ANNUNCIO
Questa
storia è stata revisionata nelle seguente parti:
- Dialoghi:
le frasi in dialetto sono rimaste solo tra i popolani. Il resto dei
personaggi userà
esclamazioni in lingua e basta. Per ricreare un veneto più "antico" rispetto a quello parlato oggigiorno, ci siamo basati sulle produzioni letterarie dell'epoca.
- Legami
famigliari, riveduti e corretti laddove necessario.
- Termini
tecnici che hanno sostituito quelli più generici.
-
Piccole precisazioni e/o variazioni degli eventi, tuttavia non
importanti da
sconvolgere l’intera trama.
-
Suddivisione e layout della storia.
Ogni
aggiornamento verrà segnalato con la data di pubblicazione
del capitolo
aggiornato.
Ringrazio
tutti i miei recensori che fino ad oggi mi hanno seguito: Alessandroago_94, Semperinfelix, Sagitta72,
Mrosaria e Vanya Imaryek.
Un
ringraziamento in particolare a Sagitta72
per avermi largamente assistito durante la revisione di
questa storia.
PREMESSA
Metto
già in avanti le mani, dichiarando che quanto mi appresto a
narrare è un misto
tra vicende storiche con personaggi storici e al contempo romanzate con
personaggi all’occasione inventati per motivi di trama.
Per
quanto dettagliati, i “Diarii” di Marin Sanudo il
Giovane non riescono a
ricostruire passo per passo ogni evento, sicché laddove le
fonti svaniscono, la
fantasia (pur con giudizio) supplisce. Soprattutto,
dell’infanzia e della
giovinezza del protagonista non si sa quasi niente e dunque, usando le
biografie dei suoi parenti, le pochissime fonti disponibili
nonché i saggi
sulla vita dell’epoca, ho compiuto un’operazione di
“ricostruzione” della sua
esistenza pre-1511, l’anno in cui è ambientata
questa storia. Non solo. Nessuno
è mai riuscito a capire al 100% cosa sia successo realmente
al protagonista di
questa vicenda, neanche “L’Anonimo” suo
primo biografo e grande amico e
confidente, né il Sanudo tramite i funzionari che lo
interrogarono e che scriveranno
per ben tre volte dell’accaduto e per tre volte invece di
chiarirlo lo
complicheranno ulteriormente, riempiendo il lettore di dubbi.
Né tantomeno ci
sono d’aiuto le narrazioni postume, infarcite di elementi un
po’ troppo
soprannaturali nonché d’incongruenze
spazio-temporali, considerando le più
oggettive cronache del Sanudo. Perfino gli storici moderni si
contraddicono tra
di loro. Quindi, tra verità, agiografia e ricostruzione
romanzata, sperando
senza troppe licenze, proveremo a raccontare il mese
più lungo (dal
27 agosto al 27 settembre 1511) e punto di svolta di questo giovane
patrizio
veneziano che aveva all’epoca appena venticinque anni.
Vorrei
inoltre sottolineare che nelle cronache i personaggi
“bassi” non venivano quasi
mai considerati, sicché s’ignora il nome di quei
contadini, soldati, religiosi,
famigli, etc., che animarono i fatti qui esposti, tranne in caso si
siano
distinti in maniera particolare. Di conseguenza, poiché non
mi piace
presentarli soltanto tramite la loro, per così dire,
professione, ho dato a
quasi tutti un nome e una storia personale.
Mi pare
superfluo – ma non si sa mai nella vita – ricordare
che ci troviamo nel XVI
secolo, ergo che la mentalità dell’epoca
sicuramente non era quella del XXI
secolo, quindi per cortesia usiamo giudizio prima di offenderci
inutilmente.
Infine,
riguardo alla struttura del racconto, si dividerà in tre
parti e sarà un misto
tra riflessioni e narrazione d’eventi, pertanto sia pronto il
lettore a
“tuffarsi” nel passato del protagonista.
Vi lascio
quindi alla lettura del prologo, necessario per capire il contesto
delle
vicende – incontreremo il “nostro” nel
prossimo capitolo.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
Aggiornato
02.07.2021
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DIRUPISTI VINCULA MEA
A
che giova a un uomo guadagnare
il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai
dare un
uomo in cambio della propria anima?
(Marco
8, 36-37)
Prologo
Todeschi
vol omnino Trevixo
Sin
dal momento in cui i Collegati avevano firmato quel loro Trattato nel
1508,
sotto la falsa pretesa di combattere il Signor
Turco, l’Imperatore
Maximilian I. aus dem Haus Habsburg non aveva mai fatto mistero su
quanto
scalpitasse d’impadronirsi oltre dei vari territori veneziani
anche della città
di Treviso e della sua Marca [1].
Primo,
perché essa era la chiave per Venezia: caduta Treviso, i
Collegati non
avrebbero avuto più grandi ostacoli alla loro avanzata
almeno fino alla laguna,
costringendo così la Serenissima ad arroccarsi sulle sue
isole melmose e
terminando l’impresa con un bell’assedio marittimo.
