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Autore: Adeia Di Elferas    27/09/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Allora, di che devi parlarmi?” chiese Caterina, prendendo uno sgabello per sé e uno per Alessandro, mettendoli vicino al tavolo.

Mentre la sorella recuperava il vino, il prugnolo e due calici, appoggiandoli senza alcuna cura sul Regno di Napoli, l'altro Sforza fece un sospiro e rispose: “Nulla, volevo parlarti un po'. Sono anni che non ci vediamo.”

“Perché sei venuto qui?” chiese la Tigre, versando da bere per entrambi, parlando quasi in modo aggressivo, benché non volesse suonare così: “Galeazzo l'ha fatto perché vuole sentirsi importante, Francesco perché non ha nulla da perdere... Ma tu? Fino a ieri parteggiavi per nostro zio Ludovico, ma adesso l'hai abbandonato...”

Impressionato dalla lucida e tutto sommato corretta valutazione fatta da Caterina sugli altri due, lo Sforza sollevò appena le spalle, accettando il calice, e spiegò: “Perché, secondo me, tu sei l'unica persona rimasta in Italia che possa ancora portare il nostro cognome con onore.”

La Leonessa bevve in un colpo solo mezzo bicchiere di vino scuro e poi, mordendosi le labbra, ribatté: “Questo rende bene l'idea di come le cose siano andate male in questi ultimi anni...”

Alessandro non capì se quella della sorella voleva essere una battuta o meno, perciò non rise, né cercò di smentirla: “Hai dei figli molto belli – le disse invece, cambiando discorso – tua figlia è una donna meravigliosa.”

“Farà diciotto anni tra una settimana.” fece la Contessa, un po' sulla difensiva, quasi volesse dire che Bianca era solo una ragazza.

Il fratello colse la sfumatura della sua voce e così virò sugli altri: “Sforzino... Mi piace il soprannome che gli danno. Sembra un ragazzino sveglio...” si sistemò una ciocca di capelli castano chiari dietro l'orecchio, sorbì ancora un po' di vino e proseguì: “Giovannino è un bambino bellissimo. Peccato sia così piccolo...”

La donna sapeva cosa intendesse dire e si trovava d'accordo. Di certo i francesi sarebbero arrivati a Forlì a breve, magari anche prima dell'inverno, e lei se ne sarebbe dovuta separare per sempre. Per lei, Giovannino, sarebbe rimasto sempre un bambino di un anno e mezzo...

“Galeazzo l'hai chiamato così per nostro padre, vero?” domandò Alessandro, versando ancora da bere a tutti e due.

“Sì.” fu la risposta laconica della Leonessa.

“Sembra un ragazzo intelligente.” provò a dire l'altro Sforza.

Deglutendo, la Contessa annuì e disse: “Sono molto fiera di lui.”

“Di Ottaviano invece non vuoi parlare.” riprese il discorso Alessandro, che, in effetti, sapeva che la sorella aveva anche un figlio di nome Cesare, che però non era più a Forlì e che la donna non aveva citato nemmeno per sbaglio.

“Quando lo vedrai, ti renderai conto che...” cominciò a dire lei, ma poi scosse il capo: “Mi preme di più farti vedere Bernardino.”

“Il figlio del Barone Feo? Quello ci cui ho visto la statua qui fuori, davanti alla rocca?” chiese lui.

“Sì.” quella volta la risposta brevissima e rapida della Tigre fece desistere del tutto l'altro Sforza da proseguire l'indagine.

Aveva saputo – come tutti in Italia – di quello che era successa a Forlì e Imola quando il Feo era stato ucciso. Dal tormento che ancora vedeva aleggiare nelle iridi della Leonessa, poteva capire come i fantasmi di quel passato tutto sommato abbastanza recente fossero per lei ancora vivissimi.

Così, lasciando perdere per un momento la situazione di Caterina, Alessandro preferì portare il discorso sul passato, sulla loro infanzia e sulla loro famiglia d'origine.

“Ma dici che è vera la storia della serva africana?” chiese la Contessa, quando l'altro citò Anna Maria.

“Non vedo perché non dovrebbe...” fece lui, rigirandosi tra le mani il calice, gli occhi che cercavano sulla mappa d'Italia la città di Ferrara, dove la loro sorella era morta ormai da quasi due anni.

