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Autore: CHAOSevangeline    12/08/2019    2 recensioni
{Damen/Laurent, POV Laurent. Ambientata verso la conclusione del secondo libro. Spoiler del secondo e terzo libro della serie}
Quando Laurent non riesce a dormire, gli capita di pensare. E contro la sua volontà di ammetterlo, uno dei suoi pensieri più ricorrenti è Damen.
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"Ciò che nessuno sapeva era quanto tempo, talvolta, Laurent avesse di notte per svegliarsi e pensare.
Una mente sempre all’opera è una condanna –, una convinzione maturata nel corso degli anni. Ma era quella stessa condanna ad averlo tenuto in vita fino ad allora."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Piccola nota introduttiva: ricordo la presenza di spoiler dovuti non solo alla collocazione del missing moment (verso la fine del secondo libro della trilogia), ma anche la presenza di informazioni che vengono rese note solo con la conclusione del terzo volume essendo la storia dal punto di vista di Laurent.
Sconsiglio la lettura a chi non ha dunque concluso i libri e ringrazio in anticipo chiunque continuerà a leggere.
Ci sentiamo nelle note in fondo!



Aestus
 


Laurent era un maestro nell’addormentarsi non appena il suo capo sfiorava il cuscino e dello svegliarsi prima che chiunque potesse anche solo crederlo possibile: spariva furtivo nei meandri oscuri del sonno e ne riemergeva non visto.
Non dava tempo a nessuno di vederlo vulnerabile alle prime luci dell’alba, quando la mente era annebbiata e persino le sue forze interne faticavano a erigere quel muro di austerità che tanto lo faceva sentire protetto e inavvicinabile. Muro che quando s’addormentava, invece, pareva esistere ancora, inespugnabile; oltre la barriera delle coperte, oltre il suo corpo, se Laurent chiudeva gli occhi sembrava sempre sul punto di alzarsi, mettersi a sedere e colpire il proprio avversario a parole o con la spada. Aveva l’immobile severità di una statua, sempre vigile, e incuteva il timore degli antichi sovrani di marmo che nemmeno un re fatto di carne, ossa e respiri oserebbe sfidare per timore di un castigo: la tentazione di poter approfittare del suo sonno era l’abbaglio a cui solo uno stolto avrebbe creduto.
Ciò che nessuno sapeva era quanto tempo, talvolta, Laurent avesse di notte per svegliarsi e pensare.
Una mente sempre all’opera è una condanna –, una convinzione maturata nel corso degli anni. Ma era quella stessa condanna ad averlo tenuto in vita fino ad allora.
Gli aveva permesso di svelare inganni ed essere abbastanza lungimirante da prendere provvedimenti per proteggersi.
Avrebbe dovuto ringraziarla, Laurent, ma era raro lo facesse. Così ci conviveva silenzioso e discreto, quasi si trattasse dell’umile avventrice di una locanda, giunta domandando la stanza più modesta e il minimo sforzo per mantenerla.
Con il tempo però quell’ospite s’era fatta scomoda: aveva richiesto appartamenti più grandi e sempre più impegno e attenzioni. Avanzava desideri, pretese. Era diventata ingorda, avida e aveva preso possesso di ogni cosa. Anche di lui.
Laurent, tanto misurato e calcolatore, non aveva il pieno possesso della propria instancabile mente. La realtà corrispondeva allo specchio dell’apparenza: non era lui a controllare, ma era bensì controllato dai propri stessi pensieri. Uno schiavo, sottomesso a quella condanna. A quella mente sempre all’opera.
Un minimo fruscio, un effimero rumore e Laurent si svegliava.
Sarebbe stato più giusto dire che non dormiva mai profondamente e che la sua freschezza appena sveglio fosse solo l’effetto della proverbiale finzione veriana, che aveva ormai domato e posto sotto il proprio controllo.
La sua mente doveva cogliere ogni dettaglio fuori posto e analizzarlo, ricollocarlo, dargli un senso. Essere pronta.
Non gli dava pace.
Quella notte, però, era diverso.