Secondo, perché
tra i Domini di Terraferma guarda caso Treviso era la seconda per
prosperità
dopo Brescia e in data 1511 dopo due anni di guerra, incredibilmente,
era
ancora pulzella di conquista e saccheggio, mantenendo intatte le sue
ricchezze
e perciò preda golosa.
Terzo,
per una questione di principio.
Infatti,
se in nome di antiche pretese mai assopite in cui l’Impero si
vedeva in diritto
come detentore dell’eredità carolingia sui
territori veneti e che di
conseguenza portava il Re dei Romani a considerarsi il loro legittimo
signore e
padrone, ebbene la Marca Trevigiana Maximilian la considerava
doppiamente sua
per questioni d’eredità familiare, essendo stato
il suo bisnonno, Leopold
III. von Habsburg ritrovatosi per merto o per caso
Marchese di Treviso nel 1381.
Peccato che l’Imperatore si fosse scordato del piccolo,
insignificante
dettaglio che il suo avo stesso aveva tre anni dopo venduto ai
Carraresi la
Marca, quando s’era reso conto d’aver fatto un
pessimo affare a divenirne suo
proprietario, stritolato infatti dalle ambizioni e dai rancori delle
potenze
confinanti.
Anche
il suo prozio di parte materna di Maximilian, il Duca di Coimbra
Infante Don
Pedro d’Avis, lo era stato in via nominale nel 1418 e forse
per soddisfare una
sua curiosità di conoscere queste terre che nel 1452 la
nipote di Don Pedro,
l’Imperatrice D. Leonor d’Avis, durante il suo
soggiorno a Venezia aveva
chiesto al suo carissimo amico Carlo q. sier Nicolò Morexini
dalla Sbarra di
Santa Ternita, soprannominato “da Lisbona” per i
lunghi anni presso la corte
portoghese, di accompagnarla a Treviso risalendo il Sile. Il Morexini,
della
cui figliola neonata l’Imperatrice era stata madrina [2],
aveva accettato di
buon grado, accompagnandola nella capitale della Marca assieme a cento
cavalieri.
Per
questi motivi dunque Maximilian, di D. Leonor il figlio, considerava
sua e
soltanto sua Treviso e i suoi territori, più ancora del
resto del Veneto e
della Patria del Friuli. E credeva che tal sentimento
d’appartenenza lo
condividessero anche i trevigiani, sicché ci si
può immaginare la sua sorpresa
dinanzi all’inaspettata ostinatezza di Treviso e il suo
categorico rifiuto d’annettersi
all’Impero, checché ne dicesse lui, il Re di
Francia, il Papa e Venezia stessa,
che liberandola dai vincoli di fedeltà non la voleva
distrutta e saccheggiata.
Pertanto,
in quel mese orribile dopo la disfatta di Agnadello avvenuta il 14
maggio 1509,
in cui una stordita Serenissima brancolava nel buio, incapace di
reagire nel
frattempo che uno dopo l’altro dei suoi Domini di Terraferma
o cadeva o si
consegnava ai Collegati, assistendo impotente
e rassegnata al
generale gongolare della Lega che già vedeva conclusa la
partita e si preparava
a spartirsi il ricco bottino; ecco che l’unico caposaldo
rocciosamente
resistente nello sfasciume generale rimaneva Treviso, solitaria nella
sua
ferrea volontà di rimanere fedele fino alla morte a San
Marco, l’unica città
ante-lagunare ad aprire le sue porte agli sbandati soldati veneziani in
fuga
dal nemico.
Come
nel passato, tale decisione venne presa più dal popolo che
da chi la governava.
Nel
giugno del 1509, a Porta Santi Quaranta si presentava infatti
l’ambasciata da
parte di Leonardo Trissino da Dresano, capitano dell’Impero,
domandando la resa
pacifica di Treviso e la sua sottomissione alla potestà
imperiale come avevano
saggiamente scelto di fare le altre città venete.
All’inizio, grazie al
sostegno dei nobili trevigiani, la questione era già risolta
a favore di
Maximilian, poiché la città pareva ben disposta
all’annessione e così il
Trissino, rassicurato, tardò la sua entrata ufficiale in
città anche per
aspettare i rinforzi tedeschi, senza i quali non osava entrare a
Treviso per
timore della vicina guarnigione veneziana a Mestre.
Tuttavia,
malgrado l’arrivo e le garanzie dei cinque oratori trevigiani
inviati a
Vicenza, l’aquila imperiale ancora non veniva issata e anzi,
come notò il nuovo
provveditore sier Piero Duodo, a Treviso si respirava un’aria
pesante, i
cittadini “mal disposti” e pareva che
“tra lhoro mormoraseno” assai complici,
armandosi e studiando sospettosamente le porte della città.
