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Autore: NemracEroif    23/10/2019    1 recensioni
Un demone minaccia la tranquillità di New York e Derek aiutato da Stiles, l’umano che gli ha salvato la vita, dovrà trovare i pezzi che compongono l’unica arma in grado di sconfiggerlo, il dirkey.
Un enigma dopo l’altro, indizio dopo indizio. Una verità lontana da svelare, un pianoforte dal pezzo mancante, un destino beffardo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Nuovo personaggio, Stiles Stilinski
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Al mio Si bemolle. 

Ci troveremo.

 

I


L'aria umida della notte mi accarezzava il viso leggermente sudato mentre le fioche luci bianche  e tremolanti dei lampioni persistevano inarrendevoli ad illuminare uno dei posti più belli - e pericolosi almeno per quella notte - di Manhattan. Riuscivo a sentire le sirene di alcune volanti della polizia che sfrecciavano a tutta velocità sulla strada, pronte a verificare una soffiata anonima, e gli usignoli sugli alberi di pino che come ogni notte cominciavano a cinguettare proprio mentre tutti gli altri andavano a dormire come se dessero il cambio turno ai loro colleghi.

Steso a terra, percepivo il freddo delle mattonelle di ceramica a contatto con la mia schiena facendomi provare un brivido lungo tutto il corpo e sentivo il cuore sussultare ad ogni rumore ovattato che somigliava a delle grida, che significava pericolo e minaccia imminente. Con un ritmo preciso e misurato ascoltavo il sangue che pulsava forte nelle orecchie e nelle punte delle dita delle mani girate con i palmi all'insù. Forse era così forte la voglia di lasciarmi tutto alle spalle, distrarmi e far finta di non essere lì, o forse lo feci inconsciamente, ma le pulsazioni che scandivano il tempo mi riportarono con la mente a quando non avrei mai potuto immaginare quello che sarebbe successo, il momento che segnò l’inizio della fine. 

Sarebbe sciocco ingannare me stesso e fingere di non ricordare la data del giorno che cambiò le cose. Al contrario delle giornate che passano veloci e fugaci e scivolano sotto la stretta delle persone, alcune date restano fisse, immobili e immutabili: così per me, ho motivo di credere, il 20 Maggio non sarà più un giorno qualsiasi. 

Come era già successo innumerevoli altre volte, mi svegliai di soprassalto tornando alla realtà dopo aver fatto per l'ennesima volta il sogno che mi perseguitava ormai da tempo: fuggivo nel buio pesto di una strada dritta e interminabile fino a quando stanco e sfinito mi accasciavo per terra. Poi, ogni volta, una melodia dolce mi ridava speranza e fiducioso iniziavo a rincorrerla fino a quando mi svegliavo, puntualmente di soprassalto, come se avessi corso davvero, con la maglietta sudata e delle sfumature di grigio scuro sulla schiena. Me ne sbarazzai e feci una doccia. Controllai il telefono: erano le 08:17 e Cam mi aveva mandato un messaggio appena dieci minuti prima. “Vediamoci davanti il Dunkin Donuts sulla 1st Avenue tra mezz'ora. Devo parlarti.” 

Non sentivo Cam da quasi un mese, quando un coyote mannaro, un omega (cioè senza branco) di passaggio a New York aveva deciso di fare uno spuntino in un fast food nel Lower East Side con l’unica complicazione che lo spuntino aveva finito per essere il ragazzo che ci lavorava. Cam era stata da poco promossa a detective della omicidi e alcuni dei casi che aveva risolto e le avevano fatto avere la promozione erano di natura soprannaturale. L'avevo aiutata per due motivi: primo, perché spesso era molto difficile tenere la polizia lontana e molto più semplice invece era avere qualcuno di loro dalla mia parte che sapeva la verità e copriva quello che c'era da coprire. Secondo, potevo fidarmi. Era l'umana più in gamba che avessi conosciuto (fino a quel momento). 

Il motivo che la spingeva a vedermi non poteva che riguardare qualcosa del mio mondo, un omicidio troppo brutale persino per un umano o qualcosa di simile, nulla che potesse spaventarmi. 

Dalla finestra del mio appartamento potevo vedere il flusso costante di gente indaffarata che correva da una parte all'altra: in ritardo per il lavoro con la ventiquattrore che schizzava nel vento, in ritardo per accompagnare i bambini a scuola tirandoli per una mano tra la folla e chi forse un motivo per andare di fretta non ce l’aveva neanche, ma la frenesia della città, è risaputo, è contagiosa. Tutto era reso meno meccanico e cupo dal sole primaverile che illuminava di sguincio i palazzi e riscaldava la giornata.

Usando l'udito da lupo sentii dei passi lenti e stanchi che si avvicinavano al palazzo: il mio segnale. Lasciai la tazza di caffè nel lavandino, presi il giubbotto di pelle poggiato sul divano e afferrai le chiavi sul tavolino vicino la porta. Scesi le scale dal secondo piano e arrivai davanti il portone principale proprio quando le mani anziane e tremolanti stavano iniziando a cercare le chiavi per entrare. Aprii e gli occhi acquosi e azzurri di Mrs. Crowford alzarono lo sguardo per raggiungere i miei.

«Oh caro, sei tu!» disse. 

Era così minuta che mi arrivava all'altezza dello stomaco, le rughe sul suo volto ricordavano la più antica delle querce e i capelli grigi le davano un’aria saggia e gentile. Il sorriso, timido e sincero mostrava i denti piccoli e leggermente consumati. 

Come ogni mattina usciva presto per andare a fare un giro di tre isolati con il suo carrellino viola scuro e tornava sempre alla stessa ora (intorno alle 8) con il pieno di frutta e verdura come se dovesse sfamare una famiglia con 5 figli adolescenti. Abitava al primo piano, in corrispondenza del mio appartamento. Purtroppo, nel nostro palazzo antico di anni e anni mancava l'ascensore, e lei che si era operata da non molto ad un’anca, per quanto fingesse di essere perfettamente in grado di fare «due gradini» come li chiamava, faticava e non poco considerando anche il peso della spesa. Così, ogni mattina, casualmente, stavo sempre per uscire proprio quando lei apriva il portone e, sempre casualmente, ero in anticipo quindi non mi costava niente aiutarla a salire.

«Buongiorno Mrs. Crowford, come sta?» le sorridevo. 

Lei mi tirava giù per la spalla per darmi un bacetto sulla guancia e in quei secondi sentivo benissimo il profumo di dolci e zucca che emanava. Mentre salivamo pian piano le scale mi cingeva stretto il braccio, con più forza di quella che si potrebbe pensare abbia una signora di più di ottant'anni e con l’altra mano si appoggiava allo scorrimano. In quei momenti, con lei da un lato e il carrellino in spalla, facevo una delle cose che mi rendevano, mi piaceva pensare, migliore di quello che ero. Lei non se ne sarebbe mai accorta, intenta com’era a salire le scale, ma le mie vene sul braccio che impugnava diventavano nere e per un paio di minuti, il tempo che impiegavamo per raggiungere il pianerottolo, il suo dolore diventava il mio. All'inizio non era stato facile concentrarsi e contemporaneamente salire le scale, conversare, mantenere la spesa. Col tempo, avevo imparato a fare tutto insieme e anche se solo per poco il suo dolore all'anca, la sua stanchezza e il bruciore alle articolazioni li sopportavo io. Sentivo il suo respiro più regolare e mi chiedevo se lei si sentisse di nuovo giovane in quel breve momento. Quando arrivavamo in cima e lei apriva la porta insisteva sempre per farmi prendere un biscotto («almeno uno caro, altrimenti come ti mantieni così forte?») e non potevo rifiutare, non ci riuscivo e forse non volevo. 

Mentre mi stava raccontando della sua amica Betsie che aveva incontrato nel reparto della carne, guardai l'ora sul telefono e mi resi conto che dovevo andare se non volevo fare tardi.

«Mi dispiace io... devo andar via» dissi indicando l'uscita.

«Se ha bisogno mi chiami, va bene?»

«Certo, non ti preoccupare, caro» sorrise e mi accompagnò fino all'uscio della porta come faceva sempre, passando nel corridoio in cui erano appese le foto dei suoi due figli e dei nipoti che vivevano a Pearl River e andavano a trovarla soltanto una ogni tre domeniche. Suo marito, invece, era mancato da diversi anni, ma il suo ricordo era così vivo tra le pareti di quella casa che anche se non lo avevo mai conosciuto mi sembrava un amico di quelli che non si incontrano da anni. Ogni volta che la lasciavo sola andando via mi sentivo terribilmente in colpa. 


Al 2340 di Powell Jr Boulevard l'aria era fresca e il trambusto che avevo visto poco prima dalla finestra lentamente si era calmato. Per arrivare da Dunkin' Donuts occorrevano 20 minuti e camminare non mi dispiaceva (mai), quindi mi avviai con le orecchie e gli occhi insolitamente tesi, pronti a captare ogni traccia e possibile indizio di quello che poteva essere successo. Passai davanti due edicole ma nessun titolo di cronaca nera era riportato, almeno nulla che facesse pensare ad un attacco animale o un mistero inspiegabile. Quando arrivai sul luogo dell'appuntamento, due minuti in anticipo, ancora non notavo nulla di insolito. Cam non era ancora arrivata e io temporeggiavo sul bordo del marciapiede studiando i dettagli del posto. Da Dunkin' Donuts tutti i tavoli erano occupati e i clienti mangiavano le loro ciambelle e bevevano i loro caffè parlottando rumorosamente, due camerieri molto giovani e probabilmente sottopagati sfrecciavano e si dimenavano tra un ordine e l'altro. Nel locale a fianco - Teng Dragon, consegna a domicilio gratuita - l'odore di salmone affumicato e tempura usciva prepotente dal ristorante cinese e si mescolava agli altri mille odori della strada (spiacevolmente anche con quello delle ciambelle fritte) che alle 9 di mattina era un bel colpo da sopportare. Ancora più avanti, una lavanderia aperta h24 - Sapoara - era quasi vuota, e un solo cliente aspettava di essere servito dalle due sorelle, anziane proprietarie, dietro il bancone.

«6 verticale, è acceso nelle tribune politiche» diceva una mentre l'altra cercava la gruccia col numero della ricevuta del cliente. 

«9 lettere, inizia con la D»  insisteva dopo non aver ottenuto nessuna risposta. 

«Cosa vuoi che ne sappia? Vieni qui a darmi una mano!» le aveva replicato l’altra. Mi avevano fatto sorridere senza neanche vederle e con le labbra serrate per non farmi sentire dai passanti tra me e me avevo sussurrato la risposta: «Dibattito.»

 

Cam arrivò puntuale come sempre, nella sua aura di eleganza spontanea e composta. Non mi ritenevo (e tutt’ora non mi ritengo) un grande intenditore di bellezza. Ero sempre rimasto ammaliato dalle persone singolari, quelle che rimanevano impresse nella mente per un paio d’ore prima di scomparire anche quando erano soltanto volti di passanti o viaggiatori della metro e più che i pregi fisici che rientravano negli standard di bellezza mi incuriosivano i difetti e le particolarità ma ero sicuro che Cam potesse essere universalmente definita bella (Mrs. Crowford avrebbe pagato oro e avrebbe donato l’anca buona per vedermi sistemato con una donna come lei). La simmetria del suo viso tondo, il colore roseo delle sue guance, gli orecchini a cerchietto e il trucco sempre molto leggero - eccetto le labbra glossate abbondantemente - la rendevano una visione incredibilmente appagante per gli occhi. Diverse volte avevo osservato i suoi occhi cercando di coglierne le sfumature impercettibili ma ero arrivato alla conclusione che fossero di un mix perfetto tra il caramello e il caffè. In ogni caso, i capelli lisci e scuri le cadevano appena sulle spalle dell’impermeabile beige chiaro che le stava a pennello. 

«Hale» mi chiamò. 

«Cam» le porsi la mano e lei la strinse. 

«Siamo qui per una ciambella?» chiesi indicando la vecchia insegna bianca di Dunkin' Donuts. 

«Cosa? No, ti ho fatto venire qui perchè ero in zona. Vieni, camminiamo.»

Non mi sembrava particolarmente preoccupata ma qualcosa non andava, di questo ero abbastanza certo. Quando iniziò a muoversi e mi passò davanti per indicarmi la direzione sentii il suo profumo dolce alle rose con una punta di iris e gelsomino (avere l'olfatto sviluppato di un lupo è piacevole quando si è vicini a profumi e odori gradevoli). 

«Allora, cos'è successo?» chiesi guardandola mentre percorrevamo la 1st Avenue verso Nord. Vidi il suo sguardo incupirsi e le labbra stringersi leggermente. 

«Stanotte intorno le 3 e mezza è arrivata una segnalazione in centrale. Una donna, Jenny Temper, ha detto che sul Billis Avenue Bridge - sai, quello che collega il Bronx a Manhattan - stava succedendo qualcosa. Nulla di più, non sapeva altro. Tu sai chi è la Temper?» 

«No, non ne ho idea» ammisi.

«È una negromante abbastanza conosciuta a New York, ha un buco sulla 146esima strada e fa un po’ di soldi grazie alle vedove che vogliono salutare i mariti morti. Insomma, nessuno l'ha presa sul serio, molti pensano che sia pazza.»

Ci fermammo al semaforo rosso e aspettammo di poter passare. 

«Ma dopo pochi minuti sono arrivate altre chiamate. Gente comune, chi portava a spasso il cane e chi faceva jogging.» 

«Di notte?» chiesi stranito. 

«Lo so, la gente è strana» agitò la mano in aria come a dire Non è importante adesso. «Hanno chiamato per riferire che sul ponte stava nevicando e che avremmo dovuto fare qualcosa - a destra, qui.» 

Girammo intorno ad un palazzo in ristrutturazione per cui alzai il tono di voce per sovrastare i suoni del cantiere: «Stava nevicando?! A metà maggio?» 

«Lo so, ha dell'assurdo. Ho mandato due agenti a controllare. Hanno riferito che c'era della neve sui lati del ponte ma in dieci minuti era tutto sparito, c’erano comunque più di 15 gradi» spiegò.

«Stiamo andando lì, sul ponte, giusto?» 

«Sì. Scusami se ti ho disturbato ma ho paura che ci sia qualcosa sotto e voglio essere sicura che non sia così prima di dimenticare questa storia» ammise. Eravamo quasi all'inizio della rampa che portava al ponte e stavo guardando il cartello con la scritta "Busses Only" sulla corsia riservata ai pullman quando mi accorsi che l'aria primaverile e il sole timido di quella mattina non erano più lì, non per me. Fui avvolto da una nube invisibile di freddo che mi fece venire la pelle d'oca. Eppure, non si trattava di una semplice nuvola di passaggio. Sentivo le ossa più deboli, facevo fatica a camminare e la cosa peggiore di tutte: ero triste, angosciato e addolorato senza motivo. Cam si accorse che camminavo più lentamente.

«Tutto bene?» mi prese sottobraccio quando stavo per cedere sotto il peso delle mie gambe. «Tu non senti niente?» chiesi quasi sbattendo i denti dal freddo.

«No... vuoi che andiamo via?» 

Quando tornammo verso East Harlem ripresi a respirare regolarmente. 

«Cos'è successo?» Cam era ansiosa di sapere e le usciva dalla voce più preoccupazione di quanta volesse lasciar trapelare. Non avrei voluto allarmarla ma fui onesto e prima di parlare diedi una rapida occhiata intorno per assicurarmi che nessuno ci stesse ascoltando. 

«Quella era una traccia demoniaca. Significa che qualcosa o qualcuno è stato sul ponte e non credo che avesse buone intenzioni.»

«Cos'hai sentito?»

«Freddo. E angoscia. Una stretta allo stomaco, brutta sensazione.»

La vidi confusa.

«Credevo che i lupi mannari non provassero freddo» aggrottò le sopracciglia. 

«Anche io.»

«Adesso cosa facciamo?» si guardò intorno come se potesse trovare un libretto di istruzioni. Se le avessi detto che c'era da buttarsi in mezzo al fuoco non ci avrebbe pensato un attimo.

«Aspettiamo. O meglio, aspetto. Stanotte, quando la traccia sarà più debole andrò lassù e seguirò la traccia, cercherò di capirci qualcosa.»

Non aggiunse altro ma vidi un briciolo di delusione nei suoi occhi. 

Nel nostro rapporto c'erano dei confini invisibili che non avevamo mai stabilito ad alta voce ma di cui entrambi eravamo coscienti. Cam sapeva che in quella situazione era meglio che sbrigassi la cosa da me e non perchè fosse troppo pericoloso per lei - non avrei mai pensato che fosse una vigliacca, aveva molto più coraggio di diversi lupi mannari che conoscevo - semplicemente quello era il mio mondo. Difatti, neanche io entravo in merito agli affari della polizia o a questioni burocratiche: quello era il suo. 

«Tienimi aggiornata. Se hai bisogno chiamami» mi guardò fisso negli occhi per farmi capire che diceva sul serio. Poi aggiunse: «La Temper aveva sentito davvero qualcosa…» ragionando a voce alta. Sorrise e mi fece un cenno con la testa prima di andar via, con entrambe le mani nell’impermeabile e il rumore dei tacchi sul cemento.  

 

II


Non è facile prepararsi per qualcosa che non si conosce. L'ultima volta che avevo avvertito una traccia demoniaca era stato all'incirca quattro anni prima, a Giacarta, in Indonesia. Mi chiamò un vecchio amico che si era trasferito lì per lavoro. Aveva radunato tutti gli esseri soprannaturali che conosceva per affrontare un demone che identificammo come un Pendakian - che significa letteralmente arrampicarsi in indonesiano - che di fatti era salito sul monumento nazionale che gli abitanti del luogo chiamavano Monas, una torre di 145 metri. Combattere a quell'altezza era stato uno dei momenti più spaventosi ed eccitanti della mia vita. Ad ogni modo, la sua traccia non era così forte e soprattutto, non aveva fatto nevicare, anche se con un po' di esperienza avevo capito che quasi ogni demone ha una propria traccia e che spesso sono influenzate dalla natura stessa del demone, da come è nato, dai suoi poteri. Questo significava che non avevo niente su cui prepararmi se non al freddo, ed optai per un allenamento base con guantoni e sacco da boxe.

Ricordo perfettamente che mentre colpivo (destro, sinistro, destro, calcio col destro, schiva a sinistra, ripeti) con tutta la forza ed entravo in una sorta di trance allontanandomi da quello che mi circondava, dai miei pensieri e il mio passato, per un secondo o forse anche di più, riuscivo a sentire di nuovo la stessa melodia che mi dava speranza nel sogno che facevo spesso. Bastava rinsavire perchè fosse del tutto scomparsa e mi domandavo se non l'avessi sognata di nuovo. Smisi di allenarmi, dovevo conservare le forze per la notte.

 

Aspettai l'una e mezza ma ero troppo agitato per i miei standard (solitamente mantenevo il sangue freddo in ogni situazione) e continuare a muovermi su e giù per l'appartamento, fissare continuamente l'ora e ascoltare con l'udito da lupo il film che stavano guardando i coniugi Carter al piano di sopra non sarebbe servito a nulla. Per questo presi le chiavi di casa e uscii facendo molta attenzione a non fare rumore chiudendo il portone principale. Powell Jr Boulevard era quasi deserto. D'altronde, il lunedì notte non c'era troppo da fare in giro. Pochi taxi passavano per strada accompagnando i turisti che avevano preso alloggio ad Harlem dove costava molto meno verso la vita vera di Manhattan, quella che si vede nei film e che inizia a Time Square. I lampioni illuminavano i negozi chiusi e davanti alle vetrine dei ristoranti dove passai vidi i camerieri sistemare i tavoli e la mise en place per i clienti del giorno dopo. Incontrai il cameriere del ristorante messicano - El Paseo - e chiamarlo ristorante era fargli un grande complimento, dove prendevo il cibo da asporto ogni tanto. Il giovane magro come uno stuzzicadenti e visibilmente stanco dopo una giornata di lavoro stava portando un sacco dell'immondizia nero che pesava il doppio di lui sul retro. 

«Cómo vas Derek?!» mi aveva sorriso. 

«Hola Felipe» gli avevo risposto e avevo tirato dritto. Dovevo rimanere concentrato. Per un momento, mentre continuavo a camminare, mi soffermai a pensare che lui, come quasi nessuna delle persone che conoscevo a New York, poteva avere idea di chi fossi davvero, dei miei poteri, della mia natura, di quello che facevo davvero per vivere - dicevo di essere un detective, non volevo allontanarmi troppo dalla realtà e sembrava essere credibile - e nessuna di quelle persone lo avrebbe mai saputo. E se anche l'avessi raccontato a qualcuno nessuno mi avrebbe creduto. E se anche qualcuno mi avesse creduto (eppure mi sembrava uno scenario possibile quanto Mrs. Crowford che mangia cibo messicano da asporto) nessuno avrebbe voluto avere a che fare con tutto quello: demoni, lupi mannari, scontri, sangue, morte. Girai a destra sulla 131esima strada. Certe volte mi chiedevo se io l’avrei scelto: nascere in un branco non ti pone in condizione di compiere molte scelte e alcune volte mi sono immaginato come un umano qualsiasi, un vero detective forse, ma poco prima di cadere nel baratro dei "forse", dei "se" e degli "avrei potuto" facevo un passo indietro e piantavo i piedi nel cemento. Ero quello che ero e non potevo cambiarlo, non sapevo neanche se lo volevo davvero.

 

Quando arrivai in prossimità del ponte avvertii la traccia, decisamente più debole di quella mattina. Il freddo glaciale era una leggera aria fresca e non sentivo, fino a quel momento, nessuno dei sintomi che avevo sperimentato prima. Ero teso e concentrato e mentre salivo sul ponte mi guardavo intorno in cerca di qualsiasi cosa. Quando arrivai su non c'era nulla degno di nota. Passai il cartello con lo sfondo verde con su scritto Willis Avenue Bridge all'inizio della struttura di ferro intrecciato che fungeva da tetto. Sfrecciarono due pullman entrambi provenienti da Manhattan e diretti verso il Bronx, nessun'altra macchina, nessun passante. I rumori della città non arrivavano lì su, dove tutto sembrava essersi fermato, compreso il tempo. Mi accorsi che il ponte era molto più buio del solito, le luci dei faretti collocati nell'impalcatura non funzionavano e la poca luce che c'era veniva da lontano, dall'insegna della iHeart e dal ponte vicino. Smisi di camminare, respirai profondamente e concentrai tutti i miei sensi nell'udito. Cominciai a sentire il rumore dell'acqua del fiume Harlem che scorreva metri sotto di me, sia quella in profondità sia quella sul bordo che camminava sui ciottoli vicino le sponde. Continuai, e sentii le voci degli operai della fabbrica di tessuti sulla 132esima, i motori delle macchine che passavano sulle strade vicine, le voci che uscivano dalle radio e dalle televisioni. Ascoltavo e scartavo quello che non mi serviva. Arrivai a coprire un’area di circa due chilometri quando finalmente sentii qualcosa di interessante: urla di dolore. Iniziai a correre prima di rendermene conto lasciando spazio all'istinto e al fiuto. Correvo verso le strilla agonizzanti e non perdevo la traccia, segno che ero sulla strada giusta. Quando arrivai davanti il cancello chiuso con il lucchetto del St. Mary's Park non avevo più bisogno dell'udito da lupo: anche le orecchie di un umano avrebbero sentito lo strazio di quelle urla. Tutto il parco era circondato da una recinzione alta due metri ma saltare e atterrare dall'altro lato non fu un problema. Ricominciai a correre e presto sentii di nuovo il freddo che quella mattina mi aveva quasi pietrificato. Si insidiava sotto la pelle, sentivo i peli delle mie braccia rizzarsi e sfiorare l'interno del mio giubbotto di pelle. Mi concentrai e continuai. Non potevo tornare indietro, non potevo abbandonare chiunque stesse soffrendo. Eppure... eppure ad ogni passo verso quella cosa che ancora mi era estranea la paura, il terrore - non miei, sentivo che mi venivano impiantati nella testa e non mi appartenevano - mi facevano desiderare di girarmi e andarmene, far finta di niente, tornare alla mia vita. Come avrei potuto?

Il parco era completamente deserto, sentivo soltanto il bubolare di un gufo ma avrei potuto anche averlo immaginato. Passo dopo passo (camminavo come se portassi blocchi di cemento ai piedi) arrivai nel cuore del parco. Al centro di 350 metri quadrati come avrebbero potuto sentirci? La prima cosa che notai fu la pozza di sangue attorno il ragazzo, steso per terra, con gli occhi spalancati, la bocca aperta in un grido disperato. Sopra di lui, una delle bestie più spaventose che avessi mai visto. I muscoli gonfi come bombe pronte per scoppiare, girato di spalle e chino sul ragazzo. Non riuscivo a vedere cosa gli stesse facendo ma sapevo che non avrebbe resistito ancora a lungo. Per questo mi imposi di fare qualcosa anche se ogni particella del mio corpo mi diceva di scappare. 

«HEI!» gli gridai. 

