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Autore: Adeia Di Elferas    08/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Dovrebbe arrivare tra poco.” disse Bianca, tornando a sedersi sul divanetto imbottito davanti alla madre.

Caterina aveva scelto di incontrare Ottaviano nella sala delle letture solo perché lo studiolo del castellano, da quando era diventato il regno di Bernardino da Cremona, non le sembrava più accogliente e riparato come un tempo.

“Bene.” soffiò la Tigre, abbandonandosi contro lo schienale morbido della poltrona: “Cosa stava facendo?”

“Nulla.” rispose la Riario, mettendo un segnalibro di cuoio in mezzo al volume che stava leggendo prima che la madre le chiedesse di andare a cercare il fratello: “Era nella sua camera, steso sul letto, in brachette e camicia a guardare il soffitto.”

La Sforza strinse i denti. L'immagine della nullafacenza, ecco cos'era il suo primogenito, esattamente com'era stato Girolamo per buona parte della sua infima vita.

“Tempo di vestirsi, e sarà qui.” riprese la ragazza, quasi a voler stemperare la rabbia che sentiva covare sotto lo sguardo distante della madre.

Era il 30 ottobre e quella sera, come da concessione della Leonessa, ci sarebbe stato un piccolo ricevimento alla rocca. Sarebbe stato aperto solo ai soldati di stanza lì e alla servitù. Le dame probabilmente sarebbe state poche, rispetto ai cavalieri, ma quando sarebbe giunto il momento di danzare, quello squilibrio sarebbe diventato di certo un pregio, una garanzia di riuscita della festa: nessuna donna sarebbe rimasta senza cavaliere.

Diciotto anni era un'età importante e Caterina era felice di pensare che, pur con alterne vicende, sua figlia vi fosse arrivata tutto sommato ancora libera. Se ripensava ai suoi, di diciotto anni, la prima cosa che le tornava in mente era il pancione dove proprio sua figlia sgomitava per nascere...

“E il cervo che ho catturato per stasera..?” chiese la Contessa, lasciandosi trascinare dai propri ragionamenti.

Bianca era rimasta esterrefatta nel vedere la stazza della bestia che sua madre era riuscita ad abbattere e quando l'aveva fatta vedere alla cuoca, anche lei aveva solo potuto battere le mani ed esclamare: “Con tutto questo ben di Dio ci sfamiamo letteralmente l'esercito!”

“Già sul fuoco.” assicurò la Riario, sorridendo: “Ne uscirà uno stufato tenerissimo, ne sono sicura.”

“Mi fa piacere.” si sforzò di sorridere la donna: “Compi diciotto anni, non è un'età qualunque.”

Seguì un lungo momento di silenzio da parte di entrambe. Tutte e due sapevano che a quell'età molte delle coetanee di Bianca erano già mogli e madre e, anche se lei sulla carta era la sposa di Astorre Manfredi, di fatto era libera dai vincoli da cui le altre erano intrappolate da anni.

Parallelamente a quello, alla Tigre frullò per la mente un altro fatto e, senza volerlo, espresse a voce alta quello che di norma avrebbe tenuto solo per sé: “Oggi Livio avrebbe compito quindici anni...”

“Lo so.” fece piano Bianca, rabbuiandosi all'istante.

Caterina non avrebbe voluto per nessun motivo al momento rattristare sua figlia, specie quel giorno, ma pensare a quel figlio che aveva dovuto veder morire bambino, sentendolo perdere la vita poco a poco, respiro dopo respiro, mentre la stringeva a sé pieno di paura e dolore...

Non aveva fatto in tempo a far capire agli altri chi sarebbe potuto diventare. Magari, pensava la Sforza, a quindici anni avrebbe cominciato a guardare le ragazze, a essere bravo con la spada, oppure, per colpa della sua salute da sempre cagionevole, si sarebbe dedicato più che altro agli studi.

E invece non era riuscito a fare nulla.

Scuotendo il capo, la Contessa deglutì e disse, ricordando la distanza che c'era stata tra loro e che lei non era mai riuscita – o non aveva mai voluto provare – a colmare: “Non sono mai stata una buona madre, per lui.”

