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Autore: Pareidolia    17/01/2020    0 recensioni
In un futuro in cui il pianeta è stato quasi interamente sommerso e gli esseri umani vivono in città costruite sull'acqua, il legame coi ricordi e il passato è diventato essenziale per poter continuare a vivere. I raccoglitori, persone speciali ingaggiate da singoli clienti o aziende per recuperare oggetti rimasti nelle città sommerse, si diffondono sempre più sia legalmente che illegalmente.
Martina Imari, una giovane raccoglitrice, cerca di guadagnarsi da vivere proprio così, immergendosi fra i ricordi di un mondo che ormai non esiste più.
Genere: Azione, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L’acqua oltre i palazzi è piatta. I tuoi occhi la cercano, riuscendo però a catturarne solo una piccola porzione. Un tratto minuscolo, una linea sottile che si estende tra due edifici poco più bassi degli altri, dividendo l’azzurro del mare da quello più profondo e meno scintillante del cielo. Poche nuvole che lasciano la distesa libera, dove soltanto qualche insetto volteggia per poi sparire in una tiepida folata di vento.

Mentre cerchi di recuperare il conto dei giorni, esali uno sbuffo di fumo, lentamente, prima di riportare alle labbra la sottile sigaretta. Ne ascolti la punta bruciarsi, la fiamma minuscola accendersi d’arancio, appena aspiri.

I capelli, trasportati dalla brezza che si trascina dietro un odore salino, ondeggiano piano in una danza che ti culla.

Abbassi lo sguardo verso i palazzi sotto al tetto dal quale osservi la città. Finestre cigolanti, affiancate da imposte il cui verde è stato grattato via dal tempo o dalla pioggia. Riflettendoci, fa poca differenza quale delle due cose l’abbia grattato via. Il risultato che hai davanti sono malinconiche superfici di legno dove, in alcuni punti, il verde smeraldo della pittura ha deciso di staccarsi e cadere giù verso le strade strette o nella fredda acqua dei canali.

Nell’aria senti qualche voce provenire da quelle finestre. Genitori che chiamano i figli, coppie che ridacchiano, musica gracchiante che esce da un qualche apparecchio che non riesci a intravedere. Poi, alle tue spalle, il suono del citofono attira la tua attenzione, costringendoti a tornare alla tua realtà quotidiana e abbandonare quella altrui.

Aspetti qualche secondo, lasciando che il campanello suoni un altro paio di volte; un vago sentore di irritazione ne accompagna il motivetto acuto.

Finisci la sigaretta e ne schiacci il mozzicone dentro un sottovaso ai tuoi piedi, poi ti volti raggiungendo una piccola struttura sul tetto del palazzo dentro la quale si trovano le scale che portano ai piani inferiori. Le scendi, apri la porta e ti ritrovi nell’appartamento. Con gli occhi stanchi ti avvicini all’ingresso, spostando un poco lo spioncino e guardando di nascosto oltre il vetro tondo. Ti trovi davanti un viso giovane, leggermente turbato e sul punto di arrendersi e andare via. La mano destra si avvicina al tasto del campanello per quella che sarebbe ormai la quinta volta. Non arriva nessun suono. Indeciso, l’indice dev’essersi fermato a metà strada, prima ancora di toccare la superficie di plastica bianca appena sotto l’etichetta col tuo nome.

Una luce sottile filtra attraverso il vetro dello spioncino, scontrandosi sulla superficie chiara del tuo occhio sinistro mentre osservi il ragazzo raggiungere l’apice dell’indecisione. Una fossetta si forma agli angoli della bocca, gli occhi sembrano sul punto di lacrimare e si è passato più volte una mano fra i capelli rendendoli sempre più spettinati.

Quando, infine, sta definitivamente per andarsene, ruoti la maniglia della porta con forza, facendo più rumore possibile.

Il ragazzo si gira, osservandoti sbucare da dietro la porta. Spalancando gli occhi per la sorpresa, studia ogni linea del tuo viso per poi balbettare qualche parola confusa.

-Tu sei...ehm, lei è la signorina Imari?-

-Sì, esatto. Hai bisogno?-

-Beh, sì...io...-

-Entra, allora.- Lasci la porta aperta, spostandoti assonnatamente verso le finestre per aprirne le imposte e lasciar entrare la luce del mattino. L’aria si libera nell’enorme stanza, poggiandosi sugli oggetti sparsi ovunque, sui vestiti abbandonati sul divano e le sedie, sulle numerose tazze dai fondi ancora pieni di té o caffé sparse ovunque tra il tavolo della cucina e la scrivania coperta da cartelle e fogli.

