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Autore: _Sezionatore_    20/12/2019    0 recensioni
Pianeta Volkrea, 452¹¹. Dopo aver accettato quella che appare come un'ordinaria missione, l'ingenuo sicario Eadan Sladek fa di tutto per portarla a termine, persino entrare nelle fila del nemico.
Quello che non si aspetterà, però, sarà di trovarsi servita in tavola una decisione chiave, che cambieranno il corso della sua vita e forse quello dell'universo stesso.
Grazie alla mia cara beta @ImNotVanGogh su Wattpad ♥
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eadan Sladek bussò energicamente alla porta in metallo tre volte, una pausa, poi altre due. Attese pochi secondi, per sussurrare allo spiraglio scuro appena crepitato con discrezione. "Sono qui per vedere Lavsiat."

Il vecchio guardiano emise un gemito sorpreso, osservando gioviale il giovane Vrax'ix. "Se non è il piccolo Eadan, proprio davanti a me! Pensavamo ti avessero fatto fuori sul pianeta Hro, ma lo dicevo io che non sei uno di cui ci si libera facilmente." esclamò, per scivolare sui tre arti rinsecchiti, lasciandolo passare. Non si creda ora, caro lettore, che tutti i Tizothor abbiano solo tre arti sui quali si muovono. Sarebbe ridicolo. Ne hanno ben quattro, ma questo non si poteva affermare per il Signor Dieh Dek, il quale era semplicemente sgusciato fuori dall'uovo con un qualcosina in meno. "Brutta faccenda, quella degli Hzfh. Non mi sono mai piaciuti, no. Davvero una brutta faccenda."

"Vero? Sempre così..." Eadan faticò nel trovare un termine coerente alle sue perplessità nei confronti degli abitanti del pianeta Hro. "Irrequieti. Sì, irrequieti. Me l’hanno fatta alla grande, Dek. Credevo sarei morto davvero, stavolta." sospirò in maniera drammatica, guardandosi le spalle un’ultima volta prima di farsi strada nella penombra dell’edificio. La via era fra le più frequentate della città, eppure raramente qualcuno si faceva domande su cosa vi fosse realmente dietro quella porta, incastrata fra le mura dell'anonimo vicolo. Ormai Eadan conosceva ogni segreto del posto, dove da più giovane si rifugiava spesso durante la notte; non aveva più bisogno di lasciar abituare gli occhi alla scarsa illuminazione giallastra donata della piccola e solitaria lampadina appesa al soffitto, appena sopra il telaio arrugginito. Era l'unica fonte di luce che il luogo aveva sempre offerto a causa delle finestre del tutto assenti, chiaramente oscurate di proposito. Due passi in avanti, scalino, un altro passo, altri due scalini. Ascensore. Bottone. Una piccola luce rossa, ed in pochi secondi la surreale visione di una cabina fin troppo bianca ed accecante per i suoi gusti comparì davanti al giovane. "Dove? Diciottesimo, nono?" si preparò a lasciar cadere la mano su uno dei due pulsanti, come sempre. Invece, il dito teso rimase a mezz'aria, spiazzato al suono della risposta.

"Trentaquattresimo."

Aveva creduto che si sarebbe trattato del normale incontro con uno dei soliti fattorini, i quali non facevano altro che consegnargli il malloppo dopo la solita missione. Allora, come mai l’incontro era fissato sullo stesso piano dell’ufficio del capo? Eadan volse lo sguardo al Tizoth che lo aveva lasciato entrare, riuscendo a cogliere un ghigno beffardo sul volto violaceo, prima che le porte si chiudessero con quella che Eadan aveva sempre considerato una fretta sconsiderata, ora trasformatasi in una lentezza estenuante.
La parete più estesa era quella sul fondo dello stretto abitacolo, interamente formata da specchi: paragonò la sua pelle azzurrina a quella a chiazze scure della razza con la quale avevano da tempo immemore condiviso il pianeta Volkrea, lo stesso suolo che ora calpestava. Comparò l’altezza prettamente dominante dei Vrax’ixor a quella inferiore dei Tizothor, e, per un attimo si ritrovò a disprezzare quei sei, piccoli rimasugli di branchie intagliate alla base del collo, del tutto superflue. Non funzionavano più da millenni, ma contrariamente all’orgoglio che la maggior parte dei Vrax’ixor portava nei confronti di quei fossili, a Eadan davano solo che fastidio. Le nascose meglio con il ruvido tessuto del matello verdastro, lasciando vagare la mente lungo le più disparate possibilità che si sarebbero palesate nei secondi successivi all’arrivo al trentaquattresimo piano. Eadan rabbrividì al solo pensiero della stessa sorte destinata ad i traditori. La morte era l’ultimo dei suoi programmi. Aveva sbagliato, ed aveva anche rischiato grosso durante l’ultima missione, ma la aveva portata a termine. In fondo, sapeva che, probabilmente, avrebbe ricevuto lo stesso trattamento di fiducia dell’ultima volta. Ripensò a tutto ciò che poteva aver mandato in collera il suo capo, tanto da portarla a convocarlo al trentaquattresimo. Il famigerato trentaquattresimo.