“Non dite così.” la riprese subito Bianca: “Voi non...”

Ma non riuscì a finire la frase, perché sulla porta, ciondolante e guardingo come sempre, era arrivato Ottaviano.

“Vi lascio soli.” disse in fretta la Riario, scorgendo un lampo di odio – non lo si poteva definire in altro modo – attraversare gli occhi verdi della madre.

Il giovane si spostò un po', entrando suo malgrado nella sala, per lasciare uscire la sorella e poi, come se avesse paura di essere colpito da un momento all'altro, si avvicinò un po' alla madre, ma restando sempre e comunque a distanza di sicurezza.

La donna, restando seduta, lo osservò per qualche istante. Per prima cosa, pensò, avrebbe dovuto convincerlo a darsi una sistemata vera e propria. Magari l'avrebbe mandato da Bernardi. Nonostante la maniacale attenzione che Ottaviano da sempre pareva avere per la moda e l'eleganza, la sua trascuratezza, legata per lo più ai vizi che lo portavano a dormire poco e mangiare troppo, era ben visibile nella barba non fatta, nei capelli inanellati, ma in disordine e nei vestiti, molto raffinati, ma ormai decisamente fuori misura.

Malgrado la sua notevole altezza e gli arti abbastanza lunghi da donargli comunque un aspetto slanciato, il suo ventre era gonfio – forse più di vino che di cibo, sospettava la madre – e le sue spalle senza muscoli, rendendolo una figura grottesca.

“Siediti.” ordinò la Sforza, indicandogli il divanetto su cui fino a poco prima stava Bianca.

Il Riario, deglutendo, si accomodò, restando però rigido, quasi volesse tenersi pronto in caso ci fosse bisogno di scappare. Alla Sforza quel dettaglio non sfuggì e il parallelismo crudele con Girolamo che faceva già ogni volta in cui incrociava il figlio le risultò ancor più fastidioso del solito.

Non poteva dimenticare il suo primo marito, tanto meno trovandosi davanti qualcuno che gli somigliava a tal punto. Paradossalmente, le era molto più semplice trovare simpatici Scipione o Paolo Riario che, pur avendo molto tratti somatici in comune con il padre, si discostavano talmente tanto da lui come carattere e modi, da oscurarne il ricordo. Ottaviano, invece, era la propaggine di Girolamo sia per aspetto, sia per atteggiamenti e carattere e Caterina, a distanza di vent'anni, ancora non riusciva ad accettarlo.

Inoltre, non poteva scordare che se Giacomo era morto, la colpa era soprattutto di quel figlio che lei non aveva mai sopportato.

“Devi fare una cosa per me.” iniziò a dire la Tigre, sforzandosi di restare calma.

“Che cosa?” domandò il Riario.

La donna dovette stringere un attimo il morso, per non ribattere a tono, perché il modo in cui lui aveva posto quella domanda non denunciava voglia di aiutarla o anche solo curiosità. L'unica cosa che si poteva avvertire nella voce incerta di Ottaviano era paura, come sempre.

“Dovrai incontrare la popolazione.” spiegò lei, facendo un respiro profondo e lisciandosi un po' le brache con le mani: “Convocherò un Consiglio straordinario aperto a tutti e tu...”

“Ma io...” cominciò a balbettare il giovane uomo: “Io... Io non so che dire... Io... Come faccio a fare un discorso... E poi non...”

“Te lo scriverò io, il discorso.” la voce della Leonessa coprì senza fatica quella del figlio che, intimidito, tacque.

Tanto per fare qualcosa e impedire alla rabbia di tracimare e farla parlare a sproposito, la donna si alzò e fece un paio di passi per la stanza.

“Non sarà difficile e potrai leggere, se non ti vergogni a farlo davanti a quelli che sarebbero anche i tuoi sudditi.” proseguì lei, voltandogli le spalle: “Dirai cose che potrebbero essere accettate con difficoltà, ma dovrai essere inflessibile.”

