero. Poi, gli accarezzava la corazza di pelle
intrecciata, gli
sfilava la bandoliera con la sicurezza di quand’era ancora la
sua amante. Solo
che dopo non facevano l’amore come in passato,
perché quella Sigyn non era che
un’ombra di ciò che era stata e non era in
sé. Il giorno dopo – un’ora dopo,
nello stesso momento in cui era dentro di lei – avrebbe
potuto precipitare
nell’ennesima voragine di follia e accusarlo di usarle
violenza.
L’unica
certezza era che più assomigliava alla perduta dea della
fedeltà, più non
riusciva a starle accanto.
“La
cosa peggiore è quando sei così; simile a quello
che eri,” concluse con voce
fredda, liberandole finalmente i polsi che tante volte aveva
intrappolato nei
momenti dell’amore, quando la bloccava per sentirla inarcarsi
sotto le sue
spinte o a causa delle carezze sfacciate con cui le tormentava i seni
– labbra
sulle punte sensibili, sulla pelle morbida e delicata.
Fece
per voltarsi e uscire una volta per tutte da quella stanza, ma si
bloccò.
“Loki,
aspetta.”
La
vide mettere in un vaso di peltro la bella rosa bianca, lisciarsi la
gonna.
Riconobbe che era tesa e stava cercando di dirgli qualcosa. La
osservò
sfiorarsi una tempia, disorientata. Pregò le Norne
affinché non tornasse.
“A
volte mi sembra, effettivamente, di non essere me stessa. Di non
ricordare il
passato. Sono successe delle cose, ma non riesco ad
afferrarle,” mormorò,
avvicinandosi. “Forse hai ragione, forse stai cercando di
proteggermi, in
qualche maniera.” Assottigliò gli occhi, cercando
di recuperare ciò che le
sfuggiva. “Noi due eravamo più che amici, dico
bene? Tu non mi faresti mai del
male.”
A
volte, si chiedeva se Sigyn soffrisse. Dove fosse la vera lei, se
avesse
coscienza dell’infinito tormento in cui era precipitata,
probabilmente, per
colpa sua. Freya lo accusava di non essere pietoso. Di non
saper rinunciare
a niente, di non voler accettare che la mente della sfortunata ragazza
si era
persa irrimediabilmente. Aveva senz’altro ragione in tutto,
il dio dell’inganno
ne era cosciente, ma un pomeriggio in cui era rimasta se stessa
più a lungo del
previsto, Sigyn aveva ricordato ed era stata quasi sul punto di
raccontargli
come fosse giunta fino a lì, cosa l’avesse
spezzata, ma poi aveva scosso la
testa e si era coperta la bocca con le mani, confessandogli con voce
rotta che
lo avrebbe amato per sempre, ma non si pentiva di nulla, di niente. Un
battito
di ciglia più tardi, raccontava filastrocche e serviva il
tè a un animale di
pezza.
Lo
sguardo smarrito e le lacrime che le avevano bagnato gli occhi fino a
un
momento prima, avevano convinto l’Ase che fosse successo
davvero qualcosa
terribile, che andava corretto, raddrizzato, cambiato. Per questo si
era
rivolto a Hela. Eppure, ogni tentativo di tornare indietro nel tempo e
capire
cosa avesse determinato la follia di Sigyn si era rivelato
nient’altro che un
buco nell’acqua che aggiungeva solo dolore a dolore.
La
dea della fedeltà avrebbe saputo cosa fare, in una simile
situazione. L’aveva
raccolto quando, ammaccato e ferito, col petto gonfio d’ira e
di tormento,
aveva giurato vendetta contro Odino e Asgard, ma
l’ingannatore non era un uomo
in grado di prendersi cura di una donna in una simile condizione. Non
aveva la
pazienza, la capacità, la tenacia di starle accanto. Non
riusciva a essere
gentile e a parlarle di un passato che lei, a ogni buon conto,
ricordava, distorceva,
non capiva o rifiutava in toto[4].
Loki era uno stratega, un politico, un mago, un guerriero. Era nato per
essere
re e per mutare la sorte a suo piacimento, non per prendere le mani di
una
ragazza senza senno e insegnarle a essere di nuovo se stessa.
Era
successo qualcosa e la dea della fedeltà aveva dimenticato
non lui, ma di
averlo amato. Avrebbe dovuto lasciare che trascorresse il resto della
sua
misera esistenza in quella torre, a cantare e a farsi le trecce, a
tentare
d’uscire quando pensava di essere trattenuta ingiustamente,
ad aspettarlo
quando ricordava il suo nome. Se lo riprometteva ogni volta –
in fondo, era un
principe spietato e crudele, ma, di tanto in tanto, tornava da lei,
perché
dentro di sé, pur non avendone alcuna reale conferma, era
consapevole di essere
responsabile della sua triste sorte. E doveva aggiustare le cose.
I re,
in fondo, questo fanno: si assumono la responsabilità delle
loro scelte e non
solo.