Non ti scusi per il disordine anzi, nemmeno gli rivolgi la parola mentre lui muove i primi passi oltre l’ingresso guardandosi attorno sconvolto. Di colpo si sente ancora più insicuro di prima. Forse, addirittura, rimpiange di non essersene andato quando stava per farlo e di non aver ignorato il suono della porta mentre la aprivi.

-Ehm, è questo il suo ufficio?-

-Ovvio. E’ difficile potersi permettere un ufficio separato dalla propria abitazione. Soprattutto in questi giorni in cui il lavoro è sempre meno.- Mentre sistemi le tende ai lati delle finestre, lo sguardo si allontana nuovamente alla ricerca del mare al di là dei palazzi. C’è silenzio, ora, nell’aria.

-Capisco...fa solo un po’ strano.-

-Cosa?-

-Entrare così in casa di qualcuno che non si conosce. E’ un po’ come invaderne lo spazio personale.-

-Non farti problemi, si tratta solo di oggetti.-

-Solo di oggetti?-

Dalle casse collegate al lettore di vinili proviene una canzone dall’aria triste e vecchia. Una canzone che lui non sembra conoscere e anzi, forse gli dà anche fastidio.

-Vuoi che lo spenga?-

-No, è...strano. Che canzone è? Io non conosco molta musica.-

-The Weeping Song, di Nick Cave and the Bad Seeds. Una vecchia canzone.-

-Capisco. Non l’ho mai sentita nominare. Appartiene alla città sommersa, quindi?-

-Più o meno. Diciamo che potremmo dire di sì.- Appena finisci di sistemare tutte le tende e di stringere di un foro la cintura per evitare che i jeans ti scivolino davanti a lui, ti sposti come uno spettro incapace di stare fermo alla scrivania, estrai un foglio bianco dalla pila confusa alla tua sinistra, afferri una penna e la tazza con il resto della colazione, caffè ormai freddo.

-Iniziamo dalla base. Nome?-

-Francesco.-

-Servirebbe anche il cognome.-

-Ah, chiedo scusa, Francesco Pacinotti.- Lo scrivi sul foglio, rapidamente e con una calligrafia che lui subito tenta di decifrare, senza riuscirci.

-Hai una professione?-

-No, non ancora. Sto studiando all’Accademia d’Arte.-

-La Visconti?-

-Esatto.- Segni anche questo, subito sotto.

-Ottimo. Dunque, cosa vuoi che recuperi?-

-Ecco...si tratta di un oggetto appartenente ai miei genitori. E’ molto vecchio, quindi è rimasto sotto per non so bene quanto tempo. Non ho idea dello stato in cui si trovi ora.-+

-Di questo non devi preoccuparti. Che oggetto è?-

-Una foto. Una foto di famiglia, per essere esatti. Non è nulla di particolarmente raro o prezioso per il mercato, ma lo è per me, ecco. E’ l’unica foto che ritrae me da piccolo insieme ai miei genitori.-

-Non è un problema, questo. Ma hai già provato a richiederne il recupero attraverso i canali più...ufficiali?-

-Certo, ci ho provato, ma...hanno alzato le tariffe, ultimamente.-

-E da studente immagino ti sia difficile permetterti di pagare certe cifre.-

-Sì, esatto...- I tuoi occhi vagano sugli appunti segnati sul foglio, tentando di tracciare un profilo che appena inizia a delinearsi fra quelle poche parole.

-Capisco. Riguardo al luogo in cui cercare, invece? Sai dove si potrebbe trovare questa foto?-

-Sì, ho questa...- Fruga in una delle tasche del cappotto scuro e ne estrae una piccola diapositiva leggermente scolorita. Su di essa spicca un palazzo dall’aria antica, sul quale è appeso un cartello con il nome della via in cui si trova. “Calle S. Rocco”.

-Bene. Tornando alla cifra per il recupero, immagino che qualcuno ti abbia parlato di me, giusto? Ti hanno anche accennato la questione della tariffa?- Torni a osservarlo. Sembra abbia paura, mentre tiene lo sguardo basso sul bordo della pesante scrivania in legno. Le mani giunte sulle ginocchia, le labbra serrate e pallide, la pelle bianca irradiata dalla luce. Ciuffi di capelli castani gli ricadono sul viso giovane, appena ventenne. Una vena di solitudine scorre nei suoi occhi, un sottile fiume pronto a straripare da un momento all’altro.

