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Autore: Parmandil    09/02/2020    1 recensioni
Lacerata fra la lealtà all’Unione e i sentimenti personali, Jaylah intraprende la sua missione più pericolosa. Ormai vero Agente Temporale, è sulle tracce di Vosk, sopravvissuto alla Battaglia di Procyon. Ma stavolta dare il massimo non basta. Sconfitti e dispersi, i nostri eroi devono affrontare le più grandi sfide della loro vita, tentando faticosamente di riunirsi.
Mentre la Keter danneggiata sprofonda sempre più in un pianeta gassoso, Dib e Zafreen cercano di ripararla. Ben presto scoprono di non essere gli unici ad aggirarsi sulla nave spettrale. Intanto il Capitano Hod, naufragata su un mondo ostile, giace tra la vita e la morte. Spetta al timoniere Vrel recuperarne l’energia neurale: una missione impossibile senza l’aiuto dell’estraniata sorella Lyra.
Sulle tracce del nemico, gli Agenti Temporali approdano nel 2053, alla vigilia della Terza Guerra Mondiale. Qui si scontrano col famigerato Colonnello Green e con l’ancor più crudele leader dei Potenziati, scoprendo un piano diabolico per sovvertire il mondo. Ma alla resa dei conti il fato della Galassia dipenderà dalla scelta di Juri Smirnov, l’uomo tradito dall’Unione. Lo scontro con Vosk termina con una stella cadente e un’esplosione che la Terra non dimenticherà mai.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Star Trek Keter Vol. V:

Stella cadente

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 


Prologo:

Data Stellare 2556.031

Luogo: Nuova Berlino, Luna

 

