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Autore: ireturner    03/10/2019    0 recensioni
Dostoevskij fa riflettere un uomo sulla maniera in cui sta conducendo la propria vita; ora è convinto a conquistarsi l’amore, in un modo o nell’altro.
“So già chi sarà la mia amata. Si chiama Elisa e profuma del tipico profumo delle donne, ha una voce timida, è cordiale e, lo assicuro, è pronta per me.”
[ Questo breve racconto si ispira al #Writober indetto da @fanwriter.it. ]
Genere: Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le notti nere


 
«E ti chiedi: dove sono mai i tuoi sogni?
E scuoti la testa, dici: come volano in fretta gli anni!
E di nuovo ti chiedi: cosa hai fatto dei tuoi anni?
Dove hai sepolto il tuo tempo migliore?
Hai vissuto o no?
»
F. Dostoevskij, “Le notti bianche”.
 
Non è giusto dire che il sole sorga. Vedete: il sole, in realtà, se ne sta sempre lì, e siamo noi a compiere questa storia delle rotazioni. Non starò a spiegarvi com’è che funziona: lo saprete già, se avete prestato attenzione al barbuto maestro di scienze, durante i vostri anni di scuola elementare. E quindi, il sole mica sorge. Il sole si fa i fatti suoi, semplicemente, e noi abbiamo la presunzione di pensarlo al nostro servizio, di pensare che si prenda la briga di far le valigie, ogni sera, coi suoi effetti personali, di ripiegarvi dentro i raggi, e di sgomberare il cielo, passando il testimone alla luna, salutandola con un cenno cortese, infine di andarsene a dormire, dopo il suo lavoro duro, impostare la sveglia per le sei e mezza e, ecco!, tornare a fare capolino sulle nostre teste egocentriche. Ebbene, no! E seppure il sole non sorga, se lo facesse io non avrei comunque l’occasione di starne a vedere le albe! Io, il sole, non lo vedo e basta, un po’ perché me lo dicono sempre, di uscire dalla mia cantina ammuffita, e allora provo un forte gusto nel disobbedire, e un po’ per seconde ragioni.
 
Ho letto qualcosa di Dostoevskij, in questi giorni che son passati. Prima “Le notti bianche”, un racconto sciatto, da latte alle ginocchia, tanto che, per tutta la durata della tortura – o lettura, che dir si voglia – non riuscivo a pensare ad altro che non fossero i modi in cui li avrei strangolati entrambi, quei personaggi di cui già non ricordo più i nomi, e li avrei strangolati tanto bene che sarebbe stato proprio quello – lo strangolamento – l’evento più magico delle loro insulse vite; e non avrei neppure dovuto impegnarmi molto, visto la noia non solo di quel libretto!, ma anche delle esistenze lì scritte. Però m’ha lasciato un brutto sospetto, che, calcinato ad altri simili e ben precedenti, mi stanno facendo sorgere ormai un gran dubbio: all’orlo dei quarant’anni, troverò mai qualcuno che mi ami davvero? E allora ho provato una sorta d’empatia, una sorta di commozione, per quel sognatore di Dostoevskij, quel poveraccio che è rimasto senza amata, che morirà di certo vergine, e che così morirò anch’io. Lui, però, ha perlomeno ricevuto un bacio, un bacio di fuga, dalla sua bella. Leggendo, allora, ho pensato fosse il momento di riceverlo da per me, questo mio primo bacio, e se non dovesse arrivare così, come arrivano le stelle cadenti, allora di prendermelo da me, questo bacio, e di prendermelo tutto. Un intero attimo di beatitudine! È forse poco per la vita intera di un uomo…?
 
Ho, poi, letto “Ricordi dal sottosuolo”. O meglio, l’ho cominciato a leggere, ed ho trovato insulso pure questo volumetto; trovavo più interessanti i messali sulle panche della Chiesa, quando ancora ero costretto a recarmici. Insomma, questo caro Dostoevskij, che tutti inneggiano come grande genio della letteratura nostra, non ha chiaramente mai vissuto in uno scantinato, come invece faccio io, e non ha alcuna conoscenza in tal riguardo. Che venga a chiedere a me com’è trascorrere le giornate qui sotto, se ne ha il coraggio! Che scriva della mia quotidianità, se non è codardo! Che smetta di far filosofia su questa povera gente, povera gente che sono io, io e i miei pensieri, la mia gente: i miei pensieri, perché, quaggiù, la filosofia non ci arriva neppure per sbaglio, come non ci arriva il sole, e quindi non sorge nulla, da me. Ma è ora di riemergere, giusto per un giorno, uno soltanto: mi sono raso il mento, ho preso il mio bastone da passeggio, e sono pronto per uscirmene dalla porta. C’è bisogno di un bacio, c’è bisogno di una femmina. Deve essere mattina, e mi aspetto il sole.
 