Girò la testa nella mia direzione e i suoi occhi con le pupille rosso sangue mi fissarono. Mi sentii gelare nelle vene. In quel momento più che in nessun altro, forse per la prima volta nella mia vita, ebbi paura. Si alzò, si girò completamente verso di me. Era alto due metri, forse di più. Ringhiò e mi mostrò i suoi denti, lunghi, appuntiti, di numero indefinito. Dalla fronte uscivano due corna nere e spesse che giravano su se stesse. Quasi senza naso, solo due fori schiacciati sopra la bocca sproporzionata e le orecchie alte ed appuntite. Quando fece un passo verso di me si trovò sotto la luce fioca di un lampione e ogni spaventoso dettaglio mi saltò agli occhi. La sua pelle era visibilmente spessa ma si intravedevano le vene in cui scorreva sangue demoniaco, nero pece. All'estremità delle sue mani giganti lunghi e spessi artigli avrebbero potuto strappare via qualsiasi cosa. Il ragazzo steso per terra con le braccia aperte non gridava più, finalmente, ma sentivo il suo respiro debole e sussurrava “aiutami” con le poche forze che gli rimanevano. Prima di continuare verso di me il mostro si girò verso di lui, lo guardò dall'alto, sollevò in braccio infernale come una ghigliottina pronta a calarsi.

«No!!!» gridai con tutta la forza che avevo, tesi un braccio come se potessi fermarlo nonostante i dieci metri che ci separavano, ma la ghigliottina colpì e gli artigli squarciarono la gola del ragazzo che non respirava più. Era rimasto con gli occhi aperti, con il viso piegato da un lato e la bocca semi aperta. Quello che successe negli attimi successivi lo ricordo come se un ubriaco avesse tentato di raccontarlo, a me che ero ubriaco come lui. Ricordo una cosa meglio di qualunque altra: il senso di colpa. Mai così forte, mi stritolava e rigirava lo stomaco e mi fasciava la testa. Le ultime parole di quel ragazzo - aveva meno di 25 anni probabilmente - erano state una richiesta disperata di aiuto a me, che l'avevo fatto ammazzare. Ricordo i passi pesanti del demone, il pavimento che vibrava quando il suo piede colpiva per terra. Venne verso di me e alzò lo stesso braccio che aveva usato per finire il lavoro di prima e quando già potevo sentire la ventata d'aria smossa dal suo movimento e lo vidi calare su di me, mi spostai così lentamente che mi prese di striscio e sentii un graffio sulla spalla. 

Non avevo forze, ero paralizzato dalla paura e dal senso di colpa, impalato come una statua mentre il demone più grande che avessi mai visto stava per finirmi. Provai a concentrarmi. Stava per partire di nuovo all'attacco ma vide i miei occhi da lupo illuminarsi di azzurro nella notte e questo lo distrasse abbastanza perchè potessi sferrargli un pugno secco sullo stomaco. Quello che incontrò la mia nocca non fu che una corazza dura come l'acciaio e il colpo finì per ferire più me che lui con tutta probabilità. 

Il primo destro che mi tirò in faccia arrivò completamente inaspettato e mi scaraventò indietro di quattro, forse cinque metri facendomi sbattere la schiena sul tronco di un albero. Rimettersi in piedi non fu facile. Sentivo quasi tutte le ossa della mia schiena nel posto sbagliato e la guarigione accelerata non avrebbe potuto fare molto in così poco tempo. Ringhiai, mostrai i denti come lui aveva fatto prima. 

Gli corsi incontro, deciso a colpirlo con un calcio, nella peggiore delle ipotesi a graffiarlo con i miei artigli. Prima che potessi anche solo toccarlo afferrò il mio piede e lo scaraventò alla sua sinistra insieme a tutto il mio corpo. Per un secondo pensai che si fosse staccato dalla gamba ma vidi la sneaker ancora lì, anche se dalla caviglia, nel punto in cui mi aveva afferrato, scendevano abbondanti rivoli di sangue. Dopo due tentativi falliti miseramente capii che dovevo smetterla di attaccare - un tempo questa scelta mi avrebbe causato una ferita nell'orgoglio molto più dolorante di tutte quelle che avevo portavo fisicamente in quel momento - e dovevo cominciare a difendermi. 

In una visione molto ottimistica avrei potuto farlo stancare, in un'altra molto meno felice avrei potuto farlo incazzare molto di più di quanto già fosse. Aspettai che fosse lui a colpirmi e schivai il primo, poi il secondo, poi il terzo colpo e quando all'ennesimo gancio sinistro mi spostai a destra lui urlò selvaggiamente verso il cielo con i pugni serrati: l'avevo fatto arrabbiare. Iniziò a colpire con molta più foga e molto più velocemente e io non riuscivo a stargli più dietro. Difatti, mi colpì in pieno petto e mi scaraventò nuovamente lontano. Mentre mi trovavo a terra, dolorante e sanguinante, e guardavo il demone venirmi incontro, pensai che avrei potuto chiedere scusa a quel povero ragazzo di persona, perchè sicuramente l'avrei raggiunto molto presto. 

Un fischio assordante mi riempiva la mente costringendomi a spremermi le tempie, credevo che mi sarebbe esplosa la testa. Quando arrivò ai miei piedi e mi prese per la maglia sollevandomi in alto come se pesassi quanto un sacchetto di patatine mi ritrovai a penzolare nell'aria e, pronto a morire, non ero più un lupo. I miei artigli si erano ritirati, le mie zanne anche. Ero solo un uomo, nelle mani di un demone, che stava per andarsene in una notte di primavera al chiaro di luna (suonava molto più romantico in questi termini, invece l'odore ripugnante del suo fiato rendeva tutto meno glorioso, più viscido e nauseante). Poco prima di sferrare il colpo decisivo mi lasciò andare. Si comportò come se qualcuno alle sue spalle lo stesse chiamando e gli stesse dicendo di smetterla. Mi lasciò cadere dall'alto come un sacco di patate e si girò. Andò via, ma non prima di girarsi un'ultima volta verso di me per lanciarmi uno sguardo violento che diceva Non finisce qui.

 

Quando potei finalmente abbassare la guardia mi resi conto di quanto l'adrenalina mi stesse aiutando a mascherare il dolore che in quel momento cominciavo a sentire dieci volte più forte. Le palpebre mi cadevano e tenerle su era troppo difficile. Guardai per l'ultima volta il ragazzo, steso a terra, indifeso, con tre grandi squarci sul collo. Quella fu l'ultima volta in cui lo vidi ma non ho mai potuto dimenticare il suo volto, impresso a fuoco nella mia mente. L'ondata di senso di colpa che seguì fu decisiva per convincermi a chiudere gli occhi - mi ero detto “solo per un minuto” - ma svenni molto prima di rendermene conto e l'ultima cosa che vidi, steso per terra e con il viso rivolto al cielo, furono i fiocchi di neve che cadevano ondeggianti e creavano un sottile strato di ghiaccio sul terriccio. 

 

III


Quando tornai in me (dire che mi svegliai sarebbe incorretto) sentii una voce lontana, come se qualcuno avesse gridato in una scatola prima di chiuderla e io l'avessi riaperta cento anni dopo. Sentivo ma non capivo, ero troppo stanco. Qualcuno mi strattonava le spalle cercando di svegliarmi, di farmi riprendere, ma io non ci riuscivo. Avevo male alla testa - dentro e fuori -, alla caviglia, alle gambe, alla spalla, al petto. Non volevo alzarmi, non potevo. L'idea di restare su quel pavimento gelato era improvvisamente diventata più confortevole dinanzi alla prospettiva di alzarsi e affrontare quello che c'era da affrontare e ignorare la voce che stava cercando di spronarmi era facile. Svenni di nuovo. 

 

La volta dopo, mi trovavo in macchina. Un taxi, capii dai numerini rossi e sbiaditi del tassametro sopra la radio. C'era un autista, c'era qualcuno al mio fianco e io, mezzo morto, che non sapevo neanche come ero arrivato sul sedile posteriore. Provai a girarmi per vedere di chi fossero le gambe che vedevo con la coda dell'occhio ma non appena mossi il collo una fitta di dolore mi fece svenire di nuovo. 

 

Tutti i ricordi dei successivi due giorni sono confusi nella mia mente e anche cercare di ricordarli ora, a distanza di così tanto tempo, mi fa venire il mal di testa. Sono solo dei flash, spiragli, ricordi di ricordi e anche metterli in ordine mi è difficile. Quasi sicuramente la prima volta che mi svegliai dopo il taxi era giorno, o meglio, c'era luce ma era così docile che forse era il tramonto, forse l'alba. Ero steso e nonostante i mille dolori e il bruciore ero comodo, su un letto alto, coperto da un lenzuolo sottile e bianco. Vidi una finestra, bianca, nuova, semiaperta e al di fuori di questa le finestre del palazzo di fronte che non fui in grado di riconoscere. Con un grande sforzo mi toccai la ferita sulla fronte e sentii il filo da sutura che mi aveva chiuso il taglio. Poi, di nuovo il buio.

 

Quando mi risvegliai era notte, la finestra che avevo visto prima era chiusa, le veneziane erano abbassate e non passava luce, ma la lampada a qualche metro da me illuminava di luce gialla la stanza e mi permise di notare delle gambe che riconobbi come quelle del taxi. Un ragazzo, giovane, capelli corti, viso preoccupato, seduto sulla sedia della scrivania e che non si era accorto che ero sveglio, fissava il palmo della sua mano come se dentro ci fosse chissà cosa. Prima di poter attirare la sua attenzione, però, mi riaddormentai.

 

L'indomani ero abbastanza in forze per rimanere sveglio e smetterla di crollare all'improvviso. Finalmente la testa non mi faceva così male e gli altri dolori erano sopportabili. Avevo un cattivo sapore di sonno in bocca e mi sentivo indolenzito per tutto il tempo in cui ero stato fermo. Da sveglio potevo finalmente guarire più velocemente e forse in meno di un giorno sarei stato in grado di tornare perfettamente in forma. Mi tirai su facendo forza sulle braccia e riuscendo a poggiare la schiena sulla tastiera del letto. Sulla stessa sedia che avevo visto quella notte il ragazzo dormiva serenamente  di fianco al mio letto e potevo notare un'infinità di dettagli che prima mi sfuggivano sia perchè finalmente vedevo bene e gli occhi non mi si chiudevano da soli, sia perché dalle fessure della veneziana entravano spiragli di luce gentili. 

L'intero appartamento - un monolocale non troppo grande - era un mix perfetto di semplicità e disordine (quel disordine accogliente che fa la differenza fra un appartamento da copertina e uno in cui vive una persona vera: poche magliette sparse in giro, un paio di piatti e di tazze da colazione nel lavandino, un paio di converse ai piedi del divano, un altro paio sotto la scrivania). L'arredamento era tutto sulle sfumature del bianco: il pavimento, le pareti, il divano, i pochi mobili che c'erano. Due cose però mi avevano stupito e distratto per un paio di minuti dalle fitte alla spalla. 

Primo, la libreria che separava il letto dalla zona cucina: piena di libri di ogni tipo, ordinati per genere. Riuscii a leggere alcuni dei titoli di quelli posizionati sullo scaffale alla mia altezza: Criminologia e vittimologia; Sociologia del diritto, della deviazione e della criminalità; Elementi di psicologia dinamica; Diritto penale. 

Per un attimo pensai di essere stato “salvato” da uno psicopatico, prima di girarmi a guardarlo di nuovo per trovarlo a dormire tutto storto e con la bocca aperta: un criminale non avrebbe dormito in un modo così buffo. In mezzo ai libri c'erano delle fotografie, una famiglia felice in riva al mare con un bambino piccolo che riconobbi essere lui mentre in tutte le altre in cui era poco più grande di un bambino c’era solo il padre o degli amici. 

Secondo, nella parete di fronte, non lontano dal divano, c'era un pianoforte a muro, del tipico color marroncino dei mobili antichi, con la scritta Blankenstein sopra la tastiera dove in tutti quelli - non chissà quanti - che avevo visto fino a quel momento c'era sempre il nome di una marca famosa come Yamaha, Schimmel e altri che in quel momento mi sfuggivano. Perfino da così lontano potevo notare che mancasse un tasto nero, un Si bemolle in basso e mi chiesi che strana storia poteva starci dietro un pianoforte a cui manca un tasto (neanche con la più fervida immaginazione mi sarei avvicinato a quella che adesso sapevo essere la sua vera storia). 

A distogliere la mia attenzione dall'appartamento fu il ronfare leggerissimo del ragazzo alla mia sinistra. Adesso lo guardavo sul serio per la prima volta.

Aveva i tratti gentili di un ragazzo che sembrerà sempre più giovane della sua età, la pelle liscia e gli zigomi alti. Dalla bocca appena aperta si notavano i denti bianchi e perfetti, contornati da labbra carnose, chiare come la sua carnagione, e che facevano contrasto con il colore scuro dei suoi capelli lisci, tirati verso l'alto, spettinati e confusi. Sotto gli occhi - non sapevo di che colore fossero perché stava dormendo, ma avrei scommesso castagno mischiato al verde scuro sui bordi, se proprio avrei dovuto provare ad indovinare - aveva le occhiaie quasi impercettibili di chi ha perso troppe ore di sonno e non potevo non immaginare di esserne responsabile. Vari nei di diverse dimensioni (molti così piccoli che se non fosse stato così vicino non li avrei notati) costellavano il suo viso sulle guance, sul mento, sul naso dritto e con la punta lievemente all'insù. E di certo, come ho già detto, non ero un grande esperto di bellezza e giudicare le persone se non per catalogarle come buone o cattive non mi veniva facile, ma su di lui non avevo molti dubbi: pensavo di non aver mai visto qualcuno di così bello e probabilmente avrei continuato a fissarlo ancora se non si fosse svegliato.

 

Si destò dal sonno come se qualcuno lo avesse scosso e io distolsi lo sguardo immediatamente. 

«Sei sveglio!» mi disse con un tono sollevato e quasi sorpreso - aveva paura che sarei morto? - feci sì con la testa. Avevo indovinato, quasi: occhi marroni, senza punta di verde, soltanto un castano pieno ed intenso. Più che il colore fu la luce che attraversava i suoi occhi a colpirmi, così come le piccolissime linee (chiamarle rughe non avrebbe reso giustizia alla loro delicatezza) che li contornavano, indice di una persona che rideva o sorrideva spesso e senza inibizioni, e cugine a quelle che gli bordavano gli angoli della bocca.

«Come ti senti? Ti faccio del thè» disse alzandosi per prendere il bollitore senza aspettare una risposta. Dopo aver messo l'acqua sul fuoco tornò ai piedi del letto.

«Come sono arrivato qui?» gli chiesi. 

Sembrò ricordarsi solo in quel momento che non sapevo nulla di lui, e forse si mise nei miei panni cercando di capire quanto quella situazione potesse sembrarmi strana. 

«Oh, sì... Sì, certo scusa.»

Si sedette sul divano davanti a me e iniziò a parlare così velocemente che dovevo prestare la massima attenzione per non perdere delle parole.

«Allora io stavo camminando nel parco, no? E poi ho sentito delle urla e quando sono arrivato c'eri tu per terra e per un attimo ho pensato che fossi morto, - beh evidentemente non lo sei! - e poi c'era quell'altro ragazzo...» il suo voltò si incupì all'improvviso al ricordo di quello che aveva visto e continuò dopo una breve pausa: «e lui... stavo per chiamare un'ambulanza ma poi tu hai bisbigliato che non potevi andare in ospedale e mi hai detto che dovevi andartene ma ti muovevi a mala pena allora ti ho portato qui e ho fatto una chiamata anonima per lui.» 

Siccome non dissi nulla, preso ad elaborare tutto quello che aveva detto, continuò: «Lo hanno detto al telegiornale ieri, si chiamava Tyron e aveva 22 anni. È stato un animale, un orso forse, così dicono.»

Il tono di quelle ultime parole fece capire quanto poco ci credesse. 

«Così dicono?» ripetei. 

«Beh, anche io pensavo che fosse un animale all'inizio, sai ho visto la sua gola quando mi sono avvicinato, ma un orso nel Bronx? Insomma... e poi tu eri ferito, cioè sei ferito, e un orso ti avrebbe fatto quello che ha fatto a lui, no?» 

Non capii se era una domanda ma non risposi. La testa mi pulsava e tutto sembrava troppo confuso. Il ragazzo sparì di nuovo dietro gli scaffali e tornò con una tazza fumante dal quale pendeva il filo della bustina di infuso. Me la porse e io l'accettai, prendendola tra le due mani, mentre lui tornava indietro a prendere la sua tazza e si sedeva di nuovo sul divano. Avevo delle domande: come avevamo fatto ad uscire dal parco se il cancello era chiuso, lui cosa ci facesse lì, come era entrato, perchè si era fidato di me. Di tutte quelle domande però non ne posi neanche una, vuoi perchè mi girava la testa e non riuscivo a connettere troppi pensieri alla volta, vuoi perché nulla in quel ragazzo faceva pensare ad un motivo per non fidarsi. Per questo misi a tacere quella parte di me, predominante nella maggior parte delle situazioni, che non si fidava di nessuno mi spingeva a diffidare persino di chi mi aveva (probabilmente) salvato la vita. Bevvi un sorso del thè bollente (lampone e melograno). Lui riprese: «Siamo riusciti ad arrivare al cancello d'uscita e tu hai strappato il lucchetto e tirato via il catenaccio con le tue mani, non te lo ricordi?» raccontava quasi euforico. Scossi la testa, ovviamente non me lo ricordavo.

«Siamo venuti qui in taxi, il tassista pensava che tu fossi ubriaco.» 

Di questo almeno avevo una qualche reminiscenza. Di colpo, una fitta alla testa mi spinse quasi involontariamente a toccarmi la ferita. Lui se ne accorse. 

«Ho cercato di medicarti, non sono proprio un infermiere... ma avevo un kit di pronto soccorso e tu insistevi a non voler andare in ospedale.» Si stava davvero scusando per non avermi medicato da professionista dopo avermi raccolto dalla strada e portato in casa sua? «Sai... so che sembra assurdo ma nel parco, quando ti ho trovato, c'era della neve per terra e sugli alberi. Non lo trovi strano?»

Oh, certo che lo trovavo strano. 

«Comunque io sono Stiles» mi sorrise, un sorriso buono, che diceva puoi fidarti di me. «Derek» gli risposi.

«Piacere di conoscerti. Va bene se apro un po’?» chiese mentre si stava già dirigendo verso la finestra. Aprì le tende facendo entrare fasci di luce bianca. 

«A proposito, ieri hai dormito tutto il giorno. Il telefono ti è suonato un bel po’ di volte» indicò il comodino al lato del letto. Presi il mio telefono (aveva dei nuovi graffi sui bordi). Cam mi aveva chiamato quattro volte e mi aveva lasciato tre messaggi in segreteria. Mi aveva anche scritto: “Hale, tutto bene?”. Poi “C'entri qualcosa con quello che è successo al St. Mary's Park, vero?” e infine “Chiamami appena puoi.”

Posai la tazza sul comodino, mi tolsi il lenzuolo da dosso.

«Ascolta, Stiles, ti ringrazio per quello che hai fatto, davvero. Adesso devo andare» feci per alzarmi anche se una volta in piedi la stanza prese a girare così forte che fui costretto a sedermi di nuovo. Avevo bisogno di più tempo per guarire ma speravo di potermi riprendere a casa mia. Mentre mi premevo le tempie cercando inutilmente di far scomparire le fitte alla testa, Stiles mi chiese: «Puoi dirmi cos'è successo prima che arrivassi?» esattamente come temevo. Avevo già captato la sua indole curiosa ma speravo che il terrore per quello che aveva visto potesse impedirgli di interessarsi. Optai per la verità. 

«Ho sentito delle urla provenire dal parco, sono entrato e ho trovato una specie di bestia che attaccava quel ragazzo. Ho cercato di aiutarlo ma è stato inutile.»

Quasi la verità, una versione meno soprannaturale. 

«Non è colpa tua, sai» mi disse guardandomi negli occhi come se mi avesse letto nei pensieri che nascondevo persino a me stesso. Penso che nessuno fino a quel momento mi avesse capito come fece lui con una sola frase, senza conoscere che il mio nome, e credendo ciecamente a quello che gli stavo dicendo.

«Già» dissi con nessuna convinzione. Quello che Stiles non sapeva è che io non ero solo un uomo indifeso contro una bestia di qualche tipo. Ero un fottuto lupo mannaro e non avevo concluso nulla.

«Devo proprio andare.» Mi alzai di nuovo, con più calma. «I tuoi vestiti sono lì, li ho lavati... erano sporchi di sangue» disse imbarazzato e tornò verso la cucina, forse per darmi un momento di privacy mentre mi cambiavo. Piegati e poggiati sul mobiletto sotto la finestra il pantalone e la felpa che avevo la notte dello scontro profumavano di lavanda. Dopo essermi infilato i pantaloni e le scarpe mi tolsi la maglietta che Stiles probabilmente mi aveva prestato (me l'aveva messa lui?) e il rumore di una tazza che cadeva sul pavimento e andava in pezzi mi rimbombò nelle orecchie. Quando mi girai i cocci di una tazza rossa stavano ai piedi di Stiles che mi guardava con gli occhi sbarrati e leggermente lucidi. Aveva la bocca aperta dallo stupore, vedevo le punte delle sue dita tremare appena.

«Cosa c'è?!» chiesi preoccupato. Lui abbassò lo sguardo, raccolse i tre pezzi più grandi da terra facendo attenzione a non tagliarsi e li buttò via. Lo vidi sforzarsi mentre cercava di far uscire le parole: «Il tuo tatuaggio…» non riuscì a finire la frase. Stava parlando di quello - l'unico - che avevo sulla schiena, in mezzo alle scapole, e che aveva visto mentre mi cambiavo. 

«È un triskelion» gli dissi. Tre spirali che partono dal centro e ruotano nello stesso senso. 

«Mi puoi dire che cosa significa?» domandò come se avesse paura della risposta. Non era facile trovarne una semplicemente perché di significati quel simbolo ne aveva tanti e quello che aveva per me era collegato a cose del mio passato, sulla mia famiglia (il mio branco) che non avrei potuto raccontargli e che neanche volevo ricordare. In ogni caso, il triskelion era da sempre associato al mondo soprannaturale e il comportamento di Stiles era strano, insolito. 

«Ci sono tanti significati... per ognuno ha un concetto diverso ma sono sempre tre cose, come le spirali» mi guardava attento, con gli occhi di chi vuole saperne di più. 

«Per esempio, la madre il padre e il figlio oppure passato presente e futuro, capito?»

Lui fece sì con la testa, poi alzò la mano destra, se la porta al collo e tirò fuori il ciondolo della collana che aveva appesa al collo e della quale prima si vedeva solo il cordoncino. Fece tre passi verso di me, tenne in mano il pendente per mostrarmelo: un triskelion. 

«Me l'ha dato mia madre» disse, poi fece una lunga pausa in cui il dolore che provava aleggiava tutto intorno a lui.

«Prima di morire» aggiunse. 

«Mi ha detto che un giorno mi sarei trovato nel posto giusto al momento giusto, poi se n'è andata. Ero solo un bambino» la sua voce si spezzò un'ultima volta prima che lui potesse imporsi di farsi forza. Non sapevo cosa dire, ero abbastanza scioccato anche io, quindi aspettai che continuasse. 

«Sono anni che cerco informazioni su questo simbolo e non mi portano a niente. E adesso, una notte decido di salvare dalla strada uno sconosciuto che ha questo simbolo sulla schiena...» potevo vedere gli ingranaggi nella sua testa che ruotavano. Mi guardava cercando disperatamente una spiegazione, ma io non l'avevo.

Poi, cambiò completamente espressione che da smarrita diventò seria, con le labbra strette e nessuna traccia di confusione. Come se si fosse ricordato qualcosa di fondamentale e avesse collegato tutti i pezzi del puzzle mi disse: «In tutti questi anni di ricerche c'era una cosa che tornava a spuntare fuori e io non gli ho mai dato peso, perchè ragionavo in modo razionale.»

Iniziò a parlare con più convinzione, alzò il tono di voce, gesticolava. 

«Ma adesso... Dici che c'è una bestia - non un animale - e io ho visto cosa ha fatto a quel ragazzo e tu? Tu sei sopravvissuto? E ieri avevi una caviglia slogata mentre adesso ti sei messo in piedi come se nulla fosse?»

Fece una lunga pausa poi sussurrò: «So che cosa sei.» 

 

Ricordo perfettamente quel momento: quando un giovane ragazzo che non avevo mai visto prima aveva scoperto - o credeva di averlo fatto - il mio mondo e mi smascherava, lasciandomi con un pugno di giustificazioni in mano, con le regole che mi erano state insegnate fin da bambino (“Gli umani non devono sapere, non devono neanche dubitare della nostra esistenza!” potevo ancora sentire il tono severo di zio Peter che mi spiegava “le basi dell'essere un lupo”, come le chiamava lui) mentre tutto quello a cui riuscivo a pensare era di dirgli la verità perché forse meritava di saperla, perchè se non l'avessi fatto io avrebbe passato chissà quanto altro tempo a chiedersi cosa volesse dire sua madre, a provare rabbia perchè non poteva chiederglielo lui stesso. Fu in quel momento che mi resi conto che ero io lo Stiles che aveva bisogno di risposte e che voleva parlare con qualcuno che potesse dargliele. Ero io che avevo perso mia madre che avevo neanche sedici anni, quando una mattina qualsiasi ero andato a scuola e tornato a casa avevo trovato il nastro giallo della polizia che circondava l'edificio in fiamme, con i pompieri che gridavano tra loro e le sirene delle autopompe che strillavano. Ero io che volevo parlare con mia madre, salutarla un'ultima volta, chiederle cosa desiderava per me, sapere se era fiera di quello che ero diventato. Se mi avesse lasciato con parole diverse da “Ci vediamo dopo, buona giornata, ti voglio bene” (che ripetevo nella mia testa nei momenti peggiori simulando la sua voce, riproducendole come un nastro rotto a ripetizione) mi chiedevo come e se avrei potuto superare certi giorni. Se una delle ultime cose che mi avesse detto fosse stata una frase misteriosa, se mi avesse lasciato una collana con un simbolo indecifrabile, non avrei trascorso anche io il resto della mia vita a scoprire cosa volesse dire? 