Quella notte non c’era stato alcun rumore e la luce delle candele che non avevano consumato l’esanime cera residua era troppo fioca per poterlo svegliare.
Laurent aveva riposato fino ad allora, un sonno autentico e riposante.
Nulla l’aveva disturbato, nulla gli aveva fatto credere d’essere in pericolo e di doversi svegliare. Perché non c’era davvero motivo di pensarlo e, nell’abbraccio che non era solo delle lenzuola, sentiva di essere al sicuro.
Forse, pensò Laurent, voleva solo avere più tempo.
Più tempo a Ravenel.
Più tempo in quella stanza.
Più tempo con Damen.
L’indomani il fabbro avrebbe spezzato le sue catene d’oro e lui sarebbe tornato ad essere libero, solo se stesso. Non il suo prediletto, non il suo schiavo e nemmeno solo Damen: sarebbe tornato ad essere Damianos di Akielos, il legittimo erede al trono e usurpato, proprio come Laurent, dei suoi titoli.
C’era una sottile ironia in quanto lui e Damen avessero in comune.
Un pensiero, quello, che rassicurava Laurent, che gli faceva credere contro ogni applicazione logica delle leggi dell’universo che forse si sarebbero incontrati di nuovo, in qualche modo. Gli dava una speranza, sciocca e capace di renderlo furioso, che se una prima volta si erano incontrati, seppur con Damen in catene al suo cospetto e contro la propria volontà, doveva esserci un perché.
Vere non si soffermava troppo sugli aspetti spirituali: nessuna divinità si sarebbe fatta carico della dissolutezza dilagante nella corte del suo impero. Ma doveva esisterne una ad Akielos, un antico essere superiore o qualsiasi entità venisse creduta tale e vera dalla gente di Damen. Un essere che aveva intessuto il loro incontro, opponendosi alla volontà di entrambi per un bene superiore. E forse, egoisticamente, anche per il loro.
Un significato, un simile schema del destino, doveva pur possederlo.
Laurent era troppo pratico per credere a una simile favola, ma lo era troppo anche per poter credere al caso e alle coincidenze. Forse era solo il destino che, in quel frangente, era stato crudele e aveva trovato una via subdola per gettare sale sulle sue antiche ferite. E una crudeltà per Laurent era molto più probabile di una fortuna.
La verità però era una sola: lui e Damen si erano incontrati per scelte di altri, ma avvicinarsi era stata una loro decisione, ineluttabile e inesorabile.
Eppure il principe non riusciva a soffocare del tutto la ritrosia, la repulsione nei confronti del suo schiavo; Laurent sapeva che dinnanzi a lui stava il figlio del defunto re Theomedes.
Lo sapeva allora, su quel letto, lo aveva saputo quando si era finto il suo prediletto e ancora prima, quando l’aveva fatto frustare quasi a morte sulla croce nella corte di Arles.
Lo aveva sempre saputo.
Anche mentre si donava a lui completamente, quella stessa notte.
Damianos.
Il ragazzo, ora uomo, che anni addietro aveva ucciso suo fratello, facendo crollare il suo mondo di libri, ammirazione fraterna e amichevoli duelli con Auguste. Il suo universo era mutato, distorto, in un baratro di odio, rancore e solitudine. E paura. Tanta. Di terrore.
Laurent era stato inghiottito da un abisso oscuro che l’aveva risputato intero, ma non senza cicatrici.
Damen non aveva fatto altro che eliminare il collante a sostegno di quell’intero castello di gioia e innocenza, il costituente capace d’impedire a quell’immaginario forte di crollare sotto i colpi della corruzione, che picchiava ostinata con i pugni sulle porte nel tentativo di sfondarle ed entrare. Allora Laurent nemmeno sapeva da cosa lo proteggessero, quei muri.
Damen era colpevole solo di quell’omicidio, ma Laurent a tredici anni l’aveva incolpato anche di tutto il resto.
Della freddezza sbocciata dentro di lui come un cristallo di ghiaccio.
Della solitudine.
Della rabbia.