Situazione
esacerbata dal ritorno degli oratori, la popolazione sempre
più convinta della
capitolazione di Treviso. Interessatamente, sier Piero Duodo non si
premurò di
smentire tale notizia, scrivendo solamente che quel che
“sarà se averà.”
All’oratore di Asolo, alla cui signora ex-regina di Cipro
domina Catharina
Corner era stata garantito il mantenimento della castellania e i
territori
intatti se Treviso si fosse sottomessa
all’Imperatore, sier Duodo
rispose seccamente: “Se li vostri
zerchano salvar il suo, che dovremo far nui altri?”
Mandò invece Bernardino
Pola e Zuan Antonio Apornio a Venezia per ricevere istruzioni dal
Collegio.
Dal
canto suo, non ricevendo conferma dell’effettiva resa e
sempre più incalzato
dall’Imperatore che da Marostica si stava spostando in
direzione di Feltre per
poi scendere nella Marca, Leonardo Trissino inviò di nuovo
il suo trombetta
Bastiano a Treviso col vessillo imperiale da issare, e in nome
dell’Imperatore
d’esigerne la sottomissione o affrontare la collera sua e del
suo esercito. Il
Trissino stesso avrebbe raggiunto il suo messaggero a Treviso con
rinforzi.
Ironicamente,
quel suo temporeggiamento gli salvò la vita: il trombetta
non raggiunse mai
Palazzo dei Trecento, appena il tempo d’entrare in
città e un gruppo di
trevigiani armati, circondatolo, senza tanti complimenti
l’uccise,
impadronendosi delle insegne imperiali e sottoponendole ai vituperi
più
fantasiosi quasi a vendicare la sorte dei leoni marciani oltraggiati
nelle
città venete
occupate. Dopodiché, con in testa Marco
Pelizer, di
professione calzolaio, a cavallo e con in mano lo stendardo dorato di
San
Marco, la folla si diresse verso il Palazzo gridando come un sol uomo:
“Marco! Marco!”,
sfidando il podestà ad
uscire da lì imperiale, se ne aveva il coraggio.
S’accarezzò perfino l’idea
d’irrompere e di defenestrare lui e tutti i membri del
Consiglio Cittadino per
aver osato venderli al Re dei Romani. Nel marasma generale, si diceva
come i
trevigiani avessero perfino scannato tre degli oratori scelti per
negoziare col
Trissino, dando la caccia poi ai nobili e supposti filoimperali domini
Zacaria
di Renaldi, Alvixe dal Corno e Rambaldo Avogaro, che non si trovavano
da
nessuna parte. Falsa la prima notizia, vera la seconda sebbene in quel
momento
tutto fosse possibile.
Al
che il provveditore sier Piero Duodo, dinanzi al panico totale dei suoi
colleghi,
prese in mano la situazione e, aperta la finestra, lesse alla bellicosa
folla
la lettera inviatagli da Venezia, in cui a premio della sua
lealtà Treviso
sarebbe stata esente dalle tasse per i prossimi quindici anni e a
ribadire tale
concetto diede ordine di bruciare pubblicamente i libri di conto della
città e
tutti si dimostrarono di ciò molto contenti. Sospirando
sollevati dello
scampato pericolo – imminente – il
podestà sier Hironimo Marin e sier Piero
Duodo, in accordo col Consiglio Cittadino, scrissero subito ai Pregadi
con la
richiesta di uomini e soldi per sostenere la certa rappresaglia
dell’Imperatore, a cui quella notizia non tardò ad
andar di traverso.
Tale
episodio equivalse allo schiaffo di cui Venezia aveva bisogno per
riprendersi
dal suo intontimento post-Agnadello: accolti commossi i nove oratori
trevigiani
e udita la conferma del loro appoggio alla Serenissima, il Consiglio
dei Dieci
inviò poi una lettera al podestà di Treviso,
elogiando il coraggio “del suo
beneamato ochio destro, dilettissima fiola primozenita de la Signoria
Nostra” e
giurando di difenderla con ogni mezzo a loro disposizione, anche con le
loro
vite se necessario.
Non
si trattavano d’iperboli o retoriche di circostanza, essendo
ora Venezia pronta
a dimostrare il perché l’appellavano la Dominante,
come dimostrato dal
carismatico discorso al Senato del doge Lunardo Loredan, passato da
vecchio
tremolante e balbettante a determinato guerriero: sì, la
Serenissima aveva
peccato di superbia e di gola, aveva perso il senso del giudizio e la
sua
potenza era stata tale da toccare il cielo con un dito; vittima
pertanto
dell’invidia altrui, per le sue colpe punita, non per
semplice malasorte. Ma
ora, basta cogli indugi e le ceneri sul capo, che per il bene comune ci
si
armasse degli antichi valori e delle cristiane virtù e
prendendo armi che fosse
la loro santa missione di riprendersi la Terraferma, con qualsiasi
mezzo, senza
cedere.
“Andèmo!
Andèmo!”, gli fu risposto e
così
la Repubblica “ribelle dalla Santa Chiesa, scomunicata,
interdetta e maledetta”
lanciava la sua personale crociata contro la Lega di Cambrai.