Per diverse miglia aveva corso, e per altrettante miglia si era chiesto se, dopotutto, quell'alieno del pianeta Hro non gli avesse raccontato una balla. Di simboli verdi sugli steli azzurrini dei papaveri alti chilometri non ne aveva ancora visti.
Tutto era iniziato con un qualche piccolo, insignificante errore di calcolo.
Dopo il risultato dell'ultimo incarico -disastroso, persino fallito per una sua distrazione- era sicuro sarebbe finito nei guai con i suoi superiori, ma non era successo nulla. Solo un semplice richiamo. E, con suo grande sollievo, gli era stata affidata una nuova missione: la paga era incredibilmente bassa rispetto agli standard, ma aveva superato di peggio.
Era certo, almeno in quest'ultimo caso, che la colpa non fosse da attribuire unicamente a lui, e che gli alieni lo avessero, in qualche modo, aggirato, fingendosi più stupidi di quanto davvero non fossero.
Probabilmente con qualche ricerca più approfondita non si sarebbe ritrovato in una situazione tanto scomoda, l’istinto di buttarsi e terminare il lavoro in fretta era stata talmente intensa da non lasciargli altra scelta che quella di ignorare la presenza degli evidenti sensori di movimento ed impugnare la prima arma trovata sull’astronave. Doveva trattarsi di un lavoro semplice, proprio come avevano detto. Quello che non era stato affatto semplice era stato il passare inosservato: finché si era nascosto fra l’alta vegetazione non aveva incontrato problemi, ma non appena si era avvicinato alle coordinate fornitegli, era stato obbligato a utilizzare quel vecchio dispositivo per l’invisibilità che anni prima aveva creato per noia. Fortunatamente era ancora lì, abbandonato nei meandri della sua sacca gravitazionale, ancora perfettamente funzionante.
Per lo meno, non appena l’assordante suono della sirena lo aveva colto di sorpresa, aveva capito che fuggire e tornare a mani vuote sembrava essere decisamente una pessima strategia, perciò si era dato una mossa ed era riuscito a portare a termine la missione. Non nella maniera più silenziosa e professionale possibile, ma aveva fatto quello che andava fatto, poi era velocemente scivolato fuori dall’entrata stessa della caverna. Quale mente arretrata aveva deciso che era una buona idea, scavare il fianco di una montagna per vivere al suo interno? E non lasciare nessuna protezione davanti l’inesistente porta, oltretutto. Il satellite era decisamente fra i luoghi più caldi che aveva visitato -uno dei suoi orgogli maggiori era la lunga lista di pianeti sui quali era atterrato negli ultimi anni – e poteva con certezza affermare che non aveva mai incontrato una tecnologia avanzata come quella in un luogo all’apparenza così primitivo. Si chiese se, nel caso di una folata di vento, i sensori allarmavano i proprietari anche in caso di qualche goccia d’acqua. Che idiozia, pensò. C’era un motivo se gli occhi del suo capo erano finiti proprio su quella piccola sfera di roccia infertile, interesse archiviato nella mente di Eadan fra la caterba dei misteri riguardanti il capo che non era ancora riuscito svelare.
Non era ancora certo di essere riuscito a lasciarsi alle spalle il gruppo di Hzfh che lo inseguiva, quando, finalmente, individuò due linee intersecate dipinte all'altezza delle sue ginocchia. L'alieno aveva detto che il simbolo sarebbe stato proprio davanti ad i suoi occhi, ma suppose che, per uno stupido Hekx, quella doveva essere esattamente l'altezza degli occhi. Sapeva di non essere fra i migliori nella scalata di alcun genere, e mai lo sarebbe stato a causa delle sue estremità palmate e bagnate, ma, previdente, aveva portato con sè un paio di guanti aderenti. Li infilò in fretta e furia, temendo poi che quel tronco, che sembrava estremamente delicato, fin troppo fino per essere davvero definito “tronco” e per sopportare anche solo metà del suo peso, potesse spezzarsi da un momento all’altro, tradendo la sua posizione.
Ma, sorprendentemente -Eadan attribuì il merito alla ridicola forza di gravità del satellite- lo stelo non si piegò affatto, sostenendolo senza alcuna fatica. Arrivato in cima, si aiutò con un petalo per tirarsi sù, e dovette immediatamente alzare una mano al cielo per schermare gli occhi dall'intensa luce fredda che illuminava il cielo, bianco come un foglio di carta. Frugò nella sacca che portava sulle spalle, per tirarne fuori prima un convertitore di energia -lo buttò via nella fretta, e se ne dimenticò del tutto-, trovando poi ciò che cercava. Una peculiare stecca nera con lenti scure di fattura terrestre. Tirò un sospiro di sollievo. Si mise immediatamente a cercare in cielo. Nessuno degli altri due satelliti era visibile, tantomeno lo era il pianeta madre Vress: le uniche, ingombranti ed abbaglianti presenze erano quelle delle due stelle Verhs e Rohm. Nessuno lo avrebbe visto fuggire da sopra, perchè alla vista vi erano solo teste di enormi fiori rossi, nessuno lo avrebbe visto da sotto, perchè quel fiore aveva più petali di qualunque altro, o almeno così gli era stato detto. Ringraziò mentalmente l'alieno che lo aveva aiutato, e, senza perdere ulteriore tempo, iniziò a mettere insieme i pezzi di una delle sue invenzioni.