Terrorizzato come non mai all'idea di vedersi rivoltare contro una folla di forlivesi inferociti, benché non avesse la più pallida idea di che cosa il suo discorso avrebbe propugnato, il Riario cominciò a scuotere il capo, alzandosi a sua volta, andando verso la parete, in una sorta di patetica fuga: “Ci... Ci sarete anche voi, alla riunione?” domandò, sperando in un sì.

Se sua madre fosse stata al suo fianco in una simile occasione, di certo nessuno avrebbe osato alzare un dito su di lui.

“No.” fece subito la Contessa, sempre senza guardarlo.

Il silenzio che ne seguì, però, la insospettì. Con lentezza, si guardò sopra la spalla e vide il viso di suo figlio farsi terreo, i suoi occhi scuri vagare senza posa tutt'intorno e le dita secche della sua mano destra correre al colletto del giubbone per allargarlo un po'. Quei segni di panico le annebbiarono la vista, facendole arrivare davanti agli occhi Girolamo e non più Ottaviano.

Annullando la distanza tra loro con appena un paio di lunghi passi, la Leonessa l'afferrò per il bavero e, avvicinando la faccia di lui alla propria, gridò: “Sii un uomo, per una volta!”

Le pupille, vacue e spente, del Riario, si specchiavano in quelle accese d'ira della madre che, come sconfitta da quell'evidente impossibilità di reagire, lo mollò tanto di scatto da mandarlo a sbattere contro la parete.

Con la schiena dolorante e il fiato accorciato dal colpo improvviso, il figlio chinò il capo, incurvò le spalle e si preparò a una sfuriata, con l'intima speranza che, vinta dalla manifesta incapacità di colui che aveva davanti, la Tigre di Forlì cambiasse idea e non lo mandasse più in pasto ai forlivesi.

“È più facile far ammazzare un uomo, che leggere un discorso già scritto?” chiese, con un filo di voce, Caterina.

Siccome anche in quel caso Ottaviano non disse e non fece nulla, la Sforza poté solo prendersela con la sua ignavia. Avrebbe quasi preferito sentirlo reagire, gridare a sua volta, magari difendersi, per quanto nel torto.

E invece la larva che ero ormai suo figlio se ne stava addosso al muro, immobile, come un animale in trappola così terrorizzato da non riuscire nemmeno a tentare la fuga.

“Mi fai pena.” soffiò la donna, tornando a sedersi sulla sua poltrona imbottita, pensando, in modo forse troppo irrazionale, che avrebbe preferito mille volte avere ancora in vita Livio, piuttosto che Ottaviano.

Il Riario, vedendola in parte placarsi, osò lanciarle un'occhiata dubbiosa. Lentamente, si staccò dalla parete e raddrizzò appena le spalle. Incoraggiato dal silenzio della madre, che sapeva quasi di resa, schiuse le labbra, ma la donna lo anticipò.

“Fin da oggi, ti vieto di uscire in città a combinare disastri. Stanno per arrivare i francesi e le donne di Forlì avranno già abbastanza da soffrire quando saremo sotto attacco, senza che ti ci metta anche tu... Andrai a farti sistemare da Bernardi e indosserai abiti puliti. Stasera alla festa di tua sorella ti mostrerai affabile. E il primo novembre parlerai in Consiglio, leggendo il discorso che io ti scriverò.” concluse la donna: “E adesso vattene. Non ho più voglia di vederti.”

Ottaviano restò un momento sui due piedi e poi, capendo che la Leonessa si sarebbe rimessa a inveire contro di lui, se non se ne fosse davvero andato subito, quasi corse alla porta e sparì.

Fisicamente e emotivamente scossa per lo scontro quasi unilaterale appena avuto, la Tigre restò seduta ancora a lungo. Poi, ricordandosi di tutto quello che doveva ancora fare, fece uno sbuffo e si mise in piedi, sperando che occuparsi degli affari di Stato bastasse a farle dimenticare per un po' tutto il resto.