Nel
tesissimo mese di luglio che seguì, i Padri Veneti con
ostinatezza rifiutarono
ogni pretesa di cedere Treviso e la Patria del Friuli, sordi
all’insistenze dell’Imperatore
e del Papa Giulio II, il quale tramite il loro oratore sier Hironimo
Donado
“dalle Rose”, li fece ben sapere quanto non avrebbe
levato la scomunica se
Venezia non avesse accontentato le richieste del Re dei Romani, ovvero
che
Treviso e Udine ritornassero feudi imperiali. Per quel che lo
concerneva
personalmente, poi, Venezia doveva rinunciare ad ogni possedimento
sulla
Terraferma; le sue acque dovevano essere navigabili senza dazi; il
clero esente
da tasse e dal braccio secolare; di non nominare i vescovi; di mettere
a
disposizione le sue galee col Papa a loro capitano per la crociata
contro i
turchi, etc. etc, dimostrando quanto Giulio II volesse “la
ruina total nostra
di Veniexia e dil nome venitiano.”
Neanche
il Pontefice aveva però compreso, che se due mesi prima
dinanzi a tal discorso
Venezia si sarebbe ingobbita di paura e magari avrebbe pure
acconsentito, ora
invece, all’arrivo di tal rapporto dall’oratore
sier Hironimo Donado, l’intero
Palazzo Ducale per poco non crollò dalle urla indignatissime
del Doge e dei
Pregadi e il figlio stesso del Loredan, sier
Lorenzo, balzando in
piedi aveva gridato livido in volto: “50
oratori al Signor Turco!”, piuttosto che
acconsentire a quel vile ricatto.
Di tutti i Collegati, l’unico che non intese scherzo dietro
quell’affermazione
fu Fernando II d’Aragón el
Católico, il quale suggerì al Sommo Pontefice
di lasciar perdere Venezia e d’impegnarsi sul serio in una
crociata contro i
turchi, onde evitare che, approfittandone del conflitto, potessero
invadere
ulteriori regni cristiani. Il Papa gli rispose freddamente
ch’era facile per
lui parlare, dopo essersi impadronito di Brindisi, Otranto e degli
altri porti
pugliesi.
Mentre
l’alta politica si arrovellava sulla sua sorte, Treviso,
riassaggiato il sangue
dopo un secolo di letargo, si stava mobilitando per meglio affrontare
lo
scomodo corteggiatore, incominciando da una feroce purga di ogni
elemento
filoimperiale tra le sue mura. Inaugurò dunque la caccia al
“gebelino” e ogni
giorno v’era una processione di prigionieri a Venezia, tra
cui Alvixe dal Corno
e Rambaldo Avogaro, finalmente scovati e catturati; Piero Francesco
Barixam e
figli; Thadio del Mar e Guangelista Caleger, che
furono oratori per
negoziare con Leonardo Trissino; Guielmo e Guido Antonio da Unigo e
altri,
relegati alla Novissima con ordine che “niun li
parlasse”. Di Francesco di
Renaldi non si riuscì ad averne lo scalpo, lo si
cercò perfino nelle sue ville
in campagna per poi digrignare i denti alla notizia di come fosse
riuscito a
riparare sano e salvo a Trento. Pazienza! Ve n’erano altri su
cui rifarsi!
Molti
di questi “gebelini” appartenevano
all’antica nobiltà feudale, speranzosa nel
cambio di governo di acquistare quel potere che gli era stato sottratto
da
Venezia e i suoi burocrati, patrizi anch’essi. Non avevano
tenuto conto loro, i
Collegati e soprattutto l’Imperatore, come il
podestà, i provveditori e i
rettori veneziani, sebbene non dei santi incorruttibili, comunque
rappresentavano un sistema giuridico chiaro, definito e assai
imparziale quando
si trattava della pena capitale, un sistema in cui i cittadini e
soprattutto i
contadini trovavano supporto contro angherie e le interpretazioni del
diritto
da parte dei signori locali. Non ci fu quindi da stupirsi se i nobili
trevigiani vennero traditi e consegnati dai loro stessi servitori,
aprendo le
porte delle loro ville o palazzi o indicando ai provveditori dove
scovarli. I
più scaltri furono i conti da Collalto, i quali subito
misero le loro truppe
personali a disposizione della Serenissima, dichiarandosi
“boni marcheschi.”
Purtroppo,
la paranoica smania di Treviso d’epurarsi di ogni elemento
imperiale
all’interno delle sue mura giunse ad atti poco onorevoli,
come il saccheggio
dei banchi e delle proprietà dei “zudei de
Alemagna”, come i Rapp da Norimberga
e i Mintz. Tra questi, la scampò un ebreo di nome Calman
che, intuendo il
pericolo, aveva dato libero accesso alle sue casse, dichiarandosi
“bon
marchesco, grande amicho di Trevixo”, dimostrando
lungimirante capacità di
calcolo e di previsione, ovvero che ci avrebbe rimesso di
più ad aver devastato
il suo banco e i suoi beni saccheggiati, che a dar via qualche forziere
di
ducati. Alla prima occasione, comunque, fuggì via a Venezia.
