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Autore: Vogue94    30/04/2020    0 recensioni
Le cotte estive. Gli amori di una vita. La provincia di Milano. La Repubblica di California. L'estate più calda del secolo. Marco. G. I baci. I rapporti. Il sesso. Due ragazzi vivono l'esperienza più intensa della loro vita.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La fottuta Repubblica di California
 
«Keep a place for me, for me
I'll sleep between y'all, it's nothing
It's no thing, it's nothing
Keep a place for me, for me»
Frank Ocean, Self Control
Erano settimane che aspettavo quella sera. La mia concentrazione dallo studio era ormai ridotta ai minimi termini. La fine di ogni pagina, la fine di ogni paragrafo, la fine di ogni singola frase mi portava a fare mente locale così da capire quanti giorni rimanevano. E mi innervosiva. Mi innervosiva essere così poco efficiente. Alla frustrazione delle 700 pagine di diritto da studiare si aggiungeva al fastidio dettato dal fatto che ci mettevo sempre più per raggiungere l’obiettivo giornaliero. Quando ero piccolo nonna diceva che se non mangiavo in fretta la pasta, la pasta sarebbe cresciuta nel piatto. Una moltiplicazione dei pani e dei pesci senza i pani, senza i pesci e soprattutto senza il Figlio di Dio. Credo che per quel libro funzionasse alla stessa maniera. Ogni volta che riducevo ad icona il pdf mi sembrava che la pagina si fosse allungata un po’. Ma non ne potevo fare a meno. Come una falena non riesce a rinunciare ad avvicinarsi alla luce che la brucerà, la mia mente era fissa su quella data. Quando il numero di settimane si era ridotta ad una, la mia capacità di concentrazione si fece ancora più debole. E più i giorni si bruciavano sotto il sole dell’estate più calda del Secolo, più il concetto stesso di concentrazione si faceva astratto, quasi sconosciuto. Il giovedì fu un vero e proprio disastro. Non ero neanche più in grado di arrivare al termine di una frase senza che il mio corpo non sentisse la necessità di fare mente locale ad ogni parola che superasse i quattro caratteri.
Il venerdì non provai nemmeno a studiare. Farlo avrebbe solamente rallentato lo scorrere del tempo proprio nella giornata in cui volevo che la Terra finisse il moto di rotazione il prima possibile. Volevo che il sole cominciasse la sua discesa con ogni cellula e batterio del mio corpo. E quindi feci quella cosa che mi aiutava a consumare lo scorrere delle ore con facilità. Mi attaccai alla Playstation. E più falcidiavo gli Heartless e più i secondi, i minuti e le ore passavano. E più queste passavano ed era già ora di pranzo. E poi era pomeriggio e altri Heartless e altri secondi, minuti, ore.
Poi arrivarono le 18. Le 18 in punto perché avevo aspettato quell’orario con una maniacale attesa e fu il momento in cui il mio corpo poté bearsi di una doccia fresca. Ma dopo la doccia, dopo che mi fui attentamente pulito e vestito come avevo preventivato con diversi giorni d’anticipo, ecco che il tempo ricominciò a scorrere lento. E allora un altro turno alla Playstation così che le 20.45 potessero giungere senza troppi intoppi. E quando il numero 44 lasciò spazio al numero 45, aprii la porta di casa con la mano destra umidiccia per l’agitazione e misi il naso fuori casa. Il sudore scendeva dalle ascelle e scorreva lungo i fianchi, la schiena. Lo sentivo bagnarmi zone del corpo di cui non ero a conoscenza. Sceso per strada sentii un venticello tanto leggero quanto fresco risalire dai pantaloncini di jeans e le maniche della camicia. Andavo alla festa di paese. O meglio, andavo ad un concerto.
Arrivai lì in circa un quarto d’ora, con qualche minuto d’anticipo rispetto a quello che era l’obiettivo prefissato, le nove; tanto che la milza aveva cominciato a farmi un po’ male. Un discreto numero di ragazzi affollava il bancone di quel bar temporaneo. Riconobbi un tale della mia città dietro il bancone. Penso avesse la mia età, un tipo magrolino, col volto scavato. Non aveva l’aria di divertirsi molto. I suoi colleghi, invece, sembravano più rilassati nel muoversi da un cliente all’altro. Erano così veloci. Adesso servivano una birra, adesso prendevano un amaro, ora facevano il caffè. E in quella selva di persone che assiepava il bar, quello che attirò la mia attenzione… furono le spalle. Le spalle non sono esattamente il tratto più riconoscibile di una persona e di certo non lo erano le sue. Non erano spalle larghe, che ne so, quelle tipiche da nuotatore. E non erano nemmeno spalle di un fisico gracile come il tizio che lavorava al bar.
Però erano le sue spalle e tanto bastava per farmelo riconoscere.
Mi insinuai tra la folla. Probabilmente il cuore mi batteva così forte solo nel momento in cui salivo sulle montagne russe. E tra un permesso sussurrato e l’altro, con il mio costante raspino in gola, ero al suo fianco. Prima che potessi rendermene conto, come in preda ad un qualche sortilegio, la mia mano sinistra si alzò per aria e si appoggiò sulla sua spalla.
«Hey»
Si voltò, allontanò il volto per un istante e poi le sue labbra si aprirono mostrando un sorriso che, all’apparenza, era sincero. «Marco, come stai? Tutto bene?»
Annuì, gli dissi di sì, gli chiesi come stesse, soliti convenevoli per dimostrarsi persone civili ed educate. Ma mi resi conto che il mio cervello – presumo che fosse lui il responsabile – non riuscisse a cogliere niente di tutto quello che diceva. Non era solo la troppa confusione, tra chi chiedeva un Amaro del Capo e chi invece il limoncello, sembrava che il mondo attorno a me avesse cominciato a girare all’impazzata. Ricordo il consueto dolore tra il cuore e la spalla destra, tipica di quando sono su di giri dopo quel brutto incidente al polmone. Probabilmente stavo continuando a sorridergli.