 

Cesare Borja guardava imbronciato verso il camino acceso. Il bel viso, perfetto, se non fosse stato deturpato dai segni del mal francese, lasciava trasparire tutta la sua profonda malinconia e, malgrado tentasse indefessamente di farla passare per noia, il suo amico Miguel de Corella sapeva bene cosa invece adombrasse l'animo del figlio del papa.

Il Duca di Valentonois, in effetti, in quel giorno senza sole si sentiva particolarmente proiettato nel passato. Cercava di pensare al presente, anzi, al futuro, alla campagna militare che stava per iniziare, a tutte le cose che avrebbe dovuto fare e dire, ma più ci provava, più gli tornava in mente la sua casa a Subiaco, gli interminabili pomeriggi passati coi suoi fratelli a giocare, litigare e fare la pace, e le parole della loro madre, che riusciva sempre a farli tornare amici.

Nei giorni autunnali come quello, però, a Subiaco il tempo era migliore, rispetto a quello che stava trovando in Lombardia. La sera scendeva in fretta, quello sì, ma spesso le mattine erano fresche e soleggiate, ideali per cavalcare o stare all'aperto a godersi l'ultimo sole della stagione.

Stavano per partire alla volta del ferrarese. In fondo, il ventiquattrenne avrebbe preferito andarsene subito da lì. Anche se il viaggio di per sé era un incomodo, almeno avrebbe avuto meno tempo per ingarbugliarsi coi propri pensieri.

Con un sospiro tremante, Cesare distolse finalmente gli occhi dalle fiamme e cercò le iridi fredde, di un azzurro quasi trasparente, dell'Aubigny: “Stavate dicendo?”

Il Luogotenente Generale delle truppe francesi di Milano e Pavia storse le labbra sottili. Non gli piaceva dialogare con qualcuno che non lo ascoltava, specie se quel qualcuno, a suo modo di vedere, era così inferiore a lui sia per intelletto sia per esperienza sul campo.

Schiarendosi la voce e lanciando uno sguardo significativo anche al Ligny, che gli stava accanto, l'Aubigny annusò quasi disgustato l'aria chiusa di quel salottino scuro e ripeté: “Stavo dicendo che Oliverotto da Fermo andrebbe impiegato meglio, in questa campagna.”

Il Borja cercò silenziosamente conferma da Achille Tiberti, presente più per far numero a quel breve incontro che non per reale bisogno. Siccome, però, il cesenate non mosse ciglio, il Valentino si trovò costretto a dire la prima cosa che gli venne in mente.

“Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo... Messer Tiberti qui presente... Tutti noi... A me sembra sempre e comunque uno spiegamento di forze eccessivo, per combattere contro una donna...” fece Cesare, appoggiandosi al bracciolo dello scranno con il gomito e dondolando la mano: “Poi, ora che anche Genova si è arresa e il figlio dell'Aragona è partito per la Francia...”

Tiberti, che stava al fianco del figlio del papa, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Aveva visto il moto di trionfo di quel giovane, quando aveva saputo dell'esilio mascherato da protezione che re Luigi aveva inflitto al piccolo Francesco. All'inizio non aveva capito il motivo di tanta allegria, finché non si era ricordato che il marito di Lucrecia Borja era un Aragona e quel fatto, per il Duca, bastava a odiare tutti i membri della casata napoletana.

“Non sottovalutate la Sforza.” lo mise in guardia l'Aubigny: “Ho avuto modo di conoscerla, e non la pensereste un nemico da poco, se l'aveste conosciuta anche voi.”

Il Borja non aveva conosciuto di persona la Leonessa di Romagna, era vero, ma aveva sentito spesso suo padre parlarne. Quando lei era a Roma, lui era appena un bambino, eppure si ricordava degli scoppi d'ira a cui Rodrigo si lasciava andare nel parlare di lei. E, all'epoca, quella donna era appena una ragazza. Benché non volesse credere a quel che gli si diceva, in realtà le sue certezze di una facile vittoria cominciavano a vacillare.