“Non lo so... A tratti mi sembrava solo una cattiveria messa in giro da suo suocero...” disse la Tigre, scuotendo un po' il capo, ma ricordandosi comunque come lei per prima vi avesse creduto, la prima volta che le era stato riferito.

“A nostra sorella – mise in chiaro lo Sforza, dopo un altro sorso – piacevano le donne. Le piacevano almeno quanto piacevano a nostro padre.”

La Leonessa sollevò un po' una mano, come a dire che si arrendeva e che prendeva per buona la visione del fratello.

Alessandro, complice il vino che aveva bevuto in gran quantità, fece una risatina, indicando gli abiti da soldato che Caterina indossava in quel momento: “Così come so che invece a te piacciono gli uomini, malgrado il modo in cui ti vesti...” si fece appena più serio e, mettendo da parte la caraffa vuota, prese quella ancora piena di prugnolo, cominciando a servirsi: “So che ti piacciono tanto. Forse anche troppo.”

Il tono non era di sola accusa. Forse fu solo una suggestione della Contessa, ma alla donna sembrava che in quelle parole ci fosse una certa indulgenza.

“Sono una Sforza.” si schermì lei, accettando di buon grado il liquore e rispondendo al brindisi di Alessandro.

Non appena abbassò il calice, però, istintivamente Caterina andò a sfiorare il nodo nuziale che portava sempre al dito e che le ricordava il suo terzo e ultimo matrimonio. Fu un gesto molto rapido, che poteva facilmente passare inosservato, ma l'altro lo notò e si fece qualche domanda, senza avere il coraggio, però, di esprimere a voce i suoi dubbi.

“Credo che anche il tuo stallone nero possa farsi chiamare Sforza...” ridacchiò Alessandro, ricordando quanto accaduto giusto quella sera, quando lui e gli altri avevano consegnato le proprie cavalcature agli stallieri: “Quando ha visto la cavalla di Francesco, credevo che avrebbe distrutto la stalla per andare a montarla... Fa così con tutte le giumente?”

Suo malgrado, anche la Leonessa si mise a ridere: “In effetti le cavalle sono la sua grande debolezza. In guerra però non credo che sarà un problema. Se lo cavalco io, fa quello che dico e non si lascia distrarre da niente.” poi si fece più pensierosa, prendendo un appunto a voce alta: “In ogni caso, mentre è nella stalla sarà bene metterlo ben lontano dalla bestia di Francesco. Una cavalla incinta non sarà un peso sostenibile, una volta che saremo circondati dai francesi.”

Alessandro si disse d'accordo e poi, saggiando il prugnolo offerto dalla sorella, si incupì, lasciando passare qualche secondo di silenzio, per poi chiedere: “E nostra madre? Non ti ho ancora domandato com'è morta.”

“Se n'è andata...” Caterina cercò per un momento le parole più adatte, mentre ricordava Lucrezia spegnersi nel sonno, in modo quasi impercettibile, con una delicatezza che a Livio non era stata concessa: “In modo sereno.”

“Si è trattato di un'epidemia, vero?” fece lui, prendendo l'annuire della sorella come risposta sufficiente, non sapendo quanto quelle febbri fossero costate alla donna che aveva davanti.

“Hai avuto più notizie di Bona?” chiese a quel punto la Sforza, che non aveva più provato a cercare quella che aveva sempre considerato come una seconda madre, ma dalla quale, alla fine, si era sentita tradita come da tutti gli altri.

“Vive sempre a Fossano. Le hanno concesso un buon alloggio... Da quello che so, ha qualche servo e conduce una vita molto tranquilla.” rispose Alessandro, senza sbilanciarsi troppo.

Mentre entrambi erano assorti nei ricordi, sentirono le campane in lontananza battere quattro colpi.

Il tempo era volato, ma ormai si era fatto davvero tardi.

“Nei prossimi giorni farò vedere a te e a Francesco e Galeazzo anche la cittadella. Vorrei tenervi alla rocca, ma deciderete voi se stare in avamposto o qui.” sentenziò la Tigre, finendo il suo prugnolo e alzandosi.