E spaventato da tanti sentimenti, il bambino che era stato Laurent all’epoca l’aveva fatto: aveva commesso l’errore di fidarsi della propria famiglia, o almeno di quel che ne era rimasto. Di chi gli era rimasto.
Questo era, ecco, l’unico dolore che a Damen non aveva imputato. Perché era colpa sua: era l’unico responsabile di un proprio errore di calcolo di cui portava ancora i segni.
Si era fidato della propria famiglia mosso solo dall’innocenza e se ne era pentito, ma appena poco tempo prima aveva detto a Damen che non era sbagliato farlo.
Fidarsi dei propri cari non è sbagliato.
Di fronte ai suoi occhi smarriti, mentre Laurent comprendeva di lui più di quanto Damen immaginasse, aveva letto il dolore del tradimento. E non era stato mosso da crudeltà, non aveva infettato le parole di veleno per farglielo bruciare nelle vene allo scopo di ricavarne una sadica soddisfazione, né lo stava ingannando. Quella che aveva provato era una genuina compassione, perché Laurent capiva: capiva e pensava che il tradimento fosse una delle sofferenze più grandi tanto nell’intricata e infida corte veriana quanto – e forse ancor di più – in quella spontanea e fedele di Akielos.
Così lo aveva detto: «fidarsi della propria famiglia non è sbagliato». Per consolare Damen, forse. E perché Laurent doveva disperatamente convincersi che l’errore da lui commesso non poteva essere previsto; doveva trovare un lenitivo per le cicatrici piatte e trasparenti che portava: non esistevano sulla carne, ma solcavano il suo spirito quasi fosse stato costretto in una rete dalle maglie troppo fitte.
A volte quasi invidiava i morsi della frusta che ancora vivevano sulla schiena di Damen. Come fantasmi s’erano schiariti, presenti e silenziosi, ma ormai lontani per la loro vittima, che non ne percepiva più la crudele costrizione.
Se il suo, di dolore, fosse stato solo fisico, Laurent avrebbe patito meno. Forse perché non l’avrebbe sopportato e si sarebbe spezzato come un giunco prima di potersi ritirare nel tentativo di trovargli un senso, appallottolarlo in un anfratto della propria anima e trincerarlo dietro la propria algida maschera, bella quanto le complicate e soffocanti decorazioni della corte di Arles. Sembrava quegli ornamenti avessero sempre qualcos’altro da dire, proprio come lui.
Se il suo dolore fosse stato solo fisico la sua mente non sarebbe corsa nemmeno un istante, poche ore prima, alle sorti di un Laurent che aveva chiesto solo l’amore e la compassione che gli spettavano ed era stato costretto a tutto pur di ottenerle. Pur di non rimanere solo.
Era l’austero principe di Vere. Sulla bocca delle persone, quello frigido. Quello che non si lasciava mai toccare da niente e da nessuno. Tutti parlavano senza sapere quel che dicevano.
Ma alla fioca luce delle candele Laurent venne sorpreso da un’amara verità, emersa dai flutti della sua coscienza: se Damen l’avesse visto in quel momento, se fosse stato sveglio, si sarebbe accorto di ogni cosa. Avrebbe visto ogni pensiero che gli attraversava gli occhi azzurri, caldi della fiamma delle candele.
Avrebbe visto che sapeva chi era. Avrebbe visto cosa ne era stato di lui.
Avrebbe trovato il piccolo Laurent che ancora si dibatteva in preda allo sconforto sul fondale della sua anima, come il residuo di chalis che Damen aveva trovato nel calice di Laurent scoprendo il complotto ai danni del principe. Una prova inconfutabile di quel che era stato.
Per questo Laurent fuggiva, spesso, e si ritraeva da Damen; più e più volte quello che doveva solo essere il suo schiavo era stato a un passo dal capire tutto. Più volte l’aveva messo alle strette e questo a Laurent non piaceva perché, lo sentiva, Damen si muoveva spesso in tal modo per il suo bene.
E lui non era pronto all’idea che Damen, la persona da lui tanto a lungo odiata e torturata, fosse disposta a tanto.
Era contro ogni logica. Contro ogni morale. Contro di lui.