“Comunque non c'è nulla di cui discutere.” tagliò corto Cesare, stanco di parlare di questioni di guerra: “Quella è una donna vergognosa e immorale e non avrà scampo.” poi diede in una risata stonata e, raddrizzandosi un po' sulla sedia, disse, chiamando in causa Achille: “Ma è vero quello che dicono? Che permette apertamente ai bordelli delle sue città di avere anche uomini adulti, oltre che ragazzi?”

Tiberti, suo malgrado, abbassando lo sguardo, si trovò ad annuire, arrossendo: “Sì, sì, sono permessi.”

“Ecco..!” esclamò il Valentino, battendo le mani: “Vi rendete conto?!”

“Immagino che li lasci tenere per suo personale diletto e non per traviare i suoi sudditi.” notò, con una nota sprezzante, Don Giuliano di Ligny: “Tutti sanno che non si limita alla cerchia dell'esercito, quando vuole compagnia per la notte.”

“In ogni caso – riprese l'Aubigny, non riuscendo a mascherare oltre la spiccatissima antipatia che provava per il Borja – non dovreste essere voi a giudicarla per queste cose... O forse mi sbaglio io e il vostro paggio, mentre eravate in Francia per sposarvi, ha preso il mal francese da qualche donna del posto?”

Colpito sul vivo, il Duca di Valentinois si alzò di scatto, arrivando, senza pensarci, a prendere per la gola il francese. Questi, per quanto colto alla sprovvista, si dimostrò subito molto più pronto e solido di tanti altri e, riuscendo a liberarsi immediatamente, estrasse un pugnale dalla cintola e lo puntò contro Cesare.

Quel momento di stallo si risolse in fretta. In tempo di guerra non era infrequente che nascessero discordie anche tra i comandanti e tutti si acquietarono senza problemi. Il francese lo fece per una questione di convenienza, mentre il figlio di Alessandro VI solo perché sapeva di non poter aver la meglio.

L'unico ancora in guardia era Miguel de Corella che, protettivo come un cane da difesa, restava ancora con la mano sull'elsa della spada e gli occhi fissi sull'Aubigny.

“Siamo tutti stanchi.” fece il Valentino, allargando le braccia, più per calmare il suo amico che altro: “E comunque, passatemi almeno questa: un conto è fare, un conto è ostentare. La Sforza ostenta i suoi vizi. Questo è esecrabile. E un popolo timorato di Dio seguirà il papa e la giusta legge e non quella meretrice, bestemmiatrice e rozza, come lo era suo padre.”

L'Aubigny si sistemò la giacca e poi, facendo ricorso alla propria capacità di controllo, fece un mezzo inchino e fece un cenno a Tiberti e al Ligny di seguirlo: “Passate una buona notte. E, invece di importunare i ragazzini che avete al vostro servizio, divertitevi con qualcuno che almeno sa cosa sta facendo.”

L'ultimo sguardo, dedicato in modo inequivocabile al Corella, per un istante fece tornare al Borja la voglia di strozzare il francese, ma, per fortuna, riuscì a trattenersi finché non li vide uscire tutti e tre.

Con un urlo strozzato, andò al camino e diede un forte colpo alla cornice di pietra, facendosi male alla mano.

Miguel accorse subito al suo fianco, come se la sua sola presenza potesse alleviare il suo dolore, ma la reazione del Duca fu tutt'altro che grata: “Non starmi così addosso!” sbottò, allontanando l'amico con un braccio: “Già mi manca l'aria... Ci manchi solo tu...”

L'altro, mastodontico e taciturno, si spostò un po', come gli era stato sgarbatamente chiesto di fare e rimase in attesa. Da quando si erano conosciuti, da studenti, per lui Cesare era stata la persona più importante al mondo. Quando l'aveva cercato per quell'impresa, per accompagnarlo come guardia personale, non aveva potuto rifiutare, anche a costo di sopportarne le intemperanze e i continui sbalzi d'umore.

“Mi manca l'aria...” ribadì il Valentino, abbandonando il camino, la mano dolorante stretta contro il petto: “Io... Io devo uscire di qui, non ce la faccio più...”