Realizzai che aveva smesso di rispondermi e oh-mio-dio non so quanto tempo fosse passato da quando lo fece a quando lo capii. E gli dissi la prima cosa che riuscii a pensare. E fortunatamente, nonostante tutto, ero ancora una persona che sapeva mostrare un po’ di coerenza con quello che l’ambiente gli forniva. «Emozionato?» chiesi cercando di celare con un sorriso quell’imbarazzo di chi sa di aver potenzialmente fatto una gargantuesca gaffe.
Mi sorrise, si rivolse verso il banco, prese il bicchierino con dentro un liquido nero, «Ne vuoi uno anche tu?»
«Magari dopo»
«Ci conto, eh» e lo trangugiò tutto, di colpo. Visto quanto poco ce n’era dentro non credo che fosse qualcosa di particolarmente difficile. «Adesso non lo sono più» e scoppiò a ridere.
«G.» lo chiamò una ragazza, allungando la lettera finale del suo nome all’infinito. Si voltò all’indietro. La band era sul palco sotto il tendone. «Devo andare, ci vediamo dopo?» disse e senza aspettare una risposta mi batté la mano sulla spalla, lasciandomi là.

***​
Appena salì sul palco le luci si spensero e cominciammo a gridare come se fossimo a San Siro o al Forum e davanti ci fosse Tiziano Ferro o Marracash. Non ci avevo fatto caso ma non era vestito esattamente come qualcuno che deve reggere un concerto di due ore. Ai piedi aveva un paio di All Stars, un paio di pantaloncini di jeans e una camicia bianca di lino sbottonata a sufficienza per lasciare intravedere un po’ il petto.
Presero a ballare con l’inizio della musica. Ballavano tutti. Ballavano e ridevano, saltavano, battevano le mani. E io, nello stare fermo mi sentivo così a disagio. E allora lo feci anche io. Cominciai a ballare. Cominciai a far slittare i piedi a destra e sinistra, a muovere le spalle da una parte e l’altra e a canticchiare quello che G. e i suoi amici stavano cantando. Anche se la canzone faceva schifo, anche se Riccione era una canzone che meritava di esser bandita, gli autori incarcerati e i master bruciati facendogli fare la stessa sorte che è capitata a “Ultimo Tango a Parigi”. E vedete, non avevo capito esattamente come funzionasse. Perché non mi ero accorto che tra una canzone e l’altra le persone lasciavano il centro della pista. E ne bastarono quattro-cinque perché fui davanti, in prima fila. G. mi aveva visto, mi aveva sorriso e mi aveva fatto l’occhiolino.
«Ora è il momento di riportare in auge gli anni ’60… sentite Woodstock nell’aria? Dallas novembre ’63, l’odore del napalm con il caffè» disse muovendosi e schioccando le dita. «E le collane dei fiori attorno al collo, la canapa e la maria nell’aria». Riconobbi la melodia in sottofondo. Non era una canzone qualsiasi.
«All the leaves are brown» e il cuore parve scoppiarmi. Attorno a me si muovevano, ma io non riuscivo. Le gambe, le ginocchia si erano pietrificate.
«And the sky is gray» cantò, facendomi l’occhiolino con l’angolo della bocca all’insù. E sentii la mia faccia bruciare.
«I’d be safe and warm if I was in L.A.» e alzò il dito, indicandomi.
«California Dreamin’ on a such winter day» seppi che qualcuno mi stava ora osservando. Mimetizzarmi. L’imperativo fu di mimetizzarmi. Cominciai a ballare e chiusi gli occhi, non volevo incrociare il suo sguardo né di qualcun altro curioso di scoprire chi fosse la persona che stava ricevendo tutte quelle attenzioni.
Ascoltai quella canzone la prima volta che venne a casa mia, un mese e mezzo prima.
«Vuoi sentire una canzone che penso di suonare al concerto?» mi aveva chiesto alzandosi dal letto su cui eravamo sdraiati. L’aroma dell’incenso indiano era amplificato dall’assunzione di una pasticca di ecstasy che aveva portato. Gli osservai i polpacci e alzai lo sguardo cercando di memorizzare la posizione di ogni singolo pelo. Le mutande aderivano perfettamente al sedere, tanto da metter in evidenza il solco intergluteo che pareva esser stato scolpito nel marmo di quei boxer grigio chiari. Lo ricordo piegarsi in avanti per far riprodurre la canzone sul computer e sentii le viscere prendere il controllo di me. Ebbi l’istinto di allungare il braccio per tastare e toccare quel sedere come se con il mio solo arto potessi superare lo spazio di circa un metro che separava il letto e la scrivania.
«California Dreamin’» sbiascicai.
«La conosci?» disse poco dopo l’inizio della canzone.
«Sì», dissi sorridendogli. «Ci sei mai andato in California?»
«Ma la California non esiste. È uno stato mentale». Le foglie sono tutte marroni e il cielo è grigio, cantavano le voci che fuoriuscivano dal computer e non so cosa successe perché proprio come G. stava cantando nel mezzo del concerto, anche io, come il protagonista della canzone, mi ero messo in ginocchio e nessuno dei due lo stava facendo per pregare. Ricordo di aver alzato lo sguardo per vederlo in faccia, ma la luce al neon sopra il suo capo pulsava e ne copriva i lineamenti, permettendomi di intravedere solo il profilo della bocca dischiusa e i riccioli dei capelli che superavano le orecchie.