-Solo un accenno...-

-Hmm, dunque. Ogni raccoglitore che opera in maniera indipendente, e quindi slegato da qualsiasi associazione, è obbligato a mantenere una tariffa il più bassa possibile. In pratica, la cifra che il richiedente si può permettere e che sia abbastanza alta da non rendere inutili gli sforzi e gli imprevisti che il raccoglitore dovrà affrontare.- Le parole del manuale ti risuonano in mente in perfetto ordine e allo stesso modo fuoriescono dalle tue labbra. Un sorriso di soddisfazione si forma sul viso.

-Non saprei proprio, io non ho idea di quanto possa essere questa cifra...farebbe meglio a dirmelo lei, no?-

-Intanto penso che già smettere di darmi del lei possa essere un buon inizio, non sono così vecchia.-

-Ah, no, io non volevo! Non intendevo questo.-

-Tranquillo, lo so cosa intendevi. Per quanto riguarda la cifra, immagino che la tariffa delle varie aziende si aggiri sui 2000, giusto?-

-Sì, è più o meno la cifra che mi hanno questo quelle alle quali mi sono rivolto.-

-Allora ti propongo la metà di quella cifra, che ne dici?- Ti osserva con occhi nuovamente spalancati per qualche secondo, poi abbassa lo sguardo perso in una profonda e attenta riflessione, le labbra che si muovono in silenzio formulando qualche conto per renderlo più tangibile, per materializzare meglio i numeri nella propria mente. Alza nuovamente il volto verso te, meno scuro nelle pieghe attorno agli occhi e alla bocca.

-Sì, può andare bene.- Gli sorridi apertamente, ancor più soddisfatta di quando hai ripetuto la prima regola e segni la cifra sul foglio, aggiungendo poi la tua firma e poi glielo porgi.

-Devi firmare anche tu e aggiungi anche il luogo in cui abiti, ti raggiungerò lì una volta recuperata la tua foto.-

Francesco afferra il foglio, la mano un po’ tremante, e tenta di tenere salda la sinistra, nella quale prende la penna. Tratti rapidi e lunghi, carichi di un’eleganza allenata, per poi ridarti indietro il foglio. Ora sembra un poco più tranquillo.

-Perfetto.- Gli porgi la mano sinistra.

-E’ un piacere, Francesco.- Lui, titubante, ti stringe la mano. Una stretta delicata, quasi impaurita e gelida.

-Anche per me, ehm…?-

-Martina, Imari è il cognome.-

 

Fuori la strada è fredda, pervasa di nebbia opaca che nasconde le figure avvolte nelle giacche o in lunghi cappotti scuri, i volti immersi in sciarpe pesanti e i capelli coperti da cappelli di lana o a larghe tese. Una sinuosa eleganza permea ogni centimetro delle vie, ogni persona che ti passa davanti o accanto, superandoti in silenzio. I suoni mattutini sono ormai già svaniti, come se l’intera città fosse ora popolata da fantasmi che vagano senza meta lungo i marciapiedi umidi o sui ponticelli coi corrimano ai lati, osservando tristemente l’acqua verde smeraldo dei canali, le travi di legno che scendono in profondità verso gli invisibili edifici sommersi.

Stringi le mani nelle tasche del largo giaccone di pelle dentro al quale il tuo corpo quasi naviga, perdendosi nel suo accogliente calore. Il vento freddo, ormai debole, ti accarezza il viso assieme alla nebbia, scuote un poco i singoli capelli sfuggiti allo chignon floscio dietro la nuca, raffreddandoti le labbra e sbiancando la pelle.

Procedi piano lungo la strada, gettando più volte lo sguardo verso i palazzi dai muri colmi di macchie o le vie più piccole che sbucano di tanto in tanto, abitate solo da ombre scure rischiarate appena da qualche lanterna appesa tra un palazzo e l’altro con fili di alluminio.

-Martina, mi senti?- Una voce anziana gracchia nell’auricolare che tieni nell’orecchio sinistro, collegato a un piccolo apparecchio in una tasca interna del giaccone.

-Forte e chiaro, capitano.-

-Molto bene. Stai iniziando la ricerca per il ragazzo, Pacinotti?-

-Esattamente, sto per raggiungere i sotterranei.-

-Allora fai attenzione, oggi ci sono parecchi controllori, in giro per la città.-

-Anche oggi?-

-Purtroppo sì. Sembra che ultimamente il comune stia investendo sempre più soldi nella protezione del business.-

-Quindi siamo nei guai.-

-Abbastanza. C’è da ringraziare il fatto che molti dei controllori assunti ultimamente sono troppo giovani e inesperti per sapere bene come svolgere il proprio lavoro. Da un altro lato, però, li stanno affiancando ad alcuni veterani.-

L’odore di una sigaretta si perde nella nebbia. Continui a camminare fingendo di non sentirlo ma prestando maggiore attenzione ai pochi suoni circostanti.