   La bambina bionda giaceva nella capsula di stasi, con gli occhi chiusi, immobile come lo era stata negli ultimi tre anni. Numerosi sensori medici monitoravano le sue condizioni. I dati erano leggibili su un’interfaccia parietale: battito cardiaco, respirazione, attività cerebrale. Tutti questi parametri erano estremamente rallentati, data la sua condizione di stasi. Solo così i medici potevano ostacolare la progressione della malattia che l’aveva colpita, quando i Na’kuhl avevano sferrato il loro devastante attacco al sistema solare. La bambina era una tra i milioni di vittime dell’Agente 47, il virus che i medici federali non riuscivano ancora a curare. Molti pazienti erano morti nei primi, terribili giorni dell’epidemia. Altri, come lei, erano finiti in stasi, nell’attesa di trovare una cura. Ma dopo tre anni di ricerche e sperimentazioni, la situazione non era incoraggiante.
   La capsula era allineata con altre, lungo uno stanzone grigio e spoglio. Solo delle tendine divisorie davano un minimo di privacy alle famiglie che visitavano i loro cari. In fondo alla sala, una grande finestra mostrava il desolato paesaggio lunare, con i crateri e le colline ammantati di regolite grigia. Le cupole di Nuova Berlino erano in gran parte infrante e i palazzi all’interno erano diroccati, per via del bombardamento Na’kuhl. Spente le luci, dispersa l’atmosfera, morti o fuggiti gli abitanti, gli edifici erano divenuti spettrali ammassi di rovine. Il cielo nero era attraversato ogni tanto da qualche navetta di pattuglia.
   «Bambina mia...» mormorò Vlatka, passando la mano sul coperchio della capsula. Non poteva nemmeno toccare sua figlia; doveva accontentarsi di guardarla attraverso quella barriera trasparente. Vederla così vicina, eppure così lontana da lei, era una stilettata al cuore. Una stilettata che la colpiva ogni volta che si presentava all’ospedale, cioè quasi tutti i giorni. Tre anni di amare veglie e di pianti notturni l’avevano fatta sfiorire precocemente. Il suo viso era magro e pallido, con gli occhi cerchiati e febbricitanti.
   «Vieni, amore» disse Sergej, cingendole le spalle col braccio. «I dottori vogliono parlarci. Potrebbe essere importante». Alto, con le spalle larghe e il volto barbuto, Sergej sembrava un uomo tutto d’un pezzo. Solo sua moglie e i parenti più stretti sapevano quanto anche lui fosse dilaniato dal dolore.
   «Vengo anch’io?» chiese Juri, il figlio più grande della coppia, sfuggito al virus. Era un ragazzino di dieci anni, quasi undici. Molto alto per la sua età, era magro e introverso. La malattia della sorellina lo aveva reso ancor più melanconico.
   «No, Juri. Credo che questo sarà un discorso da grandi» disse suo padre, con un groppo in gola. «Perché non torni in anticamera? Ci sono altri ragazzi della tua età...».
   «Preferisco stare qui» rispose Juri, accomodandosi su una seggiola accanto alla capsula di stasi. «Così posso leggere a Svetta le sue fiabe preferite». Sollevò il d-pad in cui aveva scaricato i testi, prima di venire all’ospedale.
   «Sai che non può sentirti...» mormorò il padre, addolorato.
   «Mi sente, invece» ribatté Juri, cocciuto. «A volte sorride quando le parlo».
   I genitori si scambiarono un’occhiata dubbiosa. Nessuno di loro aveva mai notato i sorrisi e gli altri movimenti che, secondo Juri, Svetlana faceva nel sentire la sua voce. Non volendo impelagarsi in una discussione, gliela diedero vinta e lasciarono la sala, per sentire cos’avevano da dire i dottori.
   Appena fu solo con la sorellina, Juri azionò un comando della capsula di stasi, per permettere alla sua voce d’essere udita all’interno. «Ciao, come stai oggi?» le chiese. «Io bene, grazie. Ieri l’insegnante di Storia ci ha dato le verifiche corrette. Ho preso il massimo, sai? La prof dice che sono portato per l’argomento. Scusa se non sono venuto a dirtelo subito, ma ieri avevo troppi compiti. E quella stupida palestra che papà e mamma mi obbligano a fare. Ma oggi posso stare con te. Sai che fra una settimana sarà il mio compleanno? Avrò undici anni! Però la mamma dice che non potremo festeggiare, per via della guerra. Meglio così... le feste mi annoiano» disse il ragazzino, levandosi un ciuffo di capelli dalla fronte. Osservò la sorellina, sperando in una sua reazione.