 

Ma non potevo rompere le promesse fatte, non potevo infrangere il codice. “Gli umani non devono sapere” era la regola numero uno.

«Non so di cosa stai parlando» gli risposi cercando di nascondere quanto avrei voluto raccontargli tutto e aiutarlo.

«So che lo sai, dimmi che ho ragione, che non sono pazzo.»

Il suo tono non era accusatorio né implorante, mi stava solo facendo capire che ne era consapevole, sapeva che sapevo e tutto quello che avrei detto sarebbe stata palesemente una menzogna ma non mi avrebbe incolpato, non era da lui. 

«Non posso» insistetti. Il suo sguardo si indurì ancora di più. 

«Va bene allora, non sono questo tipo di persona ma... me lo devi. Ti ho quasi salvato la vita e se non fosse per me adesso staresti in una stanza d'ospedale dove tanto non vuoi andare» era visibile lo sforzo che faceva per sembrare un duro, ad interpretare una parte che non gli apparteneva. Non mi aveva aiutato per chiedermi qualcosa in cambio, lo aveva fatto perché era palesemente una brava persona. Presi dalla discussione ci eravamo inavvertitamente avvicinati e non me ne accorsi fino a quando il suo profumo fresco e leggero mi arrivò alle narici e mi deconcentò per un attimo. 

«Ti prego» sussurrò Stiles, così piano che non lo avrei sentito se non fosse stato così vicino. Tutte le mie difese caddero e la determinazione a mantenere una promessa fatta anni e anni prima si assopì come sotto l'effetto di un sedativo dinanzi a quella richiesta di aiuto. 

«Siediti» gli dissi. Si mise sulla sedia dove fino a qualche momento prima stava dormendo e io - con grande sollievo per la mia caviglia che ancora non era guarita del tutto - mi accomodai di nuovo sul letto. Non avevo (ovviamente) mai fatto un discorso simile e trovare le parole adatte fu più difficile di quello che pensavo. 

«Non dovrai dire mai nulla a nessuno di quello che sto per dirti.»

«Lo prometto» mi rispose serio.

Pensai all'ironia della situazione: stavo facendo promettere ad un altro quella stessa promessa che io stavo infrangendo. Strappai via il cerotto: «Sono un lupo mannaro» dissi, guardandolo negli occhi. Stiles tirò un sospiro, quasi sollevato dal fatto di avere ragione. Annuì leggermente con la testa per farmi capire che potevo continuare. 

«Sono nato in un branco centenario di lupi mannari quindi lo sono dalla nascita. Esistono anche altre creature soprannaturali come coyote mannari, giaguari mannari, berserker, wendingo, kitsuni, banshee e via dicendo. Ogni creatura ha le sue caratteristiche, le sue debolezze e soprattutto i suoi poteri.»

«Quali poteri hai?» mi interruppe curioso, con gli occhi indiscreti di chi ha fame di conoscenza. 

«Forza, velocità, riflessi più veloci, guarigione accelerata, assorbimento del dolore, udito e vista migliori, cose così.»

«Wow... E la storia della luna piena?»

«Vera... porta un po' di scompensi, sai, rabbia immotivata, sete di sangue» lo vidi sbiancare un po'. 

«Davvero?»

«Sì ma è una cosa che si impara a controllare, soprattutto se ci nasci.»

Mi resi conto della leggerezza con cui ne stavamo parlando. Avevo svelato ad un umano uno dei segreti più antichi e protetti del mondo e ne discutevamo come se fossero chiacchiere da bar. La verità è che sentivo il cuore più leggero ad ogni domanda che Stiles mi faceva e sapere che ero io l'oggetto del suo interesse gonfiava il mio ego più di quanto avrebbe dovuto. 

«Mi fai vedere?» osò chiedermi sapendo che non aveva troppe possibilità di essere soddisfatto. Difatti il mio carattere duro e severo stava già aprendo bocca per affermare di non essere uno spettacolo da circo quando mi misi nei panni di Stiles, costretto a credere ciecamente a tutto quello che dicevo e senza uno straccio di prova. Per questo, chiusi la mano destra a pugno in mezzo a noi e quando la riaprii di scatto feci uscire gli artigli. «Cavolo!» Stiles quasi saltò su dalla sedia. A differenza di come avrebbe reagito chiunque, nei suoi occhi non vedevo paura, né ribrezzo. Era semplicemente curioso, e non di quella curiosità avida e invadente, bensì di quella genuina, dove l'interesse è autentico. Eppure il pensiero di apparire ai suoi occhi come un mostro mi infastidiva e mi disturbava immaginare che questo sarebbe stato il ricordo che avrebbe avuto di me se mai mi avesse pensato (lo speravo?) dopo quel giorno. Fu per questo che ritirai la mano mentre la stava ancora osservando a bocca aperta. Pensai a cosa potevo fare per scacciare quel ricordo e l'unica cosa che mi venne in mente fu il sostituirlo con un altro (fortunatamente il mio corpo era abbastanza in forze per questo anche se non avrebbe potuto sopportare una trasformazione completa). 

«Okay, aspetta, guarda qui» gli dissi e chiusi gli occhi per concentrarmi. 

«Cosa devo guard-» si interruppe a metà quando sollevai le palpebre e le piccole iridi verdi erano diventate blu, luminose e brillanti. Stiles mi fissava, come ipnotizzato, senza dire nulla. Quando il silenzio rese la situazione più strana di quanto già non fosse, disse: «Sono bellissimi» con il tono di chi non crede a quello che vede e facendomi sentire in imbarazzo (non ricordavo l'ultima volta che era successo, se era successo) per cui richiusi gli occhi e li feci tornare normali. 

«Sono belli anche così» mi sorrise. Feci finta di niente perchè non sapevo cosa dire. Cambiai argomento.

«Dunque, il triskelion è un simbolo legato ai lupi mannari ma come ti ho detto significa molte cose e non so cosa volesse dire per tua madre» spiegai dispiaciuto.

«Pensi che lei fosse un lupo mannaro?» 

«Non posso dirlo con certezza ma doveva avere a che fare con questo mondo... sarebbe potuta diventarlo dopo averti avuto se un lupo mannaro l'avesse morsa e se eri così piccolo potresti non essertene accorto.» 

«No, ci ho pensato a lungo in questi anni e non credo che lo fosse» disse come rassegnato. «Adesso puoi dirmi cos'è successo davvero l'altra notte?» 

Gli raccontai della mattina in cui avevo sentito la traccia, di quella notte, di come avessi trovato il demone e del ragazzo che non ero riuscito a salvare. La prima cosa che mi disse fu: «Come ho detto prima, non è colpa tua.»

«Avrei potuto salvarlo» mi lasciai sfuggire pensando a voce alta. 

«Non hai fatto forse il possibile per riuscirci? Non è colpa tua ma di quel coso, quel demone, okay?» Stiles alzò la voce per assicurarsi che avessi capito. Mi fece sentire un po’ meglio e provai dopo un'infinità di tempo il sollievo che viene dopo aver condiviso un'angoscia con qualcuno, come se il peso si dividesse in due e una parte cominciasse a portarla l'altro. 

 

«A proposito del demone, scusa se non te l'ho detto prima» si alzò e andò a rovistare in una scatola rettangolare nel ripiano più alto della sua libreria. Mi alzai per vedere cosa facesse e quando si girò aprì la mano davanti la mia. 

«L'ho trovato per terra quando ti ho visto, non so perchè l'ho preso però forse può aiutarti?» Nel suo palmo era poggiato un artiglio (più lungo e appuntito dei miei), quasi completamente nero e molto sporco, di quelli che avevano lacerato la gola di Tyron e che probabilmente il demone aveva perso. 

«Sì, è decisamente utile, bel lavoro» gli dissi mentre allungai la mano per prenderlo ma lui la chiuse a pugno. 

«Fammi venire con te» disse guardandomi determinato fisso negli occhi. 

«No, non se ne parla.»

«Andiamo, posso aiutarti! Sono un criminologo e imparo in fretta!» supplicò. 

«No. Non voglio averti sulla coscienza.»

«Ma non mi avrai sulla coscienza se non mi succede niente e poi te lo sto chiedendo io, so che è pericoloso.»

Mi avvicinai bruscamente, forse troppo. 

«No. Tu non lo sai, non sai proprio niente. Basta un errore, uno solo, e siamo spacciati. L'ho visto con i miei occhi quel coso, quello che sa fare.» Volevo spaventarlo, è vero, ma lo stavo facendo per il suo bene. 

«Tutto questo... potrebbe avvicinarmi a mia madre» disse con lo sguardo basso.

«Ti prego, non mi chiudere fuori adesso che so finalmente qualcosa!» mi guardò per farmi capire quanto fosse importante per lui tutto questo. L'idea di andarmene via da quella stanza e non rivederlo mai più mi amareggiava, lo avevo ammesso a me stesso, ma non potevo assumermi quel carico di responsabilità. Non ero più un lupo da branco, il lavoro di squadra non era il mio forte e da anni me la sbrigavo da solo. Mi voltai per andare a prendere il mio telefono, me ne sarei andato e basta. Poi Stiles aggiunse: «Se non potrò venire con te, lo farò da solo. E sai che questo è ancora più pericoloso.»

L'immagine di Stiles ai piedi del demone con la gola aperta come la scena a cui avevo assistito mi fece venire i brividi. 

«E poi» aggiunse sorridente (perchè aveva già capito dalla mia espressione che mi aveva fregato) «questo l'ho trovato io e tu sei ancora in debito con me.»

Mi scappò un sorriso. 

«Credevo che la storia del debito fosse finita quando ti ho raccontato un segreto millenario infrangendo una promessa di sangue» (la feci più tragica di proposito). Lui rise, poi mi lanciò l'artiglio che afferrai al volo. 

«Ascolta. Regole» gli dissi. 

«Spara.» 

«Non farai cazzate. Non ti metterai in pericolo. Non mi contraddirai. E se ti dico di scappare tu scappi.»

«Chiaro. Allora, dove andiamo?» si mise le mani sui fianchi. 

«A trovare un vecchio amico, ma prima devo passare da casa. Ci vediamo alle 16 alla clinica veterinaria in Leadwell Street, la conosci?»

«La troverò.»

«Bene, a dopo allora.»

«A dopo» disse con tono pacato ma cercando chiaramente di nascondere l'euforia che lo avrebbe fatto scalpitare come un bambino prima di andare al luna park. Mi accompagnò alla porta. «Hei» mi chiamò prima di chiuderla alle spalle. Mi voltai dopo aver sceso qualche gradino. «Non te ne pentirai» mi sorrise riconoscente. Mi limitai a sorridere di rimando perchè in quel momento non lo sapevo, e non lo avrei saputo per altro tempo ancora - un periodo in cui mi torturai sulle decisioni che avevo preso - ma contrariamente a quanto suggerivano i dubbi che mi sorgevano mentre tornavo a casa, quella fu una delle decisioni migliori della mia vita. 

 

IV


Per tornare a casa impiegai poco tempo, Stiles abitava a due isolati da me come mi resi conto appena lasciai il suo appartamento, per cui dopo dieci minuti di camminata (non troppo veloce perchè la caviglia mi faceva ancora male) stavo già aprendo il portone di casa. Con l'udito da lupo cercai di capire se Mrs. Crowford fosse in casa e appena tesi l'orecchio sentii lo sportello del suo forno che si apriva e la televisione della sua cucina parlare dei benefici del caffè ma solo dopo che ebbi bussato il campanello della sua porta mi resi conto che sembravo uscito da una rissa da bar, con un taglio in fronte e zoppicante. Prima che potessi ripensarci venne ad aprire con i guanti da forno ancora indosso. L'ondata di profumo di dolce mi fece capire quanto mi fosse mancata.

«Caro, sei tu! Mi hai fatta preoccupare! Stai bene?» mi prese la testa tra le mani e la abbassò all'altezza dei suoi occhi per esaminare da vicino la ferita. 

«Mrs. Crowford! Sto bene, non si preoccupi, sono passato a dirle che è tutto apposto, stia tranquilla. Ho avuto un po' di grane a lavoro» le sorrisi e alzai le spalle per farle capire che non era nulla di grave. 

«Forza entra, ho fatto i biscotti allo zenzero» disse mentre già si voltava per tornare dentro senza lasciarmi altra scelta che seguirla lungo il corridoio d'ingresso sulle mattonelle di graniglia di marmo anni '70. Fortunatamente dopo sei biscotti e due bicchieri di succo capì che avevo bisogno di andare a casa e mi rilasciò come si fa con un ostaggio.

 

Nel mio appartamento c'era l'aria pesante di un posto che non aveva preso aria per due giorni e la terra nei vasi delle piante era decisamente secca. C'era qualcosa di tremendamente suggestivo nel prendermi cura di quelle piante (due edere dorate sulle mensole in salotto, una medinilla sul davanzale in cucina, una palma areca all'ingresso) e capii presto essere il nesso con la casa della mia infanzia - adesso in cenere - immersa nel bosco, dove ogni mattina potevamo correre senza nascondere la nostra natura, liberi e affamati, pronti alla caccia. Quando mi ritrovai di fronte allo specchio del bagno dopo una doccia calda e rigenerante notai che ero pallido, col volto più scavato del solito, ma almeno il taglio stava guarendo molto in fretta e un paio d'ore dopo avrei potuto togliere i punti che Stiles mi aveva messo. Pensare a lui così vicino al mio volto mi fece sorridere per meno di un attimo ma in fretta scacciai il pensiero. Dopo aver mangiato quello che non era andato a male in frigo dopo la mia assenza, mi stesi sul divano ed ero così stanco e lui era così comodo che scivolare nel sonno fu molto più facile che tenere gli occhi aperti. Prima di crollare scrissi a Cam: “Sto bene. Sì, c'entra il St. Mary's Park. Ho una pista, ti terrò informata.”

Mi addormentai prima di rendermene conto. 

 

Alle 16 meno cinque minuti mi trovavo davanti la clinica veterinaria in Leadwell Street, soleggiata e primaverile, circondato da persone di ogni tipo che andavano e venivano ad entrambi i lati della strada. Quasi completamente rigenerato, senza punti alla fronte, con la caviglia completamente guarita, lo stomaco pieno (anche se avevo sempre fame, uno dei lati negativi dell'essere un lupo mannaro) aspettavo Stiles sui gradini del palazzo di fronte la clinica, meravigliato dal via vai di cani, gatti, conigli e porcellini d'india domestici a cui avevo assistito solo negli ultimi cinque minuti. Stiles arrivò dopo poco. 

«Ehi» disse. 

Si era cambiato anche lui i vestiti e vederlo con tutta quella luce attorno, all'aria aperta, mi fece apprezzare di più le sfumature dei suoi occhi, le diverse gradazioni di castano nei suoi capelli e la tonalità chiara della sua pelle, resa palese dalle braccia lasciate scoperte dalla maglietta a maniche corte. 

«Sei in ritardo» mi finsi irritato. 

«Di un minuto!» mi mostrò l'orologio digitale sul polso sinistro che indicava le 16:01.

«Per questa volta passi» gli sorrisi. Quasi non mi riconoscevo. Ero passato dal non volerlo con me a scherzarci come uno scemo nel giro di qualche ora. 

«Andiamo» mi imposi di essere più professionale. Attraversammo la strada e ci dirigemmo a pochi metri dalla porta della clinica da cui stava uscendo un cliente con un cane grande il doppio di lui tra le braccia. 

«Dove siamo?» chiese Stiles, ma prima che potessi rispondergli ci eravamo già fermati davanti la piccola porta in legno antico che passava completamente inosservata a chiunque a causa della dimensione estremamente modesta del negozio. Sollevò la testa e lesse ad alta voce l'insegna in alto: «Emporio Walgreen - Dove le cose girano per il verso giusto. Andiamo in un emporio?» 

«Non esattamente.» Impugnai la maniglia, molto più nuova e moderna rispetto al legno venoso e pregiato della porta, come avevo avevo già fatto diverse volte. Al posto di spingere verso il basso, però, indirizzai il manico verso l'alto. Un fascio di luce blu illuminò i brodi dell'infisso, scivolando sotto e ai lati. 

«Che cavolo…» Stiles fece un passo indietro meravigliato. 

«Il verso giusto? È questo che vuol dire l'insegna? Di tirare verso l'alto?»

Mi sentivo pieno di orgoglio per quel trucco da quattro soldi che Walgreen aveva messo su, solo perchè ero riuscito a stupirlo. 

«Vai avanti tu» gli feci cenno con la mano. Non esitò neanche un attimo prima di spingere la porta ed entrare. Lo seguii e chiusi la porta alle mie spalle che emanò di nuovo un lampo di luce, ma Stiles non se ne accorse perchè stava già ammirando l'interno di uno dei posti più ammalianti e mistici di Manhattan. 

 

Un manto di nuvole bianche e sfumate aleggiava molto al di sopra delle nostre teste nascondendo il soffitto (molto più alto di quello che sarebbe dovuto essere) da cui scendevano innumerevoli lampadari carichi di candele luminose. Nonostante fuori il sole ancora illuminava la città, dentro l'atmosfera di mistero era accentuata dalla luce soffusa che creava delle ombre bluastre. 

Come sempre quando venivo qui, non riuscivo a vedere le pareti, troppo lontane e semi nascoste dalla nebbia, e tutta la stanza sembrava un unico ambiente interminabile. Stiles camminava lentamente davanti a me, visibilmente scioccato. Migliaia di libri erano disposti in centinaia di librerie troppo alte per vederne la fine, interi scaffali erano zeppi di piccole ampolle di vetro e flaconi con tappi di sughero ripieni di liquidi di tantissimi colori diversi, molte statue a mezzo busto erano sparse in giro e in generale la confusione regnava sovrana in mezzo a strumenti di ogni tipo. 

Un'infinita varietà di cimeli erano poggiati su mobili altrettanto antichi molti dei quali ricoperti o rifiniti d'oro scintillante, cavalletti di legno su cui poggiavano dipinti autentici raffiguranti paesaggi e volti di ogni tipo e numerosi specchi di tutte le forme con cornici placcate d'oro. La bottega così piccola che veniva facilmente trascurata (scelta intenzionale del proprietario) si rivelò essere così un luogo sconfinato dove i margini della stanza non erano neanche lontanamente visibili. 

Stiles si girò verso di me mentre continuavamo a camminare e senza far uscire nessun suonò mimò con la bocca le parole «Oh mio Dio!» con un'espressione tra lo sconvolto e il meravigliato di cui faceva una buffa caricatura. Passai di fianco la teca con la piccola iguana (non più tanto piccola, cresciuta almeno il triplo rispetto all'ultima volta che ero andato lì) e la salutai con un colpetto sul vetro. 

«Come va Murph?» le sussurrai. Stiles che nel frattempo aveva continuato ad avanzare si girò verso di me e, non potendo più frenare il suo entusiasmo, esclamò: «È più grande all'interno!» attestando l'ovvio, con le braccia spalancate verso l'alto.

 

«Adoro quando lo dicono» rispose la voce alle sue spalle che non aveva mai sentito facendolo sobbalzare e fare un passo indietro. Il tipo di ingresso ad effetto per cui viveva Walgreen. Apparve di soppiatto, in piedi, in uno dei suoi migliaia di completi chic. Gli occhi gialli e felini si incastravano alla perfezione nel volto appuntito dal taglio di zigomi inusuale - che ricordava il più sofisticato dei gatti - e con l'incarnato scuro che palesava le sue origini ivoriane. Aveva i capelli sempre perfettamente sfumati dal collo alla linea delle orecchie dove corti ricci afro - neri e rossi - spuntavano ordinati. I piccoli orecchini luminosi illuminavano il volto truccato. La pelle liscia e tirata e il naso piccolo ma schiacciato lo ringiovanivano e si sposavano alla perfezione col suo fisico asciutto. Indossava una sfarzosa giacca di lustrini in tutte le sfumature conosciute del blu che simulavano l'effetto del mare e un pantalone nero classico per bilanciare. Nonostante tutti gli elementi presi singolarmente (i capelli rossi, il make up, gli orecchini, le giacche pompose) potessero sembrare troppo, nell'insieme era l'incarnazione della raffinatezza e nulla sembrava fuori posto, come se fosse nato così. 

 

«C...Ciao» gli disse Stiles. 

«Un umano!» si portò la mano al petto in un gesto teatrale mentre mi guardava in cerca di spiegazioni ma già col sorriso sornione di chi si godrà la situazione. 

«Stiles, lui è Walgreen. Walgreen, Stiles» li presentai. 

«Chiamami Wal» gli porse la mano. 

«No, non farlo» aggiunsi. 

Stiles gliela strinse imbarazzato. 

«Una parola?» Walgreen mi sorrise e si voltò senza aspettare la mia risposta. Guardai Stiles per rassicurarlo: «Non preoccuparti, rimani qui e... non toccare niente.»

Gli diedi una pacca sulla spalla prima di rendermene conto e mi chiesi se non fossi stato inopportuno mentre pensavo che quella era la prima volta che ci toccavamo (che io ricordassi, perchè non avevo memoria della notte in cui mi aveva trovato e sicuramente ci eravamo toccati. Ma poi che importava?)

 

«Dimmi tutto» dissi a Walgreen quando lo raggiunsi dietro un paio di librerie. 

«Oh, secondo te cosa voglio dirti? Gli hai raccontato tutto?»

«Sì, ma possiamo fidarci. Sua madre sapeva di noi... probabilmente.»

«Probabilmente?»

«Senti, mi ha salvato la vita e aveva già capito tutto prima che glielo dicessi io.»

«Spero che tu sia sicuro di quello che fai, Hale.»

«Lo sono» mi mostrai più convinto di quanto fossi in realtà. 

Quando tornammo da Stiles lui stava guardando con adorazione un pianoforte a coda color  avorio, mentre con una mano ne accarezzava delicatamente il profilo (immaginai di essere il pianoforte e allontanai subito il pensiero). 

«Si vede che hai buon gusto» disse Walgreen per richiamare la sua attenzione. 

«Allora, che cosa vi porta qui?» Walgreen battè le mani e se le sfregò. 

Gli raccontai tutto quello che era successo negli ultimi tre giorni e Stiles riportò tutto quello che aveva visto quando mi aveva trovato. Walgreen si tamburellava le dita sul labbro inferiore, annuiva con la testa e quando finimmo di spiegare chiuse gli occhi in due fessure nello sforzo di concentrarsi.

«Dimmi di più del suo aspetto» chiese. 

«Due metri, occhi rossi, corna lunghe e curve, artigli e zanne appuntiti, pelle dura come il marmo e sangue nero nelle vene» elencai tutto quello che ricordavo tralasciando le sensazioni di terrore e paura che provocava la sua presenza. Tirai fuori l’artiglio che Stiles aveva raccolto quella notte.

«Abbiamo questo. Appartiene al demone» lo poggiai nel palmo di Walgreen. Lui si girò per afferrare due delle boccette sulla mensola di uno degli scaffali alle sue spalle. In uno dei piccoli vasi vuoti sul tavolo che ci separava inserì l’artiglio, poi la polvere gialla e quella rossa delle boccette. Prese dalla sua sinistra una pozione fumante trasparente e la versò fino a riempire quasi completamente quel piccolo calderone dal contenuto ormai rossastro che emanava fumo come una vecchia ciminiera. 

«Oh» disse alzando l’indice ricordandosi l’ultimo ingrediente necessario. Schioccò le dita e nella sua mano apparve l’ennesima provetta. Con la precisione di un chirurgo fece cadere una sola goccia del contenuto. Sollevò la miscela e inspirò i vapori. Per qualche secondo perse conoscenza e sotto le palpebre chiuse le sue pupille viaggiavano alla velocità della luce. La sua testa provava a stare dietro a tutte le informazioni che gli arrivavano zigzagando nell’aria. Guardai Stiles che per tutto il tempo aveva osservato in silenzio con l’attenzione di chi dopo dovrà replicare quello che vede. 

«Tutto apposto, è normale» gli dissi per rassicurarlo. 

Pochissimo tempo dopo Walgreen tornò fra noi, tirò un sospiro e sentenziò: «Come pensavo, un Ghul.»

Vide le nostre facce interrogative e partì in una descrizione degna dei documentari di National Geographic Channel in versione soprannaturale col suo accento straniero. 

«Okay allora, sono demoni, come avevi detto giustamente tu» mi indicò «ma un tipo abbastanza raro perché per venire al mondo... beh la situazione è piuttosto rara. Sono demoni collegati» mimò con le dita delle virgolette immaginarie per aria «ad esseri umani comuni. Spesso loro imparano a controllarli, per questo ho motivo di credere che quando stava per attaccarti il suo padrone - o la sua padrona - lo abbia richiamato, altrimenti non avrebbe perso l’occasione di ucciderti. A parte l’essere terribilmente forti e schifosamente brutti ognuno di loro ha una caratteristica che proviene dalle situazioni in cui sono nati: nel nostro caso la neve.»