Anche Alessandro lasciò il suo sgabello, ringraziando per l'offerta di libertà d'azione e poi, corrugando appena la fronte, chiese: “La cittadella... Il suo comandante è Giovanni da Casale, giusto? Quello che hai strappato a nostro zio...”

“Sì, è lui.” la risposta, più tesa del dovuto, e le dita che saettavano di nuovo al nodo nuziale, fecero intendere allo Sforza che i pettegolezzi che aveva sentito sulla sorella e Pirovano dovevano avere un fondo di verità.

“Alessandro...” la voce della Leonessa si era fatta sottile.

Forse era la semioscurità della Sala della Guerra, forse l'ora tarda, o forse tutto quello che aveva bevuto, ma in quel momento la mente della Sforza era tornata indietro di tanti anni. Poteva rivedere se stessa e il fratello bambini, che si rincorrevano per le stanza del palazzo di Porta Giovia, brandendo spade di legno e gridando il motto di battaglia della loro famiglia, per poi farsi sgridare dalle loro madri, Lucrezia e Bona, che alla fine, però, stemperavano sempre i rimproveri con una risata.

Anche se aveva già trentasei anni suonati, la Contessa in quel momento si sentiva ancora la bambina che si vestiva come i fratelli, rincorreva galline e spiava le lezioni di spada dei suoi zii.

“Ti ricordi quando, da piccoli, giocavamo alla guerra?” gli chiese, deglutendo.

Anche l'uomo, che di anni ne aveva trentaquattro, aveva fatto un subitaneo tuffo nel passato: “Sì, me lo ricordo.”

“Adesso non è più un gioco.” ribatté lei, molto più fredda e dura di quel che avrebbe voluto.

L'altro Sforza, capendo come non mai il vero senso di quelle poche parole, sentì gli occhi farsi lucidi e, mentre fronteggiava la sorella in mezzo a quella stanza quasi buia, confermò: “No, non lo è più.”

Colta da un istinto che non riuscì – e non volle – reprimere, Caterina sollevò la mano verso il fratello e gli accarezzò lentamente la guancia, a quell'ora ispida di barba che ricresceva: “Mi ricordi tanto nostro padre.”

“Anche tu me lo ricordi.” rivelò Alessandro, che, in effetti, per tutta la serata non aveva fatto altro che far paragoni tra la sorella e ciò che ricordava del loro signor padre.

“Ci vediamo domani mattina.” concluse la Contessa, con un nodo alla gola difficile da definire: “Ti serve che ti accompagni alla tua camera o ricordi dove..?”

“Non ce n'è bisogno.” declinò Alessandro, avviandosi alla porta: “Credo di sapermi orientare anche da solo.”

La Leonessa attese di vederlo sparire e poi, con la stretta allo stomaco che non accennava a diminuire, vagò per un po' nella Sala della Guerra. Osservò le mappe, cercando di liberare la mente dai ricordi, ma più ci provava, più la sua mente la riportava al momento esatto in cui la sua infanzia era bruscamente terminata.

La rabbia, la sua fedele compagna fin da quando aveva nove anni, riaffiorò, vorace e distruttiva come sempre. La portò a bere ancora un po', a tormentarsi, a chiedersi come fosse arrivata a essere ciò che era.

Voleva scacciare i pungoli che le straziavano l'anima, ma sapeva che non era facile. C'erano ben poche cose che la estraniassero dal mondo abbastanza da farla sentire un po' meglio. Non voleva assumere di nuovo le droghe con cui si era stordita alla morte di Giacomo e non voleva nemmeno più accanirsi senza motivo su dei prigionieri a caso.

Voleva, sopra ogni cosa, togliersi di dosso l'orrenda sensazione di Girolamo che le respirava addosso, che la toccava e la profanava, costringendola a una prigione da cui, in fondo, non era mai più uscita.

Sapeva che quella notte Pirovano non era disponibile, perché aveva deciso di dividere con gli altri i turni di ronda, e quella volta toccava a lui.

Ci ragionò su a lungo, ma quando la confusione della mente arrivò a farla patire anche nel fisico, decise che non era il caso di farsi troppi problemi. Scese fino ai baraccamenti dei soldati. Molti dormivano, ma qualcuno era ancora sveglio. Giocò per qualche minuto ai dadi con un paio di uomini che conosceva abbastanza bene e intanto squadrava quelli con cui aveva meno confidenza.