   Svetlana rimase immobile, come al solito.
   «Invece il mese prossimo ci sarà il tuo compleanno» proseguì Juri, senza perdersi d’animo. «Avrai otto anni... chissà, magari per allora i dottori avranno la cura e potrai uscire da lì. La tua cameretta è ancora come l’hai lasciata, non abbiamo cambiato nulla. Sarai indietro con la scuola, ma non preoccuparti. Ti aiuterò io» si offrì. Guardò ancora Svetlana, speranzoso, ma la bambina non mostrò alcuna reazione.
   «Vuoi che ti legga le storie, vero?» chiese Juri, scorrendo i titoli sul d-pad. «Vediamo, da quale comincio? Ah, ecco la tua preferita: Caschetto Rosso». Il ragazzino drizzò la schiena e si schiarì la voce: raccontare fiabe era una cosa importante.
   «C’era una volta, in mezzo a una nebulosa fitta fitta, un piccolo pianeta dove abitava una bambina bella e buona. Aveva una tuta spaziale con un casco rosso fiammante, per cui tutti la chiamavano Caschetto Rosso. Spesso lei e la mamma andavano a casa della nonna, che viveva tutta sola in una piccola stazione spaziale, in mezzo alla nebulosa.
   Una mattina la mamma chiese a Caschetto Rosso di andare dalla nonna, che era un po’ malata, per portarle un nuovo replicatore. L’accompagnò fino alla navetta, che aveva la rotta programmata per portarla a destinazione. Caschetto Rosso era coraggiosa e non temeva di fare il viaggio da sola; e poi voleva molto bene alla nonna.
   “Stai molto, molto attenta, piccola mia” le raccomandò la mamma. “Se devi dalla tua rotta, potresti perderti per sempre”. La bambina promise di seguire la rotta impostata, senza fermarsi e senza deviare. Salutata la mamma, si mise in viaggio. Presto il pianeta scomparve dietro la navicella, che si addentrava sempre più nella nebulosa.
   Caschetto Rosso era piena di buone intenzioni e voleva seguire i consigli della mamma. Ma a un certo punto vide una bellissima cometa, mai segnata sulle mappe. Pensò di seguirla per un tratto, assumendo il controllo della navetta. Così facendo finì fuori rotta, dove i gas nebulari erano più densi e scuri. Vedendo sparire le stelle, la bambina si spaventò e cercò di tornare indietro.
   Proprio in quella, però, i suoi sensori rilevarono una navicella aliena in avvicinamento. Caschetto Rosso non lo sapeva, ma era guidata da un Mutaforma cattivo, che avrebbe tanto voluto mangiarla. Quando il Mutaforma la chiamò, Caschetto Rosso pensò che fosse scortese non rispondere, così aprì un canale. Il Mutaforma si presentò con l’aspetto di un Vulcaniano, perché tutti sanno che i Vulcaniani dicono solo la verità.
   “Dove vai, bella bambina, tutta sola nella nebulosa?” chiese il Mutaforma.
   “Vado dalla mia nonna, a portarle un nuovo replicatore” rispose educatamente Caschetto Rosso.
   “Tua nonna vive sola?” volle sapere il Mutaforma, con l’acquolina in bocca.
   “Sì, e non apre agli sconosciuti” avvertì la bambina. “Anch’io non li faccio entrare, signor Vulcaniano. E la mia navetta ha sempre i siluri fotonici innescati”.
   “Fai bene” disse il Mutaforma. “Ci sono tanti malintenzionati in giro. Ma perché segui la rotta più lunga? Se prendi quella che ti sto trasmettendo, arriverai molto prima!”. Era una bugia, perché il percorso indicato dall’alieno era il più lungo. Ma Caschetto Rosso non se ne accorse, così ringraziò il Mutaforma e corresse la rotta secondo le sue indicazioni.
   Con questo tranello, il Mutaforma si assicurò di arrivare per primo alla stazione della nonna. Assumendo l’aspetto di Caschetto Rosso, e imitando persino la sua voce, la convinse ad abbassare gli scudi. Così poté salire a bordo. Trovata la nonna, riuscì a sopraffarla e la imprigionò nel buffer degli schemi del teletrasporto. Poi assunse le sue sembianze e si mise a letto, aspettando l’arrivo di Caschetto Rosso...».
   Proprio ora che la storia si avviava al climax, Juri s’interruppe. Aveva sentito delle grida provenire da fuori. Riconobbe la voce di suo padre e ne fu spaventato, perché erano grida di rabbia. Anche sua madre urlava, o per meglio dire singhiozzava. Stava succedendo qualcosa di grave. Qualcosa che probabilmente riguardava sua sorella.
   «Scusa, devo capire che succede» mormorò Juri, sempre rivolto a Svetlana. «La storia te la finisco dopo, d’accordo?».