Era anche l'ultima ad essere uscita dal laboratorio, a dire la verità, e se doveva proprio essere onesto non la aveva nemmeno mai testata più di un paio di volte per la fretta, ma non aveva dubbi che sarebbe arrivato tutto d'un pezzo a casa.
Un leggero fruscio lo fece voltare velocemente, il cuore improvvisamente gli balzò in gola. Per un terribile, breve attimo, credette di essere stato seguito fin lassù, ma il movimento che aveva sentito alle sue spalle non era altro che lo scherzo uno strano, minuscolo animaletto a chiazze nere e bianche, dal grande naso rosso e dal muso talmente distorto, grinzoso e rivoltante che, dallo spavento, Eadan quasi cadde giù dal fiore. Il viso di quella cosa era proprio storto, come fosse stato strappato e poi reincollato ad occhi bendati da qualche pazzo, non una traccia di pelo o piume copriva il suo corpo piegato da rivoli di carne penzolante. Non poteva essere grande più di un quarto del braccio di Eadan, ma poteva affermare con certezza di non essere stato mai tanto impressionato da un animale.
"Che diamine sei, tu?" chiese alla piccola cosa, senza, naturalmente, ricevere risposta. Non era un biologo, lui, era un inventore, e per quanto ne sapeva poteva anche trattarsi di qualcosa di velenoso. Con occhi socchiusi ma spropositamente grandi e luminosi, la cosa lo fissava senza emozione. Decise che la cosa migliore da fare per il momento era ignorarla per rimettersi al lavoro. "Senti, non ho tempo per capire cosa vuoi. Vado di fretta, mi farai scoprire. Vaffanculo!" sussurrò, assemblando silenziosamente qualche manovella in rame e qualche batteria a neutroni, buttando ogni tanto un'occhiata a quella cosa. Non si mosse per tutto il tempo, osservando Eadan assentemente, nei suoi movimenti veloci e precisi. Gli ci volle qualche minuto in più del previsto per assemblare il macchinario compatto, e proprio all'ultimo, sonoro click, alle sue orecchie arrivarono le voci confuse dei suoi inseguitori, che balbettavano ordini in una qualche parlata sconosciuta e cacofonica.
Abbassò due piccole leve, osservando la fioca luce lampeggiante sul piccolo schermo aumentare d’intensità. Lasciò cadere per qualche attimo la maschera di serietà che portava sempre durante il lavoro, ridendo ed annunciando a gran voce nella sua lingua: "Prendetemi adesso se ci riuscite, idioti!"
E così scomparve, con un sorriso provocatorio dipinto sul volto.
Non aveva valutato l’enorme quantità di nausea che un viaggio così ampio avrebbe potuto provocare; si ripromise di non mangiare nulla prima di utilizzarlo nuovamente, obbligato ora a poggiare il peso con entrambe le braccia sulla prima, familiare parete disponibile del suo laboratorio. Fù, per un attimo, esaltato all’idea che avesse realmente funzionato, che fosse tornato a casa tutto d’un pezzo così rapidamente, portandolo ad una risata fra se e se. Ma uno strano, inquietante calore aveva iniziato a farsi strada lungo la sua schiena. D’istinto portò una mano proprio dove aveva l’impressione che si fosse aggrappato qualcosa, per incontrare qualcosa di piuttosto morbido e ruvido. L’immagine dello strano animaletto si fece largo nella sua mente. Strattonò rapidamente quella roba via dalla stoffa della giacca, strappandola nel processo, per buttare via in un angolo la cosa che lo aveva seguito. La cosa, all’impatto con il pavimento di legno, emise un verso acuto mai sentito prima, fastidioso e penetrante, ma non si mosse dalla posizione supina nella quale era finita. Quando aveva avuto il tempo di appiccicarsi in quel modo a lui? Senza che se ne rendesse conto, poi? Aveva ora realizzato quanto il peso relativamente esagerato della cosa non si sposava affatto con le sue ridotte dimensioni -come tutto, nell’aspetto della cosa, pareva non andare d’accordo in alcun modo-, eppure non lo aveva sentito avvicinarsi, o stringere quelle orrende zampette su una delle sue giacche preferite. Nel panico del momento, solo in quel secondo attimo si rese conto con orrore di aver lanciato via anche la sacca ed il dispositivo collegato alla piattaforma per il teletrasporto. Si affrettò a controllare che nulla fosse rotto. Si era spezzata una delle leve, ma nessun danno grave. Poteva sostituirla. Ma si ritrovò, naturalmente, obbligato a dover smontare il telecomando, per assicurarsi di non finire nello spazio aperto, la volta successiva che lo avrebbe utilizzato.