Credo che fossero da poco passate le ventitré quando la musica si interruppe e le luci si riaccesero. G. e i ragazzi si avvicinarono al bordo del palco, fecero l’inchino e poi scesero nel pubblico venendosi a prendere i complimenti, le pacche sulle spalle e gli abbracci. Davanti a quel bagno di folla mi misi sul lato con la schiena che sfiorava il lato destro del tendone. Lo guardavo venir circondato da ragazze, persone che non avevo mai visto prima d’ora, persone che non ero nemmeno sicuro venissero dalla nostra città. Sentii una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se si fosse chiusa all’improvviso. Sentivo freddo. Freddo al centro del petto. E mi dava fastidio. Sentivo una sensazione di inquietudine, come se stessi aspettando qualcosa che non arrivava. E mi venne voglia di andarmene. Decisi di prendermi una Coca-Cola al bar. Andai al bancone e non appena appoggiai le labbra alla cannuccia, sentii un dito pungolarmi la spalla.
«Sei Marco, giusto?». Quando mi voltai vidi una di quelle ragazze che non avevo mai visto prima e che però mi era sembrato di scorgere nel gruppetto di groupie che si era complimentato con lui.
«Sì» le dissi, accigliando la fronte.
«Ha chiesto G. se puoi andare là» alzai lo sguardo sopra la sua spalla. I ragazzi si erano seduti in cerchio. La maggior parte di loro avevano qualcosa da bere, bicchieri di birra fondamentalmente. Non appena cominciai ad incamminarmi, G. posò lo sguardo su di me. Fece un gesto, un gesto che mi tolse il respiro: picchiettò con la mano il proprio ginocchio. Rimasi fermo, paralizzato. Scossi con un gesto rapido la testa. Pensavo fosse impercettibile ma lui, di risposta, annuì e batté la mano ancora sulla gamba. Sgranai gli occhi e con la mano libera afferrai lo schienale di una delle sedie di plastica trascinandola verso di loro. Lo vidi scuotere la testa sorridendo, con i riccioli sudati coprirgli il naso. Si alzò e corse verso di me, mi venne alle spalle e mi abbracciò stringendomi.
«Ti avevo detto» e scoppiò a ridere mentre mi spingeva verso la sedia che aveva lasciato. Mi lasciò per un istante, il tempo di sedersi e poi con le braccia mi avvinghiò e mi fece sedere sulle gambe.
Sentivo il volto cuocere, sentivo il suo respiro accarezzarmi il collo, sentivo il calore del suo petto su tutta la schiena. Gli altri ci ignoravano, come se avere una coppia omosessuale davanti a loro fosse la cosa più normale del mondo. Ma soprattutto, non erano neanche sorpresi dal fatto che mi stesse abbracciando come io avessi sempre fatto parte del loro mondo, come se mi conoscessero. Come se mi avesse bramato per tutta la sera. Ridevano e scherzavano e in tutto quel trambusto lo sentii chiaramente.
«Grazie» e le mani mi strinsero ancora di più il ventre. Mi rilassai e andai indietro e lui dovette seguire il movimento.

***​
Andammo a farci un giro dopo il concerto. O meglio, dopo che con i suoi amici aveva smontato tutta la strumentazione utilizzata. Me ne stavo andando quando venne a fermarmi, chiedendomi di aspettarlo. Avevamo camminato senza meta per tutta sera che divenne notte. Non sapevo che ore erano, non avevamo mai guardato il telefono per controllare i messaggi, tanto meno l’orario.
Finimmo seduti sul marciapiede nel piazzale della stazione, la mattina sempre gremito di automobili dei pendolari e a quell’ora invece assolutamente deserto. Anche i tossici e gli alcolizzati che ronzano là intorno la in tarda serata non si facevano vedere a quell’ora.
«A cosa pensi?» mi chiese guardandomi, notando quello che era il mio sguardo fisso sul marciapiede dall’altra parte della piazza.
«A niente» risposi. Ed era vero. Non pensavo a niente, non riuscivo a pensare a niente se non a godermi ogni secondo di quella compagnia. Allargò le gambe e il suo ginocchio destro toccò il mio sinistro. Tanto bastò per farmi scattare la più rapida erezione della mia vita.
«Che bellezza» disse sdraiandosi.
«Non hai paura che sia sporco?» feci. Allungò la mano sulla mia spalla e sgranai gli occhi, perché cominciò a tirarmi verso il basso. Eravamo entrambi supini a guardare il cielo che ci deliziava con qualche stella ma soprattutto uno spicchio di luna.
«Ho sudato come un porco questa sera, sarà più pulita la strada di quanto possa esserlo io prima di una doccia», sorrisi. Si mise sdraiato di lato, sentivo i suoi occhi scivolarmi addosso, passare in rassegna i miei lineamenti.
Lo vidi a rallentatore. Vidi a rallentatore il braccio allungarsi. Vidi a rallentatore la mano aprirsi ad uncino, vidi a rallentatore il braccio passarmi da spalla a spalla. Sentii le dita chiudersi sulla manica e lo sentii tirarmi verso di lui. Ebbi tutto il tempo per rilassarmi, per far sì che il mio peso non fosse un problema per qualsiasi cosa avesse intenzione di fare. E collaborai facendomi mettere di lato e in una frazione di secondo avevo l’incontro delle nostre lingue in bocca. Sentivo il respiro su di me. Gli afferrai la camicia, gliela stropicciai, gliela sporcai con la poltiglia che ormai mi trovavo sulla mano mista di polvere del marciapiede, terra e sudore. Lo spinsi a terra e mentre mi divincolavo dalla sua presa al contempo la mia gamba destra gli passò sopra, permettendomi di sedermi su di lui. Ero proprio seduto sopra il suo sesso. Lo provocavo e mi stuzzicavo muovendo il bacino a cerchio. Mi sorrideva in quel misto di eccitazione e sorpresa.