Non si accorse subito degli sguardi continui che Baccino da Cremona, seduto in un angolo a guardare la partita di dadi, continuava a lanciarle. Quando lo fece, però, per quanto quel giovane l'attraesse e non poco, scartò subito l'idea di fargli una proposta esplicita. Le ricordava troppo Manfredi, nei suoi modi sfacciati e spesso irriverenti, e quindi si sarebbe potuto rivelare per lei un errore.

Temeva la fragilità della propria situazione e aveva il sentore che se si fosse lasciata trascinare in un sentimento che prevaricava la semplice attrazione fisica, qualcosa sarebbe andato irrimediabilmente storto. Con Giovanni da Casale riusciva a mantenere un certo distacco che le permetteva – almeno così sperava – di preservare una buona oggettività. Baccino, lo sentiva, sarebbe stato una cosa diversa.

Escluso il cremonese, però, nessuno in quel baraccamento attirava a sufficienza la sua attenzione, perciò, dopo un altro paio di lanci, lasciò i dadi per andare verso le stalle. Il silenzio di quell'ambiente era pressoché totale, rotto di quando in quando dal nitrire di qualche cavallo, o dallo scalpicciare di qualche zoccolo impaziente.

“Mia signora.” il giovane stalliere che in effetti la Sforza sperava di incontrare, le era appena arrivato al fianco.

Si capiva subito che si era appena svegliato e Caterina fu sul punto di riprenderlo. Ogni notte si era deciso che almeno uno degli stallieri dovesse restare sveglio e vigile, pronto a bardare i cavalli, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Siccome quel ragazzo era l'unico che si vedesse in quel momento, probabilmente era lui di turno, e si era fatto cogliere nel mezzo di un riposo non autorizzato.

“Come sta il mio purosangue?” chiese la Sforza, andando già verso l'ombra dello stallone.

“Adesso si è calmato un po'.” spiegò il giovane, seguendola.

Alla Contessa infastidiva un po' il modo che lo stalliere aveva di starle sul collo. Era evidente quanto quel ragazzo sperasse che il motivo della visita della sua signora non avesse nulla a che fare coi cavalli.

La donna, tuttavia, si prese il suo tempo, e non solo per farlo stare sulla graticola. Accarezzò il collo del purosangue, che, riconoscendola, fece uno sbuffo docile e cercò la sua mano con il muso.

“Forse hanno ragione, su noi due.” gli disse a voce bassissima la Leonessa, facendo seguire un sospiro.

La bestia diede un colpetto in terra con lo zoccolo, l'occhio tondo che incrociava quelli verdi della sua padrona. Era straordinario come quell'animale sembrasse capirla più di tutti gli altri.

“Avanti, muoviti. Vieni con me in camera.” fece, un po' all'improvviso, Caterina, smettendo di blandire lo stallone e voltandosi verso il giovane uomo.

“Ma...” ribatté lui, volendo dar mostra di essere molto più ligio al dovere di quanto non fosse: “Ma io dovrei badare ai cavalli, stanotte...”

“Ci stavi badando così tanto, che stavi dormendo.” lo zittì la Contessa: “Comunque, se non mi vuoi, non importa. Basta che me lo dici, così non perdo altro tempo.”

Non volendo perdere quell'occasione, il ragazzo si scrollò un po' di polvere dai vestiti e allargò le spalle: “Sono pronto.”

La Sforza portò l'amante nella sua tana tenendolo per mano. Lo spogliò in fretta, senza perdere un secondo, nemmeno per accendere qualche candela. Lo gettò sul letto e poi si tolse in fretta i propri abiti da uomo, buttandoli in terra alla rinfusa. Senza dargli tempo di prendere iniziative, si impegnò fin da subito a dettare i tempi e i ritmi di quell'incontro, abbandonandosi il più che poteva a se stessa, come se in quel modo potesse realmente liberarsi.

Annusava la pelle di lui, che odorava di stalla, facendosi così riportare indietro agli in cui il suo Giacomo era stato al suo fianco. Si immerse nei ricordi, nelle immagini a tratti confuse dell'uomo che aveva amato come nessun altro, ma nei baci del giovane amante che teneva in suo pugno non sentiva lo stesso sapore, né trovava la stessa forza nei suoi abbracci o il medesimo ardore nei suoi assalti.