So già chi sarà la mia amata. Si chiama Elisa e profuma del tipico profumo delle donne, ha una voce timida, è cordiale e, lo assicuro, è pronta per me. È davvero superiore a quella sciatta femmina di Dostoevskij: niente a che vedere, no, no! La incontro sempre, quando vado al parco, forse una volta al mese, e lei mi si accosta, sul muretto, e mi parla di quanto sia una bella giornata, perfino quando piove. È l’orario adatto, adesso: se ne esce dall’università verso quest’ora, di lunedì, e il mio appostamento impaziente si sgretola lì, mentre mi tocca cominciare a pensare a come bacerò Elisa, e penso a come ne sarò capace, e penso a quanto ne godrà. Il tempo sgocciola, io sono eccitato. Una nuova vita mi aspetta, lo percepisco da questi miei pensieri: la farò mia, la farò mia sposa, e vivremo tutti i nostri giorni laggiù, in cantina, perché un amore come il nostro, ossia un amore come il mio e come il suo, quando glielo spiegherò, non può essere contaminato dalla grettezza della quotidianità. No! La amerò nella penombra, la farò sedere nella stanzetta più bieca, affinché non possa scappare; ma lei non avrà né voglia né necessità di scappare, poiché è una brava ragazza, e capirà, e sarà al mio fianco. Le porrò il mio cuore sulla mano, le dirò “Su, è tuo”, e lei ne sarà tanto incantata, tanto lusingata, tanto esaltata da prenderlo in custodia, da accudirlo oggi, domani, per sempre, alla faccia di Dostoevskij!

Attendo per lungo tempo, dunque. Non ho fretta, seppur tutti gli innamorati vadano di fretta, e nella fretta sono stoicamente calmi; io in egual misura, fino a che non li sento, eccoli, sento dei passi dolci sul selciato, e son sicuro che sia lei, non potrebbe essere nessun altro. Conosco a menadito il modo in cui cammina, il modo in cui piega quella sua risata, per non apparir sguaiata, il modo discreto con cui mi arriva accanto, e, sempre, con bontà, con cui mi dice 
“Oh! Anche lei qui, oggi? Non ci incontriamo da tanto!”. Attendo: un secondo, due, il mio viso contratto dalla felicità. Le basteranno queste esclamazioni, queste parole, per farmi innamorare ancor di più, per riempire i bordi del mio animo, per avvicinarmela, e sì, sì, sì!, farla mia. Attendo: un secondo, due, e lei parla. Elisa, è la mia Elisa, e dice «Oh! Anche lei qui, oggi? Non ci incontriamo da tanto!». La mia Elisa! Sciolgo i convenevoli, la saluto e la ringrazio, tremo nella bramosia di sentirla dire, come ogni volta, che sia una bella giornata. E sono già cieco, ma se non lo fossi, se non lo fossi e vedessi la sua bellezza, lo diverrei di nuovo, certamente, abbagliato da quegli occhi che, li immagino, sono azzurri e cristallini, come quelli di una fata! La mia Elisa! La immagino chiara, riccia e bella, ecco come la immagino, ecco com’è! Per tempo ho creduto, ho temuto venisse a farmi compagnia per pena, per compassione, per pietà, nel vedere un povero uomo cieco, col suo bastone da passeggio, fermo sul muretto del parco cittadino. L’ho creduto e temuto, sì, ma ora mi è tutto chiaro: lei mi ama, e io amo lei, e Dostoevskij potrebbe pure scrivere una bella storia su di noi, così come siamo fatti, così come ci chiamiamo, così come ci adoriamo, teneramente, senza ancora sfiorarci. Ma la bacerò, oggi, si è deciso così, l’abbiamo deciso insieme, prima, ricordi? Bacerò la sua carne giovane, le sue labbra suadenti, e sono cieco e non la vedo, ma la troverò a tentoni, toccando il suo collo, lo immagino già, il suo collo dolce ed inebriante, il suo volto così tenero e devoto, e finalmente raggiungerò quella bocca, quella bocca che ora parla… sì… esattamente, sì!… parla di come sia bello il tempo, oggi, di come sia una bella giornata! Oh! La mia tenera colombella! Ma non si può perder tempo, ora, e la voglio attirare nel mio scantinato, e le dico, le chiedo, le chiedo se, per cortesia, può aiutarmi, se può riaccompagnarmi a casa, ché sono un po’ disorientato, ora come ora, e c’è traffico, e sono cieco. Lei non esita, mi prende il braccio, chiede indicazioni. Si fida di me: che potrebbe mai farle un uomo così! E che le farò, infatti! Nulla che non voglia, nulla che non voglia, perché vorrà amarmi in questa mia stessa misura, in quello scantinato, e saremo così felici da quasi esploderne.