Ma quest’ultima convinzione di Laurent non era vera e quando aveva smesso di essere accecato dalla collera era riuscito a vederlo.
Fidarsi di Damen era stato in principio innaturale e complesso: ascoltare i suoi pareri non richiesti e poi domandargli consiglio, lasciare che carpisse di lui più di chiunque altro, forse più del principe stesso. Più di Auguste. Ma poi Laurent aveva capito: fidarsi di lui era stato il naturale decorso di una malattia che sembrava pronta a scomparire solo perché Damen era sì l’origine di tutto, ma anche la sua cura.
La cura di Laurent era essere costretto ad affrontare la persona che aveva tanto a lungo detestato ogni giorno, guardandola assumersi le responsabilità delle proprie azioni e lenire le ferite che lui portava. Pur non essendo tutte una sua responsabilità, Damen gli stava accanto e sembrava pronto alle sue spine, al dedalo di rovi che era l’anima di Laurent. Espiava le proprie colpe quasi dovesse sopportare una passione per redimersi agli occhi del principe a cui, ora, non avrebbe voluto arrecare tutta quella sofferenza. Il suo compito era districare quello spirito spinoso e avviluppato intorno al cuore di Laurent, e che feriva tanto lui quanto chiunque osasse avvicinarsi. Ma Damen non aveva paura. Damen lo guardava negli occhi come quando scendeva sul campo di battaglia: fiero e ostinato, disposto a ogni cosa. E l’animo guerriero di un akielonese era la garanzia più autentica e sincera in possesso di Damen.
Agiva senza interesse, perché non aveva senso ingraziarsi Laurent: per Damen non conosceva la sua identità. Non avrebbe ottenuto nulla e su questo Laurent si era arrovellato a lungo: perché non tenta di uccidermi? Perché mi aiuta? Perché? È forse senso di colpa?
Damen era un mistero irrisolvibile per Laurent, un rompicapo. Talvolta lo fissava in silenzio e pur non dovendogli giustificazioni, temeva Damen potesse indovinare la sua debolezza: non riusciva a leggere le sue intenzioni.
Poi era successo.
Usando il suo nome nei propri pensieri Laurent aveva capito di aver cominciato a guarire. Damen non era più Damianos, lo schiavo, l’akielonese. L’assassino. No: era solo Damen.
Tutto ciò che aveva fatto per lui aveva reso la flagellazione ordinata come punizione e vendetta un infierire che oramai gli sembrava eccessivo, ma che a suo tempo era stato necessario per Laurent, quasi terapeutico per superare un confine invalicabile, per adempiere a un dovere impostosi anni prima.
Laurent osservò il fianco dalla carnagione olivastra che si alzava e si abbassava, lento, per il respiro calmo e pesante del sonno in cui era sospeso Damen. Quasi gli ricordò il ritmo di una di quelle nenie calme e ripetitive suonate con la cetra da Erasmus nella sala del forte al banchetto della sera prima.
L’aveva richiesta Damen, quella canzone.
Parlava di abbandono, di un uomo autoritario e di come il mondo non fosse fatto per una simile bellezza. Per quel che era successo dopo, su quel letto, Laurent si chiedeva se non volesse rivolgersi a lui.
Patetico e legittimo. Pensarlo, non l’atto in sé. Quello era… cortese, quasi romantico, se motivato dalle ragioni immaginate da Laurent.
Mentre dormiva l’espressione di Damen era serena come Laurent non ricordava di averla mai vista: pareva quasi sorridesse. Mentre Laurent si crucciava e rifletteva, Damen stava avendo anche l’impudenza di fare dei bei sogni. Lo avrebbe svegliato solo per questo: per dispetto. E per tentare di distrarsi, scambiando qualche parola con la mente annebbiata di Damen e la sua voce impastata. Sarebbe stato buffo.
Ma invece no.
Invece il principe di Akielos, ignaro che la sua identità fosse ben nota al rivale principe di Vere, stava dormendo con l’uomo che più di ogni altro in quelle terre lo avrebbe voluto morto, privo della labile copertura per la verità mai avuta, ma che era invece convinto lo tenesse al sicuro.
