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Autore: MackenziePhoenix94    19/12/2019    0 recensioni
TERZO LIBRO.
“Sara inspira una seconda volta, vedo i suoi occhi scuri diventare lucidi ed una lacrima, ribelle, le scivola lungo la guancia destra.
“E se fosse cambiato? E se davanti ai miei occhi dovessi ritrovarmi un uomo completamente diverso da quello che ho conosciuto e di cui mi sono innamorata? Ho paura, Theodore” mi confessa con voce tremante “ho paura che Michael Scofield non esista più”.”
Dopo altri sette anni trascorsi a marciare in una cella a Fox River, Theodore Bagwell si trova finalmente faccia a faccia con ciò che lui ed i membri dell’ex squadra di detenuti hanno anelato per lungo tempo: la libertà.
La libertà di essere un normale cittadino.
La libertà di crearsi una nuova vita.
La libertà di lasciarsi il passato alle spalle per sempre.
Sono questi i piani della Serpe di Fox River, almeno finché il passato non torna a bussare con prepotenza nella sua vita tramite un oggetto apparentemente insignificante: una busta gialla e rettangolare, spedita dallo Yemen.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Come ogni uomo che torna ad essere libero dopo un lungo periodo di detenzione, anche io ho le mie esigenze personali e così, dopo aver speso una parte dei miei settantuno dollari e trenta centesimi per affittare la camera di un motel, mi siedo davanti allo schermo del mio laptop e trascorro la maggior parte della mattinata a sgranocchiare patatine ed a navigare su siti per ‘incontri romantici’.

E questo finché, improvvisamente, nell’angolo in basso a destra non compare un piccolo promemoria che mi ricorda di un appuntamento che ho per il giorno seguente.

Un appuntamento che non ricordo di aver fissato durante la mia ennesima permanenza dietro le sbarre di una cella, soprattutto perché non avevo con me il laptop.

Socchiudo gli occhi e muovo appena le labbra, leggendo velocemente ciò che c’è scritto all’interno del piccolo quadrato grigio, su cui spicca il disegno di un orologio: Dr Whitcombe, Direttore di Ricerca Prostesi, Università Delane.

Sotto questa riga ci sono un indirizzo e l’orario dell’appuntamento, ed è proprio quest’ultimo a farmi sorgere qualche dubbio riguardo ad una possibile trappola: nove e trenta di sera.

Chi mai fisserebbe un appuntamento alle nove e trenta di sera?

Ma ancora una volta, come nel caso della misteriosa busta gialla, la curiosità ha il sopravvento su di me e la sera seguente mi ritrovo nell’ufficio di una clinica privata, seduto su un’elegante poltrona di pelle, a fissare un uomo di circa quarantacinque anni, visibilmente a disagio a causa della mia presenza.

“Voglio essere sincero con lei, signor Bagwell: so chi è e quello che ha fatto. Personalmente ritengo che mostri come lei meritano solo di…”

“Di trascorrere il resto della loro vita dietro le sbarre di una cella” dico, completando la frase al posto suo “ormai conosco questo ritornello a memoria, e scommetto che ha a che fare con l’orario bizzarra del nostro appuntamento. Immagino che l’ultima cosa che vuole un professionista come lei, dottor Whitcombe, sia di essere visto in compagnia di una persona come me, e questo non fa altro che accrescere la mia confusione: se questo è il suo pensiero nei miei confronti, per quale motivo siamo qui?”.

A questo punto Whitcombe inizia a sciorinare una serie incomprensibile di termini tecnici per spiegarmi con esattezza di che cosa si occupa e qual è lo scopo delle sue ricerche in campo di Prostesi; fortunatamente nota la mia espressione perplessa e semplifica il tutto mostrandomi un’immagine molto chiara: ritrae un uomo, con una protesi cibernetica al posto della mano sinistra, che riesce ad allacciare una scarpa senza la minima difficoltà.

“Questo è il frutto delle mie ricerche. Posso rendere questo realtà grazie ad alcuni microchip da inserire nel cervello. Sfortunatamente, interventi come questo richiedono fondi consistenti di cui l’Università è sprovvista… Ma nel mio caso c’è stato un risvolto inaspettato: ho ricevuto un milione di dollari per procedere con l’intervento, ma ad una condizione. Il primo beneficiario di questa nuova tecnologia deve essere lei, signor Bagwell. Ho prenotato una sala operatoria per lunedì sera, è libero di fare ciò che vuole, dopotutto la mano è sua…”.