-Penso di averne trovato uno proprio adesso.-

-Ne sei sicura?-

-Parecchio. La marca della sigaretta è inconfondibile. E’ quasi inutile fingere di non averlo sentito, sono sicura che sa che me ne sono accorta.-

-Pensi che sia…?-

-Non lo so, mi faccio risentire dopo per aggiornamenti.- La chiamata termina e, senza sfilare l’auricolare, continui a proseguire fino a un ponticello. Alle tue spalle il flebile fruscio di abiti e di passi lenti, calcolati.

Sali i tre gradini che si alzano fino all’arco sospeso sopra uno dei tanti canali della città, aspettando il momento giusto.

Poggi un piede sul ponticello e con la mano sinistra afferri saldamente il corrimano. Un singolo istante e ti sei già lanciata nel vuoto; stai per atterrare sul marciapiede sottostante, dove un gruppetto di persone si è appena riunito salutandosi amabilmente. Raggiungi il pavimento proprio accanto a una donna del gruppo, la quale, per lo spavento, inciampa nei propri stessi passi e per poco non cade in acqua. Lancia un urlo voltandosi verso te per fermarti ma sei già lontana, immersa nelle ombre di un vicolo stretto. Ora che il tuo inseguitore ha perso le tue tracce ti senti più tranquilla, mentre corri per distanziare ancora di pù lo spazio che vi divide, senza lasciare alcun segno del tuo passaggio lungo le vie che percorri.

Raggiungi una piccola piazza dove si trova un solo uomo, seduto su una panchina e intento a leggere il giornale. Poco lontano da lui un bar aperto. La luce giallastra che illumina i tavolini si estende verso il pavimento esterno, rischiarando un poco il pavimento tassellato. Tutt’attorno palazzi dalle finestre serrate, i vetri infreddoliti e il verso di un gabbiano appollaiato su un tetto fa da sottofondo musicale.

Entri nel bar, ordini una brioche e ti siedi a uno dei tavolini, estraendo una mappa dalla stessa tasca interna del giaccone in cui tieni il dispositivo per le comunicazioni. La apri, iniziando a osservare con attenzione le vie che compongono la città sommersa. La ragazza dietro al bancone si avvicina, portandoti su un piattino bianco la brioche che hai ordinato. Ti sorride e lo sguardo le cade sulla mappa.

-Oh, sei una raccoglitrice? E’ così raro vedere uno di voi qua dentro!-

-Sì, diciamo che lo sono.- Rispondi, ricambiando dolcemente il suo sorriso. Ha un bel volto, giovane e allegro. Capelli d’un biondo acceso che scintilla sotto la lampada appesa al soffitto. La divisa bianca le copre il corpo magro, pelle dalla leggera tonalità scura. Sulle labbra il rossetto è stato applicato alla perfezione, non risalta troppo ma rende la bocca brillante e morbida.

-Hai tra le mani una ricerca interessante?- Ti domanda, senza staccare gli occhi affascinati dalla mappa. Forse è la prima volta che ne vede una.

-Più o meno. Devo recuperare una fotografia.-

-Una fotografia? Ma sarà sbiadita, ormai, se è rimasta là sotto per così tanto tempo!-

-Probabile, sì, ma penso che non importi molto al cliente.-

-Hmm, capisco. Io non possiedo alcun cimelio, mi domando come sia...e soprattutto, com’è esplorare la città sotterranea?-

-Be’, innanzitutto...-

Scendi una lunga rampa di scale in metallo arrugginito che si perdono nel buio di un ampio sotterraneo. Un luogo nascosto tra le vie della città, dove i suoni dei passi rimbombano assoluti e, più in basso, l’eco ritmato delle onde tenta di non farsi sentire. Impieghi qualche minuto a raggiungere il fondo delle scale a chiocciola che scendono sempre più in profondità, collegando due mondi totalmente separati tra loro ma misteriosamente speculari, fino a quando non poggi piede sulla spiaggia di cemento sottostante e contro la quale, debolmente, s’infrange l’acqua.

Odore intenso, antico. Un soffio di vento che proviene da lontano, forse dall’alto anche se non sembrano esserci spiragli d’alcun tipo. Poggi il borsone che tieni sulla spalla sinistra a terra e lo apri, estraendone una specie di casco dall’aria sofisticata e una bombola d’ossigeno.