   Mollato il d-pad sulla sedia, il ragazzino lasciò la sala. Seguendo le voci concitate raggiunse un ufficio adiacente. Lo conosceva per esserci stato altre volte, al seguito dei genitori. Finalmente li vide: gesticolavano animati, rivolti a due medici dell’Unione, un Edosiano e un’Angosiana. A Juri gli Edosiani facevano un po’ paura: erano magri e senza capelli, con i volti simili a teschi. Cosa ancor più inquietante, avevano tre braccia e tre gambe. Gli Angosiani, invece, erano quasi indistinguibili dagli Umani. Il ragazzino scivolò silenziosamente dietro una consolle, per ascoltare la discussione.
   «Non se ne parla!» stava dicendo suo padre. «Non staccherete la spina a nostra figlia!».
   «È l’opzione più logica, e anche la più etica» ribatté l’Edosiano. «Abbiamo lottato contro la malattia per tre anni. Abbiamo sottoposto vostra figlia a tredici terapie sperimentali. Nessuna ha dato il benché minimo risultato. A questo punto è inutile insistere. Dovete accettare il fatto che avete perso vostra figlia. Vi affiancherò un Consigliere, per aiutarvi a elaborare il lutto».
   «Io non elaboro un bel niente!» gridò Vlatka, tremando in tutto il corpo esile. «Mia figlia è viva!».
   «È tenuta in vita da una macchina» obiettò l’Angosiana con voce fredda. «Se la scollegassimo, il virus le divorerebbe il sistema nervoso in poche ore. Le pareti cellulari si romperebbero e vostra figlia inizierebbe a vomitare sangue. È questo che volete per lei?».
   «Voglio che la teniate in stasi, finché si troverà la cura!» ribatté la madre.
   «La sua malattia ha raggiunto uno stadio troppo avanzato» spiegò l’Edosiano, gesticolando con i tre arti. «Vedete, anche in stasi il virus continua a diffondersi lentamente».
   «Perché non la trasferite in una capsula crono-statica? Se fermate lo scorrere del tempo, fermerete anche il virus!» affermò Sergej.
   «Le capsule crono-statiche sono ancora sperimentali» spiegò l’Edosiano. «E consumano moltissima energia. Con le restrizioni imposte all’ospedale, dobbiamo risparmiarle per i pazienti al primo stadio d’infezione, che hanno più speranze di guarire».
   «Allora trasferiremo nostra figlia in un ospedale terrestre!» tuonò il padre.
   «Negativo. La paziente è in cura presso di noi, non consentirò alcun trasferimento» lo gelò l’Edosiano, stringendo gli occhietti gialli. Dietro al suo nascondiglio, Juri rabbrividì.
   «In cura? Quale cura?! Avete appena detto di volerla uccidere, perché non sapete che fare!» gridò Sergej.
   «Siete medici; dovreste proteggere la vita, non troncarla!» singhiozzò Vlatka.
   «Il nostro dovere è preservare la qualità di vita dei pazienti» corresse l’Angosiana. «Se ciò non è possibile, allora dobbiamo evitare l’accanimento terapeutico. È una questione di rispetto per la dignità delle loro vite».
   «Se i pazienti danno il loro consenso!» obiettò Sergej. «Ma Svetlana è in stasi e non può dire la sua. E in ogni caso è minorenne. Noi siamo i suoi genitori; la decisione spetta a noi» disse a muso duro.
   «Col dovuto rispetto, signor Smirnov, non è così» ribatté l’Angosiana con decisione. «La responsabilità è di noi medici, quali rappresentanti dell’ospedale e quindi dello Stato».
   «Uno Stato che ha diritto di vita e di morte sui cittadini! Anche sui bambini!» sibilò il padre. «Chi siete voi, per decidere quali vite sono degne d’essere vissute e quali invece vanno scartate?!».
   «Siamo i dottori che hanno curato la paziente per tre anni, cioè le persone più qualificate per prendere questa difficile decisione» rispose prontamente l’Angosiana. «Voi invece non avete né le competenze mediche, né la lucidità necessaria. Siete accecati dal dolore, lo comprendo. Ma non vi permetteremo di commettere un abuso nei confronti di vostra figlia» proseguì. «Voi credete che tenerla in vita sia un gesto d’amore. Vi sbagliate. È un atto di puro egoismo, che le infligge sofferenze inutili. Se amate davvero vostra figlia, allora dovete lasciarla andare».
   «Non osi mettersi tra una madre e sua figlia!» gridò Vlatka, fuori di sé dalla disperazione. «Non osi strapparmela!».