La notizia mi coglie così impreparato che per qualche istante resto in silenzio, prima di alzarmi e raggiungere una finestra.

Osservo la protesi di plastica che sostituisce la mia mano sinistra da sette anni ormai, la stessa che ho rubato ad un veterano quando ero un evaso ed un ricercato: la superficie non è più liscia a causa di numerose tacche che io stesso ho inciso per contare i giorni che mi separavano dal termine della mia pena.

“Per mano tua potrai conoscere le glorie della tua progenie…” mormoro, ricordandomi improvvisamente delle parole scarabocchiate sul foglio.

“Ha detto qualcosa?”

“No, nulla… Io… Posso avere qualche giorno per pensarci?”

“La sala operatoria è prenotata per lunedì. E come le ho già detto, si tratta della sua mano, signor Bagwell” ripete una seconda volta il dottor Whitcombe, con voce fredda.



 
Nonostante la diffidenza e nonostante i diversi dubbi che nutro nei confronti di questa faccenda ben poco chiara, mi presento in perfetto orario nella sala operatoria e Whitcombe ne approfitta per lanciarmi subito una frecciatina, dicendomi che non mi aspettava affatto.

“Ci sono momenti in cui un uomo deve ribellarsi con tutte le sue forze, altri in cui deve solo arrendersi a ciò che il Fato ha scelto per lui… E questo è proprio uno di quei momenti” mormoro, osservando le altre persone, presenti nella stanza, che si stanno preparando per procedere con l’operazione; la fermezza della mia decisione, però, inizia a vacillare quando mi ritrovo sdraiato su un lettino, con addosso solo un camice ed una cuffietta, e si sgretola come argilla non appena alle mie orecchie giungono le parole ‘anestesia totale’ “è proprio necessario ricorrere all’anestesia totale? Ho qualche difficoltà a giacere incosciente, e con addosso solo un camice, davanti ad un uomo che ha a portata di mano strumenti piuttosto affilati”

“Non si può fare senza anestesia”

“L’ho già fatto una volta, dottore”

“E cosa ha ottenuto?”

“Faccia qualcosa che non deve mentre dormo ed io…”

“Lei è l’ultima persona al mondo a cui vorrei fare un torto, signor Bagwell, lasci perdere queste sciocchezze e cerchi di rilassarsi”

“Mh” mi limito a dire, appoggio di nuovo la testa al lettino e concentro lo sguardo sulle piastrelle del soffitto, sforzandomi di non pensare a ciò che l’equipe medica potrebbe fare al mio corpo inerme e, prima che mi venga somministrata l’anestesia, ne approfitto per condividere una piccola perla di saggezza “è proprio vero che il Fato è una puttana volubile”.



 
Al mio risveglio vengo investito da un’ondata improvvisa di nausea e dai primi sintomi di una sgradevole emicrania; sbatto più volte le palpebre e resto senza fiato quando vedo con i miei stessi occhi il risultato dell’operazione.

La mia vecchia protesi in plastica è stata sostituita con un arto cibernetico, che riesco a muovere con estrema semplicità, come se fosse la mia vecchia mano di carne, ossa, muscoli ed epidermide.

“Non si preoccupi se si sente spaesato o se sente il bisogno di vomitare. Tra qualche ora gli effetti dell’anestesia svaniranno completamente e si sentirà subito meglio” a parlare è il dottor Whitcombe, l’unica persona presente nella sala al di fuori di me “è una persona libera, signor Bagwell, può andare”.

Mi alzo dal lettino, ma anziché dar retta alle sue parole mi avvicino a lui e lo blocco contro una parete, con la stessa violenza che Lincoln ha usato su di me.

“Io non me ne vado finché non mi avrà dato le dovute risposte. Chi c’è dietro a tutto questo? Perché lo sta facendo? È palese che c’è uno scopo secondario, nessuno dona un milione di dollari per un’operazione senza avere uno scopo personale. Parla, dottore, perché non voglio essere costretto ad usare le cattive maniere proprio ora che sono uscito di prigione da pochissimi giorni”

“Io non so nulla!” grida l’uomo, con voce strozzata a causa della paura e della stretta salda del mio nuovo arto “la prego, le sto dicendo la verità. Tutto quello che so è che il benefattore, o i benefattori, si è identificato con un nome: Outis. Ho svolto qualche ricerca ed ho scoperto che ‘Outis’ è una parola greca e significa ‘nessuno’. Di conseguenza nessuno è il suo benefattore, signor Bagwell”

“Oh, mio… Mio Dio… Tutto questo non è possibile…” balbetto, lasciandolo subito andare, e sono costretto ad appoggiarmi al lettino a causa di un attacco di vertigini.