Ti togli il giaccone, slacci i pochi bottoni della camicia bianca e dalla stoffa spessa, poi la cintura e sfili i jeans dopo esserti tolta gli stivali scuri. Abbandoni tutti gli abiti a terra accanto al borsone, restando con addosso solo un costume intero, blu scuro. Rifai lo chignon dietro la nuca, stringendolo di più rispetto a prima e cercando di raccoglierci dentro tutti i ciuffi che tentano di fuggire cadendoti sulla fronte, poi indossi il casco collegato alla bombola che agganci alla schiena allacciando le cinghie sul petto e sulle spalle. Premi un tasto presente all’interno del casco, il quale subito si stringe adattandosi alla base del collo e isolando la testa da qualsiasi agente esterno.

Nella mente hai ben impresso il percorso che devi compiere per raggiungere il palazzo dove si trova la foto; lo hai tracciato con leggeri segni di matita sulla mappa, pronto per essere poi cancellato quando avrai terminato la ricerca.

Un balzo e sei nel buio del mare. Acqua gelida alla quale sei abituata, una sensazione di pesantezza alla quale il tuo corpo non bada affatto, ritrovandosi subito a compiere movimenti sinuosi e dolci, che ti fanno avanzare con calma verso il basso.

Nell’auricolare la voce anziana gracchia nuovamente, a intermittenza.

-Martina, ti sei già immersa.-

-Proprio ora.-

-Ottimo. Buona ricerca, allora. In bocca al lupo.- La chiamata termina, lasciandoti nel silenzio dell’abisso.

Continui a scendere, muovendo a ritmo le gambe. Le braccia tese davanti al viso, anch’esse mosse ritmicamente per avanzare. E, poco a poco, il buio si fa ancora più intenso, assoluto, fin quando non ti stai muovendo in una distesa nera e densa, nella quale cominci a procedere un po’ faticosamente. Attorno a te lunghe strutture di legno calano fino in profondità, verso il punto in cui tu stessa ti stai dirigendo. La torcia del casco si accende automaticamente, rischiarando un poco i lunghi e mastodontici pali dalle superfici mangiate dal sale.

Più scendi, più delle figure maggiormente scure iniziano ad emergere sotto di te. Grosse cupole scolorite, tetti dai comignoli storti e le tegole corrose, muri che calano verso una profondità che non riesci a intravedere. I palazzi abbandonati della città sotterranea iniziano a palesarsi come fantasmi immensi e abbandonati nel tempo. Compagni vecchi che ormai hai imparato a conoscere quasi a memoria, al punto da riconoscerne le strade, le superfici, i ponti così tanto simili alla città in superficie.

Ti raddrizzi, scendendo più in fretta mentre segui il lato di un palazzo dai muri un tempo rosa e ora verdi di alghe e incrostazioni. Qualche pesce incuriosito dalla tua presenza fuoriesce dalle finestre, muovendosi poi come fossero assonnati nel buio circostante fino a svanire. La torcia illumina ogni cosa, ora, rendendo più chiare le forme che hai attorno e rendendoti più semplice la discesa verso le strade che si dilungano fra i palazzi.

Procedi dritto lungo la via, ritrovandoti poi davanti a un incrocio dove svolti a destra, poi a sinistra. Un vicolo stretto ti costringe ad appiattirti ai muri, muovendoti più lentamente. I livelli di ossigeno sono al massimo, perciò non ti causa problemi questa breve perdita di tempo. Sotto i tuoi piedi minuscoli crostacei si allontanano appena percepiscono lo spostamento dell’acqua, ritrovandosi ora privi della calma nella quale erano immersi fino a poco fa.

I ricordi sono ovunque. Navigano placidamente nell’abisso, senza produrre alcun rumore. Sono i palazzi muti, gli oggetti rimasti dal lato opposto delle finestre, dentro gli appartamenti. Sono i lampioni spenti, i passeggini arrugginiti, i traghetti e le strette ma lunghe imbarcazioni accostate lungo i canali, accanto a portoni di legno un poco rialzati da gradini in cemento. Navigare fra tutte queste forme abbandonate al tempo significa ripercorrere il passato di un mondo perduto alla ricerca disperata di qualcosa che si possa legare al presente. Una foto, un orologio, persino una matita basta a ricreare quel legame coi ricordi, col proprio passato o con quello di altri.

Quando finalmente raggiungi Calle S. Rocco, ti trovi davanti a una strada tetra, costellata da formazioni di corallo dalle sagome distorte, pesci tenebrosi che sbucano da ogni angolo senza badare alla tua presenza, luminescenza verdastre lungo i muri dei palazzi e il pavimento. Una piazzetta poco più avanti, con delle panchine simili a quelle poste di fronte al bar dove ti sei fermata poco fa. Alla tua destra, il palazzo della diapositiva. Superfici gialle ora rese più scure, incrostazioni ovunque e cemento gonfio come fosse coperto di tumori.