Michelotto, come lo chiamavano in tanti, lo seguì subito verso la porta. Il Borja avrebbe voluto dirgli di restare al suo posto, ma non si fidava a uscire per Milano da solo. Milano non era Roma, i francesi non erano le guardie pontificie. Lì non era al sicuro e impunibile come lo era a casa sua...

“Dove andiamo?” chiese il Corella, rendendosi conto che il Valentino stava veleggiando spedito verso l'uscita del palazzo.

“Ho bisogno di una donna.” tagliò corto il Borja e poi, cercando nella scarsella e dando all'amico qualche moneta, aggiunse: “Nell'attesa, anche tu puoi divertirti un po'...”

Quei soldi, per Miguel, erano come uno schiaffo, ma sapeva di non poter aver di più. Li mise nella bisaccia che portava in spalla e, annuendo appena, ringraziò in un sussurro e andò avanti a camminare come nulla fosse, anche se in realtà si sentiva morire.

Stava calando la sera, ma la fitta nebbia gelida di Milano rendeva il paesaggio spettrale come se fosse stata già piena notte. I due uomini scelsero un postribolo abbastanza tranquillo e, dopo che il figlio del papa ebbe scelto una ragazza da portare in una delle stanze al piano di sopra, Michelotto chiese una caraffa di birra al proprietario del bordello e, messosi in un angolo ad aspettare, bevve fino a dimenticare i propri tormenti.

 

Come previsto, nella sala dei banchetti si stava riversando più gente di quanta Caterina avrebbe creduto. Anche se l'invito era stato esteso a tutti gli abitanti della rocca, la Contessa non si era resa conto appieno di quante persone volessero sinceramente festeggiare Bianca.

E fin da quando la figlia era arrivata nel salone, le era stato chiaro che i presenti la conoscevano e l'apprezzavano, perché non c'era uomo o donna che non la fermasse per chiacchierare un momento e farle sentitamente gli auguri.

Per l'occasione, la Sforza aveva chiesto anche a Giovanni da Casale di essere presente e l'uomo, ben felice di poter lasciare la cittadella per una sera, aveva accettato senza alcun indugio e ora sedeva alla sua destra.

Oltre Pirovano stavano in fila tutti gli altri figli della Tigre, compreso Giovannino in braccio a una delle balie, mentre alla sinistra della Sforza, oltre a Bianca, che essendo la festeggiata stava nel mezzo della tavolata, c'erano Alessandro, Galeazzo e Francesco Sforza, seguiti da Scipione e Paolo Riario.

All'inizio la Leonessa era stata un po' indecisa se mettere quegli invitati di spicco al tavolo d'onore o meno, ma poi si era detta che sarebbe stato un buon modo per indurli a conoscersi un po' di più e a dialogare con maggior facilità.

Ci volle un po' prima di ottenere un certo silenzio da parte dei presenti, ma quando la giovane Riario si alzò in piedi per ringraziare pubblicamente chi era accorso, tutto il salone tacque per sentire le sue parole.

Caterina guardava la figlia con una profonda ruga scavata in mezzo alla fronte. Chiunque l'avesse guardata in quel momento avrebbe pensato che fosse preoccupata per qualcosa. In realtà, il pensiero che stava martellando la mente della Sforza in quel momento era ben diverso. Quello che stava pensando, nell'accorgersi una volta di più dell'abilità della figlia nel trattare con il prossimo e nel farsi amare, la Contessa si trovava a rammaricarsi del fatto che Bianca fosse una femmina e nemmeno la primogenita. Avrebbe potuto comunque puntare molto su di lei, ma le avrebbe reso la vita difficile, se non impossibile. Una donna sola al potere aveva davanti una vita d'inferno, e lei lo sapeva anche troppo bene. Se solo Ottaviano avesse avuto un decimo delle capacità della sorella...

Le portate a base di cervo che arrivarono subito dopo il breve discorso della Riario fecero calare dapprima la sala in un silenzio quasi estatico – il che, pensava la Sforza, era ben comprensibile se si pensava che buona parte dei presenti erano servi, poco avvezzi a mangiare piatti molto ricchi o ricercati – e poi, complice il vino, la riempirono di chiacchiericcio e risate.