Nel
frattempo, Maximilian era scocciato da tanta insolenza e un
po’ imbarazzato per
via della figura barbina di fronte ai suoi alleati, specie a Louis XII
Re di
Francia che aveva conquistato una Milano e lui, l’Imperator
semper Augustus,
inciampava su di una Treviso. Arrivato a Feltre, tra un banchetto e un Te Deum rincarò la dose di
minacce, promettendo
orride vendette se non si fosse piegata. Al Re dei Romani
s’aggiunse il Papa
che sempre lavando la faccia a suon d’urla e sputi al povero
oratore sier
Hironimo Donado, gli ricordava come l’Imperatore avesse
20,000 fanti pronti a
“questa impresa di Treviso”, mentre
quest’ultima poteva contare soltanto sui
7,000 rimasti a Mestre dopo Agnadello e che Venezia accettasse la
realtà,
ovvero cedendo ciò che non poteva difendere.
“E’
certo”, insisteva il Papa ad un sier Hironimo
Donado e a dei cardinali Domenego Grimani e Marco Corner ai limiti
della
pazienza “che oggi o in due giorni
l’Imperatore sarà giunto lì, se non si
trovi già a quest’ora a Treviso!”,
poi aggiunse con una punta d’ansietà che
l’acuto ambasciatore captò, piccola
defaillance nell’atteggiamento duro e intransigente finora
adottato dal
Pontefice e prontamente segnalata al Senato che ben avrebbe saputo
sfruttarla,
conducendo ai grandi mutamenti nel 1511: “Sarebbe
stolto da parte di Venezia d’irritare ulteriormente
l’Imperatore. Cedete
Treviso e Udine, riappacificate i rapporti: in questo modo ci saranno
future
discordie tra i due Re, cioè di Francia e dei
Romani.”
Il
cardinal Domenego Grimani guardò sier Hironimo Donado
lungamente, che replicò
cauto: “Sua Santità,
neppure il Doge in
persona potrebbe imporre la cessione di Treviso e di Udine, non in una
Repubblica retta da un Senato di sì gran varietà
d’opinione.”
Maximilian
non gradendo la risposta decise d’accantonare la diplomazia e
venir ai fatti,
occupando Castelnuovo di Quero; Bassano, Feltre, Cividale di Belluno,
Castelfranco, Cittadella, Sacile e altre città o paesi
limitrofi a Treviso,
così da prenderla per paura. Ma la superba non
batté ciglio, neppure dinanzi ai
racconti degli sfollati che si rifugiavano all’interno delle
sue mura, narrando
come i tedeschi distruggessero ogni cosa sul loro cammino, rubando il
rubabile,
profanando gli altari, facendo a pezzi o bruciando
vivi i contadini
nelle loro case e uccidendo perfino i neonati in culla. In risposta a
ciò,
Treviso avviò i rafforzamenti alle sue mura su progetto
dell’ingegnere Fra’
Jocondo da Verona, rompeva i canali e deviava il corso dei fiumi; si
riforniva
di viveri; mandava i suoi stradioti a compiere incursioni ed evacuava
le sue
donne e i suoi bambini, in un continuo viavai di
barche. I suoi
“villani arrabbiati”, che avrebbero preferito
“morir marcheschi” invece
d’assoggettarsi al dominio imperiale, s’armarono e
organizzarono una
determinata ed efficace guerriglia, rispondendo alle
crudeltà subìte con
altrettante crudeltà, come si riportò un caso di
soldati tedeschi ritrovati
sgozzati e castrati da contadini inferociti.
Eletta
trampolino di lancio e base strategica per la sacra riconquista, a
Treviso
giunsero poi i provveditori generali sier Andrea Griti, sier Christofal
Moro, i
condottieri Fra’ Leonardo da Prato e Alessio Bua con uomini,
cavalli,
artiglieria e denari nonché tre valenti “homeni de
mar”, Antonio Panese,
Philippo Brocheta, Vetor Trum, che assicurarono la difesa delle tre
porte
cittadine e il traffico sui fiumi di soldati, civili, armi e viveri.
Nell’arco
di poche settimane, Maximilian si vide sottratti uno ad uno i territori
conquistati attorno a Treviso, i suoi sostenitori (o traditori a
seconda del
punto di vista) prontamente imprigionati e spediti a Venezia. Sier
Andrea Griti
dovette intervenire più volte a frenare le smanie di
vendetta dei trevigiani,
come il caso di un tal Beraldo fatto prigioniero assieme ad un
borgognone, che
il provveditore sier Christofal Moro voleva assolutamente impiccare,
desiderio
negatogli dal Griti, che giudicò più vantaggioso
condurre il
Beraldo a Venezia per farlo
“examinare”.