Un verso profondo e soffocato interruppe i pensieri che fino a quel momento avevano riempito la silenziosa cabina dell’ascensore. Eadan diede una leggera gomitata al normale zaino che portava su una spalla, ricevendo una risposta simile a quella appena sentita. "Sta’ zitta, Tak! Oppure la prossima volta ti lascio a marcire insieme a Benuein." minacciò sottovoce, gustando il risultato ottenuto con il solo pronunciare il terrificante nome della sua coinquilina. Erano passate quasi due settimane dal ritorno di Eadan da Hro, e nell’interrogarsi sul come liberarsi di quella schifezza appiccicosa che era l’animale alieno, il quale, fral’altro, aveva scoperto trattarsi di un Chxhercu, specie piuttosto rara ed innocua, vi si era inavvertitamente affezionato in una qualche stramba maniera, decidendo di tenere l’esemplare con sé, con grande entusiasmo da parte di Benuein. Naturalmente erano fioccate le domande: da dove lo aveva tirato fuori, come funzionava, ma soprattutto come si chiamava. E in quel momento, la creatività di Eadan gli suggerì un nome brutto e ripugnante quanto riteneva essere la Chxhercu stessa. Tak.
Tak, da com’era naturale, non sembrava essere cosciente di tutti i piccoli insulti che le piovevano addosso da parte di Eadan quando, silenziosamente, lei si metteva a riposare al centro di una stanza per farlo quasi sempre inciampare. Per la sua coinquilina, Tak sembrava essere un passatempo più che intrattenente, per lo più a causa del suo apparentemente ingiustificato amore verso qualsiasi animale. Interesse scientifico, ovviamente, creato dai suoi studi di medicina: più di una volta aveva tentato di far stare ferma Tak per farle una radiografia (ordinare uno studio della razza dalla biblioteca le sarebbe costato troppo, diceva), ma Eadan non le aveva mai permesso di farle una qualsiasi anestesia, per non avere un animale innocente sulla coscienza, ribatteva. Ed era la verità; ora, per paura di rimanere da sola con Benuein, Tak si attaccava alla lunga coda del ragazzo, per staccarsi solo fuori casa, in territori più amichevoli. Per questo era stato obbligato a portarsela dietro un po’ ovunque, ed il posto di lavoro non faceva eccezione. Sperava solo che non venisse presa come una specie di insulto alla serietà, o qualche idiozia simile, quindi il suo principale obbiettivo era quello di mantenerla nascosta il più possibile per evitare noie. Sembrò passare un lunghissimo, irrequieto minuto, il quale era stata in realtà una manciata di secondi. L’ascensore si fermò con un piccolo balzo, ed una campanella annunciò l’arrivo al piano desiderato. Doveva essere stata appena installata, o Eadan non vi aveva mai davvero fatto caso, perché non ricordava di averla mai sentita. Forzò la tensione giù dalle spalle. L’ufficio del capo non era nulla di speciale, niente di appariscente, eppure dalle sembianze quasi sacrali: una musica leggera che non riconobbe invadeva quietamente l’ampia stanza, vi era la solita scrivania in legno chiaro posta proprio sotto la principale fonte di luce, un sobrio lampadario a forma di sfera era appeso al soffitto. Nemmeno lì erano mai state presenti finestre, eppure l'ufficio non trasmetteva lo stesso angusto sentimento che l’ingresso gli riservava ogni volta.
"Kkayastre! Raggiante come sempre." Eadan fece ben poco per mascherare l’ironia nelle parole appena pronunciate. L’espressione seria -da funerale, lui così la avrebbe definita -, quella pelle così inusualmente chiara simile a quella di un cadavere fresco, quegli occhi di un profondo blu infossati, era tutto il contrario dell’impressione di allegria che Eadan era solito instillare in più o meno chiunque. Il fatto che la scrivania fosse libera di qualsiasi impiccio superfluo lo lasciò stizzito per qualche attimo, ma la risposta di Kkayastre riportò immediatamente tutto alla normalità.