L’aveva
maledetta mille volte, per la sua avventatezza. L’aveva
maledetta quando
sfogava con altre donne il bisogno di sentirsi vivo, portandosele a
letto nel
vano tentativo di non desiderarla più, ma
l’illusione non reggeva,
sgretolandosi sotto le sue dita. Le cacciava via subito dopo averle
avute,
incapace di sostenere il loro sguardo oltre il dovuto, nauseato.
Abitudine che,
in fondo, aveva sempre avuto – detestava le smancerie
– ma che, pure, aveva
ricusato per la sola con cui si era trattenuto fino all’alba,
che aveva
lasciato a crogiolarsi tra le coperte, nuda e sua. Cos’aveva
di speciale, lei?
Perché era arrivato al punto da concederle così
tanto, per quale ragione ne
aveva fatto la sua amante lasciandole, suo malgrado, la vittoria di
essere, in
qualche modo disturbante e doloroso assieme, l’unica?
Ti
odio, Sigyn. Più di ogni altra cosa al mondo.
Cos’aveva
lei? Era intelligente, vivace, dolce. Soprattutto dolce; un balsamo
sulle
proprie ferite che rideva alle sue battute, lo rimproverava quando gli
scherzi
in cui si dilettava erano troppo crudeli, accettava la sua natura
contorta,
ambigua, doppia fino allo stremo. Sapeva chi era e, nonostante tutto,
lo amava
fieramente. Loki lo sapeva – ne aveva avuto contezza con quel
ritratto antico e
con molte altre cose, ma, nondimeno, aveva scelto di darla per
scontata,
profittando del suo amore, cercandola ogni volta che la desiderava,
illudendosi
di avere il suo cuore. Era sua e gli bastava, ma, ora che
l’aveva persa, la
inseguiva, la rivoleva accanto a sé.
♥
“Questa
è l’ultima volta che ci vedremo. O meglio,
tornerò indietro e tenterò di
impedire che tu ti riduca così.”
Lei
era a terra, seduta a gambe incrociate sul tappeto, i bei capelli
sciolti sulle
spalle.
“Un’avventura?”
“Un’avventura,
sì.” Si sedette stancamente sul letto ordinato,
diede la consueta occhiata in
giro soffermandosi su ogni oggetto che raccontasse le giornate sempre
uguali
della sua prigioniera. Non c’era niente di acuminato con cui
potesse ferirsi o
tentare di scappare. Una preoccupazione in meno per lui, che non
avrebbe più
dovuto ammazzare chi pensava di poterla usare come una bambola solo
perché era
totalmente pazza. Una notte lontana, ansante e con la spada ancora
sguainata e
macchiata di rosso tra le mani, era entrato nella torre e aveva pensato
di
porre fine a quella maledizione liberando lei e se stesso.
L’aveva trovata
placidamente addormentata, ignara di tutto, con le gambe al petto e la
bocca
schiusa e si era messo a pensare che non c’era bisogno di
usare su di lei la
lama di un pugnale: sarebbe bastato un cuscino e se ne sarebbe andata
nel sonno
– se n’era già andata da tempo, in
verità, Loki lo sapeva. Non riusciva ad
accettarlo e si illudeva di poter inventare una menzogna abbastanza
grande da
ignorare un simile dettaglio, ma, nel suo petto, nella parte
più profonda della
sua anima, sapeva già di averla persa. Non c’era
riuscito, ovviamente. Si era
sentito indegno di un pensiero tanto meschino e disgustoso,
perché spaccare la
testa a un uomo che pesava quanto lui e si era comportato come un
vigliacco
bastardo o uccidere con un solo colpo un nemico in battaglia, non era
uguale a
soffocare nel sonno la donna che non riusciva a dimenticare.
“Sei
bello. Hai degli occhi bellissimi,” disse Sigyn.
“Mi piaci,” decise. Gli rivolse
un sorriso che apparteneva a una ragazza che non c’era
più e si avvicinò per
sfiorargli dolcemente la guancia. L’Ase sussultò,
perché quel tocco era come
fuoco e svegliava desideri sopiti, alimentava il caos soffocato dalla
lucida razionalità
che lo animava.
“Ti
detesto e ti maledico,” le disse tra i denti. “Non
dovevi ridurti così. È stato
un prezzo troppo alto, da pagare.” Le bloccò la
mano sottile, tenne tra le sue
dita quelle delicate di lei. Le strinse.
La
ragazza sbatté le palpebre, interdetta dalla freddezza delle
sue parole, così
in contrasto col suo tocco. “Sei triste. Ho fatto qualcosa
che non va? Non mi
vuoi più bene, per questo?”
Loki
scosse la testa in segno di diniego.
“È
l’ultima volta, Sigyn.”
Ti
odio perché te ne sei andata, non sei più tu.
È rimasto un guscio vuoto e poco
altro – bugia, ci sei ancora, da qualche parte.
[1]
Nome del regno degli Aesir. La storia è un post Endgame what
if e la Asgard di
cui parlano è quella che si vede nel film.
[2]
La lancia qui è da intendersi nella sua accezione di
imbarcazione
veloce/scialuppa.
[3]
In Infinity War è a questi che Heimdall si affida nel
momento in cui apre il
portale.
[4]
Perché Sigyn a volte ricorda, altre no, altre ancora non
capisce! Non è un
errore ^^.