E da
Treviso sier Andrea Griti partì a capo di
quell’audace e inaspettata spedizione
che avrebbe sconvolto i piani dei Collegati, rimettendo tutto in
discussione:
il 17 luglio, giorno di Santa Marina, con uno stratagemma degno
dell’omerico
Ulisse e del suo cavallo di Troia, [3] i veneziani entravano a Padova
da ben
quarantadue giorni sotto il dominio imperiale, sopraffacendo la
guarnigione
tedesca e catturando Leonardo Trissino e gli altri condottieri
collegati, il
tutto mentre i padovani ancora dominavano nei loro letti per svegliarsi
con il
vessillo dorato di San Marco e le campane Del Santo che suonavano a
festa.
Purtroppo, in quel frangente il Griti non riuscì a contenere
i suoi uomini e
Padova per punizione della sua resa alla Lega venne saccheggiata
pesantemente,
incominciando dalle case dei filoimperiali. Nondimeno, ci si
rallegrò lo stesso
ché l’asse Treviso-Padova era stata ristabilita,
Venezia ora sul serio
imprendibile.
Alla
notizia della riconquista di Padova, il Papa Giulio II
“fulminava” d’ingiurie
sier Hironimo Donado e i Cardinali Grimani e Corner, i quali sornioni
lo
lasciavano fare, scrollando le spalle e ridacchiando in cuor loro alla
vista
del Pontefice paonazzo in volto, proprio lui che s’era
proposto
“magnanimamente” di funger da intermediario tra
l’Imperatore e Venezia per la
questione di Treviso e Udine, nonché di farsi da garante
acciocché il Re di
Francia non saccheggiasse Venezia. E i due risero ancor più
forte ad agosto,
come tutti i marciani del resto, alla notizia della farsesca cattura da
parte
di quattro “villani in camisa” del Marchese
Francesco II Gonzaga e lo
spettacolo del Papa buttar per terra la berretta e fuori di
sé dall’ira
bestemmiare San Pietro li ripagò di tutte le ingiurie e
umiliazioni sorbite a
causa di quel tremendo pontefice.
Se a
Roma il Papa che aveva scomunicato, maledetto e interdetto
l’eretica Venezia
bestemmiava pesantemente il suo predecessore, i Collegati dal canto
loro non
sapevano più a che santo votarsi, realizzando
nell’arco di settimane quanto
fragili fossero state le loro vittorie.
Il
vaso di Pandora era ormai stato scoperto: Castelfranco cadde e senza il
Griti a
trattenerli, le truppe stradiote-trevigiane tagliarono a pezzi i
centocinquanta
spagnoli lasciati a presidio della città; il tentativo a
settembre del 1509 di
riprendersi Padova fallì miseramente dopo quindici giorni
d’assedio, tanto che
Maximilian, sul campo, dovette riparare in fretta e
furia a Trento
se non voleva essere scannato; come se non gli bastasse, suo
suocero Fernando
el Católico aveva ripreso a tampinarlo per certe questioni
sulla reggenza in
Castiglia; le città sottomesse si ribellarono e
sedare le rivolte costava
ai Collegati più risorse che l’averle conquistate;
gli indomabili contadini
veneti erano più feroci e arrabbiati che mai, tendendo
agguati alle truppe
collegate notte e dì e rubando armi e rifornimenti; Venezia
comprava i
mercenari della Lega offrendoli paghe più alte e grandi
privilegi; la Sublime
Porta si dichiarò amica della Serenissima e anzi, se voleva,
poteva pur
invaderle l’Ungheria fino a Vienna giusto per; il Re
d’Inghilterra Henry VIII
venne corteggiato per allearsi con Venezia, così da darla
sui corni a Louis XII
Re di Francia, già di suo stordito nel sentirsi nominare
“Invasore!” invece di
“Liberatore!” come al contrario durante le altre
guerre in Italia. Neanche le
sue riforme nel bresciano e nel bergamasco per renderle più
francesi riuscirono
a far dimenticare alla popolazione i loro “primi patroni et
lhoro vol solum S.
Marco”. Poemi propagandistici celebravano
sier Andrea Griti come la
reincarnazione di Fabio Massimo contro l’Annibale invasore
altresì noto col
nome d’Imperatore e Re di Francia, infervorando gli animi.
Venezia
aveva dunque contraddetto quanto affermato da Machiavelli, ovvero
dimostrando
che è possibile navigare anche la sfortuna,
basta saper sfruttare
la più piccola scheggia impazzita però favorevole
nel mare di vicissitudini
ostili. E il fiorentino stesso, a Verona, avrebbe commentato
stupefatto
della fedeltà del popolo alla Serenissima, preferendo morir
liberi che schiavi
di Francia o Impero [4].