   «Perché non la tenete in stasi ancora un po’ di tempo?» suggerì Sergej, sforzandosi di ragionare con i medici. «Sono tre anni che sta in quella capsula. Che male vi fa, se ci resta ancora qualche mese?».
   «Prolungare la degenza di un paziente incurabile è irrazionale» insisté l’Edosiano. «Inoltre quella capsula è una risorsa preziosa per la collettività. Potrebbe salvare la vita di un paziente allo stadio iniziale dell’infezione».
   «Ah, ecco spiegato il vostro accanimento: volete sgombrare un posto letto!» ringhiò Sergej, fremendo di collera. «E se fra poco qualche team medico, fra le migliaia che sono al lavoro, scoprisse la cura?».
   «Non possiamo basare il nostro giudizio su una remota speranza» obiettò l’Edosiano. «Il nostro parere di medici è che vostra figlia sia irrecuperabile. Non resta che spegnere le sue sofferenze, nel modo più rapido e indolore». Così dicendo, l’alieno premette alcuni tasti sull’oloschermo del suo computer.
   «Che ha fatto?!» chiese Sergej, impallidendo.
   «Vi prego di non opporre resistenza. Quello che facciamo è nel miglior interesse di vostra figlia» disse l’Angosiana. «Ha il diritto di andarsene con dignità».
   «Maledetti!» gridò l’uomo, precipitandosi fuori dall’ufficio. Voleva correre alla capsula, per invertire il processo d’eutanasia, ma si trovò il passo sbarrato da due guardie dell’ospedale, chiamate dai medici. «Levatevi di mezzo!» gridò, rosso in viso.
   «Si calmi, o saremo costretti ad arrestarla» rispose severamente uno dei tutori dell’ordine.
   «Vogliono uccidere mia figlia! Fatemi passare!» strillò Vlatka, fuori di senno.
   «Lasciate stare mia sorella! Non vi ha fatto niente di male!» gridò Juri, sbucando dal suo nascondiglio.
   Scoppiò il pandemonio. Alcuni infermieri, richiamati dalle urla, si gettarono su Vlatka cercando d’immobilizzarla, benché la poveretta si dibattesse come un’ossessa. Sergej si gettò in avanti contro le guardie, ma fu preso e scaraventato indietro. Cadde contro un carrellino medico, facendolo ribaltare. Juri si scagliò contro l’Edosiano, sebbene l’alieno rinsecchito lo spaventasse. Lo afferrò e lo tempestò di pugni sul volto duro come cuoio, anche se l’altro aveva tre braccia ed era molto più forte di lui. Quando l’Angosiana cercò di staccarlo dal collega, il ragazzino colpì anche lei con un calcio.
   Tra grida e imprecazioni, lo scontro divenne sempre più violento. I tre Umani lottavano con tutte le loro forze, pur essendo soverchiati dal personale dell’ospedale. Con un braccio già immobilizzato dietro la schiena, Vlatka tirò calci e graffiò un infermiere sul viso. Questi gridò dal dolore e indietreggiò, con il volto deturpato da quattro lunghi tagli. Corse a prendere un rigeneratore dermico per curarsi. Il suo posto fu preso da un collega armato d’ipospray. «Questo la calmerà» disse. Mentre gli altri infermieri trattenevano a viva forza la donna, il nuovo arrivato le praticò l’iniezione nel collo. «Venti milligrammi di axonon; stenderebbero anche un Klingon» ridacchiò.
   «Maledetti... tutti... voi...» mormorò la donna, accasciandosi. La dose di sedativo era così massiccia che nemmeno il picco d’adrenalina poteva contrastarla. Gli infermieri la sorressero, per evitare che si ferisse cadendo. Poi la distesero su un lettino, legandovela sopra, casomai al risveglio desse ancora in escandescenze.
   Nel frattempo Sergej era venuto alle mani con un sorvegliante che cercava di ammanettarlo. Riuscì a divincolarsi, gli afferrò la testa e gliela sbatté su una mensola, stordendolo. L’attimo dopo fu colpito alla schiena da un raggio phaser. «No...» rantolò, reggendosi a stento alla mensola. Il guardiano ancora in piedi alzò di una tacca la regolazione del phaser, puntandolo su massimo stordimento. Mirò attentamente e fece fuoco, colpendo l’uomo in pieno petto. Sergej crollò a terra, trascinandosi dietro un vassoio pieno di strumenti medici, alcuni dei quali andarono in pezzi.
    «Ora non fai più il gradasso, eh?» commentò il guardiano, avvicinandosi. «Aggressione a pubblico ufficiale... sei mesi di galera non te li leva nessuno» aggiunse mentre lo ammanettava.