Stava dormendo con una serpe velenosa tra le braccia e non se ne preoccupava. Non sapeva né credeva di doverlo fare. E in effetti non ne aveva ragione, come Laurent non doveva temere pericoli, per quella notte.
Sentì il peso del braccio di Damen sul fianco e per un istante si chiese se spostarlo.
E siccome se lo chiese restò immobile, perché non era ciò che desiderava davvero: il suo braccio era lì da minuti, forse ore e lui s’era chiesto se lo desiderasse solo allora, gli astri ancora sospesi sulla volta scura del cielo, quasi fino a pochi secondi prima fosse stato perfettamente naturale.
Nulla di ciò che era accaduto quella notte era stato lontano dai desideri di Laurent perché Damen non aveva fatto nulla che non gli fosse piaciuto.
Quella notte di effusioni era stata la dimostrazione d’interesse e attenzione nei suoi confronti più grande e genuina che Laurent avesse mai ricevuto: Damen aveva rispettato i suoi tempi e dichiarato le proprie intenzioni. Gli aveva chiesto il permesso. E per Laurent, che pianificava anche il dettaglio più minuscolo, era stato quasi afrodisiaco vedere Damen imporsi delle regole da solo e per lui soltanto.
A Laurent piaceva comandare, ma sapere di aver lasciato un segno su di lui senza per questo plagiarlo era una consapevolezza ancor migliore.
Laurent poteva recitare la definizione di quell’atteggiamento, di quelle accortezze: altruismo. Ma le ultime prove che ne aveva avuto erano così vecchie, antecedenti a Damen, da renderglielo un concetto alieno, un ritrovamento inaspettato.
Damen aveva esplorato il suo corpo con le mani calde, gli aveva dato piacere per trarne a sua volta perché solo così, aveva detto, sarebbe riuscito a provarne anche lui.
E Laurent aveva sentito i propri pensieri gridare, mentre il corpo era bloccato in quel limbo di piacere e incertezza, e sotto quello del legittimo re di Akielos.
«Non parlarmi così», aveva pensato. «Se mi parli così non ti posso odiare.»
Ma aveva già smesso, o almeno aveva già zittito il Laurent che covava ancora sentimenti irrisolti.
In un sospiro, per un attimo, aveva rischiato di confessarlo, di far crollare quel teatro di menzogne che Damen credeva di aver scongiurato, ma che gli si chiudeva intorno come una ragnatela sempre più stretta e di cui era stato un inconsapevole burattino.
Laurent lo aveva odiato, Damianos di Akielos. Lo aveva odiato davvero.
E aveva odiato Damen, il suo schiavo, quando lo aveva visto la prima volta e per molti giorni a venire.
Ma poi lui si era avvicinato piano e c’era stato un briciolo della mente di Laurent che aveva iniziato a volersi illudere di essere con un altro Damen, o in un mondo dove Damen e Damianos erano la stessa persona, ma non aveva ucciso Auguste.
Laurent si sentiva in colpa, ma non si sentiva sporco. Proprio per questo credeva di aver commesso un peccato nel concedersi a Damen: lo aveva desiderato a lungo e così si era lasciato andare. E ne era felice.
Lo avrebbe fatto di nuovo, perché non si era mai sentito così bene. Così… amato.
Era sbagliato provasse questo proprio con lui, ma lo era anche che si sentisse felice?
Laurent quasi scoppio in una risata, una di quelle sarcastiche, amare, disperate.
Se avesse voluto si sarebbe potuto voltare, scivolare dal letto e prendere un pugnale. Avrebbe potuto tagliare la gola a Damen lì, lungo la linea del collare d’oro e prendersi la propria vendetta. Lo avrebbe sgozzato proprio come lui aveva sgozzato Auguste. L’oro akielonese sarebbe annegato nel sangue.
Era entro i confini, poteva farlo. Poteva dire che il suo schiavo era stato impudente e che aveva dovuto ucciderlo per salvaguardare la propria incolumità, finché ancora poteva chiamarlo schiavo e si trovavano lì.