Conosco a memoria la strada, così bene da sentirmi il cuore strepitare sempre più, quanto più siamo vicini alla meta. E allora eccoci, ed io quasi impazzisco di gioia!, eccola, le farò vedere la mia casa, la mia casuccia, le presenterò tutte le ragnatele, tutte le macchie di muffa, e le piacerà lo stesso, e non vedrà l’ora di sedere in quella stanzetta che le ho preparato, di stendersi e ascoltare con attenzione il cigolio del letto; le piacerà perfino quello!, perché non c’è cigolio che non piaccia, in un letto amato! Osserverà i soffitti, e mi dirà che ha desiderato sempre di essere invitata qui, nella mia camera, e che ha desiderato sempre essere baciata così, e toccata così! Oh! Vedrà! Chi sa se se lo aspetta! Chi sa se il cuore suo dondola come il mio, ora che chiudo la porta alle nostre spalle! Chi sa se vede, in questo buio, o se ora è cieca come me! Oh! Come mi piacerebbe fosse cieca! Magari vorrà esserlo, per somigliarmi, ché gli amanti si somigliano, e allora ! La renderemo cieca! Senza remora alcuna, senza preoccupazioni! E saremo due ciechi, ma felici, due ciechi che si amano, quaggiù, in fondo allo scantinato. Sento che le trema la voce. Deve essere per l’emozione. Mi chiede perché ho chiuso a doppia mandata la porta. Ma sì, ma perché ho paura dei ladri! Non è forse logico? Non mi piace parlare di queste sciocchezze, non quando siamo di fronte all’inizio del nostro amore. E le dico di sedersi al tavolo, che c’è quanto spazio vuole, tutto per lei, eppure… Eppure continua a far domande! Mi chiede dov’è l’interruttore della luce, mi chiede se può uscire, mi chiede dov’è la finestra, dice che le manca l’aria, che vuole andarsene, che altrimenti chiamerà la polizia! Non capisco. Non la capisco, non capisco proprio, vuole giocare? Forse è così. Forse vuole giocare, la mia Elisa! La faccio sedere, e siedo di fronte a lei, e le dico quanto la amo, e che ha da star tranquilla, perché siamo solo noi due, nessun altro, solo noi due. E le spiego come ho sistemato la tovaglietta, sperando le piacesse, e le spiego dove dormirà, dove faremo l’amore, e dove potrà leggere, se vuole, quei libri di Dostoevskij che le ho mantenuto da parte. Certo, sono libri per non vedenti, ma imparerà lo stesso, e mi dirà anche lei quanto siano noiosi! Però c’è qualcosa che non va. Qualcosa che non va proprio. Dice che vuole andarsene via, lo ripete ancora, Dio!, che strazio, e ancora!, e ancora! E alla fine m’innervosico, non dite non sia normale! Certo che m’innervosisco, e allora le urlo di stare zitta. Che sia come le altre? Che sia precisamente come le altre? Sciatta e vigliacca come la femmina di Dostoevskij? Ma è la mia Elisa! La mia Elisa! La mia Elisa non è così!

«Facciamo un gioco», le dico, per calmarla. «Ora proverò ad indovinare come sei fatta, mia dolce Elisa, voglio sapere come sei fatta», che sia almeno come la immagino, Dio mio! Poggio le mani sulle sue guance, e le trovo bagnate, come un fior di rugiada. «Che fai, piangi, Elisa? Ma io ti amo, di che piangi!», perché fa così?, ora sì che mi vien voglia di strangolarla, di strangolare anche lei!, «Hai la pelle chiara, non è vero?», se è vero, la risparmierò. Annuisce, «Sì, mi dicono che ho la pelle come il latte», oh!, ragioniamo!, la pelle come il latte, la mia Elisa!, allora proseguo: «Hai i capelli tutti ricci, non è vero?», se è vero, la risparmierò. Annuisce, «Sì, mi dicono che li ho ricci come una principessa», oh!, decisamente!, i capelli ricci come una principessa, la mia Elisa!, allora continuo: «Hai gli occhi azzurri e cristallini, non è vero?», se è vero, la risparmierò.

Ma tace, per qualche secondo, e poi scuote la testa, sotto il mio tocco. «No, mi dicono che li ho marroni come due castagne», oh
 la mia Elisa!, la mia piccola, tenera Elisa!… occhi marroni come due castagne… Oh!
 
   
 
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