“E non è tutto. Mi è stato riferito di farle avere questa busta, qualora si fosse sottoposto volontariamente all’intervento”.

La mia mano destra trema visibilmente quando l’allungo per afferrare la busta gialla, del tutto identica alla precedente, che il dottore estrae dal cassetto di una scrivania, e mentre la studio in silenzio non riesco a reprimere un brivido che mi percorre la spina dorsale.

Mio Dio, mi domando mentalmente, in che razza di gioco perverso sono stato intrappolato?



 
La seconda, misteriosa, busta non contiene foto sfuocate o strane scritte indecifrabili, ma un semplice indirizzo che mi conduce ad una graziosa villetta a due piani, pitturata di bianco, con un giardino estremamente curato.

Esito prima di suonare il campanello e poi attendo una risposta in silenzio, guardandomi attorno, per assicurarmi di non essere seguito da qualcuno.

Non so a chi appartiene questa abitazione.

Potrebbe essere di uno sconosciuto o di uno dei vecchi membri della squadra, tornati a loro volta in libertà.

In ogni caso, qualunque sia l’opzione giusta, nella mia mente regna un’unica domanda a cui non riesco dare una risposta: perché?

Perché organizzare tutto questo? A che scopo?

Chi c’è dietro a questo gioco perverso e, soprattutto, che cosa spera di ottenere?

La porta d’ingresso dell’abitazione si apre e mi ritrovo faccia a faccia con una giovane donna dai capelli rossi e vaporosi; sul mio viso appare un’espressione perplessa, perché sono sicuro di non averla mai vista in tutta la mia vita, mentre i lineamenti del suo diventano improvvisamente freddi e tesi, ed ho la strana impressione che non sia affatto sorpresa di vedermi.

Impressione che viene poi confermata dalle sue stesse parole.

“Ahh, sei tu” dice, infatti, stringendo le labbra in una linea sottile “iniziavo a sperare che questo giorno non sarebbe mai arrivato. Entra. Accomodati. Posso offrirti qualcosa nell’attesa? Una tisana? Una birra?”

“Perdonami, tesoro” rispondo, chiudendo la porta alle mie spalle “noi due ci conosciamo? Non ti offendere, ti prego, ma ho conosciuto così tante donne che faccio fatica a ricordarmi tutti i loro volti ed i loro nomi”

“Immaginavo che avresti risposto in un modo simile, ma pensavo di costituire un’eccezione visto che nell’unica volta in cui abbiamo scambiato qualche parola mi hai minacciata. Ricordi? Eravamo a Fox River e mi hai detto qualcosa riguardo al fare attenzione a giocare con il fuoco perché si rischia di rimanere bruciati”.

Le parole della sconosciuta mi riportano alla mente un ricordo che avevo totalmente rimosso e, per qualche istante, rivedo davanti ai miei occhi una giovane tirocinante con addosso una divisa azzurra da infermiera.

“Karla!” esclamo, ricordandomi all’improvviso il suo nome “lavoravi nell’infermeria a Fox River insieme a Sara e…”.

Non riesco a terminare la frase, sia per evitare di evocare altri ricordi e sia perché la nostra conversazione viene interrotta dall’arrivo di un ragazzino che apre e chiude la porta d’ingresso rumorosamente, prima di togliersi le scarpe da ginnastica e lasciar cadere a terra lo zaino che ha sulle spalle.

“Zia Karla, sono tornato” dice, e si accorge della mia presenza solo quando solleva il viso dalle scarpe “e lui chi è? Un tuo amico?”.

Karla mi supera, raggiunge il ragazzino e s’inginocchia sulla moquette, in modo da poterlo guardare negli occhi.

“No, non è un mio amico” mormora poi, prima di fissarmi ancora, con i muscoli della mascella tesi “è tuo padre, Ben”.
   
 
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