Avrebbe potuto farlo.
Se avesse voluto.
Ma Laurent non voleva.
Non avrebbe mai coinvolto gli ospiti che sperava giungessero a giorni, se avesse voluto uccidere Damen; si era anzi divertito immaginando la sua espressione nello scoprirli coinvolti da quando aveva ordito quella trama e da quando l’opinione di Damen aveva cominciato a contare qualcosa per Laurent.
Ma il giorno dopo lui se ne sarebbe andato e le loro strade si sarebbero divise, le loro battaglie non li avrebbero più visti nello stesso schieramento. Coinvolgere quella compagine costituiva quanto di più simile a una garanzia di ritrovarsi, ma Laurent non riusciva a pensare abbastanza da convincersi che sapendo, Damen sarebbe potuto rimanere. Ed era troppo orgoglioso per dirglielo e soprattutto per chiedere.
Per questo si era spaventato, poche ore prima. Faticava a farsi toccare per mille e un motivo, e a lasciarsi andare per mille altri ancora, ma una cosa temeva davvero: di cominciare a nutrire la speranza che donandogli il proprio corpo, forse, Damen sarebbe voluto rimanere. Solo per questo. E se così fosse o non fosse stato, a prescindere, Laurent avrebbe vissuto ancora una volta emozioni a cui non volveva nemmeno ripensare.
Chiuse gli occhi.
«Voglio che stiate bene.»
No, Damen non era così.
E Laurent l’aveva legato a sé suggellando un patto, quella notte. Tacito e incerto, ma senza secondi fini.
Una fitta al petto, proprio come quelle che aveva sentito mentre Damen lo faceva suo, con il petto caldo ansante contro il proprio.
Finalmente.
Aveva provato troppe emozioni, un vorticare afrodisiaco e distruttivo: felicità, paura, smania, dolore. Eccitazione, ma non quella perversa dovuta al senso di pericolo.
Voleva Damen tanto quanto rifiutava di volerlo.
Aveva singhiozzato, a un certo punto, per il piacere e per l’esasperazione data dai suoi pensieri ancora svegli.
«Cosa succede?» aveva chiesto Damen. «State bene?»
E Laurent si era sentito morire di gioia per quelle premure, e si era chiesto se in un qualche altro mondo non avrebbe potuto essere un arrogante principe corteggiato dall’erede al trono akielonese, in visita alla reggia di Arles con una delegazione.
Magari i loro regni sarebbero stati uniti dalla pace e magari il padre di Damen sarebbe stato ancora vivo. Lo amava molto, Damen: non gli aveva mai parlato di famiglia apertamente, non aveva potuto, ma Laurent aveva compreso. Per questo alle volte l’aveva insultato: perché sapeva di poter ferire Damen.
Non ne andava fiero e almeno in quei pensieri voleva rimediare.
Laurent voleva essere altruista e immaginare una realtà ottimale per entrambi, se dovevano essere davvero felici.
Magari, ecco, Laurent sarebbe stato seduto accanto ad Auguste, il re, e avrebbe guardato Damen dall’alto in basso. Gli avrebbe fatto sudare ogni singolo passo in sua direzione, ma glielo avrebbe concesso perché, mentre non si inginocchiava al loro cospetto per costume, sentimento di parità o pura testardaggine akielonese, Damen lo avrebbe guardato con quello sguardo.
Quello che faceva Damen, lui e lui soltanto: furbo e penetrante. Gli avrebbe trafitto il cuore come aveva fatto mille volte, quando lo aveva salvato dai rischi dell’arroganza sostenendo le proprie idee, o aveva atteso di potersi avvicinare.
Perché Damen era diverso dagli altri. Non vedeva solo la bellezza, non aveva potuto vedere solo quella. E aveva aspettato, era andato oltre la sua freddezza ruvida e scostante, la sua cattiveria che rasentava la crudeltà, il suo risentimento verso Akielos. Non si era mai sottomesso.
Forse ecco, non era stato tutto poi così diverso da quelle fantasie. Solo più difficile, doloroso e spietato.