Io e Stiles ascoltavamo rapiti. 

«Ne ho incontrato uno, decine di anni fa, in Cile. L’aspetto è sempre lo stesso ma quello… Era nato durante un terremoto che scatenò un terribile tsunami. Un uomo aveva perso la moglie e le due figlie piccole durante il disastro e il suo dolore fu così forte da creare un Ghul. Sono creature potentissime proprio perché fondono un dolore e una rabbia molto forti. Ogni volta che il padrone lascia libero il Ghul e questo uccide qualcuno si verifica l’evento. Quindi… potete immaginare la tragedia di uno tsunami così di frequente. Mieteva molte più vittime di quante neanche intendesse ucciderne.»

I suoi occhi riflettevano la disperazione di quella situazione. 

«Come lo avete fermato?» chiese Stiles. 

«C’è solo una cosa che può fermare un Ghul: il Dirkey, un pugnale molto potente» alzò la mano in aria e dal nulla uno dei libri antichi molto lontani da noi gli volò nelle mani. Walgreen lo poggiò sul tavolo, cercò una pagina specifica e ruotò il libro nella nostra direzione. Sulla pagina ingiallita dal tempo indicò con l’indice la figura di un pugnale. 

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«Come lo troviamo?» chiesi. 

«Questa è la parte difficile. Questo pugnale si compone di tre pezzi: primo, la lama, secondo al centro, la guardia, terzo ed ultimo, l’elsa, ossia il manico. Quando sconfiggemmo quello in Cile ognuno dei tre Supremi ne prese un pezzo e lo nascose. Non ci diranno mai dove sono, l’unica cosa che possiamo fare è cercarli, ma non andremo al buio. Ho toccato il pugnale con le mie mani, quindi posso cercare di stabilire una connessione e darvi degli indizi.» Stiles non sembrava affatto preoccupato, anzi. L’espressione accesa sul suo volto sembrava gridare Sono pronto! come se si preparasse a questo da una vita. 

«Cosa succederà all’umano dopo che avremo ucciso il Ghul?» chiesi. Walgreen parve meravigliato dalla mia domanda. 

«Quello in Cile si salvò, ma non è una certezza.» Fui parzialmente sollevato della risposta. Un conto era far fuori demoni assetati di sangue, un altro era uccidere umani consumati dalle tragedie della vita. 

«Bene allora, vi terrò aggiornati e quando avrò qualcosa vi contatterò» concluse Walgreen. «Nel frattempo, il mio consiglio è di non provare a combatterlo. È troppo forte e hai visto cosa può fare» mi guardò. Un moto di rabbia mi partì dallo stomaco. Non poter combattere era una delle cose che più mi infastidiva, soprattutto quando questo voleva dire lasciare a piede libero un fottuto demone. 

«Ragazzo, fallo ragionare in caso voglia buttarsi in una missione suicida.» si rivolse a Stiles che imbarazzato non rispose. 

«Puoi prestarmi qualche libro sui Ghul?» chiese quasi intimorito. 

«Certo! Allora fammi pensare» iniziò a schioccare le dita in aria e ad ogni colpo sul tavolo si materializzava un libro (il più esile era spesso poco più di 10 centimetri) pieno di polvere. Al quinto schiocco Stiles iniziò visibilmente a preoccuparsi per la sua schiena, che avrebbe dovuto sopportare tutto quel peso nel viaggio fino a casa. Fortunatamente Walgreen si fermò. 

«Indirizzo?» gli chiese. Stiles non capì subito cosa intendesse ma, troppo sveglio per non arrivarci, dopo pochi secondi rispose: «2080 Madison Avenue, scala A, secondo piano, appartamento 6.»

Un ultimo schiocco e i libri non c’erano più. 

«Fighissimo!» si lasciò scappare Stiles. 

«Ultima cosa» ci disse Walgreen mentre stavamo per andar via «Quando credete di essere vicini al pezzo del pugnale che state cercando ringhia silenziosamente» mi guardò puntandomi l’indice. 

«E adesso fuori, sto aspettando un caro amico.»

 

V

 

Quando uscimmo il sole era ancora abbastanza alto nel cielo e non sarebbe tramontato prima delle 20. 

«Wow, decisamente più spassoso di un emporio» commentò Stiles. 

Iniziammo a camminare sul marciapiede verso Ovest. Lui alla mia destra aveva le mani nelle tasche del pantalone, una camminata non troppo sicura e il sole proiettava le nostre ombre per terra. Non mi preoccupai di definire dove stavamo andando perché la possibilità che ci dovessimo separare non mi piaceva, così preferii rimanere nell’ignoto e mettere un passo dietro l’altro. 

«Walgreen… cos’è esattamente?» chiese. 

«Un Nissen. Non ce ne sono molti, soprattutto a New York.» 

«È tipo uno stregone?» 

«Non esattamente. Lui non è una creatura magica ma è nato col dono di poter imparare ad usare la magia e insomma… ci è riuscito molto bene» parlavo a voce non troppo alta per far in modo che nessuno dei passanti potessi sentirci. 

«Il terremoto di cui parlava in Cile… è successo nel 1960. Questo significa che ha più di settant’anni!»

Il suo entusiasmo mi metteva di buon umore. Non avevo mai riflettuto su alcune cose in quella prospettiva e guardarle con gli occhi di Stiles rendeva anche le cose più scontate che sapevo da quando ero un bambino, curiose. 

«Ha molto più di settant’anni» gli sorrisi. 

«Oh mamma, mi sembra di essere in una di quelle storie che inventavo quando avevo 10 anni e volevo credere nella magia e sconfiggere i cattivi con la mia spada laser» ammise. Risi di gusto come non facevo da un bel po’. 

«La prossima volta puoi chiedere a Walgreen se ne ha una da prestarti.»

Fece una faccia sconvolta: «Aspetta, stai dicendo sul serio o mi stai prendendo in giro?» e mi fece ridere ancora di più. Quando si rese conto che stavo scherzando mi diede un colpetto sotto la spalla: «Non farlo più! Ci ho quasi creduto!» rise anche lui. Continuando a camminare arrivammo su Park Avenue dove il marciapiede diventava più largo, le persone diminuivano e il Garvey Park era alla nostra sinistra, con gli alberi in fiore che profumavano di tiglio e magnolie. 

«Sai, sento che devo chiarire questa cosa» cominciò. 

«Quando stamattina ho detto che sono un criminologo ho esagerato un po’... in realtà sono all’ultimo anno di college, poi potrò diventarlo.» 

Mi chiesi quante volte in quelle ore avesse pensato alla piccola bugia che aveva detto. «Però è vero che imparo in fretta e mi metterò subito a lavoro su quello che mi ha dato Walgreen.»

Dovevo averlo proprio spaventato se ci teneva così tanto a dimostrarmi di potermi aiutare. La verità era che mi faceva comodo un cervello in più se c’era da risolvere rompicapi e svelare misteri ma non gli avrei mai permesso di combattere o anche solo provarci per poi avere un’altra anima sulla coscienza.

«Bene, dobbiamo muoverci. Ogni giorno che passa il Ghul potrebbe uccidere qualcun altro.» «Già…» rispose. 

«Ti va se ci sediamo?» disse mentre con l’indice indicava uno degli ingressi del parco. 

«Certo» lo seguii. 

«Adoro questo posto, è meno affollato di Central Park ma alcuni punti sono anche più belli.» Scendemmo le scalinata di pietra. Tutto intorno il verde primeggiava e lasciava spazio solo ai colori dei fiori e al grigio degli enormi massi sparsi che d’inverno gelavano così tanto da diventare blocchi di ghiaccio. Passammo davanti numerose panchine ma nessuna sembrava soddisfare Stiles che continuava a camminare tra gli alberi secolari e i piccioni confabulanti. Le uniche volte in cui ero stato lì era in pieno inverno e i rami secchi erano macchiati dalla neve così come alcuni punti del terriccio. Ma, ammettevo in quel momento a me stesso, la primavera gli conferiva un’aria dinamica ed energica che vinceva decisamente su quella pigra e cupa dell’inverno. Il sole docile del pomeriggio inoltrato rendeva tutto ciò che ci circondava giallo miele come in una vecchia polaroid. Pensai a quanto avrei voluto che mia madre fosse stata lì per vederlo. Quando arrivammo di fronte l’unico albero di olmo del parco (così grande che avrebbe potuto ospitare una colonia di scoiattoli, con le foglie nuove miste tra il giallo e il verde chiaro) Stiles decise di sedersi.

 

Poggiava i gomiti sulle ginocchia e si manteneva la testa sotto il mento quando mi disse: «Adoro i posti come questo… mi ricordano mia madre, le passeggiate che facevamo quando era viva. Spesso non riesco a dormire, per questo ci vengo anche di notte, quando sono chiusi. Ecco perché ti ho trovato» girò la testa verso di me ma continuò a guardare dritto. «Immagino che dovessi saperlo» concluse. Solo in quel momento realizzai che non gli avevo effettivamente fatto quella domanda e poi semplicemente l’avevo dimenticato, fidandomi quasi ciecamente già dal primo momento che mi aveva parlato. 

«Posso farti delle domande?» chiese. 

«Sentiamo.»

Lo vidi ragionare per decidere l’ordine e scegliere la prima. 

«Tutti i lupi mannari hanno gli occhi azzurri come i tuoi?» 

«No. La maggior parte li ha gialli. Gli alpha, cioè i leader di un branco, li hanno rossi. Gli unici ad averli azzurri sono quelli che… beh quelli che hanno commesso un omicidio importante.»

Dissi la verità. Non volevo mentire (né omettere facendo finta che non fosse ugualmente una menzogna) e non sentii Stiles giudicarmi, né avere paura. Potevo vedere solamente il suo profilo e non batté ciglio. Di una cosa ero inspiegabilmente convinto: non volevo che pensasse male di me (al contrario di chiunque altro avessi mai incontrato prima di cui ignoravo totalmente le opinioni) per cui aggiunsi: «Mio zio. Lui ha appiccato l’incendio in cui è morta quasi tutta la mia famiglia e tutto il mio branco.»

Mi chiesi cosa ne pensasse e se nella sua testa si fosse detto Poteva evitare di ucciderlo.

Ad ogni modo, ancora una volta, la sua espressione rimase la stessa. 

«Non te l'avrei chiesto» disse. 

«Adesso non hai un branco?» 

«No, non più.» 

«Beh, hai qualcosa di meglio di un branco, adesso» tornò indietro con il busto sulla panchina per guardami.

«Uno Stiles!» indicò con gli indici il suo volto e sorrise. 

«Che idiota» mi fece ridere. 

«Non mi chiedi quali super poteri ho?» 

«Sentiamo.»

Iniziò a fare un elenco portando il segno con la mano destra e partendo dal mignolo. 

«Studio molto, bevo grandi quantità di thè, so suonare il pianoforte e sono un criminologo quasi finito» sorrise con aria convinta. 

«Oh credo che sia molto utile» dissi. 

«Se sai suonare così male da spaccare i timpani al Ghul potremmo avere una possibilità.» «Allora forse dovremmo provare a buttargli addosso del thè bollente perché sfortunatamente non faccio così schifo.»

Lo immaginai seduto sullo sgabello nel suo appartamento intento a suonare. 

«Sono già finite le tue domande?»

Rifletté ancora. 

«Puoi diventare un vero lupo?»

Quella domanda fece un po’ male ma come prima, scelsi la verità. 

«Potevo. Adesso non ci riesco più.» 

«Oh, mi dispiace.» Seguì un momento di silenzio. 

«Com’è essere un lupo?».

Ci pensai, ritornando con la mente a quando avevo corso nelle foreste tropicali dell’Indonesia dopo aver sconfitto il Pendakian, ma in realtà non avevo bisogno di sforzarmi per ricordarmelo, ci pensavo ogni giorno. 

«A volte lo sogno ancora, di correre nella foresta da lupo. È come essere un tutt’uno con quello che ti circonda. Vedi a 360° anche se continui ad avere solo due occhi perché i sensi sono così acuti che ti senti completamente immerso nella realtà e non la stai solo vivendo, la stai assorbendo. Non si tratta solo di sentire il terreno sotto i piedi e il vento in faccia mentre corri, non è assolutamente solo quello, è molto di più. E quando l’hai provato e poi non puoi più farlo… fa schifo.»

Non avevo raccontato a nessuno di non riuscire più a diventare un lupo, neanche a coloro che avrebbero potuto aiutarmi dicendomi perché mi stava succedendo. Me ne rendo conto adesso, mentre allora forse lo nascondevo a me stesso e facevo finta che non ci fosse un problema di fondo ripetendomi che fosse qualcosa che poteva capitare.

«Puoi trasformare gli altri in lupi mannari?» si passò una mano tra i capelli per sistemarli, un gesto più automatico che necessario.

«Sì, ogni lupo può trasformare un umano con il morso.»

Stiles mi guardò e alzò le sopracciglia in modo suggestivo. 

«No. Levatelo dalla testa. Questa non è una cazzo di commedia allaTwilight dove mi preghi di trasformarti e alla fine della fiera ti accontento.»

Ridemmo di gusto. 

«Okay okay stavo scherzando» ammise.

«Anche se per adesso vedo solo lati positivi.»

«Oh, capisco. Ma non è facile come sembra, soprattutto all’inizio. Perdere il controllo è un attimo.»

«E cosa mangi? Ti prego non dirmi scoiattoli, non potrei sopportarlo. Meglio se mi dici che ti pappi i criminali.»

«Niente scoiattoli. Ma comunque carne fresca, almeno ogni tanto. Nel giro della carne umana ci sono stato qualche anno fa ma ho smesso, troppo impegnativo e crea dipendenza.»

Di nuovo, parlavamo di mangiare carne umana come se fosse una conversazione sul tempo. 

«Ma mangio soprattutto cibo normale, non potrei rinunciarci.»

Sorrise. «Credo di aver finito le domande, per adesso.»

 

VI


Circa due settimane dopo Walgreen ancora non ci aveva fatto sapere il primo indizio per trovare la lama del pugnale. Avevo informato Cam su quello che era accaduto e le avevo spiegato a grandi linee la faccenda del Ghul e dei pezzi da trovare del Dirkey. 

“Fammi sapere se posso aiutarti” aveva risposto. In realtà temevo che il suo aiuto ci sarebbe servito per nascondere la scia di corpi che avrebbe portato con sé il demone. 

La notizia di Tyron aveva creato scalpore e panico generale e se ci fosse stata un’altra vittima la cosa sarebbe diventata molto più difficile da gestire. 

 

Avevo sentito Stiles un paio di volte, mi chiedeva se Walgreen avesse novità. Poi, un pomeriggio, mi disse che aveva scoperto qualcosa sui Ghul e che sarei dovuto andare da lui, per cui mi avviai a piedi. L’arrivo di giugno aveva colorato ancora di più i viali di New York e persino la freneticità degli abitanti in abiti eleganti da ufficio e dei turisti che non avevano mai abbastanza tempo per visitare tutto quello che avrebbero voluto acquistava un senso di spensieratezza. 

Svoltai in Madison Avenue e pochi minuti dopo bussai al campanello della porta di Stiles. Aveva un aspetto trascurato nonostante l’odore del suo bagnoschiuma mi invadeva le narici e i capelli fosse splendenti. Eppure le piccole occhiaie sotto i suoi occhi e la felpa grigia stropicciata da casa mi facevano pensare che si fosse davvero buttato nelle ricerche come aveva promesso di fare dimenticandosi di continuare a vivere la vita che conduceva fino a due settimane prima. 

«Vieni entra» disse facendosi da parte per lasciarmi passare e chiuse la porta alle mie spalle. Anche l’appartamento infondeva la stessa sensazione di negligenza nonostante non fosse polveroso o mal messo. In quel caso, dipendeva tutto dalla confusione di libri aperti (sulla scrivania, sul pavimento, sul coperchio del pianoforte), da fogli stampati e incollati alla parete con un pezzo di scotch trasparente (tra cui riconobbi un articolo di giornale sugli inspiegabili maremoti in Cile negli anni ‘60) e dal nuovo pezzo di arredamento che non era presente l’ultima volta che ero stato lì: una lavagna bianca di un metro per un metro appesa al muro con su scritto tutte le informazioni che avevamo fino a quel momento, parole chiave scritte con il pennarello rosso e una foto di Tyron al quale mi auguravo non se ne sarebbero aggiunte altre.

«Wow, ti sei dato da fare.» Sembrò non farci neanche caso, come se tutta quella indagine non fosse nulla di che. 

«Questo? Oh sì, te l’ho detto, studio molto. thè?»

«Sì, grazie» mi chiesi se avrebbe continuato a bere thè bollente per tutta l’estate anche quando fuori ci sarebbero stati più di trenta gradi. 

«Tieni, prova questo» mi porse una tazza fumante. Non avevo mai assaggiato nulla di più strano ma in qualche assurdo modo piacevole. 

«Zenzero, arancia e datteri» mi disse soddisfatto come se stesse svelando il trucco dietro la magia. 

«Buono. Allora cos’hai scoperto?» chiesi dal divano vicino la scrivania. Lui, in piedi di fronte a tutte le sue ricerche, iniziò: «Allora ho studiato i libri di Walgreen e dicono quasi tutto quello che ci ha già detto lui ma in uno di quei libri c’era una specie di paragrafo minuscolo in una lingua assurda che ho scoperto essere moabito cioè una lingua estinta da secoli e parlata da un popolo che abitava sulle coste del Mar Nero. Ma!» esclamò sorridente alzando l’indice «per fortuna in questa lingua ci hanno scritto la stele di Mesha - in cui praticamente si vantava di aver conquistato i moabiti - e sono riuscito a dedurne una specie di alfabeto che mi ha permesso di decifrare il paragrafo.»

Ero allibito. Avevo capito che Stiles fosse molto intelligente e che sapesse molte cose ma da lì a decifrare una stele in una lingua morta ce ne passava parecchio. Avrei potuto sentirlo parlare di quelle cose per ore.

«E cosa dice?» 

«In pratica che uno dei poteri dei Ghul consiste nell’amplificare a dismisura le emozioni di chi gli sta intorno. Cioè, in poche parole, se lo vedi e ti fa molta paura, potresti morire di crepacuore.»

Riflettei. «Ha senso ora che ci penso… Quando l’ho affrontato ho provato molta più inquietudine del solito nonostante non era il primo demone contro il quale combattevo.»

A differenza di quello che mi ero ripromesso, non dissi l’intera verità. Allora potevo solo immaginare che non sarebbe cambiato nulla se avessi detto a Stiles che il senso di angoscia più profondo che avessi mai provato mi aveva quasi paralizzato e che avevo sentivo un vuoto dentro grande quanto una voragine.

«Effettivamente, tutto torna con le condizioni in cui nascono i Ghul, per questo funziona solo con le sensazioni negative: ansia, panico, terrore» ragionò a voce alta. 

«Quindi questo significa che quando lo affronterai dovrai cercare di non pensare in negativo e cercare di non farti condizionare da lui.» 

«Ah beh, un gioco da ragazzi!»

Lo squillo di un messaggio mi distrasse. 

«È Walgreen, dice di avere qualcosa.» 

«Bene! Andiamo lì?» 

Scrissi la risposta: “Siamo da Stiles, arriviamo”.

Dopo neanche dieci secondi il filo precario dal quale penzolava la lampadina che scendeva dal soffitto iniziò a muoversi e sentii i piatti della cucina sbatacchiare tra di loro. A pochi metri da noi un cerchio fatto di scintille aumentava la sua circonferenza rapidamente lasciando intravedere l’emporio stracolmo di libri. Non appena Walgreen lo oltrepassò e il passaggio si chiuse alle sue spalle i fogli di Stiles che non erano attaccati al muro ma semplicemente poggiati per terra e sul tavolo smisero di vorticare nell’aria. 

«Oh! Mio! Dio!» Stiles non stava più nei suoi panni. Per un momento pensai che sarebbe impazzito dato che quasi tutto il suo sistema d’ordine era andato alle ortiche (perché anche se poteva sembrare un’accozzaglia di fogli sparsi un’ordine c’era) invece stava solo sorridendo istericamente per aver visto per la prima volta un portale. 

«Scusate l’intrusione» disse Walgreen sistemandosi il giro manica della giacca rossa sgargiante abbinata con l’eyeliner. 

«Ho pensato che così avremmo fatto molto prima.»

Stiles aveva ancora l’euforia dipinta sul volto. 

«Figurati!» gli disse, come se gli fosse riconoscente del fatto di essergli piombato in casa. «Ho cercato di stabilire il contatto con il Dirkey e sono riuscito ad avere soltanto una visione.» 

«Cos’hai visto?» chiesi. 

«Un leone con degli artigli dorati» 

«E basta?» 

«Purtroppo sì, dovremmo farcelo bastare. Ma è un primo indizio almeno, per trovare la lama.» 

«Bene, ci mettiamo subito a lavoro» disse Stiles determinato. Walgreen si guardò finalmente intorno: «Cavolo, vi siete proprio impegnati» sfiorò con la mano la parete piena di fogli. 

«Fatemi sapere, bacioni» e sparì più in fretta di come era arrivato. 

 

VII


L’entusiasmo per la ricerca non durò molto, almeno per me. Ci mettemmo poco prima di realizzare che una cosa generica come un leone (nonostante il particolare degli artigli d’oro) poteva riferirsi a qualsiasi cosa e dopo aver passato le prime due settimane a girare sottosopra internet e tutti i libri della New York Public Library che potessero avere un vago riferimento con i leoni tutto quello che sapevamo erano informazioni inutili come gli stemmi delle famiglie nobili della Francia nel 1600. Ci imbattemmo anche nella forma del trono di Tutankhamon che a quanto pare aveva delle teste di leone alla fine dei braccioli e degli artigli dorati ai piedi del trono e andammo addirittura al Met credendo di poter trovare un indizio nella sezione egizia che ovviamente fu un buco nell’acqua. 

Dopo un mese di ricerche non avevamo fatto nessun passo avanti. Come se non bastasse, il Ghul aveva attaccato di nuovo, uccidendo una signora di quarant’anni che tornava a casa dal lavoro in tarda sera. Fortunatamente Cam riuscì a coprire tutto, o almeno che fosse stata orribilmente sfigurata e che mancassero delle parti (la cena del Ghul) e il fatto che a luglio, a New York, nevicasse in un quartiere soltanto, fece molto più clamore. 

Stiles, a differenza mia, non si buttava mai giù. Era sempre pronto a seguire una nuova pista, a leggere il prossimo articolo, a trovare collegamenti anche dove non esistevano. Se non fosse stato per lui, in quel periodo avrei provato a combattere nuovamente il demone (e con tutta probabilità sarei morto). 

Quando accanto alla foto di Tyron aggiunse quella di Mrs. Walker gli chiesi perché le metteva lì, siccome sembravano soltanto essere un promemoria del nostro fallimento.

«Mi ricordano perché non posso mollare la ricerca e mi spingono a continuare perché non voglio mettercene altre vicine» fu la risposta. 

In tutto quello, studiava anche per i suoi esami. Mi chiesi se le sue giornate durassero 36 ore a differenza delle mie e quelle di tutti gli altri perché non si fermava un attimo e riusciva a fare mille cose. Ogni giorno per tre o quattro ore ci vedevamo, o a casa sua, o alla Public Library, o in un caffè con i nostri portatili pronti a fare ricerche. Quando si faceva tardi ordinavamo cinese (il suo preferito) o messicano, o da Domino’s Pizza (io bianca col salame, lui rossa con doppia mozzarella anche se finivamo sempre per dividercele). 

Una volta, quando avevamo appuntamento a casa sua per esaminare dei libri che aveva preso in prestito alla St. Agnes Library, mi fermai sulle scale d’ingresso prima di bussare. Per la prima volta da quando l'avevo conosciuto lo sentii suonare. Rimasi di sasso, come se non avessi mai ascoltato un pianoforte in vita mia, e usai l’udito da lupo per sentire meglio. Era una musica calma e travolgente, forse triste, di quelle che si usano nei film quando uno dei personaggi si sacrifica per salvare gli altri, e nonostante non fossi un grande esperto mi dicevo che era eseguita alla perfezione e che era davvero bravo come aveva detto il primo giorno che l’avevo visto. Provai ad aprire la porta e la serratura scattò sotto la mia mano. Stiles non si rese conto che ero entrato fino a quando non mi vide con la coda dell’occhio. «Ehi» smise di suonare. 

«Continua» gli chiesi. 

Riprese ripetendo le ultime due battute e io mi sedetti sulla sedia della sua scrivania. La sua postura era impeccabilmente dritta e le mani si muovevano scaltre ma senza fretta da un punto all’altro della tastiera sapendo perfettamente dove andare. Era delicato ma allo stesso tempo i polpastrelli usavano la giusta dose di forza per spingere i tasti e far uscire un suono pulito, deciso, che si alternava con i ritmi incalzanti del brano. Di profilo potevo vedere i suoi occhi scorrere sullo spartito. Quando finì poggiò i palmi sulle cosce in quella che capii essere una sorta di posa di riposo. 

«Piaciuto?» 

«Sì, cos’è?»

Sorrise prima di rispondere: «È abbastanza ironico ora che ci penso. Si chiama Claire de lune»

Scappò un sorriso anche a me. 

«È di Debussy... credi che fosse un lupo mannaro anche lui?» 

«Chi può dirlo» alzai le spalle. 