L'immaginazione supplì un po' la carenza della realtà, e la fame che covava nel fondo del suo spirito si attenuò appena. I fantasmi del passato, schiacciati più dal ricordo di Giacomo che non dai meriti dello stalliere che stava nel suo letto, si dileguarono un po', permettendo a qualche raggio di luce di rischiarare il buio della sua mente.

Quando non poté pretendere altro dall'uomo che si era scelta per quella notte, il sole stava già sorgendo, dietro le spesse nubi cariche di pioggia. Lo scacciò senza troppi riguardi, e senza che lui se la prendesse troppo, per quei modi sbrigativi. In fondo, pensava la Contessa, avevano avuto entrambi ciò che volevano. Era stato uno scambio equo.

Avvolta nel lenzuolo umido, la Tigre ascoltò i rumori che lo stalliere faceva nel rivestirsi, e poi la porta che si chiudeva. Sicura di essere sola, affondò il viso nel cuscino e cercò di trattenere a sé per un momento la sensazione ancora viva di ciò che era appena finito.

Si sentiva stanca, ma non aveva più tempo per dormire. Malgrado ciò che il suo medico andava dicendole spesso – di riguardarsi, riposarsi e mangiare e bere correttamente – la Leonessa decise che per lei la notte finiva in quel momento e cominciava un nuovo giorno. A fatica, si mise a sedere, si passò una mano tra i lunghi capelli arruffati e con un'espirazione profonda, lasciò il letto, si rivestì in fretta e dalla sua tana scivolò nella sua camera, per prepararsi agli impegni di quella mattina.

 

Vincenzo Colli, detto da tutti Calmeta, in memoria di quel 'pastor solennissimo' descritto da Boccaccio, stava guardando in silenzio il figlio del papa che attraversava ad ampie falcate il cortile del palazzo di Porta Giovia.

Forte del fatto che il buio lo proteggesse, il poeta non perdeva d'occhio il giovane Borja che, quasi volesse sfidare gli occhi indiscreti dei nuovi padroni di casa, passava in sbieco la corte, invece di accostare i muri.

Era stato fuori tutta notte, Vincenzo lo sapeva bene, e adesso era tornato con il mantello sulla spalla e il volto coperto dalla sua sciocca maschera, come se un po' di velluto bastasse a cancellare le macchie dell'anima.

Attese di vederlo sparire, e poi, con un sospiro, anche il Calmeta si lasciò inghiottire di nuovo dal palazzo. Entrò nella camera che gli era stata concessa. Tornare a Milano proprio al seguito di Cesare l'aveva fatto sentire un traditore, ma non aveva avuto scelta. Se aveva seguito il Duca di Valentinois fino in Francia, facendosi credere un suo fedele cortigiano, e poi ne era rimasto al servizio anche nell'entrare da invasori a Milano, il Colli l'aveva fatto solo perché così gli era stato chiesto da chi il Borja lo voleva contrastare.

Tornare nella città che l'aveva accolto da ragazzo, permettendogli di farsi una cultura e di diventare un letterato, gli aveva messo addosso una profonda nostalgia. Serafino Aquilano, uno dei suoi grandi maestri e amici, non era più lì. Bramante aveva lasciato Milano giusto pochi mesi addietro e Gaspare Visconti era morto in marzo, seguito nel giro di un mese dalla moglie, Cecilia Simonetta.

Il Calmeta aveva avuto la strana sensazione di trovarsi in una terra straniera, per quanto familiare.

Anche rientrare al palazzo di Porta Giovia gli aveva dato una stretta alla gola. Ricordava gli anni passati come segretario di Beatrice Este, ma gli sembrava una vita vissuta da qualcun altro e non da lui.

A trentanove anni, Vincenzo si sentiva senza radici e senza prospettive. L'unica certezza che aveva era la silenziosa guerra che assieme ad altri intellettuali stava cercando di portare avanti.

Sapeva che quel giorno, a Firenze, sarebbero stati pubblicati i Capitoli della Lega. Si era opposto come meglio aveva potuto a quella disgrazia, ma nessuno l'aveva ascoltato davvero. Aveva ritardato forse di qualche giorno la decisione del re, ma sarebbe stato un arrogante a credere di poter far di meglio da solo.