«Non vi siete inchinato di fronte a me e mio fratello», gli avrebbe detto Laurent nei giardini di corte. «Come dovrei interpretare il vostro gesto?»
Quello sguardo.
«Comprendendo che non sono uno di quei consiglieri leccapiedi a cui siete abituato. Non preferite guadagnarvi il dovuto rispetto?»
E così Damen avrebbe fatto breccia. Forse lì Laurent avrebbe anche potuto ridere a cuor leggero.
Alle volte Laurent ignorava le tattiche belliche e si concedeva a questi pensieri come si era concesso a Damen. Non arrossiva però, perché sapeva che quel mondo diverso non esisteva e non poteva dare troppa rilevanza alla perdita di tempo che erano quelle fantasie e che era conscio fossero tali: solo fantasie.
L’unica cosa diversa che doveva accontentarsi di avere, anche se solo per qualche ora o poco più soltanto, era Damen.
Perché quando aveva singhiozzato e Damen gli aveva chiesto se stesse bene, Laurent era riuscito solo a guardarlo negli occhi. I fianchi si erano fermati e i suoi zaffiri liquidi per il piacere si erano inchiodati nei suoi occhi scuri. Damen aveva avuto paura, ma aveva continuato a respirare.
Questo era successo: tutto si era fermato.
I rumori fuori dalle stanze, il baluginio fioco delle candele, la guerra che minacciava d’imperversare su Vere e Akielos.
La mente di Laurent.
Damen aveva fermato ogni cosa con poche parole di premura e una carezza innocente sul suo viso mentre lo faceva sentire come se stessero facendo l’amore.
Tutto si era fermato tranne loro, e Laurent l’aveva baciato come se ne andasse della sua vita.
Fu il suo turno di poggiare una mano sul volto di Damen, mentre lui ancora dormiva. Accarezzò gli zigomi duri e le labbra che tanto aveva bramato e ottenuto.
Sarebbe stato bello poterlo fare davanti a tutti, senza vergogna o pensiero alcuno.
Aveva fatto crollare molte barriere di fronte a lui prima di quella della sua bocca ed era certo che Damen avesse preso quel bacio come aveva fatto lui: una conquista preziosa da custodire e di cui non vantarsi. Laurent gli aveva mostrato quanto le sue labbra potessero essere dolci, se non usate deliberatamente per ferire, ma avrebbe impiegato poco a ricordargli come le aveva conosciute.
Damen non avrebbe detto a nessuno di come Laurent l’avesse guardato, di come gli si fosse aggrappato e di come infine si fosse lasciato andare. Non solo per il valore di quel gesto, ma perché lo rispettava.
Non si sarebbe fidato di lui altrimenti, perché sarebbe stato come tutti gli altri e lui non lo era.
Non lo era.
Laurent sospirò.
Non avrebbe potuto azzardare ciò che provava per Damen nemmeno nella segretezza dei propri pensieri. Prima avrebbe dovuto esigere la verità che magari Damen stesso gli avrebbe rivelato, se fosse tornato da lui o se solo Laurent gliel’avesse chiesta. Per capire cosa avrebbero potuto essere o non essere mai, per capire ogni cosa, Laurent avrebbe dovuto parlargli.
Questo lo aiutava a pensare.
Sarebbe bastato svegliarlo.
Damen era la persona che più di ogni altra, oltre ad Auguste, gli era stata vicina. Che lo aveva più di tutte aiutato. Proprio lui che l’aveva messo in condizione di dover avere bisogno di aiuto. Un paradosso beffardo.
Laurent si fece più vicino, si strinse a lui più di quanto non avesse fatto quando si erano addormentati, la mano di Damen fra i suoi capelli.
Quel contatto era stato uno dei più intimi, perché sarebbero stati ancor più vulnerabili. Si erano rimessi alla volontà dell’altro, perché se uno dei due si fosse svegliato come era in effetti il caso, avrebbe avuto di fronte un muro di vulnerabilità.
«Cercate di dormire», aveva detto Damen con aria provocatoria. «O mi volete ancora?»
Laurent aveva sorriso sornione, pronto a pungerlo.