Gettando un paio di ultime occhiate attorno a te, ti muovi poi verso il palazzo, scoprendone la porta d’ingresso chiusa. Alzi lo sguardo alla ricerca di finestre aperte; ne trovi una al terzo piano. Dopo averla raggiunta, ti accorgi che si affaccia su una camera stretta, dalle pareti piene di disegni fatti con pastelli i cui segni sono quasi svaniti del tutto e figure ugualmente opache. Libri per bambini sul pavimento, su un piccolo tavolino di plastica sotto al quale un gruppetto di pulci di mare fugge appena la luce del casco lo illumina e sugli scaffali di legno gonfio. Galleggi nel vuoto della stanza fino all’uscita e ti ritrovi in un lungo corridoio lungo il quale spuntano, in tutto, quattro porte.

Esplori le stanze: Quella dei genitori al cui centro spicca un grosso letto matrimoniale dalle coperte nere e piene di sale raggrumato e gli armadi neri, vuoti; la cucina i cui scaffali sono disabitati e ogni elettrodomestico è stato staccato dalle prese della luce: il bagno lasciato intatto ma nel quale non c’è nemmeno l’ombra di prodotti comprati da poco prima. Nel salotto, il televisore è steso sul pavimento come un cadavere sventrato e il computer poggiato su una scrivania metallica non è che il ricordo di tempi ormai persi. C’è una sola foto in tutta la casa, abbandonata su un mobile nel corridoio ma raffigura una famiglia con una bimba bionda e un cane. La porta di casa è aperta, come tutte. d’altronde, e ti lascia la libertà di curiosare lungo la rampa di scale che si estende per tutti i quattro piani.

Passando davanti a tutti gli appartamenti leggi i nomi sulle varie targhette finché, finalmente, al secondo piano non trovi quella con la scritta sbiadita che stavi cercando: PA***OTT*.

Spingi a fatica la porta, sotto la quale si sono formate grosse incrostazioni e, non appena riesci a ricavare abbastanza spazio da farci passare il corpo, entri trovandoti davanti un ingresso dal pavimento in marmo bianco, pareti macchiate, armadi a muro pieni di quelli che furono vinili. Una grossa collezione. Procedi superando la cucina sulla destra, addentrandoti nel salotto a sinistra. Su un largo tavolo dall’aspetto fin troppo pesante ci sono ancora pile di quaderni, fogli schiacciati sotto ad essi, materiale da cancelleria che galleggia flebilmente nell’acqua sollevandosi per poi abbassarsi nuovamente. Un mobile pieno di tazzine di ceramica decorate a mano, confezioni di videogiochi ordinate in fila precisa e innumerevoli fotografia, ma solo di una coppia. Non ci sono bambini, in quelle immagini, ma due volti sorridenti, due corpi in mezzo a una foresta, in un parco a tema, davanti all’ingresso di un cinema. Alcune raffigurano solo lui con in mano dei premi: targhette, medaglie, attestati. Tutti oggetti che sono appesi sul muro alla tua destra e che affermano la sua capacità nella pittura. Ed è proprio sopra al televisore di fianco all’ingresso, infatti, che si estende un lungo affresco dalle linee talmente pallide che è difficile riconoscerne le forme le quali, però, occupano tutto lo spazio dal pavimento al soffitto, studiate per districarsi con eleganza attorno al mobile che sostiene lo schermo e quest’ultimo.

Nella tua mente già si sta formando una consapevolezza poco positiva. Il volto di quel ragazzo dall’aria così sincera e triste inizia a trasformarsi in quello di un perfetto attore. Già lo immagini mutare sguardo, mentre le labbra si alzano agli angoli in un sorriso furbo e pieno di fascino. Chiacchiera amabilmente con una ragazza dall’aria scialba e disinibita quanto gli abiti che indossa, abiti che poi sfileranno via con un tocco, una facilità imbarazzante.

Ma qualcosa non torna. Esci dal salotto e raggiungi il fondo del corridoio, dove una porta dal vetro smerigliato separa l’appartamento dal bagno e, ai lati, due camere da letto. A sinistra quella di un bambino, a destra quella della coppia. Entri proprio nella loro, osservando i pochi abiti rimasti negli armadi e nei cassetti, scombinati. Una camicia informe galleggia davanti ai tuoi occhi e si dirige alla finestra, abbracciando le tende.