"Siediti. Non parliamo di quello che è successo su Hro, non ho intenzione di capire se quelle voci su com’è andata sono vere o se si tratta di chiacchiere."

"Non vuoi saperlo, promesso." commentò sicuro di sé, mentre si curava di poggiare dolcemente lo zaino a terra, per evitare suoni irrichiesti.
Lei non reagì al misero tentativo di tranquillizzarla, quanto piuttosto invitò nuovamente con un gesto Eadan alla sedia di fronte a lei, osservandolo compiere il movimento con la sua tipica poca grazia. Scosse la testa, giungendo le mani e posandovi la testa sul dorso; quello sguardo non piacque per nulla al ragazzo. Doveva smetterla di comportarsi da irresponsabile, o non sarebbe mai stato preso sul serio. Lo sapeva, ci provava, ma non riusciva quasi mai a contenersi dal dare voce ad i primi, inconsistenti pensieri che attraversavano la sua mente. Se aveva intenzione chiederle un prestito per lanciare la sua ultima invenzione, poi, doveva comportarsi come da modello. In realtà era sicuro che sarebbe riuscito ad impressionarla con il solo concetto del teletrasporto -aveva dato una sistemata al telecomando, lo aveva persino portato con sé, per il momento smontato. Non aveva ancora realmente pensato a come evitare di far abbassare le leve da sole, quindi per il momento si limitava a smontarlo e rimontarlo ogni volta, ma ormai gli ci volevano pochi secondi per infilare tutto al posto giusto.

"Attento a quello che dici e fai, Sladek, non è un gioco. Non possiamo rischiare di far finire di mezzo uno dei nostri per una tua distrazione" sospirò, lasciando cadere l’attenzione sulla ragazza avvicinatasi con circospezione alla scrivania.

"Cosa posso portarvi, stamattina?"

Entrambi furono ben felici di chiedere una bevanda fredda e qualcosa da mettere sotto i denti, prima che Kkayastre riprendesse il discorso con estrema serietà. "Non riceverai nessun compenso. La prossima volta starai più attento." osservò l’espressione dell’altro cadere in un’indecifrabile maschera fin troppo coscienziosa per i suoi standard, e continuò, indifferente. "Ma ti diamo una seconda possibilità. Ci deludi di nuovo, e sai cosa succede. Porti a termine la missione senza problemi, l’incidente verrà dimenticato, e riceverai il doppio della normale paga. Di certo conoscerai Viktr Solagav almeno di nome."

