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Autore: fedenow    29/07/2009    3 recensioni
Probabilmente mi sono solo reso conto di quanto assurdamente l’uomo debba combattere quotidianamente contro quell’affascinante nemico che è la vita.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Londra

Disclaimer
: Brian non mi appartiene, e Stef…mmm…no, nemmeno lui. La scena presentata è frutto della mia immaginazione, non ho contatti con la band Placebo e non scrivo a scopo di lucro.
Il raiting è giallo per la presenza di espressioni volgari, non per la tematica.




LONDRA




I tuoi passi riecheggiano sonoramente lungo gli asettici, deserti corridoi dell’albergo in cui alloggi. La tua camminata solitamente cadenzata tradisce ora un’eccitazione che non ti è propria. Come se i tuoi piedi sapessero che ti stanno portando nel posto giusto, ma si divertono a non dirti qual è. Come se tu non vedessi l’ora di fuggire da quell’involucro di cemento che ti opprime e contemporaneamente avessi il terrore dell’aria aperta. Chissà se i tuoi polmoni sopporteranno un tale flusso di ossigeno.

Continui la tua emozionata avanzata verso la tua nuova vita – così ti pare; vedi in quell’uscita di emergenza che ti si pone davanti la più rapida e indolore soluzione ai tuoi problemi. Smani dalla voglia di spingere quel maniglione, il tuo corpo freme pregustando le nuove emozioni che lo investiranno. Ti diverti a immaginare di sperimentare sensazioni mai provate. Tuttavia non acceleri, e permani nel tuo stato di claustrofobico stallo cerebrale, mentre i tuoi muscoli si rifiutano di stare al passo con il tuo desiderio di corsa.

Affondi maggiormente le mani nelle tasche del lungo cappotto grigio che hai cautamente prelevato dalla sedia su cui l’avevi gettato in camera tua. Chissà perché hai compiuto questo gesto a rallentatore, nel modo più silenzioso possibile. Forse per non allarmare ulteriormente i tuoi sensi, ancora spossati dalla telefonata appena conclusa. Forse nella speranza che nessuno ti senta più. Forse perché, simulando una silenziosa normalità, vorresti ingannare te stesso, illudendoti che tutto sia normale.


“Non va bene per un cazzo, Brian. Non ci sei mai.”

“Fottiti, stronza.”



Finalmente arrivi alla tanto attesa porta ed esci sulla tetra terrazza dell’hotel – terrazza di servizio, peraltro: sarebbe più opportuno parlare di scassato balcone assicurato da muretti e un corrimano metallico. I camerieri in pausa sono lì a fumare. Inizialmente, vedendoti la prima reazione è quella di staccare la sigaretta dalle labbra e far finta di trovarsi un’altra occupazione.
Incuti reverenza, constati. Non alle persone giuste, aggiungi.
Dopodiché, essi si ricordano di avere il tuo stesso diritto di stare lì, se non maggiore, dunque continuano ad inalare nicotina ripetendosi che non importa loro nulla della tua presenza. Buffa creatura l’uomo.

Trovi un angolo appartato in cui ti rechi per poter restare solo, non tanto a riflettere quanto a svuotare la testa da tutti i pensieri che la affollano rumorosamente.


La giornata è uggiosa, e pensi di esserti portato in Francia il clima inglese, con le sue infinite tonalità grigie e opache e i rumori ovattati. Vedi le auto che procedono lentamente nelle strette vie molti metri sotto di te e ti sembrano appartenere a un altro universo, quello in cui non si pensa, ma si agisce. Tale universo ha una velocità differente dalla tua, e non capisci come è possibile che ne fai parte anche tu.
Anche i passanti si muovono, apparentemente senza fatica, e tu continui a sentirti il narratore di una storia vissuta da altri, l’osservatore esterno di un mondo fatto di crinolina, movimenti e qualunque altra cosa all’uomo piaccia pensare. Loro vivono di verbi, tu procedi per rallentanti aggettivi.

Inspiri profondamente, come se così potessi far entrare a forza in te quel mondo che ti appare tanto diverso e inconciliabile, non rassegnandoti ad ammettere che ne sei già parte.
Ricordati che non sei speciale. No: ricordati che non sei diverso.
Ti penetra nelle sottili narici l’umidità autunnale parigina, e continui a trovare somiglianze con la pesante foschia inglese che tante volte ti ritrovi ad attraversare a piedi. Ti irrita gli occhi assai convenientemente, pensi, perché fornisce una perfetta scusante per le lacrime che si ammassano insistentemente fra le tue palpebre, da cui pure sai non usciranno mai.


Sfili le mani dalle ampie tasche e le poggi sul corrimano arrugginito, la cui superficie non uniforme ti suggerisce le idee di imperfezione, caducità e sconfitta. Chissà cosa ti aspettavi da quel contatto, ma è meglio non pensarci.



Vedi Stef che oltrepassa la soglia varcata da te poco prima, e ti si avvicina accendendosi una sigaretta. Vuole parlarti. Tutte le volte che Stef viene da te con una sigaretta in mano vuole parlarti. È per non essere nell’imbarazzo di non saper dove mettere le mani.
Si appoggia con i gomiti a quella specie di davanzale e si guarda intorno – lo sai anche senza vederlo; fate sempre così, voi. Potete ignorarvi perché tanto sapete che ci siete.


Anche lui respira profondamente prima di parlare – questo lo puoi chiaramente udire mentre fissi la vacuità dello spazio che ti sta di fronte.

- Che cazzo di tempo. Me ne stavo a Londra se era per avere la stessa pioggerellina schifosa.


Il tuo sorriso amaro fa capolino sul tuo volto compassato.
A me piace la pioggerellina, Stef. O meglio, non la cambierei mai.

- È davvero finita con la stronza. Non va un cazzo bene.
Pausa.
- Peccato che stavolta ci sia anche di mezzo un figlio.

Questa la risposta al suo flusso di pensieri. Normale che tu voglia allontanare la situazione da te, parlando di una stronza e di un figlio. Tuttavia non stai meglio.


- E chi se ne frega?

La sua sigaretta è stata lanciata con veemenza oltre il parapetto insieme alle parole.

Mentre lo guardi, rintracci sul volto di Stef le cicatrici di tutte le storie che gli hanno fatto male, che paiono urlarti di ricordarti di loro in quel momento, e in quell’urlo distingui anche la supplica del tuo amico di rispettare il vostro silente accordo, stipulato tanti anni prima, di non mollare mai.
E allora, passando un braccio intorno alla vita di Stef in quello che è il vostro abbraccio, emetti quella femminea risata da donnicciola con la quale ti piace contraddistinguerti.

- Chi se ne frega!

In fondo, è quello che fai sempre.




Cos’ho voluto dire con questa storia? Non lo so.
Forse che ho capito quanto fottuto bene voglio al mio bassista Stefan Olsdal, e quanto sia importante in quello che faccio. O forse quanto sia impossibile cambiare vita semplicemente attraversando una porta di servizio. Forse che niente dura molto, e quello che hai oggi potrebbe abbandonarti domani. Forse che ho fatto bene a scegliere la stronza come madre di mio figlio, perché sarà una buona madre e lo so.
Probabilmente mi sono solo reso conto di quanto assurdamente l’uomo debba combattere quotidianamente contro quell’affascinante nemico che è la vita, e quanto ancor più assurdamente trovi sempre la forza di andare avanti, rialzandosi dopo i colpi ricevuti. Quasi con ironia, quasi volendosi preparare al meglio a soccombere al successivo attacco. Credendo inconsciamente in quell’utopico futuro migliore che mi permette di affrontare ogni singolo giorno.
   
 
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