«È la mia suite preferita» disse. Avrei voluto saperne molto di più, avrei voluto fare un commento pertinente, avere dei gusti intriganti, poter sostenere un dialogo e magari sembrare anche interessante. 

«Sei bravo per essere un pianista a cui manca un tasto» fu l’unica cosa che mi venne in mente. Sorrise e andò a sfiorare il vuoto che aveva lasciato il Si bemolle mancante. 

«Ho trovato questo pianoforte da un antiquario sulla 84esima, Mr. John Koch, un vecchino tutto sorridente, che me lo ha offerto a metà prezzo perché mancava un tasto. All’inizio ho pensato di farlo aggiustare ma adesso… sono passati già due anni e mi sono abituato… non lo cambierei mai.»

 

Nei libri non trovammo nulla di utile ma quella sera, dopo aver visto Stiles suonare per la prima volta e aver colto dopo tanto una nuova sfumatura di marrone nei suoi occhi sotto la luce bianca della lampadina nel suo salotto, capii di essere stato stregato e finito irrimediabilmente in qualcosa che però non aveva nulla a che fare con la magia (almeno del tipo di cui si occupava Walgreen).

 

VIII


La mattina di due settimane dopo Stiles aveva un esame, Comunicazione e socioterapia, che lo costrinse ad accantonare le ricerche nei giorni precedenti con suo grande dispiacere. Quasi a mezzogiorno, mentre uscivo dalla doccia dopo l’allenamento della mattina, ricevere la sua chiamata mi sembrò insolito. 

«Stiles?» risposi. 

«Derek!» la sua voce allarmata mi fece scattare. «Derek! Ci siamo!» 

«Cosa? Hai fatto l’esame? Tutto bene?» sentivo i clacson e i rumori della strada in sottofondo. 

«Sì, sì, sto bene ma l’ho trovato! Il leone! Vieni subito qui, ti mando la posizione» e riattaccò prima che potessi aggiungere altro. Neanche cinque secondi dopo arrivò il messaggio. 

Si trovava nel Lower East Side, al numero 58 di Delancey Street. Mi vestii in tutta fretta e uscii di casa quasi dimenticando le chiavi. Purtroppo dovevo attraversare quasi tutta l’isola e quindici chilometri nell’ora di punta a Manhattan avrebbero richiesto molto più tempo di quello che ci si poteva aspettare. Armato di tutta la pazienza che trovai, sollevato almeno dal fatto che Stiles fosse riuscito a trovare finalmente il nostro leone, presi la metro alla Street Station, scesi dopo 17 fermate alla Grand Street Station e dopo trecento metri a piedi iniziai a cercare Stiles nella folla. Il sole bollente di metà luglio scottava fin troppo e l’unico sollievo era dato dall’ombra dei palazzi alti almeno quattro o cinque piani con gli angoli arrotondati e le scale antincendio esterne. Un vigile urbano regolava il traffico assistito dai semafori roventi e decine e decine di persone si riunivano nell’attesa di attraversare le strisce pedonali. Vidi Stiles in lontananza con lo zaino in spalla che guardava tra la folla cercandomi. In pochi secondi lo raggiunsi. 

«Derek! Oh mio Dio, non puoi immaginare! Stavo uscendo dall’università e stavo andando da Starbucks per prendermi un thè freddo quando l’ho visto!» iniziò a camminare. Dopo pochissimo tempo si fermò di nuovo e io, di fronte a lui, ancora non vedevo nulla.

«Oh, giusto» disse e mi fece fare mezzo giro su me stesso tenendomi per le spalle. Ci misi un secondo per focalizzare e poi lo riconobbi. Al primo piano di un edificio in mattoni rossi, su tutta la fiancata non illuminata dal sole, un murales alto dieci metri raffigurava un leone dalla criniera arancione e dal portamento fiero. Sulla parte sinistra del volto aveva una specie di scacchiera gialla e rossa e poggiava su un pavimento fatto di lava le zampe con gli artigli dorati. 

«È lui! È per forza lui!» disse Stiles alle mie spalle. 

«Ascolta, ho fatto un po’ di domande mentre ti aspettavo. Ho chiesto ai negozianti qui intorno e il murales è stato completato soltanto ieri da un artista di strada piuttosto conosciuto.» 

«E che mi dici della scritta?» chiesi.

Stiles mi guardò come se avessi chiesto come mi chiamavo. 

«Quale scritta?» disse con gli occhi stretti e dubbiosi. 

«Quella sopra la criniera, vicino la firma dell’artista» indicai con la mano il punto sopra l’animale dove l’iscrizione era stata fatta con una bomboletta spray bianca in uno stile semplice e lineare. 

«Derek… io non vedo nessuna scritta» ammise. 

«Allora significa che siamo sulla pista giusta. Forse solo le creature soprannaturali possono vederla.» 

«E cosa dice?!» chiese ansioso. 

«When nothing goes right, go left.» 

«Quando le cose non vanno bene, che significa anche destra in inglese, va a sinistra» ripetè Stiles. 

«Che può voler dire?» 

«Non lo so… Ma abbiamo fatto un passo avanti, no?» mi sorrise fiducioso. 

 

L’entusiasmo per aver risolto il primo mistero ci fece prendere una boccata d’ossigeno di cui avevamo bisogno dopo settimane di stenti. Però non avevamo trovato ancora nessun pezzo del Dirkey e potevamo soltanto ricominciare a spremerci le meningi con la differenza che questa volta l’indizio che avevamo era meno vago e generico, ma allo stesso modo incomprensibile. Provammo a salire sul tetto dell’edificio quella stessa notte prendendo quasi alla lettera le ultime parole dell’indizio (“va a sinistra”) ma non portò a nulla così come esaminare le mappe della rete fognaria, quelle della metropolitana che passava lì vicino, quella urbanistica e fognaria, il che ci fece capire che si trattava di un doppio significato o almeno, di un’interpretazione diversa da quella letterale. 

 

Due giorni dopo, io e Stiles eravamo seduti sul mio divano a guardare svogliatamente un quiz televisivo. A differenza della volta precedente non avevamo da fare ricerche poichè “andare a sinistra” poteva significare di tutto e nessun libro ci avrebbe dato la soluzione. Nonostante questo, Stiles continuava a raggiungermi e iniziai a credere che avesse un interesse per me che non era fine soltanto alla nostra «missione» e alla rivelazione del passato di sua madre, ma cercai di non montarmi la testa. 

«Da te c’è il condizionatore» diceva.

La sua cultura era tale che mentre guardavamo i quiz lui sapesse ogni risposta, certe volte anche prima che il conduttore terminasse la domanda. 

«È la a.» «È la c.» «Tappeto.» «15 se conti anche quelli cinesi.» Sapeva tutto. L’unico gioco in cui potevamo competere era quello in cui bisognava trovare la parola che si collegasse alle altre due. 

«Siamo due pari» disse «Chi indovina questa vince e l’altro paga la pizza» ed era anche piuttosto competitivo, ma non più di me. Il presentatore (un uomo alto e magro curato in ogni aspetto e scandiva ogni parola con assoluta precisione, “il bell’uomo” lo chiamava Mrs. Crowford) disse agli sfidanti: «Ultima parola, siete pronti? Fiscale e strada, cosa collega queste due parole?» 

«Codice!» gridammo in coro. Mi venne da ridere per quanto eravamo presi da quella competizione improvvisata ma Stiles non rise, fissò la televisione con la bocca semiaperta prima di scattare in piedi dal divano, girarsi verso di me dando le spalle alla tv e gridare: «CODICE! È un codice!»

Si diresse sul tavolo del soggiorno, prese un foglio bianco e una penna e si sedette a terra appoggiandosi sul tavolino di vetro davanti il divano. 

«Come ho fatto a non capirlo prima? Che idiota…» si diceva da solo. 

«Stiles, mi vuoi dire cos’hai capito?»

«La scritta, tutta la scritta, è un codice dove ad ogni lettera corrisponde un numero o un simbolo, ma bisogna risolverlo da sinistra verso destra!»

Rimasi sconcertato. Iniziò a scrivere la frase in piccolo, all’inizio del foglio. Appena finì la ricopiò sotto ma scrivendo ogni lettera in stampatello, distanziata dall’altra e nel verso opposto: T F E L O G T H G I R S E O G G N I H T O N N E H W. Poi sbarrò una G e una N dicendomi «Le due vicine si tolgono, non possono esserci due lettere uguali una di seguito all’altra. Il codice per decifrarlo è internazionale, aspetta un attimo» disse mentre cercava sul suo telefono. Quando trovò il codice lettera dopo lettera inserì il corrispondente sotto. Il risultato finale fu:  

40° 48' 13.2" S 73° 57' 41.4" W.

Ci guardammo negli occhi consapevoli di quello che volesse dire: «Sono coordinate» dicemmo di nuovo insieme. Afferrò di nuovo il telefono e le inserì.  

«È un punto in mezzo all’Oceano Pacifico» disse deluso. 

«Prova a cambiare i riferimenti, anziché Sud prova Nord» proposi. Lui eseguì. 

«La Cattedrale di Saint John» decretò concitato.

«Bene, andiamo» dissi mentre mi alzavo. 

«Adesso? È quasi mezzanotte e la cattedrale sarà chiusa.» 

«Non voglio perdere neanche un minuto con quel coso ancora in giro.»

Lo convinsi subito. Otto fermate di metro e cinque minuti di camminata dopo ci trovavamo ai piedi della Cattedrale illuminata dalla luna crescente. La strada, affollata in un estivo giovedì notte, era immersa nella freneticità, e potevo sentire i bicchieri toccarsi nei brindisi, le voci chiamare i taxi liberi di passaggio, la musica provenire dai locali in fondo la strada. 

Diverse volte ero passato davanti quella cattedrale ma soltanto in quel momento mi resi conto della sua bellezza. Lo stile gotico e quello bizantino si mescolavano sapientemente e tutta la struttura brillava di autenticità nel quartiere dai grandi grattacieli moderni. Per qualche secondo mi sentii infinitamente piccolo rispetto alla struttura imponente. 

«Come facciamo ad entrare?» chiese Stiles. 

«Dalla porta» gli sorrisi. I due portoni, chiusi a chiave e dipinti di un verde così scuro da sembrare nero, erano intagliati e raffiguravano scene cristiane. Diedi un’ultima rapida occhiata dietro di noi per assicurarmi che nessuno ci stesse guardando e misi le mani sul legno freddo iniziando a spingere. Sentii la porta, spessa almeno 20 centimetri e pesante come una nave, cedere a poco a poco e aprirsi. Sgattaiolammo dentro e la richiusi alle nostre spalle insieme a tutti i rumori della città. Quando mi girai rimasi senza fiato. L’atrio era immenso, le colonne ai lati arrivavano a metri e metri d’altezza e la luce della luna e della città passavano dai vetri illuminando l’interno. Il silenzio era così profondo che potevo sentire il fiato di Stiles uscire dalla sua bocca anche se come me ne era rimasto a corto dalla meraviglia. 

«Wow» gli sfuggì. 

Prese il telefono tra le mani e cercò nuovamente le coordinate. 

«Dobbiamo avanzare.» Sul suo telefono il simbolo della destinazione distava ancora alcuni metri. I nostri passi rimbombavano nella quiete del posto. 

«Ci siamo, stop.» Stiles bloccò il telefono e lo rimise in tasca. 

«Siamo nel punto giusto, dobbiamo solo capire cosa fare.»

Ci guardammo intorno, nella navata centrale, a pochi passi dall’altare dove dietro sette colonne robuste si alternavano ai rosoni colorati. Sulle nostre teste sette lampadari scendevano dal soffitto e le volte si intrecciavano ordinate. 

«Penso che dovresti…» Stiles non finì la frase e si toccò la gola. 

«Cosa?» 

«Sai quella cosa che fai tu.» alzò le spalle. 

Ringhiai come mi consigliò, non troppo forte ma neanche troppo piano, senza bisogno di trasformarmi. Sentimmo un tintinnio provenire dall’alto. 

«L’hai sentito anche tu?» chiesi. Fece sì con la testa. 

«Fallo di nuovo» mi intimò. 

La seconda volta il tintinnio fu più forte. 

«Viene da qui.» Stiles si spostò sotto uno dei lampadari e indicò il soffitto: «Eccola, la vedo!» La lama, incastrata fra i cristalli e la placcatura d’oro a forma circolare, passava completamente inosservata se non si sapeva cosa e dove cercare. 

«Come la prendiamo?» chiese Stiles. 

«Posso saltare fino a lì, ma farei cadere tutto il lampadario…» 

«Direi di no» sorrise. 

«Se tu mi alzi, la prendo io» propose. Un minuto dopo, sollevavo in aria Stiles afferrandolo da sotto le ginocchia e lui cercava di prendere il primo pezzo del pugnale che ci avrebbe aiutato a sconfiggere il Ghul. Un paio di «Ci sono quasi» dopo finalmente esclamò «Preso!» e lo lasciai andare, inavvertitamente troppo di fretta, così che i nostri volti si incontrarono - così vicini che il suo naso quasi sfiorò il mio - e in quel momento, nell’euforia di aver trovato il primo pezzo dei tre, in un posto così sacro e intimo, immerso nel silenzio, per un secondo (forse dieci) rimanemmo fermi, come pietrificati. Osservai il suo viso da una vicinanza che non mi era mai stata concessa (sperai che non si accorse di quanto mi soffermai sulle sue labbra) ad un passo dal percorrere gli ultimi due centimetri che ci separavano. 

 

Non lo feci. Non che non volessi - lo volevo, tanto - semplicemente mi persi nelle sue ciglia lunghe e il momento passò. Ci separammo come se non fosse successo nulla e mi consegnò la lama sottile vigorosa e lunga che rifletteva la luce attraverso le vetrate. 

«Gran colpo» dissi imbarazzato. Uscimmo senza difficoltà rimettendo la porta esattamente com’era prima del nostro arrivo. Decidemmo di tornare a casa a piedi, camminando nella folla, tra le luci dei grattacieli e dei lampioni, così ubriachi di felicità che quasi barcollavamo ridendo senza un motivo preciso. 

 

IX


Stiles non era come tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento. Un aura di autenticità lo accompagnava ovunque andasse. I suoi interessi finirono col sembrarmi le cose più giuste cui interessarsi, le cose più intelligenti, stimolanti, intriganti. Nonostante fosse un po’ impacciato - quel tipo di impacciatezza amorevole che lo faceva balbettare ad inizio frase quando non era sicuro - il suo ingegno non finiva mai di stupirmi. Suonava, componeva (di rado, “quando ho lo spirito giusto” diceva lui), studiava ed era il primo del suo corso, leggeva, dai classici ai libri più improbabili che trovava nei negozi piccoli come tane di talpa, anche usati con le copertine logore e ingiallite (in quella settimana stava leggendo Tutto quello che non sai sugli Upupa, e io non sapevo neanche cosa fossero gli Upupa fino a quando non mi spiegò che erano uccelli bucerotiformi e finsi di sapere cosa significasse, non perché avesse un chissà quale interesse per i volatili bensì per il gusto di leggere e di sapere). 

Ovviamente ad equilibrare la bilancia per far sì che non potesse essere perfetto non sapeva: cucinare (una volta gli preparai della pasta al pesto e quasi cadde dalla sedia dall’euforia), guidare, nuotare e se iniziava a mangiare dolci non riusciva a fermarsi fino a stare male quindi evitava da tre anni di cominciare. Eppure, quelle cose contribuivano solo a renderlo ancora più originale e autentico ai miei occhi. 

Quando quella sera, con la lama al sicuro nella mia tasca, arrivammo sulla 129sima ci fermammo davanti il museo del Jazz ed entrambi sapevamo che avremmo dovuto separarci: io avrei proseguito a sinistra mentre lui sarebbe andato destra. Non avrei voluto lasciarlo. «Ci vediamo domani» sorrise. 

«Non fare tardi» replicai. 

«Io non faccio tardi, sei tu che sei sempre in anticipo!» scherzavamo di nuovo. «Buonanotte» mi disse e mi sfiorò la spalla con la mano destra come saluto. 

«Buonanotte» gli risposi. Non so per quale motivo (non lo avevo mai fatto con lui fino a quel momento e avevo perso l’abitudine di farlo in generale con chiunque) ma tesi l’orecchio da lupo cercando il suono che mi interessava, scartando i motori delle auto che passavano, le voci delle persone, delle radio e delle televisioni fino ad isolare il battito del cuore di Stiles che si era già girato e tornava a casa con la sua camminata regolare e le mani nelle tasche dei pantaloni. Il suo cuore batteva a un ritmo puntuale eppure… accelerato e più veloce rispetto a come avrebbe dovuto essere. Così per la prima volta la mia mente si aprì alla possibilità che tutta la matassa confusa di sentimenti che fingevo di ignorare fossero simili a quelli che Stiles provava per me.  

 

Quella notte impiegai ore per addormentarmi. Mi giravo e rigiravo, con il lenzuolo ai piedi del letto, il condizionatore acceso che mi salvava dal caldo appiccicoso e nessun suono particolare a farmi compagnia: nel palazzo dormivano tutti e il Signor Carter al piano di sotto (vicino di pianerottolo di Mrs. Crowford) russava. Finalmente presi sonno, verso le 3 o 4 del mattino e il solito sogno venne a torturarmi. Di nuovo, per l’ennesima volta, c’ero io che correvo sulla strada dritta e infinita. Stremato mi fermavo, prendevo fiato, e la stessa musica dolce mi tirava su, dandomi speranza. Anche quella volta, come le altre centinaia di volte che erano già successe e le altre innumerevoli che seguirono, mi svegliai prima di arrivare in fondo. Ma soprattutto, come sempre, non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a ricordare la melodia che mi salvava. 

 

A svegliarmi fu il telefono che suonava, ancora attaccato al caricatore, sul comodino. Cam. Con la voce ancora impastata e un leggero mal di testa a causa del poco sonno risposi: «Pronto, Cam?» 

«Hale, è successo di nuovo.»

Una fitta mi colpì allo stomaco. 

«Chi è la vittima?» 

«Uomo, 54 anni. Una moglie, tre figli.»

Un’altra fitta. Non risposi, non sapevo che cosa dire. Mi sentivo colpevole come se avessi ucciso io stesso quelle persone innocenti.

«Hale? Ci sei?» chiese Cam dall’altro lato. 

«Sì, sì, sono qui» sussurrai. 

«Coprirò la cosa ma vorrei fare di più per questa storia, permettimi di aiutarti.» Il suo tono era sincero, dispiaciuto. 

«Abbiamo un pezzo dei tre, oggi scopriremo un nuovo indizio, ti chiamo appena so qualcosa.» 

«Va bene, e stai tranquillo, lo prenderemo.»

La sua voce dolce mi ricordava quella di mia madre, il suo approccio sempre gentile e positivo. Erano le nove e mezza e nonostante avessi molta voglia di tornare a dormire e far finta che tutta quella storia fosse un incubo dal quale mi sarei svegliato presto, all’appuntamento con Stiles mancava poco e dovevo prepararmi. 


Sotto il sole timido di una mattina calda - che di fresco aveva solo il leggero venticello che passava indisturbato di tanto in tanto - sedevo sugli stessi gradini su cui due mesi prima avevo aspettato Stiles per la prima volta, in Leadwell Street, davanti la clinica veterinaria che, in quel momento ne ebbi la certezza, aveva il più largo giro di clienti dell’Upper West Side. Stiles arrivò poco dopo di me, puntuale, ed entrambi avevamo visibilmente perso tutto l’entusiasmo che la notte prima ci aveva invaso la mente e fatto gioire come bambini. 

«Hai saputo?» gli chiesi. 

«Sì, ho sentito al telegiornale dell’ennesimo caso di neve» disse dispiaciuto. 

«Sono stanco, Stiles» confessai. 

«In altri tempi avrei già dato la mia vita per tentare di uccidere quel demone, mentre adesso cosa sto facendo? Raccolgo gli indizi di una stupida caccia al tesoro?»

Si sedette con me sui gradini e mi parlò con gentilezza in modo onesto e trasparente.

«Quando è morta mia madre… tu lo sai cosa si prova, non c’è bisogno che te lo spieghi. Ero arrabbiato, tanto. Ma soprattutto avevo un vuoto dentro che non si sarebbe più riempito. L’unica cosa che volevo fare era stare sdraiato, a letto, a non pensare a niente. Avrei voluto farlo per sempre» vidi i suoi occhi diventare lucidi. 

«Ma poi guardavo mio padre, che oltre ad una moglie stava perdendo anche il contatto suo figlio e che mia madre non avrebbe voluto quello per me, lei avrebbe voluto vedermi di nuovo in piedi per continuare a vivere come un bambino dovrebbe fare. Quindi ricominciai a parlare e a sorridere di nuovo, perché glielo dovevo. E tu lo devi a tutte le persone che possiamo ancora salvare se finiamo questa stupida caccia al tesoro. Non servirebbe a nulla morire adesso nel tentativo di riuscire in qualcosa di impossibile» mi guardava premuroso, gli occhi di nuovo asciutti.

«Lo prenderemo» concluse. 

«Sì» cercai di convincermi. 

«Adesso andiamo a sentire qual è il prossimo rompicapo.» si alzò e mi porse la mano per aiutarmi a fare lo stesso. 

«Come se non ti stessi divertendo» lo stuzzicai. 

«Ho un debole per i misteri, lo ammetto» sorrise colpevole. Nonostante non ne avessi bisogno afferrai la sua mano per tirarmi su. 

 

“L’ufficio” di Walgreen non era cambiato di molto dall’ultima volta che eravamo stati lì anche se avevo l’impressione che tutto fosse in un posto diverso, come se le librerie, gli armadi, gli scaffali, tutte quelle cianfrusaglie e persino le mura avessero vita propria e di tanto in tanto decidessero di cambiare posizione. L’odore di fiori secchi e mistero e la foschia sopra le nostre teste era la stessa e Murph, l’iguana verde con la testa di drago era cresciuta ancora, spostata in una teca molto più grande con delle piccole piante e dei rami su cui si sedeva pigra ad osservare tutto quello che la circondava da dietro il vetro. 

Walgreen ci sentì arrivare e ci venne incontro. Aveva cambiato colore di capelli, di nuovo, e ciocche di verde spuntavano tra il nero dei suoi ricci. Sempre ben vestito, con una giacca dorata così splendente da annebbiare la vista sotto il giusto riflesso e che creava un contrasto lampante con la sua carnagione, il make up impeccabile e la manicure fresca di un verde serpente che richiamava le sfumature dei capelli. Ci trovammo allo stesso tavolo - non nello stesso punto - in cui due mesi prima avevamo scoperto che cosa dovessimo affrontare, con l’unica differenza che adesso, sul ripiano che ci separava, era poggiata la lama, il primo dei tre pezzi e anche il primo dei nostri successi.

Gli spiegammo come l’avevamo trovata e Stiles, nonostante il merito fosse quasi esclusivamente suo, parlava con grande umiltà considerando il nostro come un lavoro 50 e 50. Walgreen ascoltava interessato e quando la spiegazione terminò disse: «Vediamo cos’ha da dirci questo gioiellino» prendendo la lame tra le mani come la più preziosa e delicata delle cose. Chiuse gli occhi e inspirò forte. Io e Stiles assistevamo alla scena incuriositi, impazienti di sapere il prossimo mistero da risolvere, e alla mia destra con le mani poggiate sul tavolo tamburellava leggermente le dita ansioso. Gli occhi di Walgreen si sbarrarono tutto d’un tratto ma mi resi conto che non stava guardando noi, bensì molto oltre: stava avendo una visione e presto ce l’avrebbe rivelata. Durò pochi secondi durante i quali il silenzio rimbombava in tutto l’ambiente e io e Stiles trattenevamo il fiato. Quando rinsavì non proferì parola, si guardò intorno in cerca di qualcosa, poi afferrò un foglio di pergamena e una penna dall’aria antica e importante e iniziò a disegnare. Non sapevo se fosse magia o vero talento, ma il risultato fu un ritratto incredibilmente realistico: il volto scavato di un uomo, con i capelli corti e gli zigomi pronunciati, le sopracciglia folte e lo sguardo spento. «Chi è?» chiese Stiles prima di me. 

«Non lo so…» rispose Walgreen confuso, come se si fosse appena destato da un sogno lungo un centinaio di anni. 

«Ci pensiamo noi» dissi. 

 

Almeno per quella volta avevo una strategia, o quantomeno, una possibilità di fare la cosa giusta. Usciti da lì chiamai Cam e le chiesi di incontrarci. Mezz’ora dopo io e Stiles la aspettavamo seduti sulla panca di una tavola calda. La parete vetrata alla mia destra perfettamente lucidata, e dalla quale proveniva ancora il profumo alla lavanda del sapone usato poche ore prima, si affacciava sulla 96esima inquadrando il via vai di persone a cui passavamo inosservati, come dietro il vetro di una sala interrogatori. Il sole era nel punto più alto e scottava tremendamente in una delle giornate più calde dell’estate. All’interno del locale, arredato come se fossero gli anni ‘90 ma pulito e ordinato, il vociare delle persone sedute ai tavoli e al bancone copriva il suono monotono del condizionatore, tranne che per le mie orecchie. 

Stiles, di fianco a me, studiava il menù nello stesso modo attento e concentrato di quando leggeva i tomi dei suoi esami. Poi, mentre io mi ero lasciato distrarre dalle urla dei cuochi nelle cucine («Tre cheeseburger al tavolo quattro, due risotti al tavolo otto. Datti una mossa, Rick! E non guardarmi in quel modo, ti vedo!») Stiles, sempre con gli occhi fissi al cartoncino plastificato con le portate scritte in un rosso fastidiosamente acceso, disse: «C’è qualcosa fra te e Cam?»