Mentre vagava irrequieto nella sua stanza, l'uomo ripensò alla sua infanzia a Castelnuovo Scrivia, alla strabiliante prospettiva di poter studiare a Milano e poi alla fuga ignominiosa del Moro, che aveva distrutto, tutto da solo, il sogno di un intero Ducato.

Sospirò, pensando a quello che il Tirvulzio gli aveva confidato, una sera, mentre discutevano di filosofia. Si era fatto scuro in volto e gli aveva riferito che il re di Francia non aveva il benché minimo interesse a conquistare la Romagna e che, anzi, aveva fatto di tutto per far desistere il papa, in modo da concentrare ogni sforza su Napoli.

Rodrigo Borja, però, si era dimostrato cocciuto e inflessibile, arrivando perfino a proclamare che i soldi per la campagna in Romagna li avrebbe sborsati interamente lui, mettendo così a tacere Luigi.

Da quello spunto, il Calmeta aveva esteso le sue indagini, scoprendo in breve che Firenze avrebbe appoggiato la discesa in Romagna per paura che il papa desse ordine a Cesare di attaccare Pisa e prenderla per sé. Poi era venuto a sapere da fonte abbastanza sicura che, per motivi diversi l'uno dall'altro, anche i Cardinali Giuliano Della Rovere e Raffaele Sansoni Riario erano pronti a rinnegare la loro parentela con la Contessa Sforza, rimettendosi in tutto e per tutto alle decisioni del papa, pronti a spalleggiarlo laddove necessario. E, infine, giusto il giorno prima, mentre si discuteva dell'opportunità di lasciare il Duca Valentino libero di ottemperare il volere del padre, re Luigi aveva detto chiaramente che era giusto lasciare che la Leonessa di Romagna difendesse i propri confini con le armi da un invasore, ma che non era legale che lo facesse contro il papa, che era, per volere divino, al di sopra di chiunque altro.

Vincenzo, a sera fatta, ne aveva parlato con Michele Marulli, l'inviato della Tigre di Forlì, che era stato richiamato dalla sua signora tramite una lettera arrivata proprio quella mattina. Il bizantino aveva ascoltato senza dire nulla e poi l'aveva pregato di tenerli informati, magari scrivendo a Giovanni Corradini, anch'egli originario di Castelnuovo Scrivia, conoscente del Calmeta.

E Così al Colli non era rimasto che aspettare e ascoltare, ben conscio che ogni riga che avesse scritto sarebbe potuta diventare, se intercettata dagli uomini del papa, una condanna a morte.

“La stanno tradendo tutti...” sussurrò tra sé, avvicinandosi al crocifisso appeso al muro, guardando Gesù come in cerca di consiglio: “E io che posso fare?”

Con le mani strette l'una nell'altra, l'uomo attese per un po' il responso, che, però non arrivò. Ciò che la Sforza si apprestava a fare era noto a tutti e Vincenzo sapeva che anche il Marchese di Mantova era rimasto affascinato dall'idea di una virago del genere pronta a combattere contro l'intero esercito francese. Ecco, forse, per cominciare, avrebbe potuto caldeggiare un maggior dialogo tra i due.

Tutti conoscevano la passione spropositata del Gonzaga per i cavalli e il Calmeta aveva scoperto che Francesco moriva dalla voglia di avere nelle scuderia qualche esemplare delle bestie cresciute e allevate personalmente dalla Sforza. La Leonessa aveva nelle sue stalle animali addestrati in modo impeccabile, che, pur non essendo di natali illustri, in guerra promettevano una resa mille volte maggiore rispetto ai famosi cavalli di Mantova.

Sedendosi alla scrivania, il letterato deglutì un paio di volte, cercando le parole giuste e poi si mise all'opera, scrivendo una lettera destinata a Isabella Este, che, nel Marchesato, era quella che prendeva davvero le decisioni. Avrebbe aspettato la sua risposta, che di certo sarebbe giunta tramite il marito, e poi avrebbe scritto a Giovanni Corradini.

Doveva fare quel che poteva per appoggiare la Sforza di Forlì, che era la parte lesa, in quella guerra, e l'avrebbe fatto, anche a rischio di giocarsi la vita.

 
 
   
 
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