«Ti voglio» gli dissi prima di tornare a baciarlo mentre la mano scendeva sul cannoncino della camicia, cercando di sbottonarglielo.
Quando tornai a casa e guardai il telefono scoprii che mancavano pochi minuti alle cinque. Mi sdraiai e fissai il soffitto. Una leggera brezza mi accarezzava. E così coccolato mi addormentai.
***​
«Cosa stai leggendo in questi giorni?» mi chiese dopo che aveva soffiato fuori il fumo della sigaretta dalla bocca. Avevamo scoperto che entrambi eravamo lettori. Lui però consumava più libri di me.
«It»
«Lo vuoi un palloncino, Marco?» fece con voce bassa e strozzata, «Vieni a vivere col Clown!»
«Piace anche a te?»
«Adoro King» e allungò le gambe verso la strada.
«Davvero?»
«Certo, ho letto It quando è uscito il primo film» e la camicia, aperta, cominciò a sventolare in balìa del vento.
Ci eravamo visti la sera dopo. Me lo aveva chiesto lui quando mi aveva riaccompagnato a casa.
«E ti è piaciuto?»
Aveva avuto un’espressione felice quando mi aveva fatto la proposta.
«Il film o il libro?»
Non avevo neanche finto di guardare i miei impegni sul telefono.
«Entrambi»
Ormai non avevo più amici in città, erano andati via tutti.
«Hanno entrambi pro e contro. Però, sì, mi sono entrambi piaciuti. A te? Sta piacendo?»
C’era solo la mia famiglia.
«Decisamente. Sta forse cambiando il mio approccio alla scrittura»
E lui.
«Scrivi?» mi domandò con una sorta di eccitazione nella voce. Mi fissava con gli occhi sgranati. Si era seduto sul sedile del passeggero anteriore della sua auto. Io ero invece nella zona posteriore. Una pallina di fazzoletti bagnati giaceva a terra tra noi.
«Sì, ogni tanto mi diletto nella scrittura» dissi abbassando lo sguardo sulle mani.
«Non me lo hai mai detto prima. Perché? Cosa scrivi?»
«Non lo so… un po’ di tutto. Al momento sto provando a scrivere un fantasy, qualcosa che potrebbe essere ispirato a Final Fantasy»
«Non sono un fan del genere… altre cose? Horror?» mi misi a riflettere. Effettivamente una volta avevo provato a scrivere una storia horror, ma altri non era che un plagio di “Rec” e “Resident Evil”.
«No, horror mai»
«Mi leggi qualcosa?»
Alzai le spalle, «Nah, non mi va»
«Dai, ti prego» e allungò la mano, posandomela sul ginocchio. Inutile dire che reazione fisica mi avesse causato.
Alzai la testa per guardarlo.
Sapete, ci sono due motivi per cui questa domanda viene fatta. C’è il primo motivo, che riguarda il 99,99% dei casi e che rappresenta fino a quel momento l’unico che conoscevo. È il motivo per cui le persone sono curiose di sapere quanto tu sia capace di scrivere qualcosa e capire quanto tempo perdi nel fare qualcosa dai più ritenuto inutile. E poi c’è un secondo motivo che mi si rivelò solo in quel momento e la scoperta mi investì, mi colpì in pieno, fu un pugno alla bocca dello stomaco. Rappresenta l’interesse di qualcuno di volerti conoscere utilizzando come porta di ingresso al tuo mondo quello della scrittura. Riesce sempre. Chiunque scrive lascia sempre brandelli di sé nel proprio racconto.
Presi il telefono per la prima volta quella sera e gli lessi le bozze di un racconto che mi ero salvato una notte di qualche settimana prima. Rimase in silenzio tutto il tempo, ascoltando con la testa abbassata e gli occhi chiusi. Immobile. Inerme. Il fumo della sigaretta continuava a salire verso l’alto, diventando sempre meno visibile, scomparendo nell’aria.
«Caspita» mi disse dopo qualche secondo di silenzio. «Non so se mi piace il tuo stile, ma caspita».
«Non è nulla di che, anzi… rileggendolo mi accorgo che potrei scriverlo diversamente e in modo migliore». Buttò la sigaretta in avanti, facendole perdere cenere lungo la traiettoria. Poi si alzò e chiuse la portiera, per venire a sedersi vicino a me. Mi chiese se mi desse fastidio l’odore del fumo. Gli dissi di sì.
Mi rispose che dovevo abituarmi.
Ma lo avevo già fatto.

***​
I primi giorni di agosto i miei sarebbero partiti per le vacanze, lasciandomi casa libera. Quando realizzai l’opportunità di passare del tempo con G. al chiuso piuttosto che per strada, avevo cominciato a fare il conto alla rovescia dei giorni che sarebbero mancati. Ma accadde qualcosa. Accadde l’imprevisto. Nella traiettoria di due magneti si era inserita una terza forza che ne modificava inevitabilmente il percorso.
Erano i primi giorni di agosto, ero sdraiato a letto. Stavo perdendo del tempo al telefono quando mi arrivò una notifica di un messaggio che mi raggelò il sangue.
“Stasera mi vedo con un ragazzo”, proveniente da G.
Le mani che sentivo essere calde e madide di sudore da quel momento le percepii fredde. Aprii WhatsApp per assicurarmi che quanto avessi letto fosse semplicemente una finzione.