Intanto,
a Trento, Maximilian si leccava le ferite, meditando vendetta e nello
specifico
contro Treviso, incapace di comprendere come avesse potuto perdere la
faccia
con quella politicamente insignificante città, il cui unico
momento di gloria
nella storia recente era stata la concessione da parte di Papa
Alessandro VI de
Borja di celebrare a Santa Maria Maggiore la Messa di Natale prima
dell’ora
canonica [5] e per aver costretto alla fuga il suo vescovo Bernardo de'
Rossi a
seguito di un fallito tentativo d'assassinarlo. Come aveva potuto
Treviso,
descrittagli da sua madre “non una Firenze, una Milano, una
Napoli, una Ferrara
o una Mantova”, essere stato il granello che aveva fatto
inceppare l’intero meccanismo
della, in apparenza, invincibile Lega? Nel pieno dei
suoi umori
neri, l’Imperatore si sentiva un po’ come Talete di
Mileto, che osservando il
cielo stellato cascò in un pozzo e una serva tracia lo
derise.
L’amore
per quella città si trasformò in odio, come
l’amante respinto.
Negli
anni successivi, più volte il Re dei Romani tentò
di riprendere la “impresa de
Trevixo”, piani saltati in aria sempre all’ultimo
momento, come nell’estate del
1510, quando dopo aver ripreso Feltre era in procinto di avanzare nella
Marca,
sennonché i marciani non solo avevano respinto
l’ennesimo assedio a Padova, ma
rincorrevano le truppe franco-imperiali fino al vicentino e oltre,
puntando poi
a Verona, al che il suo fidato braccio destro, il Principe
Rudolf von
Anhalt-Dessau der Tapfere si era
dovuto recare lì in fretta e
furia, abbandonando momentaneamente il progetto d’invasione
della Marca
Trevigiana. Il Duca di Ferrara, dal canto suo, s’era visto
scorrazzare la
peggior truppa veneziana nel Polesine e oltre il Po, seminando terrore
peggio
dei turchi e rubandogli a spregio la sua adorata artiglieria a
Polesella, la
medesima che aveva usato per affondare la flotta veneziana e, pertanto,
non
poteva momentaneamente soccorre gli alleati in nessun modo.
A
peggiorare la situazione, agli inizi di settembre del 1510 giunse a
Maximilian
la notizia che l’Anhalt, nel giro di neanche una settimana,
s’era ammalato ed
era morto in seguito a spasimi atroci da Golgota crocefisso. Il decesso
del
Principe venne reso pubblico più tardi, eppure tale nuova
non impressionò
Venezia che già lo sapeva e in maniera sospettosamente
troppo dettagliata, da
non lasciar spazio a sinistri dubbi, ovvero se il Missier Grande non
avesse
inviato qualche istruzione ai suoi abilissimi sicari in incognito e
magari fu
questo il suo personale epitaffio:
Sinque
zorni xé vissuo,
d’Aynalt
el gran cornuo;
trionfo
a Verona xéo arrivà,
morto
a Yspruch pur tornà. [6]
Verità
o illazioni, Rudolf von Anhalt-Dessau aus dem Haus der Askanier
rimaneva
comunque morto orizzontale e Maximilian si ritrovò senza il
suo carismatico
capitano, un colpo durissimo per lui. Sforzandosi di far buon viso a
cattivo
gioco, l’Imperatore si fece animo e provò a
nascondere il suo nervosismo, anche
perché sul cadavere ancora caldo del Principe
d’Anhalt, i condottieri della
Lega avevano preso a beccarsi sulla successione a capo delle armate
imperiali.
Contemporaneamente, i capitani di ventura esigevano a gran voce le loro
paghe
arretrate, giungendo alle minacce o scene madri come quelle del
condottiero
albanese Mercurio Bua Spata che galoppò fino a Trento al
cospetto
dell’Imperatore, intimandogli il giusto pagamento o lui
sarebbe andato a
servizio dal più generoso Re di Francia e coi veneziani se
la vedesse da solo.
Altro boccone amaro – lo dovette pagare e anche
profumatamente, nominandolo
pure conte di Soave e Illasi- ma necessario da
digerire se quel
satanasso del Bua gli spazzava via ogni resistenza sulla strada per
Treviso.
Siccome
però in qualche modo l’Imperatore doveva aver
adirato particolarmente Dio,
anche l’avanzata della primavera del 1511 finì
prima ancora di incominciare,
scongiurata da un tremendo terremoto che scosse l’intera
Terraferma fino a
Venezia, seminando indiscriminatamente il panico tra invasori e invasi,
entrambi troppo preoccupati ad evitare tegole, pietre e alberi in testa
per
perdere tempo dietro a facezie quali combattere. Poi, neanche a farlo
apposta, il
giovane provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini sbucando
fuori dal
nulla gli catturava Andreas von Liechtenstein, altro suo capitano,
spedendole
alle Toreselle e per colpa degli insistenti appelli del cugino Paul von
Liechtenstein, che a tutti i costi rivoleva indietro il parente e
dunque che si
pagasse quel furto di riscatto – ben 5,000 ducati
d’oro! – il Re dei Romani si
era trovato a ritardare l’impresa per l’ennesima
volta.