In un secondo con la mente ripercorsi tutto quello che gli avevo detto su di lei, per capire da dove venisse questa supposizione. Gli avevo detto che era sveglia, intelligente, l’unica detective di New York che meritava davvero un riconoscimento. E adesso, che avevamo un nuovo indizio, la prima cosa che avevo fatto era stato contattarla. 

«È un’amica» risposi, cercando di mantenere un tono calmo e indifferente. 

«Mh» rispose senza alzare gli occhi. 

Cam non tardò. La vidi spingere la pesante porta d’ingresso dal maniglione nero e cercarci con lo sguardo tra i tavoli. Mentre ci veniva incontro notai, non per la prima volta, che anche se indossava abiti semplici, a tinte unite, e nulla di troppo elegante e sfarzoso, portava sempre con sé un’aura di raffinatezza nobile che faceva sembrare tutti gli altri fuori luogo. I tacchi non troppo alti degli stivali estivi sbattevano sul pavimento. Si sedette di fronte a noi, sorridendoci gentile e appoggiando il suo zainetto di marca accanto a lei. 

«Buongiorno» disse e tese la mano verso Stiles: «Cam» si presentò con sicurezza nella voce. Stiles la strinse rispondendo con il proprio nome e arrossì leggermente quando lei gli fece: «Finalmente conosco il genio dietro la scoperta del primo pezzo.»

Se Stiles descriveva la faccenda in modo umile e facendo sembrare ciò che era accaduto il frutto di un lavoro di squadra, io non lo facevo affatto. Almeno non l’avevo fatto mentre raccontavo a Cam come erano andate le cose e forse mi ero lasciato trasportare dalla descrizione di quanto fosse intelligente, sicché quelle parole imbarazzarono me molto più che lui. Prima che potessi iniziare a spiegarle quello che c’era da sapere la cameriera dall’uniforme giallo chiaro con il cappellino bianco poggiato sui capelli raccolti maldestramente si avvicinò per prendere le ordinazioni con il taccuino alla mano. 

«Prego» disse quasi gridando mentre masticava una gomma. Prendemmo tre sandwich, uno vegano per Cam, uno doppio formaggio per Stiles. La cameriera si allontanò e tornò subito con due grandi bicchieri pieni di acqua e ghiaccio e una coca cola. Quando finalmente ebbi la certezza che non ci avrebbero interrotti tirai fuori dalla tasca il ritratto fatto da Walgreen, lo poggiai sul tavolo e lo girai in direzione di Cam. 

«Il nostro prossimo indizio» spiegai. Lo prese fra le mani osservandolo con attenzione. «Sappiamo chi è?» 

«No, speravo che potessi aiutarci tu.» 

«Posso chiedere un paio di favori... ma potrò trovarlo solo se è nel database, quindi se ha la fedina penale sporca, sai come funziona.»

Annuii. La aggiornammo sulle cose che per telefono non le avevo detto: i poteri del Ghul, il suo aspetto, tutto quello che ci aveva raccontato Walgreen del Cile. Lei ascoltava, rapita e concentrata, senza neanche un accenno di timore. Quando ci separammo, davanti la porta della tavola calda, ci salutò promettendo che avrebbe fatto il possibile. 

 

Mentre percorrevamo la Columbus Avenue, diretti alla fermata della metro della Street Station, Stiles era insolitamente silenzioso e guardava le nostre ombre muoversi sul pavimento. Non ero un grande conversatore (non lo sono mai stato) ma in quei momenti di silenzio avrei voluto avere il dono di quelle persone che sanno sempre cosa dire, di cosa parlare e hanno sempre una domanda pronta dalla quale può nascere una conversazione. Meglio ancora, avrei voluto saper leggere il suo silenzio. 

Attribuii quella quiete fin troppo profonda alla mancanza di uno scopo. Difatti, dopo mesi trascorsi con un pensiero fisso adesso non avevamo più molto da fare, nulla da cercare. Potevamo solo aspettare e sperare che Cam trovasse qualcosa. Finalmente Stiles parlò: «Lei è umana…Glielo hai detto tu?» chiese continuando a guardare dritto. Mi accorsi di quanto fosse lecita quella domanda. 

«No… era fidanzata con un lupo mannaro.»

«Era?» 

«Anche lui era un poliziotto ed è stato ucciso durante una retata della polizia finita male, cercando di proteggerla.»

Ricordare mi intristì. Non avevo mai conosciuto Henry ma in alcune poche occasioni Cam mi aveva raccontato di lui, di quanto fosse coraggioso e, diceva sorridendo, cocciuto. Ogni tanto mi fermavo a pensare su quello che aveva passato Cam e mi chiedevo se fosse successo a me come mi sarei comportato. Lei, dall’animo buono e sempre sorridente, era incredibilmente brava a nascondere qualsiasi cosa la affliggesse e anche se aveva continuato il suo lavoro ancora più determinata di prima, le leggevo chiaro negli occhi che qualcosa si era rotto per sempre. 

«Mi dispiace» disse Stiles sincero. 

 

Continuammo a camminare in silenzio fino a scendere le scale della metro. Al binario sotterraneo a momenti la linea 2 avrebbe sfrecciato davanti a noi per poi fermarsi e Stiles sarebbe partito, appena pochi istanti prima che la linea 3 arrivasse sul binario opposto per portarmi a casa. Aspettavamo in piedi, nel caldo soffocante e con decine e decine di persone che ci passavano accanto. La melodia della chitarra acustica di un cantante di strada che racimolava spicci e banconote da un dollaro ci raggiungeva da lontano. 

«Non ci resta che aspettare adesso, no?» disse guardandomi negli occhi. 

«Già, non c’è molto che possiamo fare» ammisi.

Ricordo bene quello a cui pensavo in quel momento, ancora adesso. La verità mi colpì duramente dopo essere stata sotto il mio naso per tutto quel tempo e decise di smascherarsi proprio all’ultimo secondo, come il più scontato dei colpi di scena, pochi istanti prima che Stiles salisse su quel treno che pregavo segretamente avrebbe avuto un improvviso guasto meccanico concedendomi minuti in più. 

Semplicemente, mi accorsi che Stiles mi sarebbe mancato. Dopo due mesi trascorsi quasi sempre insieme mi ero abituato così tanto alla sua presenza che sarebbe stato incredibilmente problematico adattarsi alla sua assenza adesso che una scusa per vederci non c’era più. Lo realizzai soltanto in quel momento e una parte di me, per quanto minuta, mi faceva sperare (non troppo ad altra voce) che era questo il motivo del silenzio di Stiles e che lui, come sempre, era arrivato a questa conclusione molto prima di me. 

«Spero di poter tornare presto a risolvere misteri» sorrise con un lato della bocca, poi aggiunse: «Potrebbe addirittura mancarmi il tuo muso da lupo.»

Prima che potessi pensare ad una risposta il frastuono del treno che correva sui binari unito al fischio dei freni invasero l’ambiente. Le porte si aprirono, fiumi di persone cominciarono a scendere. Stiles salì sul vagone e si rigirò verso di me, la sua immagine chiara dietro il vetro delle porte. Mi fece l’occhiolino nel secondo stesso in cui il treno ripartì a tutta velocità. 

Per tutto il tragitto verso casa non feci altro che pensare a quanto fosse un gesto enigmaticamente troppo complicato e forse anche audace per uno come Stiles, che di tanto in tanto balbettava.

 

X

 

Nei giorni successivi trovai il mio appartamento molto più grande.

Avrei potuto scrivergli (ci pensai più volte) ma non lo feci. Mi era capitato di scrivere un messaggio, ma lo avevo cancellato prima di inviarlo. Temporeggiavo, nella speranza che Cam trovasse qualcosa, per avere un pretesto per rivederlo. A stento mi riconoscevo. A salvarmi da quel limbo di esitazione ed incertezza ci pensò Cam. La chiamata arrivò intorno alle 23, mentre guardavo un film senza attenzione. Subito tolsi il volume e mi sedetti composto sulla punta del divano. 

«Cam?» risposi. 

«Hale» la sua voce era ovattata dal silenzio. 

«Hai novità?» 

«Ho un nome e un indirizzo. Non è stato facile, ho fatto prima che ho potuto.»

Tirai un sospiro di sollievo.

«Dal database non risultano condanne, nessun crimine, per questo c’è voluto tempo. Alla fine l’ho trovato perché si è trovato coinvolto in una rissa quando aveva 16 anni, nulla di più.» 

«Gli faremo visita domani mattina. Tu vieni?»

Sentii il silenzio dall’altra parte per un secondo di troppo, probabilmente non si aspettava la mia domanda. 

«Sì...sì, certo! Chiederò un cambio turno al distretto. Ti mando nome ed indirizzo. Ci vediamo lì domani mattina, allora?» 

«Sì, alle 9 in punto. E Cam… grazie.» 

«A disposizione.»

 

Neanche un minuto dopo lo schermo del telefono si illuminò alla notifica del suo messaggio. Rimasi sconcertato nel leggerlo. “Bram Crowford. 121 East 38th St.”

Avevo sentito parlare di Bram Crowford innumerevoli volte senza averlo mai visto.

Mrs. Crowford mi aveva parlato di suo nipote, il figlio del fratello del suo defunto marito descrivendolo come “un giovanotto sveglio, educato, sempre a lavorare per racimolare qualche soldo.”

Mi trovai interdetto e senza parole. Poteva essere un omonimo? Quasi impossibile: Mrs. Crowford mi aveva anche detto che abitava nel quartiere di Murray Hill e l’indirizzo corrispondeva. Era una coincidenza troppo grande. Ma allora cosa aveva a che fare lui con tutto questo? Avrei dovuto informare Mrs. Crowford? E per dirle cosa, che suo nipote era apparso nella visione di un Nissen ed in qualche modo era coinvolto con il ritrovamento di un’arma secolare usata per combattere creature soprannaturali? 

Mrs. Crowford, che diffidava anche delle previsioni meteo, non mi avrebbe mai creduto, e non avrebbe saputo aiutarmi in ogni caso, anche se fosse sopravvissuta all’infarto che le sarebbe preso se avesse capito che era tutto vero. Per cui decisi di tenere la cosa per me e che l’indomani avremmo fatto chiarezza su questa faccenda. 

 

Fingevo di non provare felicità nel dover contattare Stiles e nel timore che la mia voce potesse tradirmi gli scrissi un messaggio conciso con il luogo e l’ora dell’appuntamento dicendo che Cam aveva trovato il nostro uomo. 

Dormii poco e male, feci per l’ennesima volta lo stesso sogno (iniziavo a credere che avrei dovuto conviverci per tutta la vita) e mi alzai l’indomani di mal umore. 

 

Dopo sei fermate della metro scesi a Time Square e presi la linea 7 per altre 2 fermate. Camminavo tra la gente lentamente, cercando di scollegare l’udito da lupo che curioso percepiva anche i rumori più lontani e leggeri. Il quartiere di Murray Hill era un susseguirsi di antichi edifici ben conservati e casette a schiera in mattoncini rossi. Tranquillo, lontano dall’idea frenetica di Manhattan, era il tipo quartiere che le famiglie sceglievano per crescere i figli in serenità. 

Trovai Stiles a pochi passi dall’edificio. 

«Ho fatto prima io oggi» mi sorrise. 

«Andiamo?» mosse la testa verso la porta del numero 121. 

«Aspettiamo Cam, arriverà a momenti» risposi. Vidi l’espressione stupita, leggermente dispiaciuta, cambiare sul suo volto. 

«Ah, viene anche lei?» 

«Ci sarà d’aiuto. Non possiamo bussare a metterci a fare domande dal nulla.»

Ci pensò su, poi concluse che avevo ragione. Non avemmo il tempo di dirci altro che Cam girò l’angolo e venne verso di noi. 

«Buongiorno, siete pronti?» Annuimmo con la testa. 

«Qual è il piano?» chiese. 

«Dobbiamo riuscire ad entrare in casa, per cercare il pezzo. E se necessario dovrete distrarlo il tempo necessario perché io lo prenda» dissi. 

«Tutto chiaro» rispose Stiles. Lasciammo che fosse Cam ad andare avanti verso il campanello, rimanendo sulle scale un passo dietro di lei. Non venne ad aprire nessuno. Cam bussò di nuovo. Nulla. Usai l’udito per capire se qualcuno fosse in casa ma non sentivo la tv accesa, n’è un fornello che emanava gas o un asciugacapelli acceso. Pochi secondi dopo Bram Crowford in persona venne ad aprire. Dall’aspetto ancora più cupo di quello che aveva nel ritratto con profonde e scure occhiaie e la barba non fatta di chi aveva avuto cose da fare molto più urgenti che prendersi cura di sé. 

Era in pigiama, coperto con una vestaglia blu estiva macchiata sulla spalla, una tazza di caffè in mano e una sigaretta accesa nell’altra. Sembrava stanco, come se gli avessero risucchiato tutte le energie e stesse cercando di sopravvivere con quello che gli rimaneva. Notai che l’appartamento alle sue spalle era ampio e caotico. Giochi per bambini erano sparsi per tutto il salone e la cucina che si intravedeva da lontano era colma di piatti e stoviglie sporche. 

«Desiderate?» chiese. 

Cam estrasse il portafoglio ed esibì il distintivo. 

«Detective Bennet. Questi sono i miei colleghi: Hale e… Holmes» improvvisò non sapendo il cognome di Stiles. 

«Posso fare qualcosa per voi, detective?» chiese mentre con la mano si stropicciava gli occhi stanchi. 

«Mr. Bram Crowford?» Ovviamente conosceva già la risposta. 

«Sì, sono io.»

«Dovremmo farle alcune domande, possiamo entrare?»

Cam sembrava perfettamente a suo agio e infondeva sicurezza anche a me che ero più teso del solito. Non aspettò la risposta e mosse il primo passo verso l’interno. Senza perdere tempo cominciai a guardarmi intorno in cerca di qualsiasi indizio. Nel frattempo, Cam faceva domande di circostanza e Bram si limitava a rispondere senza sospettare nulla. Aveva due figlie che in quel momento si trovavano una all’asilo e l’altra scuola mentre sua moglie era dovuta partire per lavoro. Faceva due lavori e per questo aveva l’aria sfinita. 

Cam accettò di buon grado il thè che le offrì, concedendoci minuti preziosi. Osservavo con attenzione ogni particolare ma spostandomi tra i giocattoli delle bambine, libri da colorare, bambole e puzzle con i pezzi sparsi da ogni parte, nulla mi sembrava assomigliare a quello che cercavo. 

Stiles si avvicinò: «Trovato niente?» chiese.

«No, ma deve esserci qualc-» non finii la frase. Finalmente vidi qualcosa che poteva avere un senso, o quanto meno era l’unica cosa che mi avesse risvegliato un ricordo. Appoggiato vicino al muro dell’ampio soggiorno un grande orologio antico era appeso poco sopra l’altezza delle nostre teste e, lungo almeno mezzo metro, aveva l’aria di essere molto pesante. Le lancette sottilissime segnavano l’ora esatta e il pendolo oscillava silenziosamente chiuso il una piccola teca di vetro e circondato dai giri ornamentali del legno.

«Ho già visto questo orologio» spiegai a Stiles. A casa di Mrs. Crowford, poco dopo essermi trasferito. Mi aveva raccontato, mentre prendevamo il thè un pomeriggio, che apparteneva alla famiglia di suo marito da generazioni e che adesso che il suo caro Donald non c’era più suo fratello stava per riprenderselo. Pochi giorni dopo l’orologio non c’era più e Mrs. Crowford riempì la parete con una foto dei suoi nipotini. 

E adesso, arrivai a pensare, anche il padre di Bram doveva essere mancato e così l’orologio era passato a lui, che in suo ricordo lo aveva appeso in un posto in cui passava spesso e che glielo avrebbe ricordato, noncurante del fatto che l’antichità di quel pendolo contrastava con tutti gli altri mobili e l’arredo moderno.

«Ci penso io» disse Stiles. Si girò, di colpo, andando nella loro direzione. 

«Mr. Crowford, devo farle alcune domande sull’edificio qui di fronte, le dispiace?» mimando con la testa in quella direzione per intimarlo a muoversi. 

«Sì… nessun problema» rispose e si incamminò verso la porta d’ingresso seguito da Cam, leggermente titubante. Quando si fermarono fuori sentii Stiles iniziare a parlare: «Vede quel palazzo grigio di fronte a lei?» 

«Sì.» 

«Ha mai notato qualcosa di strano? Nulla di anomalo?»

Non mi lasciai distrarre dal diversivo e approfittai del momento per avvicinarmi all’orologio ed emettere un ringhio basso e profondo. L’orologio tremò e per un momento ebbi paura che potesse cadere al suolo facendo un fracasso che avrebbe attirato l’attenzione di tutti.

Era lì, l’avevamo trovato. 

«Non dovrei dirglielo, ma ho l’impressione di potermi fidare di lei, Mr. Crowford. Abbiamo motivo di credere che ci sia un punto di spaccio di droga che parta proprio da lì» sentii Stiles. Come gli venivano in mente quelle idee? 

«Davvero? In questo quartiere?» rispondeva sconvolto il poverino. Nel frattempo cercai di aprire con non poca difficoltà la teca di vetro che proteggeva il pendolo. 

«É proprio un quartiere tranquillo come questo quello ideale per non destare sospetti» cercava di convincerlo Stiles. 

«Sì, ha ragione…» 

La teca si aprì con uno scatto e iniziai a tastare con i polpastrelli tutta la superficie all’interno e sui bordi fino a sentire uno spessore sospetto sul fondo. Con una leggera pressione il doppio fondo si rivelò e come un coperchio che viene via, rivelò uno scomparto nascosto.

«Ci pensi bene, non ha notato nulla?» incalzava Cam. Mentre Bram si sforzava di ricordare qualcosa che non poteva aver visto, la mia mano (se fosse stata più piccola avrei fatto più in fretta) cercava di afferrare il pezzo che si incastrava alla perfezione nello scomparto. 

«Ma… non sarà pericoloso? Per le mie bambine…» rifletteva. 

Mi arresi, ritirai fuori la mano, e come avevo fatto quella volta per mostrare a Stiles la mia vera natura chiusi la mano a pugno e la aprii di scatto tirando fuori gli artigli. 

«Non si preoccupi, la polizia se ne sta occupando.» Cam cercava di essergli di conforto. Con l’artiglio dell’indice finalmente riuscii a farmi spazio nella fessura e a sollevare il pezzo tanto quanto bastava per afferrarlo e tirarlo fuori. Sentii i loro passi tornare dentro e chiusi in fretta la teca. Nel momento esatto in cui rientrarono mi girai, con aria innocente (speravo) e con la guardia, il secondo pezzo del pugnale, stretta nella mia mano, nascosta dietro la schiena. 

«Fatto» mimai con le labbra a Cam mentre Crowford era distratto. 

«Bene, la ringrazio per il suo aiuto, e stia tranquillo, se ne occuperà la polizia» gli fece un sorriso caldo e rassicurante. 

 

Una volta fuori camminammo per un po’, allontanandoci dall’appartamento. Appena svoltammo sulla 40esima strada ci fermammo, guardandoci negli occhi, e cominciammo a ridere. La tensione si disperse mentre le risate galleggiavano in mezzo a noi. 

«Mi hai chiamato Holmes? Come Sherlock Holmes???» Stiles parlava a Cam continuando a ridere. 

«Ho improvvisato! E tu! Con quella storia della droga! Quel poverino sarà preoccupatissimo.» 

«È stato divertentissimo! E quando siamo rientrati tu ti eri appena girato, con il pezzo dietro la schiena! Dovremmo rifarlo» concluse Stiles. 

«Sì, certo, così perderei il lavoro in tre giorni» continuò a scherzare Cam. Mi piaceva vederli andare d’accordo. 

Quando tornammo seri (ma comunque euforici come dopo una rapina riuscita) tirai fuori il pezzo. Stiles lo prese tra le mani esaminandolo da cima a fondo. 

«Dobbiamo metterli insieme, vedere se succede qualcosa» propose. 

«Io devo andare, ma tenetemi aggiornata su tutto.» Cam ci salutò con il sorriso e la guardammo andare via sotto il sole caldo della mattina. 

 

XI


Tornammo al mio appartamento e la prima cosa che facemmo fu prendere la lama (nascosta nella cassaforte dietro la porta della mia camera). In piedi, tesi come due corde di violino, non so cosa ci aspettavamo che potesse accadere, ma trattenemmo il fiato mentre feci combaciare i due pezzi che si unirono perfettamente. 

Nulla, ovviamente non successe nulla. 

«Oh…» fece deluso Stiles «Immaginavo che si sarebbe sprigionata un’onda d’urto, ma credo di avere troppa fantasia.»

Mi fece ridere, forse perché anche io mi aspettavo qualcosa di simile. 

 

Portammo i pezzi da Walgreen che ci accolse stupito dal fatto che ci avessimo messo così poco a risolvere il mistero. Smise di coccolare Murph e la ripose con molta cura nella sua teca. 

«Allora, vediamo cos’ha da dirci questo pezzo» tese la mano e gli consegnai la guardia. Inspirò, chiuse gli occhi e si concentrò. Rimase immobile per qualche secondo, poi cominciò ad infastidirsi e riprovare ancora e ancora ma niente. Non vedeva nulla, non sentiva nulla, nessuna forza si impossessava di lui facendolo diventare un pittore o un musicista, niente.

«Proviamo con i due pezzi insieme» suggerì Stiles. Li unimmo e Walgreen riprovò.

Si sedette, cercò di stare comodo, di concentrarsi ma… niente. «Non so cosa dirvi, ragazzi, non funziona» concluse. 


Di nuovo, dopo neanche due settimane, ci trovammo al buio, senza un indizio o una pista da seguire. La cosa peggiore: il Ghul attaccava ancora, imperterrito. Il numero delle vittime aumentava mese dopo mese. Continuava a uccidere persona dopo persona e la frustrazione cresceva in me, come in Stiles, Cam e Walgreen, costretti a restare a guardare.

Dopo un mese di ricerche generiche e tanti buchi nell’acqua capii che le nostre possibilità si erano esaurite. Non c’era nulla che potessimo fare. Era stato bello illudersi di riuscirci ma dovevamo guardare la realtà dei fatti: non avevamo più speranza. Una parte di me pregava che la soluzione ci sarebbe piovuta dal cielo, come era successo con il murales, visto per caso mentre non lo stavamo neanche cercando. Il fatto che Walgreen non avesse avuto nessuna visione, però, era un segno abbastanza forte di quanto la situazione fosse arrivata al capolinea.

Un dobbio, di tanto in tanto, continuava a ronzarmi nella mente, di soppiatto, quasi come una voce che volesse suggerirmi qualcosa. Perché il secondo pezzo si trovava nell’orologio che era appartenuto a Mrs. Crowford? Se dopo il Cile ognuno dei tre Supremi aveva nascosto un pezzo del pugnale, perché proprio lì? Mi sentivo come se un pezzo mancante del puzzle ci impedisse di vedere il quadro completo (mentre ricordo questa storia so quanto poco conoscessi della verità allora). 

Raccontai a Stiles dell’orologio a pendolo e anche lui, come me, capì che un collegamento doveva esserci: con me, con Mrs. Crowford, con tutta quella faccenda. Oppure era una sorta di avvertimento, un segno del destino? Sapevo poco di quello che i Supremi fossero in grado di fare, ne avevo solo sentito parlare e non mi ero mai interessato troppo, ma se in qualche modo loro avessero potuto prevedere quello che sarebbe successo? 

«Stai dicendo che hanno visto il futuro e hanno pensato di nascondere i pezzi vicino a noi per aiutarci a ritrovarli?» Stiles parlava chiaro, sempre. 

«Se lo dici così… non ne sono più così convinto.» 

«Tanto valeva metterli tutti sotto il tuo letto, così ci saremmo risparmiati le ricerche, no?» 

Dopo aver accettato il fatto che non c’era più niente che potessimo fare sul fronte Dirkey ci misi poco a decidere che avrei affrontato il Ghul, di nuovo. Avevo meno di un mese per migliorare e diventare ancora più forte, prima che lui attaccasse, puntuale come al solito, e io potessi seguire la sua scia che già al pensiero mi faceva rabbrividire. 

Tornai a correre tutte le mattine. Salutavo Mrs. Crowford e cominciavo a correre. Le prime volte arrivavo alla Cattedrale di St. John dove avevamo trovato il primo pezzo. Mentivo a me stesso sul fatto che avrei potuto trovare qualcosa di utile (anche se in fondo ci speravo sempre), ma la verità era che continuavo a rivivere il momento in cui Stiles era piombato dal soffitto a pochi centimetri dalla mia faccia. 

In ogni caso, il percorso era piacevole e la mattina presto la strada non era affollata. Preferivo infinitamente correre tra i palazzi moderni e l’odore delle caffetterie, spostandomi da un marciapiede all’altro, schivando persone e ostacoli rispetto a girare in tondo nei parchi (per quanto stupendi questi fossero). Mi sforzavo di tenere anche i sensi da lupo attivi, aggrappandomi ad un suono molto lontano e cercando di non perderlo fino a quando non lo raggiungevo. Mi costringevo a restare vigile e attento.