Il clima disteso venne aiutato anche dalla musica, che iniziò a risuonare ancor prima che si preparasse il posto per i danzatori.

La Tigre teneva d'occhio i suoi figli, Ottaviano in particolare, e, vedendoli tutti abbastanza tranquilli, riuscì a tranquillizzarsi a sua volta. Pirovano, al suo fianco, non diceva mai nulla, limitandosi a mangiare e bere, esagerando forse un po', rispetto al suo solito, con il vino.

Quando finalmente, dopo la spongata, Bianca in persona scese in pista e diede il via alle danze, la Contessa permise a tutti quelli seduti alla sua stessa tavola di far quello che preferivano. La balia portò allora in camera Giovannino. Sforzino chiese dell'altro dolce, restando nel suo cantuccio a mangiare pacifico. Ottaviano si alzò, ma andò solo vicino a una delle pareti, con un calice in mano, fissando torvo quelli che si scatenavano al ritmo di una danza spagnola. Galeazzo, dopo aver chiesto di nuovo il permesso alla madre, lasciò il desco, ma, visibilmente intimidito, non chiese subito a una dama di ballare, stando in disparte, in attesa, forse, che fosse qualche ragazza ad avvicinarsi e indurlo a invitarla.

Bernardino, invece, sembrava non volersi muovere. Caterina, seguendo il suo sguardo, capì che stava tenendo d'occhio qualche altro bambino – tutti figli di servi – che si erano imboscati nella sala dei banchetti. Era evidente che fremesse dalla voglia di raggiungerli, ma era altrettanto chiaro che qualcosa lo stesse trattenendo.

Mentre la Tigre sentiva i suoi fratelli iniziare a parlare con Giovanni da Casale, finalmente colse il monito che tratteneva il piccolo Feo. L'ex castellano Cesare, non molto lontano da lì, lo stava ammonendo di continuo con qualche cenno del capo e il piccolo pareva non voler disubbidire a qualche silenzioso comando.

“Bernardino...” disse a quel punto la Contessa, sporgendosi verso il figlio – e per farlo dovette appoggiarsi un momento a Pirovano: “Vai a giocare. Non voglio vederti fermo come una statua. Io vorrei solo che stessi attento a non farti del male e a non far del male agli altri.”

Il bambino, sorpreso nel sentire la madre rivolgerglisi a quel modo, fu indeciso per un momento. Il prozio Cesare, che continuava a fissarlo, aveva aggrottato la fronte, non potendo sapere che cosa la madre avesse detto al figlio.

“Posso andare..?” chiese Bernardino, indeciso se fidarsi o meno di tanta permissività, dato che lo zio di suo padre aveva insistito tanto nel dirgli che quella sera avrebbe dovuto fare il bravo e non muoversi di un passo.

“Vai.” ribadì la donna, facendogli un cenno significativo con la mano: “Ma non uscire dalla rocca.”

Senza farselo ripetere di nuovo, il Feo schizzò via dalla sua sedia e corse in mezzo ai ballerini, schivandoli come un'anguilla, fino a raggiungere i suoi amici e, assieme a loro, cominciare a scherzare e agitarsi, per poi sparire oltre il portone, probabilmente diretti nei locali della servitù, quella sera eccezionalmente deserti.

“Tuo figlio è di una bellezza rara.” la voce di Alessandro arrivò all'orecchio della Sforza tanto all'improvviso da farla quasi spaventare.

Il milanese aveva preso il posto lasciato vuoto da Bianca e ne aveva approfittato per avvicinarsi alla sorella e parlarle in modo confidenziale. Giovanni da Casale, nel vedere quella mossa, non volendo immischiarsi in quelli che riteneva discorsi di famiglia, si scusò un momento e si allontanò per andare a parlare con il Capitano Rossetti e Luffo Numai, non molto lontani da loro.

“Bernardino..?” chiese Caterina, ben sapendo che doveva essere proprio quello, il figlio a cui si riferiva Alessandro.