“Stasera mi vedo con un ragazzo” sostava sotto la scritta “Oggi”. E sopra una serie di “notte” da parte mia e da parte sua con una serie di emoji che si scambiavano bacini col cuore. E percepii che non stava scherzando. Non era il genere di scherzi che faceva. Scherzava sulla politica, sulla pandemia ma non mi scriveva mai nulla di serio che potesse rivelarsi poi una palla. Quelle sei parole costituivano un messaggio chiaro che non lasciava spazio ad alcun dubbio. Quelle sei parole implicavano che lui, G., si sarebbe visto con un ragazzo che non si chiamava Marco, che non aveva visto nel precedente mese e con cui non aveva cominciato a parlare nel mese di maggio.
Poteva però essere un’eccezione. Poteva però trattarsi di uno scherzo. Poteva trattarsi di un cambiamento della sua personalità dopo settimane di rapporto.
“In che senso?” è mai esistita una frase più finta-tonta? Quando una persona chiede in-che-senso, il senso lo sa sempre. Cominciò a scrivere. E fu l’attesa più straziante della mia esistenza. L’attesa per aspettare che mi dicesse “Con te, pirla. Già lento di prima mattina?”.
E scriveva. Scriveva. Scriveva. Scriveva.
“C’era ‘sto tizio che frequentava ‘Diritto Internazionale dell’Ambiente’ lo scorso semestre. Oggi ho acceso Grindr e l’ho visto. Gli ho scritto. Non abbiamo nulla da fare questa sera e quindi usciamo”.
Mi è difficile descrivere quello che accadde in quel momento. Mi è difficile perché ho solo ricordi vaghi in proposito. Ricordo di aver sentito una morsa al petto. Ricordo che il polmone destro ricominciò a farmi male.
“Ah” risposi e ricordo che sentii un’aria fredda, pungente proveniente dalla finestra. Alzai il lenzuolo e mi coprii.
“Ci sei rimasto male?”. «Ma vaffanculo» gridai, «ma vaffanculo, Dio santo» spensi lo schermo del telefono e lo misi sotto il cuscino. Rimasi a fissare il soffitto e sentii la gola chiudersi. Mi misi prono con il viso verso la parete. Mi si inumidirono gli occhi e allora li chiusi. Feci colazione e quando tornai in camera vidi una sfilza di messaggi:
“Eddai, Marco, non ti prendere male.
Alla fine non siamo una coppia.
Non c’è nulla di male nell’uscire con qualcun altro.
Anche tu puoi farlo.”
Con la differenza che a me non andava di farlo. Provai a non agire in maniera gelosa e continuai a scrivergli per tutto il giorno facendo finta di niente, con la mente che però continuava a ricordarmi che presto la sera sarebbe arrivata e i nostri contatti si sarebbero persi inevitabilmente. Infatti, dopo le nove, smise di rispondermi. E non mi rispose neanche alle dieci. Neanche alle undici. Neanche a mezzanotte. Fu solo alle due di notte, quando ormai il mio corpo aveva cominciato ad esser scosso da sussulti del pianto, che mi arrivò il messaggio dove mi augurava una buona notte. Avrei giocato d’anticipo. Gli augurai la buonanotte e gli dissi che per la sera successiva si sarebbe dovuto considerare mio ospite. Nessun compagno di corso appena conosciuto su Grindr poteva competere con una conoscenza relativamente più lunga.
“Okay :)” e bastò quella faccina stilizzata a rasserenarmi il cuore e darmi una parvenza di sonno tranquillo.
La sera si presentò sull’uscio di casa poco dopo le nove. Ci sedemmo sul divano del salotto e cominciammo a vedere un film su Netflix che mi aveva detto che voleva vedere. Ogni tanto guardava il telefono, mandava un messaggio, ma dalla posizione in cui ero io non vedevo il destinatario. Ogni volta era un piccolo dramma per me. Arrivò a posare la mano sul divano così ne approfittai per cambiare posizione e afferrargliela. E mentre mi avvicinavo gli guardai il viso per scorgere qualsiasi segno di apprezzamento. Anche minimo. Ma rimase impassibile e non mi guardò. Il telefono vibrò un’altra volta, tolse la mano e rispose al messaggio. Si mise piegato sul lato sinistro, così che io non potessi vedere a chi stesse scrivendo. Quando smise di scrivere tenne entrambe le mani sul bracciolo.
Aspettai che il film finì prima di mettermi in ginocchio affianco a lui, avvicinarmi al lobo dell’orecchio, prendendoglielo tra i denti. Vidi i muscoli del viso stendersi e sorridere.
«Indovina di cosa ho voglia» sussurrai.
«Oggi non mi va» mi disse facendo dei grattini sotto il collo.
«Sicuro-sicuro?»
«Mi leggi qualcosa?» lo accontentai. Fu l’ultima richiesta della notte. Poi si fece accompagnare alla porta. Gli chiesi se ci saremmo visti anche il giorno dopo, mi disse di no, che si sarebbe visto con il tizio della sua università. Ci lasciammo con un cenno della mano.

***​
È corretto immaginare che io e G. cominciammo a vederci con minore frequenza. Si continuava ad uscire, certo, però non ci si vedeva più tutti i giorni come prima che tale Francesco entrasse nella nostra vita.
Le cose erano cambiate.
Le carezze erano scomparse.
Gli sguardi languidi erano scomparsi.
Non c’era più traccia dei nostri baci, non c’era più traccia del sesso.
Mi chiedeva sempre di leggere qualcosa di mio.