   «Mamma! Papà!» gridò Juri, scioccato nel vedere i suoi genitori – i suoi punti di riferimento – cadere uno dopo l’altro. Ma sapeva che erano solo storditi. Ciò che lo terrorizzava era la sorte di Svetlana. Siccome l’Edosiano lo aveva afferrato con le tre braccia e cercava d’immobilizzarlo, il ragazzino afferrò un d-pad dalla scrivania e glielo ruppe in testa. L’alieno barcollò, semi-stordito, e lasciò la presa. Juri si girò appena in tempo per fronteggiare l’Angosiana, che aveva preso un ipospray. Le bloccò il polso e con la forza della disperazione glielo ritorse contro. Svuotò l’ipospray nel fianco dell’aliena, che scivolò a terra svenuta.
   Subito il ragazzino corse in avanti, facendo slalom fra gli infermieri che cercavano di agguantarlo. Saltò sopra una scrivania, colpendo uno di loro con un calcio in faccia. Poi balzò giù, passando sotto una mensola per sfuggire a un altro. Accortosi che la guardia lo stava prendendo di mira, afferrò il vassoio metallico caduto e lo usò come scudo. Fece bene, perché il guardiano sparò sul serio. Il raggio phaser colpì lo scudo improvvisato, trasmettendo a Juri una forte scossa, che gli fece rizzare i capelli. Più tardi, consultando i regolamenti, il ragazzino verificò che sparare a un minorenne – sia pure per stordire – era illegale. Eppure era accaduto.
   Solo contro tutti, Juri corse nel salone con le capsule di stasi. Gli infermieri gli stavano alle costole; ne udiva le imprecazioni e poteva quasi sentirne il fiato sul collo. Trafelato, il ragazzino raggiunse la capsula di Svetlana, per difenderla fino all’ultimo respiro. Ma qui lo attendeva un’amara sorpresa. La capsula era senza energia. Sul monitor parietale, tutti gli indicatori dei segni vitali erano a zero. Incredulo, Juri sfiorò il coperchio trasparente della capsula. La luce interna era spenta, così che non poteva vedere il corpo senza vita della sorellina. «Non andartene, ti prego» sussurrò, con gli occhi appannati di lacrime. «Devo finire la storia...».
   «Tua sorella è morta, ragazzino» disse l’Edosiano, strappando la tendina che circondava la capsula. Tese il collo lungo e magro, allungando in avanti la testa grinzosa, su cui iniziava a formarsi il bernoccolo. «È meglio che lo accetti, se non vuoi finire come i tuoi genitori».
   «È morta perché voi l’avete uccisa!» ringhiò Juri, fissando gli occhi grigi in quelli gialli dell’alieno.
   «È morta perché aveva una malattia incurabile» corresse il medico. «Abbiamo fatto tutto il possibile per salvarla. Ma quando non c’è speranza, bisogna avere il coraggio di lasciar andare i propri cari».
   «Stavolta era troppo presto per rinunciare alla speranza» insisté il ragazzino, con voce dura. «Io credo che l’abbiate fatto perché era la cosa più facile».
   «Sei un dottore, tu?  Certo che no. E allora non insegnarci il mestiere!» rimbeccò l’Edosiano. «Lascia queste cose a chi è adulto e competente. Va’ a casa, ora. Il poliziotto ti accompagnerà».
   «E i miei genitori?».
   «Tua madre sarà rilasciata appena riprenderà i sensi. Tuo padre, però, dovrà essere processato per l’aggressione» rispose la guardia. «Mi spiace che tu abbia assistito a tutto questo. Spero che non seguirai l’esempio dei tuoi genitori e che crescendo sarai rispettoso della legge. Per stavolta te la cavi... ma alla prossima infrazione ti prenderemo i dati biometrici. Hai capito?».
   «Capisco anche troppo» rispose Juri, fissandolo con disprezzo. «Capisco che i forti comandano e i deboli muoiono». Poi si rivolse di nuovo all’Edosiano. «Se Svetta non fosse stata Umana, ma della sua specie, le avrebbe spento la capsula?» chiese.
   «Certamente» rispose il medico.
   «Chissà!» rispose il ragazzino, scrutando con diffidenza gli alieni che lo circondavano. Poiché non gli restava più nulla da fare lì, si accinse ad andarsene. Posò una mano sul freddo coperchio della capsula: avrebbe dovuto dire addio a Svetlana, ma non ne fu capace. «Leggerò le fiabe per te» fu tutto ciò che riuscì a dire. Cercò con lo sguardo il suo d-pad, ma non trovandolo lasciò perdere e seguì il poliziotto, dopo aver lanciato un’ultima occhiata velenosa al dottore. Il senso d’impotenza gli schiacciava il cuore come un macigno. Per quanto si sforzasse, non riuscì a trattenere le lacrime. La sua infanzia era morta lì, con Svetlana. E sebbene lui vivesse ancora, Juri non pensava che sarebbe mai più stato capace di provare felicità.
 