Al pomeriggio mi allenavo a casa, sacco da box (rinforzato per non rompersi ai pugni di un licantropo), esercizi, pesi. Rivivevo con la mente le mosse del Ghul, gli errori che avevo commesso. Quali erano i suoi punti deboli? Ne aveva? Era forse questa una missione suicida? 

 

Il caldo asfissiante dell’estate stava finalmente cedendo il passo ad un clima più mite, non ancora autunnale ma tipico settembrino, dove il giorno si respirava aria fresca e la notte bisognava dormire sotto un lenzuolo sottile. 

Un pomeriggio, mentre con i guantoni ed un asciugamano appoggiato sul collo mi sfogavo contro il sacco, sentii la porta bussare. Non sapevo chi fosse, sentivo soltanto un cuore che batteva dall’altro lato. Lasciai i guantoni nella piccola palestra ed andai ad aprire mentre cercavo di asciugarmi il sudore come meglio potevo. Era Stiles. 

«Ciao, disturbo?» sorrise. Non lo vedevo da una settimana. Dal rossore sulle sue guance capii che doveva essere venuto a piedi senza prendere la metro. Si aggiustò i capelli verso l’alto con un gesto involontario anche se rimasero esattamente come prima. 

«No, vieni, mi stavo allenando.» Mi scostai per lasciarlo entrare. 

«È successo qualcosa?» chiesi. Si girò verso di me, vedevo che non riusciva a guardarmi per troppo tempo senza abbassare lo sguardo. Adesso lo intimidivo? Puzzavo così tanto?

«No. Sono venuto per chiederti se… se ti sei arreso. Visto che è una settimana che non…» gesticolava. 

«Stiles… Non credo che troveremo qualcosa ormai» ammisi con tanto dispiacere. 

«Ho capito. È per questo che hai deciso di affrontare di nuovo il Ghul?» Mi colpì di sorpresa. Era così ovvio? Come avrei potuto dirgli che non era vero? Non sarei mai riuscito a mentirgli. Non ce l’avevo fatta la prima volta con la storia dei lupi mannari, figurarsi adesso.

«Devo fare qualcosa, capisci? Non posso lasciare che continui ad uccidere.»

«Quindi hai deciso che a morire devi essere tu?»

 

Non aveva più il sorriso che conoscevo ed in cui mi ero perso innumerevoli volte. Sembrava ferito, come se gli avessi fatto un torto imperdonabile. 

«Stiles, cerca di capire. Ho delle responsabilità.» Fissava il pavimento. 

«C’è qualcosa che posso fare per farti cambiare idea?» 

«No» risposi e cercai di usare un tono fermo ed irremovibile. In realtà, avrei fatto tutto quello che mi avrebbe chiesto in una situazione in cui non c’era la vita di persone innocenti in ballo. 

Si lasciò cadere sul divano dietro di lui poggiando le braccia sulle gambe. 

«Quindi adesso ti stai allenando? Credi che servirà?»

Feci qualche passo verso di lui. «Ho circa un mese di tempo per prepararmi, non è molto ma l’ho già affrontato, so come ragiona.» Lo vidi riflettere. Si rialzò dal divano. 

«Permettimi di allenarmi con te» non sembrava affatto una domanda. 

«Stiles, assolutamente no! Cosa ti avevo detto prima di tutto questo? Che non volevo averti sulla coscienza. E adesso cosa mi stai chiedendo?» Rabbrividivo all’idea che potesse succedergli qualcosa. 

«Ascolta, non ti sto chiedendo di affrontarlo insieme, ti sto dicendo che vorrei aiutarti e che vorrei allenarmi insieme a te. Quando arriverà il momento me ne starò buono, a casa mia, a pregare che non ti strappi via la faccia.»

Sorridemmo. «Grazie, molto gentile.»

«Allora?» 

Avevo due possibili scenari di fronte. Il primo: essere irremovibile, dirgli di no, allontanarlo dalla mia vita. Avrei continuato ad allenarmi da solo e avrei affrontato la situazione come sempre avevo fatto quando si trattava di combattere: da solo. 

Il secondo: gli avrei permesso di restare. Avrei potuto continuare a vederlo ogni giorno come nel periodo in cui cercavamo di risolvere il primo indizio.

«Va bene.» Avevo ceduto. Ma il sorriso che si allargò immediatamente sul suo volto mi fece dimenticare subito dei timori che provavo. 

«Sul serio?!» non ci credeva neanche lui. 

«Promettimi che quando arriverà il momento ne starai fuori» dissi. 

Non stavo sorridendo, mi aspettavo che capisse quanto era fondamentale per me quella promessa. Perché quasi ogni notte prima di addormentarmi rivedevo il volto di Tyron che mi chiedeva aiuto e mai, mai, mi sarei perdonato se qualcosa fosse successo a Stiles. «Promesso» rispose, serio come speravo. 

«Domani mattina alle 7 e 30 sotto casa tua. Corriamo.» 

«Alle 7 e 30 del mattino?!» 

Alzai le sopracciglia. «Vuoi già tirarti indietro?» 

«No, no, 7 e 30 va benissimo» sorrise. 

 

Nonostante Stiles fosse magro dire che fosse in forma sarebbe del tutto incorretto. Cercavo di non lasciarlo dietro mentre correvamo e tenevo un passo volutamente più corto ignorando il fatto che quel tipo di allenamento non mi era quasi di nessuna utilità. 

«I lupi mannari non sudano mentre corrono?» mi disse quasi senza fiato dopo neanche dieci minuti. 

«Suderei, se corressi sul serio» alzai le spalle. Si fermò di colpo sul marciapiede quasi deserto.

«Ti stai per caso trattenendo, Hale?»

Mi fece sorridere e per evitare di rispondere alzai gli occhi al cielo. 

«D’accordo. Vediamo chi arriva prima a quella fermata dell’autobus» indicò con l’indice la pensilina ad un centinaio di metri davanti a noi. 

«Stiles… è inut-» 

«Via!» gridò a pieni polmoni e cominciò a correre molto più velocemente di quanto avesse fatto prima. Lo feci arrivare a metà percorso prima di partire. Lo superai a venti metri dalla fine, tagliando il traguardo sotto i suoi occhi sbalorditi. Stiles stava per sputare un polmone dalla fatica, era rosso come l’insegna del Burger King dietro di noi e poggiava le mani sulle ginocchia per riprendersi. 

«Non è stato molto intelligente sfidare un licantropo in una gara di velocità, vero?» trovò la forza di dire. 

«No, non è stata proprio una gran mossa» risi. Il profumo della sua pelle rimbombava nelle mie narici così forte che dovevo concentrarmi per ignorarlo. 

«Comunque non dovresti trattenerti per stare al passo con me, possiamo trovare un altro modo.» 

«Cosa proponi?»

 

Da quel giorno Stiles corse lungo tutta Park Avenue da Nord verso Sud, e io mantenendo la mia andatura sostenuta giravo intorno ad ogni palazzo del lato Ovest. In questo modo riuscivamo a percorrere insieme alcuni tratti di strada. Ogni giorno Stiles mi sfidava ancora a chi arrivava primo a qualsiasi cosa fosse nel raggio di cento metri e ben identificabile. Ogni giorno gli lasciavo un po’ di vantaggio e quando era vicino alla fine lo battevo. 

«Non mi lascerai mai vincere, neanche per pietà?» 

«No… No, non credo che lo farò» ridevamo. 

 

Al pomeriggio Stiles veniva da me per l’allenamento col sacco da boxe. Durante le pause gli raccontavo dello scontro con il Ghul cercando di analizzare il suo tipo di attacco (che fondamentalmente si basava tutto sulla forza bruta) e tentavamo di mettere su una strategia di difesa/contrattacco. 

 

Un pomeriggio, mentre Stiles faceva le trazioni (già visibilmente più in forma di quando avevamo cominciato), il ricordo dello scontro si fece più vivido nella mia mente e un moto di rabbia mi spinse a colpire il sacco con più forza di quanta credevo di averne. In un decina di colpi il sacco cedette e si staccò dal soffitto, andando a finire sulla parete della stanza. «Cavolo.» Stiles si staccò dalla sbarra e tornò con i piedi per terra. 

«Ogni tanto mi succede, chiamerò qualcuno per ripararlo» lo rassicurai mentre riprendevo fiato. Camminò fino a raggiungere il cesto nell’angolo e ne estrasse due paracolpi. Li indossò mentre io sistemai il relitto del sacco in modo da non essere di intralcio. 

«Allora, proviamo questi?» fece per battere le mani per attirare la mia attenzione. 

«Stiles, ancora non hai capito che con me potresti farti male?» dissi. 

«No, non credo che tu mi farai del male» rispose guardandomi fisso negli occhi. Mi chiesi se stavamo ancora parlando della boxe.

«Coraggio, proviamo» mi incitò, piegando leggermente le ginocchia e mettendosi in posizione. Diedi un primo pugno con il sinistro. Naturalmente non usai tutta la forza che avevo. Stiles indietreggiò di un passo. 

«Tutto qui?» mi provocò. Tirai un destro, leggermente più forte. Indietreggiò ancora e si rimise in posizione. Poi veloci un destro e un sinistro. Stiles allungò il destro e io lo schivai. In poco prendemmo il ritmo: destro, sinistro, destro, schiva a destra. Poi il contrario. Mi concentrai così tanto sui miei colpi che dimenticai che era Stiles quello di fronte a me (impossibile, eppure) e i miei sensi da lupo mi portarono ad essere sempre più veloce, fino a quando lui non seppe mantenere il mio ritmo e il mio destro lo colpì in pieno volto sull’occhio sinistro. 

«Cazzo!» gridai d’istinto. 

«Ahia.» Stiles strizzò gli occhi. Mi tolsi rapidamente i guantoni e gli presi il volto tra le mani avvicinandomi per analizzare il danno. L’occhio sarebbe diventato sicuramente nero e gonfio. 

«Stiles, mi dispiace… perdonami» gli sussurrai. Realizzai di essere incredibilmente vicino, come quella volta al St. John, e la tentazione di riascoltare di nuovo il suo battito fu troppo forte per ignorarla. 

Di nuovo, il suo cuore era incredibilmente veloce. Mi dissi che era per lo sforzo fisico. Riuscivo a sentire il suo alito fresco di menta senza il bisogno di usare l’olfatto da lupo e mi persi di nuovo nel colore dei suoi occhi. 

«Non… non fa niente» rispose. Non avevo ancora lasciato la presa dal suo volto. Mi accorsi che mi stava guardando le labbra. 

«Vado a prenderti del ghiaccio» dissi e mi separai di scatto fiondandomi in cucina. Con le mani poggiate sul marmo gelido del ripiano mi concessi qualche secondo per riprendermi. Mai nella mia vita avevo resistito ad un istinto così forte. Il desiderio di annullare quei pochi centimetri che ci separavano era così risonante nella mia testa e in tutto il resto del mio corpo che ero cosciente del fatto che se fosse successo di nuovo non avrei saputo trattenermi. Preparai un impacco di ghiaccio e tornai da lui. Stiles si era seduto a terra con le gambe incrociate e la testa tra le mani. 

«Tieni» gli porsi la bustina ghiacciata. 

«Grazie.» La poggiò sull’occhio sussultando a contatto con la superficie gelida sulla palpebra.

«Stiles, davvero mi dispiace.»

«Non fa niente, sul serio. Non è niente. E poi ti ho chiesto io di farlo.» Si alzò. 

«Comunque è meglio che vada adesso, grazie per il ghiaccio.»

Si incamminò verso la porta. Lo seguii e poco prima che chiudesse la porta alle sue spalle lo chiamai. 

«Ci vediamo domani mattina?» (ripensandoci adesso temo che il mio tono fosse più supplichevole di quanto avrebbe dovuto, ma tutto quello che volevo sapere era se fra di noi le cose erano apposto). Con mio grande sollievo sorrise: «Certo, 7 e 30. Non fare tardi» mi minacciò scherzosamente con il dito e andò via chiudendo la porta. 

Le cose tra di noi continuarono come se non fosse successo nulla. O meglio, come se non ci fosse stato nessun momento bloccato nel tempo in cui eravamo rimasti pericolosamente vicini e l’unica prova tangibile dell’accaduto era il contorno viola dell’occhio di Stiles che mi faceva provare una rabbia incommensurata verso me stesso, mi fissava come costante promemoria che gli avevo fatto del male.

 

XII


Una sera di qualche giorno dopo mi addormentai molto presto, stanco e sfinito dall’allenamento. Come un appuntamento fisso venne a trovarmi il sogno dalla melodia bianca che mi sforzavo di memorizzare mentre correvo (nel sogno) inseguendola senza mai riuscire a raggiungerla.

Mi svegliai a causa di un rumore in soggiorno. Quando varcai la soglia della cucina vidi Walgreen intento a prepararsi un thè. Non aveva acceso le luci ed era immerso nella penombra e nel chiarore della luna che passava attraverso le finestre. Indossava una vestaglia di raso rosso con motivi floreali antichi cuciti a mano. Portava un make up più leggero del solito e i suoi capelli erano raccolti in un bun disordinato che faceva risaltare i suoi lineamenti felini. 

«Wal? Che ci fai qui?» chiesi mentre mi stropicciavo gli occhi ancora sonnolenti. Alzò la testa colto quasi di sorpresa dalla mia voce. 

«Oh, caro» disse con naturalezza, come se non si aspettasse di vedermi nella mia stessa casa. 

«Sono passato per un saluto» prese il barattolo con gli infusi e ne scelse uno a caso 

«E un thè» aggiunse sollevando la bustina. Mi sedetti sullo sgabello che si affacciava sul ripiano di marmo e nel silenzio della notte aspettammo che il bollitore facesse il suo dovere. «Gradisci?»

«No, grazie» scossi la testa e lui prelevò soltanto una tazza dallo scomparto sopra i fornelli. Versò l’acqua bollente e cominciò a far girare la bustina da infuso in senso orario, con l’indice, senza toccarla, usando la magia e un movimento costante del polso. Era appoggiato sul ripiano di fronte a me. 

«Allora… una voce mi ha detto che intendi affrontare il Ghul» finalmente esordì. 

«Stiles è venuto da te?» chiesi. Walgreen annuì senza smettere di girare il suo thè fumante. «Cosa ti ha detto?» 

«Mi ha chiesto di dissuaderti dal morire.» 

«Non ci credo» mi sfuggì dalle labbra. 

Un senso di tradimento mi attraversò lo stomaco. 

«Hale, so che sei forte ma credimi… lui è più forte. Ho visto di cosa sono capaci questi cazzo di demoni.» Mi alzai dallo sgabello. 

«Lo so, ci ho combattuto, ricordi?» 

«Sì, infatti! E sei quasi morto o sbaglio?»

Le nostre voci quasi rimbombavano, il tono molto più alto del normale. 

«Sì, ma adesso lo conosco meglio e posso batterlo.» Walgreen posò la tazza sul ripiano e fece un passo verso di me. 

«Invece no! Sono passati quattro mesi e adesso sarà forte almeno il doppio di prima, a questo ci hai pensato?» 

No. Non ci avevo pensato. 

«Cosa dovrei fare? Eh? Rimanere a guardare mentre mese dopo mese un innocente muore?»

Non seppe rispondere. Avevo paura che avremmo svegliato Mrs. Crowford con le nostre urla. 

«Non puoi salvare tutti, Hale» concluse. Ma invece dovevo. O almeno, avrei dovuto provarci. Era tutta la vita che provavo a far tacere quella voce che mi diceva di non poter far niente per proteggere persone innocenti. Innocenti erano mia madre, le mie sorelle, tutto il mio branco e io loro non li avevo salvati. Se avessi potuto scambiare la mia vita con la loro l'avrei fatto senza neanche pensarci. Sarei voluto morire io tra le fiamme, soffocato dal fumo, con gli occhi che bruciavano. Innocente era Tyron, che mi guardava speranzoso appena prima che gli squarciassero la gola. 

«Se devo morire provandoci, lo farò. E tu non puoi fermarmi.» Walgreen tirò un respiro profondo, poi abbassò le spalle. 

«Allora verrò con te.» E prima che io potessi parlare aggiunse: «Non si discute.» 

Non risposi. Un aiuto mi sarebbe servito. Riprese la tazza e fece un lungo sorso. 

«Dopo tutto questo tempo, Hale, mi tieni ancora in pugno. La mia proposta è sempre valida.» Arrossii ma speravo che la penombra mi aiutasse a nasconderlo. 

«Io… non posso accettare.» Sorrise con la metà sinistra della bocca. 

«No, certo, soprattutto adesso che hai il ragazzino.» 

Quelle parole mi colpirono come una frusta in pieno volto ma prima che potessi ribattere Walgreen aveva già aperto un portale per il suo appartamento e sorridendomi, dopo aver sussurrato «Buonanotte» ci sparì dentro. 

 

Il mattino dopo piovve. La prima vera pioggia dopo mesi di caldo e sole. Non faceva freddo ma l’aria era leggera e sembrò che finalmente qualcuno avesse alzato il coperchio che creava una cappa afosa sulla città. Non avevo nessuna voglia di allenarmi ne tanto meno di vedere Stiles e il pensiero di non presentarmi al nostro appuntamento per la corsa della mattina mi stava ronzando intorno da quando ero tornato a dormire dopo che Walgreen era andato via. Decisi di essere troppo nervoso per affrontarlo, così non ci andai. Rimasi a letto, con il mal di testa e il rumore della pioggia che sbatteva sul vetro. 

Quindici minuti dopo le 7 e 30 (l’orario in cui avremmo dovuto vederci sotto casa sua) suonò il citofono. Lo ignorai. Suonò ancora. Mi alzai. 

«Chi è?» domanda inutile: era Stiles. 

«Mi apri?» 

«Non mi sento bene, Stiles. Ci vediamo domani» chiusi il contatto. Suonò di nuovo. 

«Derek, andiamo, apri, voglio parlarti.» Aprii il portone. Venti secondi dopo bussò alla porta. La pioggia lo aveva bagnato come un pulcino e la sua felpa grigio chiaro era diventata di tre tonalità più scura. I suoi capelli erano completamente zuppi e appiccicati alla fronte. Aveva goccioline di pioggia sul volto, sulle gambe scoperte sotto il ginocchio. Profumava di muschio e fiori bagnati ma cercai di non pensarci e concentrarmi su quanto fossi arrabbiato con lui. 

«Non avevo visto che pioveva» alzò le spalle. 

«Posso entrare?» chiese. Mi scostai per lasciarlo entrare. 

«Hai visto Walgreen, immagino» rimase fermo al centro del soggiorno, in piedi di fronte a me. Annuii. 

«Perché sei andato da lui, Stiles?» 

Guardò per terra. «Mi dispiace… ma dovevo fare qualcosa!» 

«Perché siete contro di me in questa cosa? Perché non mi lasciate fare l’unica cosa che so fare?» il mal di testa mi stava uccidendo dal dolore. Ero stanco di gridare, di litigare. 

«Non siamo contro di te» disse. Feci due passi verso di lui. 

«Allora perché sei andato da Walgreen alle mie spalle? Pensi che io non sia consapevole del pericolo che corro?» Stiles fece un passo verso di me. 

«Speravo che lui sarebbe riuscito a farti cambiare idea» ammise. 

«Ma io non posso cambiare idea, lo capisci?» mi resi conto che gli stavo urlando addosso troppo tardi. 

«Devo fare qualcosa, devo provare a salvarli.»

Notai che gli occhi di Stiles erano diventati acquosi. 

«Non puoi morire così!» urlò ancora più forte di me. 

«Perché non puoi lasciarmelo fare?» gli gridai di rimando. Fece un finto sorriso e guardò in alto per rimandare indietro le lacrime. Alzo le mani e tirò su le spalle. 

«Non l’hai capito ancora?» disse con la voce rotta. Percorsi il restante metro che ci separava prima di rendermene conto e presi tra le mani il suo volto umido. Finalmente le mie labbra si unirono alle sue, morbide, lisce. Aveva il sapore del caffè e del cacao e ricambiò il mio bacio. Mentre le sue mani si agganciavano al mio collo e non c’era più nulla a separarci mi dimenticai della paura, del Ghul, del mal di testa. C’erano solo Stiles e le sue labbra, i suoi capelli umidi, la sua pelle di porcellana. Riprendemmo fiato. Potei guardarlo più vicino di quanto avessi mai fatto e mi specchiai nella profondità del marrone dei suoi occhi. Gli accarezzai lo zigomo con il pollice come avevo fatto tantissime volte nella mia mente, seguendo quel contorno perfetto. Sentivo di camminare metri e metri da terra e non sarei mai voluto scendere. 

«Devi farlo per forza, vero?» sussurrò Stiles con la fronte poggiata alla mia. «Mi dispiace» risposi. 

 

XIII


I giorni che seguirono furono scanditi dal ritmo lento dei nostri baci alternato alla dinamicità dell’allenamento. Stiles diventava visibilmente più in forma (o almeno, i miei occhi clinici ci avevano fatto caso) e riusciva a correre più velocemente stancandosi meno, anche se non fu mai in grado di arrivare per primo nelle nostre sfide di velocità.

Una volta ci ritrovammo stesi sul divano di casa sua, con un canale musicale alla tv che faceva da sottofondo e la finestra semi aperta che faceva passare l’aria fresca del pomeriggio straordinariamente assolato. Gli accarezzai delicatamente il contorno dell’occhio ancora pesto. 

«Ti fa male?» chiesi. 

«Un po’, ma non fa niente.» 

«Fammi provare una cosa, okay? Stai fermo.» 

«Okay.» Mentre io osservavo concentrato la sua palpebra scura e le sfumature di viola e verde scuro che si mescolavano come in un dipinto, i suoi occhi fissavano i miei, verdi, facendomi sentire completamente allo scoperto eppure… non vulnerabile. In poco tempo le vene leggermente sporgenti del mio braccio sinistro diventarono nere, piene del dolore di Stiles. Quando se ne accorse sfuggì quasi dalla mia presa, impressionato. 

«É così strano» disse stupito. 

«Ti fa male?» chiese. 

«Un po’» gli sorrisi, imitando la sua risposta. Interruppi il contatto e portai la mano sulla sua schiena per stringerlo ancora più vicino a me. 

«Sei incredibile» bisbigliò. 

«Questa è quasi l’unica cosa bella, Stiles. Sono un lupo mannaro, non c’è niente di affascinante.»

«Oh sì che c’è, invece. Sei tu che non lo vedi. Se ti vedessi con i miei occhi capiresti.» 

Pensai che mia madre avrebbe adorato Stiles. Che per me avesse voluto qualcuno in grado di apprezzarmi come faceva lui. Desiderai che potessero incontrarsi e soffocai una lacrima al pensiero che non avrei mai potuto dirle quanto fossi felice in quel momento. 

 

Forse spinti dalla paura sorda che quelli fossero gli ultimi e unici giorni in cui potevamo stare insieme (entrambi sapevamo che dallo scontro sarei potuto non tornare ma non ne parlavamo, fingevamo apertamente che non fosse una possibilità mentre io ne soffrivo e sapevo che anche Stiles temeva l’ipotesi della mia morte) o forse perché l’inizio di una relazione è sempre il periodo più roseo, in cui l’attaccamento è così forte che separarsi per anche solo un’ora provoca lo stesso dolore della perdita di un arto, trascorremmo quasi l’intero periodo insieme. A casa mia, a casa sua, giravamo per la città, passavamo le ore seduti sulle panchine del St. Nicholas Park in una cornice di alberi mezzi spogli che abbracciavano l’inizio dell’autunno. Stiles non aveva ancora iniziato i corsi del nuovo anno e aveva già dato tutti gli esami di quello precedente quindi non doveva studiare e poteva dedicarsi completamente (mi sembra stupido dirlo, mi sento come un bambino che ha bisogno di attenzioni) a me. 

 

Avevo trovato per puro caso un negozio in Claremont Avenue che vendeva infusi da thè dai gusti più improbabili e con nomi assolutamente singolari come “Notte di agosto sulla sabbia bagnata dal mare” e “Fuoco di caminetto a gennaio inoltrato” così ne comprai un paio per Stiles. 

«Finalmente quel caldo terribile è finito e io posso tornare a bere thè in santa pace senza dover raggiungere i cinquanta gradi corporei» diceva quasi ogni volta che cominciava a piovere e per uscire c’era bisogno di indossare la giacca. 

Rise per quindici minuti quando mi presentai alla sua porta con una confezione di thè “Bosco selvaggio bagnato da pioggia autunnale”. Con nostro grande dispiacere sapeva di muschio, terra, castagne e aveva un retrogusto legnoso. Dovemmo buttarlo, anche se Stiles disse almeno un centinaio di volte che aveva adorato il pensiero e che avremmo dovuto provarli tutti (io rabbrividivo al pensiero). 

 

Non gli raccontai mai che ascoltavo il battito del suo cuore. Lo facevo mentre ci baciavamo, prima di aprire la porta di casa per vedere come accelerava quando mi vedeva. Ma anche in momenti insospettabili, quando stava seduto sulla poltrona a leggere un libro e cambiava posizione ogni due pagine. 

Lo ascoltavo suonare per un tempo che adesso non sono in grado di quantificare. Certe volte non resistevo e lo interrompevo per un bacio, oppure lo abbracciavo da dietro mentre stava seduto sullo sgabello da pianista mezzo rotto ma lui non si fermava e io sentivo le sue braccia dondolare sotto le mie. Di tanto in tanto componeva. Poggiava la matita sull’orecchio il tempo necessario per appuntare le note sui pentagrammi disegnati a mano. 