Le sere in cui usciva con tale Francesco le ore non passavano mai. Vedevo il divano, vedevo il letto di camera mia e lo immaginavo, lo vedevo seduto e sdraiato là. Bramavo la sua fisicità in quei luoghi, nei miei luoghi, nei miei spazi. Ero arrivato a desiderare il tocco delle sue mani non solo su di me, ma su i miei oggetti. E il reiterare di quella mancata presenza perché si trovava con quell’altro, il non sapere ma solo poter immaginare cosa stessero combinando mi mandava a pezzi. Mi domandavo perché. Perché non volesse passare il suo tempo con me. Perché non aveva scelto di passare quella sera con me. Cosa avessi di sbagliato. Se fosse il mio comportamento ad avergli fatto perdere interesse o se magari non fossi troppo bravo nel sesso. Ed era sicuramente una di tutte queste cose, o forse erano tutte assieme. Mi ero trovato più di una volta ad affondare la testa nel cuscino e a soffocare le grida. O a piangere ancora sporco di sperma dopo essermi masturbato pensando alle nostre scopate. Avevo iniziato a saltare i pasti e passavo gran parte delle mie giornate sdraiato sul letto, in mutande, lasciando che il sudore impregnasse slip e lenzuola.
Ricordo molto bene la sera del 16 agosto. La ricordo come se la stessi vivendo in questo preciso istante. Fu lui a chiedermi di uscire e ormai avevo chiara la situazione. Non mi aspettavo nulla di positivo. Si trattava semplicemente del funerale di questa frequentazione. Dovevo riconoscergli il coraggio di volermi affrontare faccia a faccia e non tramite messaggio o smettendo di rispondermi direttamente.
La sera del 16 agosto faceva caldo. Andammo direttamente al piazzale della stazione a bordo della sua auto. Lui parlava, io non ne avevo voglia e mi ero accorto che ogni volta che provavo a rispondergli le mie parole avevano tutte una punta di ostilità. Non riuscivo a dissimulare. Era più forte di me.
«Senti, volevo parlarti di una cosa», appena parcheggiato ci eravamo messi nei sedili posteriori per stare più larghi. Mi ero messo con le ginocchia appoggiate al sedile del passeggero anteriore. Dal parabrezza si poteva vedere il marciapiede dove, settimane prima, avevamo pomiciato.
«Ok», dissi guardando fuori dal finestrino alla mia destra.
«Penso di essermi innamorato», chiusi gli occhi forte e trattenni il respiro.
«Beh, bello».
«Il problema… il problema è che non c’è futuro»
«Perché?»
«Francesco non vuole alcuna relazione, è appena uscito da una storia di diversi anni e non vuole assolutamente fidanzarsi in questo momento. Ma a me piace così tanto. Mi piace.»
«Ah…» risposi. Sempre con la testa verso il finestrino, così che non potesse vedermi, mi misi la mano sugli occhi. E pregai. Pregai qualunque forza ultraterrena di non farmi piangere in quel momento. Di lasciarmi apparire forte davanti lui. Avrei pagato le conseguenze dopo. Mi sarei messo a piangere per tutta la notte se fosse stato necessario, ma non in quel momento. «Se ti piace davvero, allora, combat-» e mi fermai. La gola mi si era chiusa. Il respiro aveva cominciato a farsi corto. Stavo per cedere. Ma non si rese conto di nulla, perché continuò.
«E c’è un’altra cosa che vorrei dirti, Marco» e rimase in silenzio.
«Ti sto ascoltando»
«Ho ricevuto una proposta di lavoro negli scorsi giorni»
«Grandioso, di cosa si tratta?» continuai con la mia voce monotòna.
«Uno studio di avvocati», la sua voce aveva cominciato a tremare.
«Beh, presumo che paghino bene.»
«Si trova in California.» Le gambe mi si distesero in avanti, avevo perso tutta la forza.
«Non so se accettare, cosa mi consigli?». Sorrisi. Alzai lo sguardo al cielo. La luna era fottutamente grande quella sera. Ed era gialla. Si potevano vedere i crateri ad occhio nudo. E mi ci specchiavo dentro. Un aereo le passò sopra e il rumore dei suoi motori rimbombò in tutta la città. Era lento. Abbassai lo sguardo quando la mia attenzione fu attirata dal passaggio di una macchina. Anche lei era lenta. Il conducente ci fissò per qualche istante prima di tornare a fissare la strada davanti a lui. Non ebbe nessuna reazione.
«La California che è solo uno stato mentale?»
«Forse è qualcosa di più.»
«Accetta». Sarebbe stata solamente l’ennesima persona a fuggire dalla città da quando il Corona aveva colpito. Ne eravamo usciti da diversi mesi, ma le persone continuavano a sentirne la presenza. Chi prima della primavera del ’20 non avrebbe mai lasciato la propria famiglia, ora aveva capito che in fin dei conti era qualcosa che si poteva fare, le nostre vite si erano dimostrate brevi e fragili per non essere vissute a pieno.
«Dici?»
«Assolutamente», chiusi le mani a pugno in grembo. «Non ti ricapita più un’occasione di questo tipo. Non ti risuccede più di avere una proposta per andare negli Stati Uniti. C’è gente che ucciderebbe per andare in America», mandai in dietro la testa e feci un respiro profondo, «Io ucciderei per andarmene negli Stati Uniti. Prendi la palla al balzo e vattene» e mi resi conto solo quando era troppo tardi di quel vattene.
Lo sentii muoversi e sentii la sua mano sulla spalla. Mi diede un brivido tanto che scossi la schiena, facendogliela rimuovere.
«Tutto bene?»
«Assolutamente, sì»
«Mi sembri nervoso. C’è qualcosa che non va?»
«È solo che non me l’aspettavo, tutto qua», dissi aprendo la portiera. Stavo per uscire dall’abitacolo quando la sua mano mi trattenne. E vidi la sua testa finirmi sulle gambe. Cominciò a singhiozzare.
«Che ti prende?» feci guardandolo, avevo le braccia sollevate per aria.