   Di lì a due giorni, l’ospedale recapitò agli Smirnov la piccola urna con le ceneri di Svetlana, assieme a un biglietto di condoglianze. Il corpo era stato cremato per distruggere ogni traccia del virus. Il funerale avvenne subito, in forma strettamente privata. Sergej non poté parteciparvi, essendo agli arresti per l’aggressione alla guardia. Poiché alcuni parenti erano morti nella guerra e altri non potevano raggiungere la Luna in quel momento, solo Juri e sua madre vi parteciparono.
   Il cimitero era scavato nel sottosuolo, come quasi tutti gli ambienti della colonia lunare. Con mani tremanti, Vlatka collocò l’urna cineraria nella sua nicchia, accanto a innumerevoli altre. Solo la targhetta sottostante permetteva d’identificarla: 
 
 
SVETLANA SMIRNOVA

AMATA FIGLIA, AMATA SORELLA

2548 – 2556
 

   Quando l’urna fu a posto, Juri le posò accanto un mazzetto di gigli. Poi indietreggiò di qualche passo, tornando accanto alla madre.
   «Vuoi dirle qualcosa, prima di andare?» mormorò Vlatka, con gli occhi arrossati e il viso rigato di lacrime.
   «Non serve» rispose il ragazzino. «Io le parlo spesso».
 