Sui comodini ai lati del letto, accanto alle lampade, ci sono una sveglia digitale, confezioni di crema in metallo e, su una delle due, una foto. La coppia stringe tra le braccia un neonato. Sorridono verso la camera, poco più anziani rispetto alle immagini che hai visto in salotto.

Appena sfiori la superficie di vetro, un flusso misterioso prende possesso della tua mente.

La coppia sorride e il fotografo, presumibilmente la madre di uno dei due, abbassa la macchina fotografica. Ricambia il loro sorriso, lancia un’occhiata a un uomo che le sta accanto, della sua stessa età se non anche più anziano, e apre la galleria delle immagini mentre tutti gli altri tre le si avvicinano.

-Ecco, guardate. Siete davvero belli, eh?- I due annuiscono, tanto felici da non sapere cosa dire.

-Avete deciso un nome?- Domanda l’uomo, sistemandosi gli occhiali dalla montatura dorata sul naso.

-Non proprio...pensavamo a Francesco, che ne dite?-

-Mi piace molto! Tu che ne dici?- Domanda l’anziana.

-Sì, è molto bello. Francesco Pacinotti. Suona bene!-

Il flusso si sbiadisce e, davanti a te, ora c’è solo la fotografia, i colori opachi a causa dell’acqua e il vetro che la copre un poco rovinato.

Stringendola in una mano ti avvicini a una finestra, la apri ed esci, iniziando a tornare indietro, ripercorrendo a ritroso le strade silenziose, immobili. In lontananza grosse ombre attraversano lo spazio fra un palazzo e l’altro. Enormi creature che la torcia non riesce a raggiungere ma che lascia solo intravedere. Figure nascoste nel buio dell’abisso che, sotto un ponticello sopra al quale stai passando, si fa ancora più profondo e oscuro.

Continui a nuotare, l’animo calmo, il corpo impegnato in movimenti decisi e non eccessivamente rapidi. Una velocità tranquilla, che ti porta ad avanzare di qualche metro ad ogni bracciata leggera, spostando grosse masse d’acqua attorno a te.

I livelli di ossigeno nella bombola sono ancora ottimi, quando inizi a risalite sfiorando i muri ormai verdi dei palazzi accanto a te. Lo sguardo ti cade, per caso, oltre le finestre, scrutando spazi un tempo abitati e ora lasciati in balia del mare, col sale che ne corrode le superfici. Il tuo riflesso nello specchio sul fondo di una stanza. Lo sguardo scuro, inquadrato al centro della visiera del casco, ti sembra estraneo in quel riflesso opaco.

Ti osservi per qualche istante, poi ti volti e riprendi a salire, un po’ più rapidamente di prima, fin quando i raggi di luce provenienti dalla superficie non ti raggiungono la schiena e più avanti, abbandonandoli come poco fa hai abbandonato i palazzi, fino a una zona ancora più alta e buia oltre la quale si estende il sotterraneo dal quale provieni.

L’impatto con l’aria della superficie, le mani che toccano il pavimento freddo e ruvido di cemento, il casco che viene slacciato insieme alle cinghie della bombola e che cade a terra, per poi essere sistemato nel borsone insieme al costume, che ti sfili in un colpo perché ormai bagnato.

Ti rivesti senza biancheria, non badando troppo a questa assenza per te poco importante. chiudi il borsone, te lo carichi in spalla, e risali le scale fino alla porta che separa quel mondo oscuro dalla superficie immersa nella nebbia e nel freddo. Sulla pelle hai ancora la sensazione dell’acqua, dell’antichità dei palazzi sottomarini, dei ricordi abbandonati là sotto.

 

-Martina a rapporto. Recupero effettuato, ora mi dirigo da Pacinotti.-

-Ottimo. Ci sono stati problemi?-

-No, assolutamente. E’ andato tutto parecchio bene, là sotto.-

-Ne sono molto contento. Passo e chiudo.-

Percorri le strette strade ai cui lati sono ormeggiati piccoli motoscafi. Alla tua destra si inseguono negozi d’ogni tipo: Un ristorante ancora chiuso, una libreria dalle luci basse, un orologiaio il cui volto stanco fissa il mondo dalla vetrina e uno stretto locale da una sola vetrata e qualche tavolino che occupa il passaggio in pietra. Su una delle sedie in vimini e metallo verde sta seduto un uomo. Parecchio giovane, elegante nel suo cappotto scuro, il gilet dentro al quale si perdono una cravatta dal motivo floreale e una camicia perfettamente stirata, bianca. In fondo alle gambe accavallate indossa stivali in pelle dall’aspetto pesante; tra le mani stringe un giornale appena iniziato e le labbra fanno presa come tenaglie su una sigaretta incolore.