Infatti questi annuì e, occhieggiando verso Bianca, che stava danzando in modo anche troppo entusiasta con un giovane soldato, rimarcò: “Davvero. Ha qualcosa di te, ma immagino che sia molto simile a suo padre. Scommetto che quando sarà un adolescente inizierà a fare strage di cuori...”

La Sforza prese il proprio calice e finì il vino scuro che c'era ancora dentro: “Sì, gli somiglia molto.” avrebbe anche voluto sottilizzare sul fatto che il suo Giacomo non era stato un grande conquistatore, ma che, anzi, malgrado la sua bellezza inconfutabile, non aveva mai avuto altra donna al di fuori di lei, ma lasciò perdere.

“Somiglia tanto anche a te, però. Ma non nell'aspetto.” riprese lo Sforza, facendosi quasi malinconico.

“In che cosa?” la domanda uscì dalle labbra della Tigre come un ringhio di difesa.

Immaginava dove sarebbe andato a parare suo fratello, e non voleva che si facessero certi paragoni tra lei e Bernardino. Non voleva che fosse evidente che il suo carattere, spesso irrequieto e quasi sempre impossibile da gestire, fosse stato tramandato ai suoi figli, specie al frutto del suo amore per Giacomo. Aveva trascurato già abbastanza quel bambino, senza doversi anche sentire in colpa per avergli dato il suo spirito inquieto.

“Non lo vedi?” fece il milanese, abbozzando una risata: “Corre dappertutto, non sta mai fermo, ne combina di tutti i colori... Sembra com'eri tu da bambina.”

Visto che il giudizio di Alessandro si era rivelato molto meno severo del previsto, la donna si lasciò sfuggire un sorriso e, versandosi ancora da bere, annuì: “In effetti forse non hai tutti i torti...”

“Già... Mi ricordo, quando eravamo piccoli, che eri una tempesta vivente. Io ti adoravo e ti seguivo ovunque, anche quando sapevo che ci saremmo messi nei pasticci...” gli occhi dello Sforza si erano fatti lontani, mentre l'espressione sul suo viso, squadrato dalla solidità della sua età, ma che ancora conservava qualche tratto del ragazzo che era stato, si induriva: “E poi sei cambiata. Da un giorno con l'altro, quando avevi quasi dieci anni, non ti ho riconosciuta più.”

Caterina deglutì. Sapeva fin troppo bene che cosa l'aveva fatta cambiare in modo tanto drastico, a nove anni. Non era certa, però, che suo fratello ne fosse altrettanto al corrente.

“Sono successe tante cose. Tutte assieme.” tagliò corto lei, cominciando a guardare verso Pirovano, per attirare la sua attenzione e farlo tornare al tavolo, in modo da avere una scusa per interrompere quel discorso: “Non è più il caso di parlarne...”

Giovanni accolse la tacita richiesta di aiuto dell'amante, pur non capendone il motivo, e, tornato al suo posto, le chiese: “Balliamo?”

“Io non ballo.” rispose secca la Contessa: “E tu lo sai.”

Il soldato strinse le labbra e poi, agitato dal vino che gli girava nelle vene e dalla fretta di sfruttare il tempo che gli veniva concesso prima di tornare alla cittadella, le disse, senza giri di parole, senza preoccuparsi del fatto che di certo Alessandro e forse anche Francesco Sforza e Scipione Riario potessero sentirlo, chiese: “Allora saliamo in camera tua?”

La Leonessa controllò che Bianca stesse ancora danzando, che Ottaviano fissasse i ballerini con rancore, che Sforzino mangiasse e che Galeazzo fosse sempre al suo posto, imbambolato, raggelato dalla timidezza, incapace di chiedere a una dama di ballare con lui.

Lanciò uno sguardo ai suoi fratelli e, mentre vedeva il Contino di Melzo alzarsi per andare a sgranchirsi le gambe e Alessandro sollevare le sopracciglia come a dire che per lui non c'era problema, posò una mano sulla coscia di Pirovano, sentendola come sempre calda e muscolosa, un appiglio sicuro: “Va bene. Andiamo in camera.”

 
 
   
 
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