«È che volevo solamente essere… felice.»
Sollevai lo sguardo verso il tettuccio. Gli occhi mi si erano fatti lucidi. Mi passai la mano con un gesto rapido, cercando di non farglielo scorgere.
«Andrai in California. Lì hanno un’altra mentalità rispetto a qua. Ti dimenticherai di tutte queste lacrime e conoscerai nuove persone che ti faranno stare bene» dissi accennando un sorriso. La mia voce era ormai rotta. «Ciò che oggi ti sembra impossibile, difficile da dimenticare, un domani ti sembrerà invece solamente un modesto incidente di percorso. Nulla di insuperabile. Anzi, ti domanderai perché lo hai ritenuto così… così…» tirai su col naso, «perché tu lo abbia ritenuto un blocco quando non lo era». Ripensandoci mi sono domandato a chi stessi parlando.
Si girò rivolgendomi il viso. Ci stavamo guardando negli occhi. «Stai piangendo?»
«Già» dissi, togliendomi una lacrima dall’occhio destro, «Piango sempre nel vedere gli altri farlo».
«Mi dispiace, ti ho sporcato tutti i pantaloni» disse una volta risedutosi.
«Non fa niente», feci alzando le spalle mentre con le mani spiegazzavo i pantaloni dove aveva versato le lacrime, «Non è la prima volta che mi sporchi» dissi mettendomi a ridere. Lo osservai con la coda dell’occhio. Non aveva apprezzato la battuta.
«Forse hai ragione, è solo che adesso io…» lo vidi chiudere gli occhi, il viso deformarsi in una smorfia, «Non ci riesco» e ricominciò a piangere, cadendo con la fronte sulla mia spalla sinistra.
«Dai, quando verrò in America passo a trovarti» gli dissi una volta che si fu ricomposto.
«Assolutamente. Devi. E io» la voce venne percorsa da un brivido, «e io ti faccio sapere quando torno a casa»
«E staremo in giro tutta notte…»
«Come i vecchi tempi», sorrise, «ci sta». Annuì, chiuse gli occhi, «Ci sta».
Tornai a casa e mi sdraiai sul letto, fissando il neon. Potei fare quello che, fino a quel momento, avevo represso a fatica. Non ricordo di aver mai pianto così tanto per una persona in una sola volta. Sentivo di aver finito anche le lacrime. Non mi facevo neanche delle domande a cui non avrei mai avuto risposta. Mi limitavo a singhiozzare e a rigirarmi nel letto. Quando riuscii ad addormentarmi era ormai l’alba. L’alba che segnava un nuovo modo di vedere i giorni che passavano. Non si trattava più di contare le ore che separavano me e G. da un altro incontro. Si trattava di contare i giorni che separavano G. dalla fottuta California.
***​
Inevitabilmente, con una distanza oceanica e continentale a separarci, i contatti si erano fatti meno frequenti. Non è vero che i social, le applicazioni, i telefoni moderni riducono le distanze. Certo, ti permettono di sentire con più facilità le persone ma per farlo c’è bisogno della volontà di entrambe le parti. Basta far venire meno una delle due che il tutto diventa impossibile.
Il nostro rapporto continuò come quello di due buoni amici. G. mi parlava della vita in America, mi parlava delle difficoltà che ebbe nello stringere rapporti. Mi chiedeva sempre di passargli qualcosa di mio da leggere ma ormai avevo intrapreso la via di Stephen King: nessuna lettura, nessun parere su alcun testo fino a quando la prima bozza non fosse terminata. Avevo così sempre meno cose da dargli.
Mi chiedeva consigli. In particolare sui ragazzi. Nonostante fosse più grande di me avevo assunto il ruolo di consigliere. Ma questo non mi faceva sentire maggiormente parte della sua vita. La sensazione è che le coste dell’Atlantico stessero semplicemente accelerando quel processo che si era avviato con la conoscenza di Francesco. In quelle conversazioni sentivo tutto il suo potere di cancellarmi, di chiudermi fuori dalla sua vita con la semplicità di un battito di ciglia. Mi sentivo come un elefante in una cristalleria. Un elefante cosciente, un elefante che sa qual è il valore di ogni singolo cristallo e che proprio per questo ha paura a fare qualsiasi cosa, persino respirare. Ero guidato dalla paura di perderlo, dalla paura che potessi farlo arrabbiare, che potessi deluderlo.
Capitava che dopo che ci sentissimo un lenzuolo di malinconia si posasse su di me, tanto invisibile all’occhio altrui quanto soffocante. In quei momenti non riuscivo a riconoscere neanche camera mia. Diveniva uno spazio asettico, buio, freddo. Doveva essere il luogo in cui mi sarei dovuto rifugiare e invece era il posto in cui ogni volta avveniva il massacro. Se ci parlavo il giorno dopo, non gli dicevo che ero triste, non gli dicevo che avevo avuto giornate migliori. Gli dicevo che stavo bene. Perché magari avrebbe potuto interessarsi, magari avrebbe potuto chiedermi cosa fosse successo di così terribile e la mia risposta sarebbe stata inevitabilmente una bugia. Non volevo dire al mio carnefice che mi stava lentamente uccidendo. Non era quel tipo di carnefice che si meritava verità di questo tipo. Semplicemente non lo sapeva. E dall’altra parte, un mio allontanamento volontario avrebbe potuto potenzialmente farlo soffrire. E non volevo neanche questo. E quindi stavo in silenzio. Alla domanda come andasse, alla domanda come mi sentissi, alla domanda come fosse andata la giornata, la risposta era sempre quella: tutto bene.