Ti rivolge uno sguardo, un sorriso sottile e consapevole, quasi complice. Lo ignori e prosegui, ma lo senti alzarsi, ripiegare il giornale, terminare al volo il caffé lasciato sul tavolino e iniziare a camminare, a seguirti.

Svolti rapidamente a destra al primo bivio, mantenendo la velocità ma con movimenti più fluidi. Lui svolta dietro di te, con calma.

Sali su un ponticello, appoggiando una mano all’inferriata, ma lui ti ferma afferrando l’altro braccio.

-Martina Imari.- Si limita a dire, costringendo con un movimento leggermente brusco a voltarti nella sua direzione. Occhi azzurri, profondi; capelli castani con un ciuffo che si estende verso il lato sinistro. Pieghe dure nella pelle del volto.

-Agente Blixa.-

-Ricordi il mio nome. E’ un onore.-

-Se lo dici tu.-

-Immagino non ti infastidisca una perquisizione, no? Non hai mai nulla da nascondere, tu.-

-No, infatti.-

-E di poche parole, anche. Interessante. Cosa c’è in quel borsone?- Senza rispondere, allunghi una mano verso la sua sigaretta, la sfili dalle labbra, aspiri un po’ di fumo e gliela ripassi. Lui, dopo averla afferrata, la getta oltre il ponte, lasciando che cada nel vuoto fino a raggiungere l’acqua.

-Che spreco...-

-Il borsone. Non farti pregare.- Sfili le spalline del borsone dalla spalla, poggiandolo a terra, poi lo apri. Una bombola, un casco da immersione, un costume bagnato. Niente più. Niente di illegale.

-Strumenti professionali.-

-Mi piace essere sicura, quando mi immergo.-

-E sicura che si tratti di immersioni normali?-

-Vede qualcosa di insolito, agente Blixa?- Lui non risponde. Arriccia solo le labbra, facendoti segno di chiudere pure il borsone e si volta altrove, come se avesse perso tutto l’interesse.

-Puoi andare, Imari. Per questa volta, puoi andare.-

Seguendo la sua indicazione ti allontani ma, dopo appena qualche passo, la sua voce ancora risuona alle tue spalle.

-Ogni volta, Imari. Ogni volta ti fermo e non hai mai nulla. Ma io so. Non dimenticare che io so.-

Riprendi i passi da dove li hai lasciati, quasi dimenticandoti della sua presenza che si fa sempre più lontana. Ti osserva andare via, si accende una sigaretta e, poi, anche lui svanisce tra le strade.

 

L’abitazione di Pacinotti si trova in un alto palazzo dai muri scoloriti. L’intonaco è venuto via in più parti, lasciando intravedere come carne che esce da ferite solitarie e tristi i mattoni rossicci. Quattro piani in tutto, percorsi da una scaletta esterna un po’ storta, col corrimano sottile e i gradini un poco impolverati, che si affaccia su diversi pianerottoli occupati da porte in legno. Ti fermi al terzo piano, davanti a una porta anonima tranne che per un cartellino sopra al campanello con scritto “Pacinotti Francesco”. Lo suoni, ascoltando i suoni dei suoi passi avvicinarsi, il coperchio metallico dello spioncino che viene spostato, qualche istante di silenzio e, poi, la porta si apre.

Lui, pallido come quando lo hai visto qualche ora fa, ti indica con la mano destra l’interno, invitandoti a superare l’uscio.

-L’hai trovata…?-

-Infili una mano nei pantaloni, lasciandolo sconvolto e ne estrai la foto dal fianco.

-Tranquillo, non si è rovinata né macchiata, te l’assicuro. A parte che per il tempo passato sott’acqua, ovviamente.- Gliela porgi, lui esita.

-Su, non me la sono mica infilata chissà dove.- Finalmente la afferra e il suo sguardo, di colpo, risplende. L’ombra delle lacrime oscura l’iride, fino a inondare le palpebre inferiori.

-Grazie...grazie mille, davvero.- Abbraccia la foto. La stringe al proprio petto chiudendo con forza gli occhi e cade a terra in ginocchio. Accanto a lui si materializzano due figure in un primo momento opache, poi più definite.

La coppia delle fotografie, i suoi genitori, sono ora accanto a lui. Sorridono, mentre gli carezzano la schiena, il collo, i capelli arruffati senza lasciare traccia di quel tocco.

Gli spettri, poi, svaniscono. Solo i singhiozzi del ragazzo rimangono.

   
 
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