Infine,
si arrivò alla piovosissima estate del 1511 e un
irremovibile Maximilian
ritornò alla carica: aveva infatti
giurato a se stesso che avrebbe
conquistato Treviso, la ribelle superba e fonte di tutte le sue
disgrazie,
fosse dovuto recarvisi di persona e smantellare le sue mura pietra dopo
pietra
e stavolta non l’avrebbero fermato di certo quisquiglie quali
i terremoti, la
malaria, le piogge, le esondazioni e le apparizioni della Vergine Maria.
E
così, il sostituto di Rudolf von
Anhalt, Jacques II de Chabannes de
la Palice assieme a Mercurio Bua si trovarono all'ora del tramonto del 25 agosto
1511
davanti alla fortezza di Castelnuovo di Quero, importante collegamento
tra
Feltre e Treviso, presidiata da sier Hironimo q. sier Anzolo Miani di
San Vidal
alla Carità e di madona Leonora q. sier Carlo Morexini dalla
Sbarra di Santa
Ternita detto “da Lisbona”.
Continua
…
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Lo
scopo di questo prologo è appunto di dare un contesto alle
vicende narrate,
sulla Guerra della Lega di Cambrai e in particolare
sull’ostinatezza di Massimiliano
d’Asburgo nel conquistare Treviso, ripagata con altrettanta
testarda
resistenza. Spero non vi abbia annoiato, però mi ricordo che
nei libri di
storia nazionale la Lega di Cambrai veniva sempre riassunta in poche
pagine,
quindi molti dei come, dove, quando e perché non sempre
spiegati nel dettaglio.
Mi
auguro che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima!
Un po’ di noticine:
[1] Benché
la Lega avesse giustificato la sua fondazione per combattere
l’Impero Ottomano,
in realtà era più che palese che lo scopo finale
era la conquista della
Serenissima.
Prima
ancora di dichiararle guerra, i Collegati già si erano
spartiti i territori
veneziani:
All’Imperatore
Massimiliano: tutto il Veneto, il Friuli, l’Istria, Gorizia,
Trieste e
Rovereto;
Al Re
di Francia Luigi XII: Cremona, Crema, Brescia, Bergamo e la Gera
d’Adda;
Al Re
Ferdinando II d’Aragona: Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli
e altri porti
pugliesi.
A
Ladislao II d’Ungheria: la Dalmazia
Al
Papa Giulio II: Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza e Forlì.
Al
Duca di Ferrara Alfonso I d’Este: il Polesine
Al
Marchese di Mantova Francesco II Gonzaga: Peschiera, Asola e Lonato
Al
Duca di Savoia Carlo II: l’isola di Cipro.
[2] Pur non
nominandola direttamente, così la madre del Nostro venne
menzionata dallo storico
e cronista Marin Sanudo il Giovane: “[…]
E poi partì in ditto zorno la serenissima Inperatrie per Sil
volse andar con
barcha fino a Treviso. Fo acompagnata da alchu zentilomeni deputatti et
da sier
Carllo Moresini “da
Lisbona»” al qual
lei li batixoe una fiola, et così ben sodisfa inseme con lo
Imperador andò in
Alemagna.”
[3] Brevemente, la stratagemma
funzionò così: un commerciante di frumento aveva
un parente nella Padova
occupata dagli Imperiali e sapendo come la città fosse a
corto di approvvigionamenti,
questo suo parente garantì per lui così da far
entrare i carri col frumento. I
veneziani si presentarono dunque con tre carri; il ponte levatoio venne
abbassato ma quando venne il turno del terzo carro di passare, questo
si bloccò
in mezzo cosicché la porta di Padova rimase aperta alla
cavalleria veneziana
che irruppe in città. Le campane Del Santo,
si riferisce qui alla
Basilica di Sant’Antonio da Padova.
[4] “Negli
animi di questi contadini è entrato un
desiderio di morire, e vendicarsi, che sono diventati più
ostinati e arrabbiati
contro a' nemici de' viniziani, che non erano i giudei contro a'
romani; e
tutto di occorre che uno di loro preso si lascia ammazzare per non
negare il
nome viniziano". E
ancora, il
26 novembre 1509, Niccolò
Machiavelli a
Verona annota come uno di quei contadini
“marcheschi” , catturato, “disse
che era marchesco, e marchesco voleva
morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece
appiccare...”
[5] concessione di Papa Alessandro VI
de Borja =
a Santa Maria Maggiore a
Treviso la Messa natalizia è possibile celebrarla in
anticipo, cioè alle
diciotto, per una speciale concessione di Papa Alessandro VI che risale
al 13
dicembre 1498 e che è tuttora in vigore.
[6] Questa
canzoncina non esiste, è una mia composizione. Tuttavia,
simili canzoncine
sfottitrici erano assai frequenti all’epoca e talvolta
così insolenti che
Venezia stessa arrivava a proibirle, non sempre con successo.