«Non sono io a dover cavalcare fino al confine, domani.»
Damen era arrossito, ma quella frase aveva fatto male a entrambi. Una battuta tagliente che gli si era rivoltata contro come un cane troppo mordace e refrattario alla disciplina imposta dal padrone.
Non sarebbero andati a cavallo fianco a fianco, non avrebbero progettato un assalto nella sua tenda. Damen non l’avrebbe servito a fine giornata, sciogliendo i suoi muscoli tesi con le dita abili; oramai conosceva i suoi nervi e le sue tensioni quanto e forse più delle mappe delle terre da loro attraversate, di cui notte dopo notte aveva insegnato punti di forza e debolezze a Laurent nella sua tenda.
Non avrebbero attraversato il confine insieme.
Quando Damen se ne sarebbe andato, Laurent non sapeva cosa avrebbe fatto e se l’avesse avuto di nuovo accanto, come principe di Akielos, non sapeva come avrebbe reagito: non si fidava nemmeno di se stesso.
Non riusciva a pensare, perché Damen gli stava sfuggendo dalle dita come la sabbia calda delle coste di Akielos e il mondo stava tornando a vorticare.
Per tutta la vita Laurent aveva percepito la fredda presenza della solitudine.
Damen scaldava lui, scioglieva il ghiaccio che mordeva il suo cuore e spegneva tutto il resto. Riempiva il vuoto assordante.
Quel calore, Laurent avrebbe voluto non se ne andasse mai.
«Solo fino a domattina.»
Se lo disse sottovoce quasi fosse una promessa a se stesso, perché non voleva perderlo e per convincersi che solo una notte o quel che ne rimaneva sarebbe stata sufficiente.
Damen mugolò quasi a protestare.
Ciò che Laurent non sapeva era che nemmeno il mattino dopo lo avrebbe lasciato andare subito.
Perché fidarsi di Damen poteva essere stato complicato, ma lui era autentico. Era diverso. Non era complicato, com’era Laurent o l’intera Vere.
E rinchiuso nelle proprie stanze ad Arles, trincerato fra i muri sfarzosi della politica veriana e della solitudine, Laurent aveva sognato di liberarsi. Aveva sognato la vendetta e tante altre cose a cui non era riuscito a dare un nome.
Nessuna di queste si chiamava Damianos di Akielos e poco contava il suo nome in quella confortevole notte nel forte di Ravenel. Poco contava il nodo che ancora avvertiva allo stomaco pensando quel nome.
Contava che tutte le cose a cui Laurent non aveva osato dare un nome erano lì, in quell’uomo.
Quello che dormiva di fronte a lui.
Quello che per giorni, mesi, aveva cercato uno spiraglio d’accesso ai suoi pensieri ricevendo solo rifiuti. Quello che aveva capito di cosa aveva bisogno.
E che aveva fermato il mondo per Laurent, senza che lui lo chiedesse.




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Aestus: calore, ardore. Agitazione, turbamento, inquietudine o ancora, in senso figurato: passione, ardore, impeto, furore.
Non credo avrei potuto trovare una parola più azzeccata.


Ho concluso la lettura di Captive Prince per la verità da qualche giorno e mentirei dicendo che mi sono subito messa a scrivere: per tutta una serie di motivi sono stata bloccata e questa è la prima storia che pubblico da un po' di tempo a questa parte. Inutile dire che anche la tortuosità della mente di Laurent mi ha scoraggiata, ma avevo bisogno di qualcosa su di lui e Damen e mi sono detta "perché non immaginare i suoi pensieri su tutta la questione? Saranno complicati e angst."
Spero che questa blanda motivazione abbia restituito una storia IC e di vostro gradimento, e che vogliate dirmi cosa ne pensate. Io sono sempre incerta sui risultati, ma tant'è.
Ho di sicuro un'altra idea per quanto riguarda Captive Prince e non mi esimerò dallo scriverla e pubblicarla al più presto!

Se voleste rimanere aggiornati sulle mie idee e pubblicazioni vi rimando alla mia pagina di Facebook.
Alla prossima!
   
 
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