«Scriverai un brano per me un giorno?» gli chiesi una volta. Mi guardò, sorrise e disse: «Forse.» Mi fece l’occhiolino e riprese a suonare. 

 

Nei momenti di intimità mi baciava la schiena (nessuno lo aveva mai fatto prima, c’era una dolcezza in quei gesti che non avrei mai creduto esistesse) e mi sfiorava con i polpastrelli i contorni del tatuaggio. Capivo che in quei momenti si perdeva in posti della sua mente a cui non avrei mai avuto completamente accesso ma dove ogni tanto mi permetteva di affacciarmi, fare una rapida perlustrazione e uscire. 

«Ti manca molto?» chiesi senza bisogno di specificare.

«Terribilmente. Penso a lei ogni giorno.» 

«Ti capisco.» 

«Vorrei sapere dov’è adesso, se mi vede, se sta bene.» 

«Mi piace pensare che siano in posto tranquillo» ammisi. «Magari mia madre e tua madre si sono conosciute, in quel posto» sorrise. 

«Già, magari.»

 

Stiles non perse mai le speranze nel pugnale. Non me lo diceva ma io mi ero accorto che alcuni libri di Walgreen cambiavano spesso ordine e ne trovai addirittura uno incastrato nello spazio tra i cuscini del divano. Gli avevo lasciato i due pezzi che avevamo trovato e di tanto in tanto se li girava tra le mani, li separava per studiarli separatamente e poi li rimetteva insieme. 

«Mi ricorda così tanto qualcosa…» borbottava. Una volta passò tutto il giorno ad analizzarli sotto la lente d’ingrandimento per cercare un incisione o qualcosa di utile, ma nulla. Alla fine lasciava i pezzi sul coperchio del pianoforte e finivano per diventare pezzi d’arredamento. Sembrava arrendersi… fino al giorno dopo. 

 

Mancavano pochi giorni all’attacco del Ghul e la tensione ci faceva sentire come se una bomba potesse esplodere da un momento all’altro. Intensificai gli allenamenti e iniziai a correre anche di notte, quando le strade erano quasi completamente deserte e potevo spingermi fino alla massima velocità. Rispetto al mio primo incontro con il demone sarei stato molto più forte, ma mi chiedevo se sarebbe bastato. Alternavo momenti di massima fiducia in me stesso in cui mi vedevo trionfante con la testa del Ghul tra le mani, a momenti di incertezza in cui mi screditavo così tanto da credere che mi avrebbe messo fuori gioco al primo pugno, perché come aveva detto Walgreen, anche lui era diventato più forte. In più, il solo pensiero della sensazione di terrore e i brividi causati dalla sua scia di freddo mi mettevano agitazione. 

 

Un pomeriggio dopo un’intensa sessione di allenamento e una doccia andai a casa di Stiles. Avevamo in programma di vedere un film ma lui stava finendo di comporre il suo pezzo e mi disse: «Ci metto poco, giuro» e mi fece gli occhi da cucciolo abbandonato. 

«Finisci con calma» gli diedi un bacio sulla fronte (mi faceva morire il fatto che fosse solo pochi centimetri più basso di me). Dal divano lo osservai silenziosamente di profilo mentre alternava la scrittura alla pratica e sventolava la matita che faceva avanti e indietro sull’autostrada dall’orecchio al foglio. C’era una sola cosa in quel quadro perfetto che mi disturbava distraendomi dal momento: quel singolo tasto mancante che con la sua ombra buia interrompeva l’armonia dei pezzi bianchi alternati ai neri. Vedevo le sue dita, molto spesso l'anulare della mano sinistra, che ci si fermavano ogni tanto perchè avrebbero voluto suonarlo ma non lo trovavano e rimanevano sospese proprio come se fosse lì e immaginavo che nella sua testa Stiles sentisse il suono esatto che avrebbe dovuto riprodurre. 

«Un giorno ti comprerò un pianoforte» lo interruppi. Si girò per guardarmi e aggrottò le sopracciglia come per dire Come ti viene? così aggiunsi: 

«Non sopporto che uno bravo come te debba suonare un pianoforte senza un tasto, è inconcepibile. Te lo regalo io, tu dimmi solo che colore lo vuoi.» 

Si mise a ridere facendo comparire la fossetta che amavo tanto a sinistra della sua bocca.

«Ma a me piace tantissimo questo… forse proprio perché gli manca quel tasto» poggiò la mano sulla fessura e ne tracciò i bordi. Sembrò che un fulmine gli fosse caduto a pochi centimetri di distanza. Mi guardò con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta.

«Cosa c’è?!» mi preoccupai. Ma avevo già visto quello sguardo, era lo stesso della sera in cui guardando quello stupido programma televisivo aveva capito che il messaggio scritto ai piedi del leone era un codice. 

«Dirkey è il nome del pugnale, no?» chiese.

«Sì, certo» mi sembrava ormai assodato, ne parlavamo da mesi. 

«Ma è Dirk che significa pugnale. Key invece significa chiave.» Senza bisogno di alzarsi allungò la mano per afferrare i due pezzi del Dirkey poggiati sul coperchio del pianoforte e li separò come aveva fatto tante volte. Rimise cautamente la lama a posto e si girò nella mano la guardia del pugnale in un gesto automatico fino a tenerla tra l’indice e il pollice della mano sinistra.

«Ma key ha così tanti significati… Piano key, ad esempio, significa» non finì la frase. Si posizionò esattamente sopra il tasto nero mancante e io ebbi un sussulto quando, di profilo, constatai che la misura era perfetta. La mano gli tremava leggermente ma calò sulla tastiera con precisione e la guardia si incastrò perfettamente. 

«Tasto del pianoforte» conclusi io. Stiles mi guardò come per cercare la conferma che non stesse sognando, che tutto quello stava accadendo veramente. 

«Stiles sei un genio!» gridai alzandomi. Lui non aveva parole, era troppo sconvolto. Con l’indice premette il tasto che ridava armonia all’insieme anche se il marrone antico in cui era tinto il metallo risaltava tra gli intervalli di nero e bianco. Ne uscì un suono composto, accordato, equilibrato. 

«Adesso cosa facciamo?!» chiese Stiles. 

«Non lo so… prova a suonare qualcosa» improvvisai. Mi sentivo elettrizzato. Stiles cominciò a suonare un brano che gli avevo già visto eseguire diverse volte e notai la differenza adesso che le sue dita incontravano un peso dove fino a poco prima galleggiavano. Stiles suonava con enfasi e si faceva trasportare ma rispettava i cambi di andatura e alternava il forte al piano come il compositore aveva indicato nello spartito che lui sapeva a memoria. Quando il brano finì non accadde nulla. Cosa ci aspettavamo che sarebbe accaduto?

«Credi che possa essere un caso?» mi chiese Stiles. Poteva esserlo? 

«Per tutto questo tempo la risposta è stata qui? In casa mia?» continuò. 

«Dopo il coinvolgimento di Bram… adesso questo? Allora c’è davvero un collegamento con noi» replicai. 

«Se la risposta è qua, in questo pianoforte, mi darai tempo per trovarla?» si girò sullo sgabello per guardarmi negli occhi. La situazione non era delle migliori: da un lato il Ghul avrebbe attaccato da un giorno all’altro e io avrei dovuto seguire la sua traccia, provare a combatterlo, probabilmente rimanere ucciso, molto meno probabilmente l’avrei ucciso. Dall’altro lato, eravamo un passo più vicini al ritrovamento dell’ultimo pezzo del pugnale che ci avrebbe permesso di avere una valida arma dalla nostra parte e che faceva schizzare la mia possibilità di non morire ad un 50% in più. Eppure, quanto effettivamente eravamo vicini a trovare l’elsa? Per quanto ne sapevamo il punto in cui eravamo ora avrebbe potuto condurre soltanto ad un altro indizio, che avrebbe richiesto ancora altro tempo, e questo sarebbe costata la vita ad una persona innocente. Ed io ero così stanco di vedere le foto delle vittime accumularsi sulla lavagna investigativa di Stiles. 

«Non lo so, Stiles» risposi. 

 

XIV


Invitammo Cam e Walgreen per un thè a casa di Stiles, così dicemmo, aggiungendo che c’era qualcosa che dovevano vedere. Loro sapevano già del fatto che avrei affrontato il Ghul ed ero certo che se avessero potuto mi avrebbero legato ad una sedia fino a quando non ci sarebbe stato più uno straccio di traccia da seguire. Erano tre delle persone a cui più tenevo e avrei dato la vita per loro.

 

Cam si presentò puntuale come un orologio svizzero e portò con sé una scatola di cioccolatini firmato Jomar Chocolate, una delle cioccolaterie più rinomate di New York (vidi Stiles trattenersi dallo strappargliela di mano e infilarsi tutto il contenuto in bocca in meno di un minuto). 

«Tutto bene?» chiese a Stiles indicando l’occhio ancora leggermente sfumato di viola chiaro. Stiles parve quasi essersene dimenticato. 

«Oh, sì! Questo! É stato lui» disse indicandomi e di proposito mantenne un tono neutrale facendo credere che fosse una cosa che capitava tutti i giorni. Cam si girò a guardarmi sorpresa. 

«Che cosa hai fatto a questo poverino?!» domandò. 

«Niente! É stato un incidente!» mi difesi. Stiles intanto rideva già sotto i baffi. Cam capì l’andazzo e ci sorrise. Volevo dirle di noi ma non sapevo esattamente come fare. Sapevo che non sarebbe stata altro che contenta ma avevo paura che le ricordassimo Henry e che questo avrebbe potuto farle male. A risolvermi ogni paranoia ci pensò Stiles che mi mise il braccio intorno al collo in un gesto automatico e poco mal interpretabile. 

«Ho scoperto che è pericoloso fare a pugni con un lupo mannaro» le disse. Lei sorrise ancora: «Oh, lo so. E quello è niente» ammiccò. Con grande piacere non vidi tristezza nei suoi occhi, solo una punta impercettibile di nostalgia che però forse non l’avrebbe mai abbandonata completamente. 

 

Quando Walgreen fece uno dei suoi ingressi appariscenti attraversando il vortice di scintille una coltre di fumo passò insieme a lui posandosi sul pavimento così densa che non eravamo più in grado di vederci le scarpe. 

«Buonasera.» si presentò. Aveva una una camicia verde sgargiante piena di ornamenti e ghirigori cuciti a mano leggermente sbottonata sul collo che lasciava intravedere dei tatuaggi ad inchiostro bianco che decoravano il suo petto scuro. Il contorno dei suoi occhi e sfumato da un ombretto verde luminoso e un generoso strato di illuminante delineava il suo zigomo alto. 

«Oh, finalmente ce l’avete fatta?» disse guardando il braccio di Stiles che mi circondava. Arrossii, non potei farne a meno, e anche Stiles che si ritirò d’istinto e borbottò: «Apro la finestra prima che questo fumo ci intossichi.»

«Oh, giusto.» Walgreen con un gesto della mano chiuse il portale alle sue spalle. Cam rimase parzialmente scioccata dall’entrata ad effetto. Non sapevo quanto conoscesse le creature soprannaturali al di fuori dei lupi mannari ma anche se avesse fatto la conoscenza di cento Nissen diversi, Walgreen sarebbe comunque risultato abbastanza stravagante.

«Oh, salve» le disse Wal quando la notò e le porse la mano. Cam la strinse e mantenne tutta la compostezza che la caratterizzava: «Detective Bennet, piacere di conoscerla.»

Lui rispose con un sorriso felino: «Walgreen, incantato.»

Stiles nel frattempo aveva messo l’acqua nel bollitore e preparato il suo amato servizio da thè con quattro tazze in ceramica poggiate su quattro piattini della stessa fantasia. Ci raggiunse attorno al tavolo e prese i due pezzi del Dirkey iniziando a spiegare: «Sapete che avevamo quasi interrotto le ricerche del terzo pezzo, giusto?» Loro annuirono. 

«Okay, forse prima è meglio che vi spieghi che quel pianoforte» lo indicò con la mano «l’ho acquistato un paio di anni fa da un antiquario qui a New York a un prezzo abbastanza basso perché gli mancava un tasto. E… oggi abbiamo scoperto per caso questo.» Prese i due pezzi e li separò, andò vicino il pianoforte e inserì la guardia proprio come aveva già fatto poche ore prima, fino a che quella fece uno scatto impercettibile. Le loro facce furono visibilmente sorprese. 

«Curioso» disse Walgreen. 

Presi la parola: «E questo si unisce al fatto che Bram, l’uomo del tuo ritratto» feci cenno a Wal «fosse il nipote della signora che abita nel mio palazzo al piano di sotto. Insomma, pensiamo che questa storia sia collegata in qualche modo a noi.» 

«Wow.» Cam sussurrò tra sé e sé. 

«Potrebbe essere, anche se non mi spiego ancora come» ammise Walgreen. 

Il bollitore iniziò a fischiare e Stiles andò a riempire le tazze dell’acqua fumante e le distribuì attorno al tavolo insieme al suo prezioso raccoglitore con gli scomparti contenente almeno trenta varietà diverse di infusi. 

«Al di là di questo» chiarii, «il Ghul colpirà da un giorno all’altro. E non sappiamo quanto potrebbe volerci per trovare quest’ultimo pezzo» conclusi mentre facevo galleggiare un infuso dal filo sottile. 

«Oh, ma potreste essere così vicini!» disse Cam. 

«Grazie! Ti prego, diglielo anche tu! Posso suonare fino a rompermi le dita se serve a trovare l’ultimo pezzo, ho solo bisogno di tempo.» Stiles faceva avanti e indietro dalla cucina portando una volta il miele, poi lo zucchero, poi dei biscotti in un piattino. 

«Ma la sua scia durerà poco dopo l’attacco, se dovrò cercarlo-» Walgreen mi corresse «dovremo» con sguardo severo, «se dovremo cercarlo andrà fatto subito. Altrimenti passerà un altro mese e un’altra persona dovrà morire.» 

Seguirono istanti di silenzio in cui l’unico rumore in tutta la stanza era lo sbattere dei cucchiaini che giravano nelle tazze. 

«Allora non dovete perdere neanche un minuto e cercare l’ultimo pezzo fino a quando non saprò della prossima vittima. A quel punto potrai andare a sacrificarti» suggerì Cam. «Potremo» la corresse Walgreen. «Potrete» ripeté lei. 

«Ma un giorno potrebbe fare la differenza e avere o no il pugnale è determinante!» provò a convincerci Stiles. 

«Il ragazzo ha ragione.» Walgreen accavallò le gambe con un movimento agile in una posa signorile. 

«Nessuno di noi vuole che tu muoia, Hale» Cam mi guardò fisso negli occhi. 

«Lo so, neanche io ho questo desiderio impellente di morire. Men che meno adesso. Ma non posso sopportare che altre persone muoiano.» Calò di nuovo il silenzio. 

«Se hai deciso è così che deve essere» concluse Cam. 

«Ma tu non arrenderti fino all’ultimo minuto» guardò Stiles negli occhi e gli sorrise infondendogli fiducia. 

«Bene, allora è deciso. Il ragazzo cercherà il pezzo, tu continuerai ad allenarti fino a quando la detective non troverà il prossimo cadavere. Io verrò con te.» Walgreen finì in un sorso il suo thè e si alzò.

«Adesso scusatemi ma devo andare, ho un appuntamento con una coppia di korrigan.» Si girò verso Cam: «É stato un piacere conoscerla» poi verso Stiles: «Buona fortuna» e infine verso di me: «Speriamo di non morire, eh?» 

Aprì il portale e ci si fiondò dentro e solo all’ultimo, quando si stava già richiudendo alle sue spalle, aggiunse: «Grazie per il thè!»

Cam ci lasciò poco dopo con la promessa che mi avrebbe contattato appena avesse saputo qualcosa e, cosa che non aveva mai fatto, mi salutò con un abbraccio, che se pur breve fu intimo e tenero e lo interpretai come l’addio che non sarebbe mai stata in grado di darmi. Solo in quel momento capii cosa avrebbe significato per lei perdermi dopo aver perso Henry e realizzai che a volte ci vuole tanto coraggio per andare via quanto ce ne vuole per lasciare andare via. 


Stiles cominciò a suonare appena fummo di nuovo soli. Suonava qualsiasi cosa ricordasse a memoria e quando non gli veniva nulla in mente prendeva uno spartito a caso fra quelli appoggiati al lato del coperchio. Alle 10 di sera, quando le regole condominiali impedivano di suonare, spinse il pedale centrale dei tre collocati in basso al pianoforte e sentii un rumore meccanico provenire dall’interno. Mi spiegò che era il pedale della sordina e che questo gli avrebbe permesso di continuare a suonare perché serviva ad attutire il suono. Avrei voluto aiutarlo, tanto. Avrei voluto dimostrargli che non era una sua battaglia personale ma che anche io volevo trovare l’elsa del pugnale e che non volevo morire. Però non sapevo come farlo e me ne stavo lì seduto sul divano ad osservarlo senza stancarmi mai. Sporadicamente si alzava e tirava fuori libri, antologie, raccolte di brani. Il tempo passò molto più velocemente di quello che percepivamo e a notte fonda sembrava che una pioggia di spartiti si fosse abbattuta nell’appartamento lasciando pozzanghere di fogli sparsi ovunque. 

Convinsi Stiles a fare una pausa alle quattro del mattino e si addormentò immediatamente tra le mia braccia. Ricordo di aver pensato a quanto sarebbe stata poetica l’immagine di noi addormentati circondati dal bianco e dal nero delle note se da quelle stesse non fosse dipesa la mia vita e di conseguenza la nostra storia. 

 

XV


Quella mattina fu incredibilmente difficile scivolare via dalla stretta di Stiles per andare a correre. Forze invisibili mi tenevano legato a lui e mi costringevano a rimanere ancora un minuto… ancora cinque minuti… solo altri cinque minuti. Ma dovetti farlo. Era trascorso un mese esatto dall’ultimo attacco del Ghul e questo significava che se il messaggio di Cam non fosse arrivato oggi, sarebbe stato domani oppure il giorno dopo. 

 

L’alba a New York profumava di erba appena tagliata e di donuts appena sfornate. Nell’aria fluttuava il rombo dei motori dei taxi gialli e ogni giorno mi accorgevo di come il sole diventava più pigro e arrivasse sempre poco più tardi rispetto al giorno prima accorciando le giornate. Ottobre era arrivato taciturno ma la differenza di temperatura cominciava ad avvertirsi e le prime sciarpe svolazzanti avevano potuto mettere piede fuori dall’armadio. 

Riuscii a concentrarmi molto poco. L’immagine di Stiles al pianoforte che tentava di trovare l’unica cosa che mi avrebbe permesso di avere una possibilità mi rimbalzava nella testa. Continuavo a pensare a quanto fossi fortunato ad averlo trovato. A quando, per una volta, avevo preso una decisione giusta e gli avevo rivelato l’esistenza del mio mondo nonostante ogni regola e principio me lo impedisse. Tornai al mio appartamento per salutare Mrs. Crowford e dare da bere alle mie piante, fare una doccia veloce e tornare di nuovo da lui. 

 

Ovviamente lo trovai seduto al vecchio sgabello, con la sua postura dritta e una canotta pulita indosso. 

«Ho trovato anche il tempo di farmi una doccia» mi sorrise quando notò che l’avevo notata. Stava suonando degli spartiti che non avevo visto prima: la carta su cui erano stampati era ingiallita dal tempo e stropicciata in alcuni punti, con le orecchie in pochi angoli. Notai che un’intera pila di questi era poggiata sul divano e altri li aveva già accantonati sul pavimento. «E questi da dove vengono?» chiesi. «Avrei dovuto pensarci prima, lo so. Me li ha dati il proprietario dell’antiquario quando mi ha venduto il pianoforte. Disse che erano compresi nel prezzo o che me li regalava, non ricordo… comunque li avevo messi da parte senza mai suonarli e mi ero anche dimenticato di averli fino a stamattina.» spiegò. 

«Ma è fantastico! La risposta deve essere qui, Stiles! Ci siamo!» esclamai, ma lui non sembrava così contento. 

«Cosa c’è?» chiesi. Si alzò e venne verso di me. Mi cinse in un abbraccio stretto. Non disse niente e rimanemmo in silenzio per un po’, in piedi nel mare di pentagrammi, fino a quando non sentii il suo petto vibrare ed iniziò a singhiozzare. 

«Scusa» sussurrò e tirò su col naso. Gli presi il volto fra le mani: «Che succede?» 

«Io… sono solo molto stanco.» Ma i suoi occhi acquosi e lucidi facevano trasparire molto altro. 

«Stiles, andrà tutto bene.» 

«Ne sei sicuro?» Oh, no che non lo ero. Ma ci speravo. Davvero tanto. 

«Ce la faremo» lo rassicurai.

«Ho paura, Derek» disse con la voce spezzata e mi strinse di nuovo. Dovetti concentrarmi a fondo per non stringerlo con tutta la forza con cui avrei voluto farlo (non avrei mai voluto rompergli una o più costole). Per un solo, brevissimo, momento, pensai che quello era il destino di chi stava al mio fianco: anche se quella volta ce la saremmo cavata, la mia vita sarebbe stata un continuo rischio e quindi quella di Stiles, di riflesso, una vita scandita dalla paura di perdermi. Ma chiusi questo pensiero in una scatola e poi la scatola in un’altra scatola e questa in un armadio. Poi chiusi l’armadio a chiave e gettai la chiave in un fiume. Quello non era il momento per certi pensieri e forse, sarebbe stato meglio non pensarci mai più.

 

Stiles riprese a suonare, anche se le sue energie erano visibilmente diminuite e le sue dita si muovevano meno agili del solito. Cercai di essere d’aiuto preparando la cena e passando in rassegna i brani che non aveva ancora suonato cercando di capire quale potesse essere quello giusto. Diversi “Metamorphosis” ed “Étude” numerati, alcuni senza nome, altri di compositori Anonimi. Facevo scorrere le dita sulla pila come se fosse uno schedario. “Crossing Oceans” “thè Unforgettable” “Solstice D’été” “Allewind” “Golden Butterfly”. Nessuno che risaltasse. Cercare un collegamento con i compositori mi sembrava un processo lungo e che avrebbe impiegato troppo tempo. Ne notai uno più spesso degli altri e nello sgranare il foglio scoprii che si era, forse involontariamente, attaccato ad un altro e quello di sotto, dall’aria ancora più remota e con uno strato di polvere sul lato inferiore, portava il nome di “Downbeat of your heart”. Un brivido mi corse su tutta la schiena. 

«Stiles» richiamai la sua attenzione e lui smise di suonare. 

«Cosa c’è?»

«Forse l’ho trovato.» 

«Davvero?» La mano che reggeva il foglio mi tremava leggermente. Allungai il braccio per porgergli lo spartito. 

«Cos’ha di speciale?» chiese. Era soltanto una pagina, autore sconosciuto. Ma il suo titolo… L’ennesima prova che un collegamento con noi c’era.

«Suonalo per me» gli chiesi. Lui lo posò sul leggio davanti quello che aveva appena interrotto e lo studiò con occhi curiosi per un minuto. Poi posizionò le mani sulla tastiera in un gesto automatico e grazioso. Stiles cominciò a suonare e le sue dita accarezzavano e talvolta colpivano i tasti con la stessa sicurezza di una persona che aveva già suonato quel pezzo e lo aveva fatto suo. In realtà era la prima volta che lo eseguiva, ma la sua abilità era così grande e il suo talento così considerevole da ingannare. Il pezzo era piacevole e ritmato, la mano destra seguiva la melodia principale e la sinistra si limitava ad accompagnarla con gli accordi, usando di tanto in tanto il famoso Si bemolle da poco ritrovato. Cercai di portare il segno ma ero troppo inesperto e mi persi dopo poco. Capii che ripetè il tema centrale due volte e poi alla fine seguì l’indicazione «piano» appuntata in alto e il suo tocco diventò leggero. Quando l’ultimo accordo rimase appeso nell’aria e Stiles alzò le dita dalla tastiera un clic ci fece scattare sull’attenti. Uno scomparto prima invisibile uscì fuori di pochi centimetri dalla cassa armonica. Stiles trattenne il respiro inconsciamente quando andò a tirare fuori il piccolo spessore che si rivelò incavato dell’esatta dimensione dell’elsa, perfettamente incastrata al centro. 

«Derek…» sussurrò pieno di meraviglia. Riuscì con abilità ad estrarre il pezzo e lo guardammo quasi ipnotizzati. La punta in basso era ricoperta d’oro mentre il resto era di un rosso antico e intarsiato con effetti di rilievo e giochi di ombre. Stiles si alzò, mi guardò negli occhi: «Ce l’abbiamo fatta davvero?» chiese. Mi porse il manico e poi prese gli altri due pezzi, già uniti, e me li diede nell’altra mano. 

«Okay, vado» dissi. Con estrema cautela (come se un movimento troppo affrettato potesse farci saltare in aria) avvicinai i due pezzi fino ad unirli. Sentii che la guardia non si era incastrata perfettamente così in un tentativo quasi casuale feci ruotare la lama e il pezzo centrale di 360 gradi. Quando completai il giro una luce calda e verde si diffuse dall’interno per tutta la lunghezza del pugnale per un breve istante e poi si attenuò fino a scomparire.

«Wow» disse pianissimo Stiles. 

«Adesso cosa facciamo?» chiese, e con una concreta possibilità di successo risposi: «Adesso combattiamo.»

 
   
 
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