Alla mente di Eadan tornarono alla luce alcune, sfocate, vaghe immagini di una carnagione rosea, sorridente, circondata da diversi microfoni. "Il miliardario? Certo, ma… ha mai fatto nulla di male? Non era persino un filantropo?"

"Se lo era, adesso può essere considerato solo che un genocida." se possibile, i suoi occhi si fecero ancora più gravi, ancora più piccoli. "Suo padre ha fondato e fatto costruire Valher. Ma tutti quei profitti? No, non bastavano. Viktr voleva di più, ed ha firmato questo." da un cassetto metallico alle sue spalle, Kkayastre afferrò un fascicolo verdastro, dal quale estrasse un documento digitale; lo aprì, e lasciò Eadan del tempo per leggerlo fino in fondo. L’espressione del ragazzo tramutò notevolmente durante la lettura, e per la fine, lei fu certa di averlo sentito rabbrividire.
"Un altro pianeta. Un altro pianeta… vivo. Un pianeta vivo. Sei… sei sicura? Non è possibile…" balbettò incerto, rendendole quella che doveva essere una prova di enorme importanza. Non riusciva a credere alle parole appena lette. Quel Solagav aveva firmato un documento che permetteva la distruzione dell’ambiente naturale di una specie primitiva su un pianeta denominato 3-HW-5839, per permettere al suo posto la costruzione di un secondo pianeta-vacanze, per lo più nella loro stessa galassia. Una miccia ardente si accese dentro Eadan, facendogli immediatamente perdere di vista il teletrasporto, Tak, Kkayastre, la bevanda appena poggiata davanti a lui, tutto. Si trattenne per miracolo dal gettare la sedia all’aria per schizzare via in cerca di quello spregevole alieno, ma l’ingente bisogno di sapere dove trovarlo gli permise di rimanere quasi statuario, gli occhi persi ancora dove il documento si trovava.

"Mi duole ammetterlo, ma è così. Ho reagito come te appena mi hanno informato, e se ho deciso di affidare il compito a te è perché so quanto ti stia a cuore l’argomento. Che ne dici?"

"Merita una morte lenta e dolorosa, ecco cosa dico. Non sopporto le persone simili. Dimmi tutto quello che sai, e ti porto la sua testa su un piatto d’argento, stanne certa."

Un ghigno si allargò sul volto fin’ora rimasto serio di Kkayastre. "Ascoltami bene. Si trova sul pianeta Grypso, non sarà facile eludere la sicurezza del posto, perché non ha nulla per cui essere visitata. Ha solo aziende e uffici. Avrai tutto il supporto possibile da noi, naturalmente. Abbiamo bisogno di un lavoro pulito e preciso, non lasciare tracce, non farti prendere. Se è tutto chiaro, vai." gli fece cenno di lasciare la stanza e di prendere il bicchiere rimasto intoccato; obbedì immediatamente, raggruppando le sue poche cose, voltandosi solo appena prima di entrare nuovamente in ascensore.

"Aspetta! Di dov’è quel tipo?"

"Terra."
Con quest’ultima, angusta parola Kkayastre sparì dalla sua vista, dietro le porte metalliche nuovamente sigillate.
Un terrestre. Come se non fossero già ripugnanti di per sé, era la prima volta che gli veniva affidato un terrestre. Doveva pensare ad un piano da cima a fondo. Doveva essere perfetto. Riesumò ogni piccola conoscenza che aveva di quella peculiare razza aliena, per concludere che di concreto sapeva davvero poco, ad esclusione della loro nota sete di sangue per i loro stessi simili.
Vivevano letteralmente del sangue di altri terrestri. Eadan si ritrovò nauseato da un pensiero tanto orrendo e stomachevole. Come se a lui potesse mai venire in mente di attaccare un altro Vrax’ix, o chiunque altro, per assaggiare i loro fluidi corporei. Orribile, ripugnante, immorale, avrebbe potuto pensare ad un altra ventina di sinonimi, ma nessuno sarebbe stato in grado di descrivere il suo astio -ed anche una vaga paura, a quel punto – che provava verso i terrestri.
Appena si ritrovò fuori da quel soffocante edificio, lasciò uscire Tak dallo zaino, la quale si arrampicò prontamente sulla coda del Vrax'ix

"Andiamo, Tak. Abbiamo un piano da escogitare."

   
 
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