   Tre settimane dopo la morte di Svetlana, Juri stava in camera sua. Era lì che passava tutto il suo tempo, quando non era a scuola. Sua madre si aggirava per casa come il fantasma di se stessa, svolgendo a mezzo i lavori domestici, in una sorta di sonnambulismo causato dagli psicofarmaci. A volte si chiudeva nella propria camera per singhiozzare, ma Juri la sentiva. Quanto a suo padre, era ancora in cella; non lo vedeva dal giorno della sciagura. Il ragazzino andava a scuola da solo e si faceva da mangiare con il replicatore. A volte passava l’intera giornata senza scambiare una sola parola con sua madre, sebbene vivessero nella stessa casa. Sui mobili si accumulava la polvere, che nessuno dei due aveva voglia di levare.
   La cameretta di Svetlana era sigillata. Le sue olografie sparse per casa erano sparite, tolte dalla madre che non aveva la forza di guardarle. Juri ne aveva salvata solo una, nascondendola in un cassetto della sua camera. Da quando aveva perso la sorellina, ricordava solo una successione di giorni uguali, tutti grigi e deprimenti.
   Quel giorno, però, era diverso dagli altri. Fin dal mattino Juri aveva ricevuto una comunicazione dalla scuola. Le lezioni erano sospese, perché l’Unione Galattica – cioè la Federazione e i suoi alleati – stavano affrontando il Fronte Temporale a Procyon V. Era la più grande battaglia mai vista e avrebbe sancito la fine della guerra. Restava da vedere chi ne sarebbe uscito vittorioso. Juri sapeva che se l’Unione cedeva, il Fronte Temporale sarebbe balzato nel sistema solare, per finire il lavoro iniziato dai Na’kuhl tre anni prima. C’erano navi trasporto pronte a partire, anche lì sulla Luna, ma gli spazioporti erano ingolfati da gente terrorizzata. Piuttosto che farsi calpestare nella calca, Juri e sua madre preferivano restare in casa e attendere. Se il Federal News avesse annunciato che l’Unione era stata sconfitta, sarebbero corsi allo spazioporto Armstrong, sperando di trovare qualche carretta su cui imbarcarsi. O forse sarebbero rimasti a casa, nel loro stato apatico, in attesa della distruzione. Che senso aveva fuggire nello spazio flagellato dalle anomalie, braccati dal Fronte, mentre i pianeti federali erano distrutti uno dopo l’altro?
   Seduto sul letto, Juri non staccava gli occhi dall’oloschermo. Il Federal News trasmetteva gli aggiornamenti della battaglia, il cui esito continuava a oscillare. In certi momenti l’Unione sembrava in vantaggio; in altri era il Fronte a prevalere. La carneficina proseguì per ore, in un crescendo di distruzione e colpi di scena. Entrambe le armate ricevettero rinforzi inaspettati; ci furono atti d’eroismo e di tradimento. Juri seguiva le notizie con il cuore in gola, ignaro di avere trascorso l’intera giornata senza toccar cibo.
   Era ormai sera quando fu chiaro che la vittoria spettava all’Unione. Con la distruzione delle Sfere e la fine delle anomalie, i Tuteriani cedettero, tornando nel loro universo. La loro ritirata sconquassò lo schieramento del Fronte, inducendo gli alleati a fuggire. Solo i Na’kuhl, l’anima nera del Fronte, resistettero fino all’ultimo. La loro flotta s’immolò in attacchi kamikaze, facendo pagare un durissimo scotto all’Unione. Infine la loro nave ammiraglia cedette, anche se le sorti del Leader Supremo Vosk erano incerte: forse era riuscito a fuggire. Anche l’Enterprise-J fu gravemente danneggiata in quell’ultimo scontro. Sconfitti i Na’kuhl, gli ultimi rimasugli del Fronte si arresero. La battaglia – e con essa la guerra – era finita.
   Juri stentava a crederci. Aveva cinque anni quando il conflitto era iniziato: non ricordava com’era vivere in tempo di pace, senza le risorse razionate e la costante minaccia dell’annientamento. Ma finalmente l’incubo era finito. Il Fronte Temporale era caduto e non sarebbe risorto mai più.
   «Ce l’abbiamo fatta, Svetta» mormorò il ragazzino, togliendo l’olografia dal cassetto. «L’Unione ha vinto... la Galassia è salva». Era un sollievo saperlo, anche se con sua sorella morta, suo padre in carcere e sua madre in preda alla depressione più nera non aveva nessuno con cui festeggiare. I compagni di scuola lo avevano sempre maltrattato, quindi non provò neanche a chiamarli. Restò alzato fino a tardi, ascoltando le notizie che si rincorrevano.
   «Interrompiamo il bollettino di guerra per un annuncio che conforterà milioni di cittadini federali» disse a un tratto lo speaker. «Il Comando Medico di Flotta ha appena annunciato che è stata trovata la cura per l’Agente 47, il famigerato virus diffuso dai Na’kuhl. Le informazioni su come sintetizzare la cura sono state trasmesse via Olonet alla rete ospedaliera federale. Ora milioni di nostri fratelli e sorelle, chiusi nelle capsule di stasi, potranno uscirne guariti, in questa Galassia rinnovata...».
   Juri non sentì il resto. Una cura. Una dannatissima cura era stata trovata, alla fine. Avrebbe dovuto gioirne, al pensiero dei tanti malati ancora chiusi nelle capsule. Invece era furioso. Se i medici avessero scoperto il rimedio tre settimane prima, Svetta sarebbe stata viva e la sua famiglia non si sarebbe sfasciata. Ma era ingiusto prendersela con gli scopritori della cura. No, la colpa era di quelli che avevano ucciso Svetta, contro il parere dei genitori. Perché non gli avevano permesso di trasferirla in un altro ospedale? L’avrebbero eliminata così prontamente, se non fosse stata Umana? Juri sapeva che la sua specie, un tempo rispettata dagli altri popoli federali, ultimamente era divenuta il capro espiatorio per tutti i malumori. Lui stesso ne aveva fatto esperienza sulla propria pelle, a scuola. Ora il sospetto si era insinuato in lui e lo rodeva come un tarlo. Sentì sua madre piangere a dirotto, nella stanza adiacente: anche lei aveva sentito della cura.
   Sentendosi più impotente che mai, Juri sedette a capo chino. Tre settimane. Ancora tre settimane di pazienza e Svetta si sarebbe salvata. Ma non si poteva tornare indietro nel tempo... o sì? Nelle sue esplorazioni, la Flotta Stellare aveva scoperto dei modi per viaggiare da un’epoca all’altra. A scuola, gli insegnanti sostenevano che il viaggio nel tempo fosse ancora impreciso e pericoloso. Ma sull’Olonet circolavano altre teorie. Si diceva che la Flotta Stellare avesse segretamente affinato la tecnologia. Persino il Federal News affermava che su Plutone c’era un centro ricerche sul viaggio nel tempo, e che forse le prime crono-navette erano già uscite dal cantiere. Ma la Prima Direttiva Temporale vietava di alterare la Storia, fosse anche per evitare una strage. E con i miliardi di lutti che avevano colpito l’Unione, negli anni di guerra, chi mai si sarebbe preoccupato di un’unica bambina? Nessuno, si disse Juri. Nessuno... tranne lui. 
 
   
 
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