Quando si diventa amici, si firma un patto non scritto. Una persona può criticare l’altra per delle scelte che si confidano, ma non può decidere di cosa l’altro possa parlare e cosa no. Se lo si facesse il rapporto non sarebbe un rapporto puro d’amicizia, sarebbe un rapporto che ha delle connotazioni diverse. Se non ti senti di poter parlare con qualcuno di un tema è perché forse non hai sufficiente confidenza con quella persona. Oppure è la situazione opposta, hai troppa confidenza con quella persona e dunque è molto più che un amico, è qualcuno nei cui confronti provi dei sentimenti che vadano oltre il semplice “ti voglio bene” e quindi ne temi il giudizio. Non potevo scegliere di quali argomenti G. dovesse parlarmi e quindi lo facevo andare a ruota libera. Ruota che riguardava anche il lato sessuale. Scopava in California come non aveva mai fatto in Italia. Ogni due giorni una scopata con un ragazzo diverso. E sapevo tutto, ne sapevo i dettagli, sapevo quanto era soddisfatto o quanto lo incuriosiva voler continuare a farlo con un certo tizio. Mi raggelava. Ogni volta mi lasciava inerme sul letto, paralizzato dal dolore. Talvolta capitava che piangessi. Un amico non dovrebbe esser dispiaciuto delle cose positive che capitano all’altra persona, eppure io non riuscivo a non desiderare che il ragazzo-del-giorno fosse l’ultimo e che sarebbe arrivato il momento in cui mi venisse a dire che in fin dei conti mi desiderava ancora. Ma questo non accadde. Non accadde mai.
Su Facebook mi era apparso un post della pagina della band in cui cercavano un nuovo front man. Non leggevo mai quello che scrivevano, né ascoltavo mai le canzoni che condividevano da YouTube. Ma lasciavo sempre il like, come per segnalare loro che anche io avevo subito una perdita. Quando mi incrociavano per strada mi fermavano. Le nostre effusioni avevano lasciato il segno. E qualcuno di loro, una volta, mi raccontò anche che proprio il giorno prima si era sentito con lui. Ero geloso.
Nell’autunno del ’22 si prese un periodo di ferie che decise di passare in Italia, con i suoi. Fu lui a dirmelo, aggiungendo “voglio assolutamente vederti, ti devo parlare”. Bastò quella frase per far riportare le lancette all’estate dell’anno prima, quando contavo le settimane, i giorni, le ore e i minuti prima di vederlo. Quando la mia agenda giornaliera era impostata sul minuto in cui lo avrei incontrato. E così tornai a contare il tempo che ci separava, emozionato come la prima volta per sentire quello che doveva dirmi.
Scesi per strada non appena mi aveva detto che era partito da casa. Lo vidi a bordo della macchina alzare la mano per salutarmi. Quando il mio piede si mosse verso la strada mi domandai se volessi farlo davvero. Mi domandai se volessi davvero che quella persona tornasse a far parte della mia vita in quel modo così totalizzante nonostante i tentativi di controllarlo. Avevo cominciato a fingere impegni quando mi scriveva, “Ti scrivo dopo, appena ho finito” era diventato il leitmotiv. Altre volte, quando si trattava di argomenti sessuali, preferivo non rispondere, per interrompere il prima possibile l’agonia che inevitabilmente vivevo.
È evidente che la domanda non me l’ero posta davvero considerando come il mio corpo si stava muovendo senza alcuna capacità di freno verso l’automobile. E ora ero vicino alla portiera del conducente. Ora stavo camminando a fianco al cofano, ora ero davanti la portiera del passeggero. Allungai la mano sulla maniglia, le dita toccarono la plastica nera e per un secondo, per un secondo tutto fu illuminato dalla luce dell’estate del 2021. Aprii la portiera, mi abbassai, entrai nell’abitacolo. Il sole di luglio apparve ancora. Giusto in tempo per vedere il suo volto sudato, i capelli ricci lunghi. Per poi lasciare spazio all’immagine di quella sera. Era cambiato. I capelli ricci se n’erano andati, li aveva tagliati corti. Il volto non era più liscio ma si era fatto il pizzetto. E mi domandai quante altre cose erano cambiate dall’ultima volta che lo avevo visto negli ultimi giorni di agosto. Ecco, la risposta alla domanda che non mi ero posto. Era tutto un fottutissimo errore, non sarei mai dovuto scendere da casa quella sera, non avrei mai dovuto accettare l’invito ad uscire. Perché quei dettagli di cui non sapevo niente, quei cambiamenti di cui non mi aveva dato notizia, tutte queste cose, piccole e insignificanti come un taglio di capelli mi portarono a capire come io non ero più parte della sua vita, la vita quotidiana, quella fatta di gioie e incazzature momentanee, quelle che racconti solo a chi ti sta vicino, quelle che ti scordi quando parli con qualcuno che non senti e non vedi per settimane, perché le cose quotidiane non sono eccezionali. Mi mancava tutta quella banalità. Mi mancava far parte della sua vita banale.
Ci scambiammo i baci sulle guance. E prese a guidare.
«Nel sacchetto», disse indicandomene uno di carta ai miei piedi, «c’è un pensierino per te.»
Lo afferrai e tirai fuori un cappello da baseball con l’orso raffigurato nella bandiera della Repubblica di California. Lo girai tra le mani, facendolo illuminare dalla luce dei lampioni. Lo considerai stupendo, lo ringraziai.
«Tutto bene?» mi chiese.
«Assolutamente, sì» dissi, non riuscendo a cancellare il sorriso dalla mia faccia, «Te?»
«Sono stravolto per il viaggio» fece passandosi una mano sugli occhi, «Però non c’è male, grazie».
«Quante ore sono da qui a là?»
«Troppe» e scoppiammo a ridere.
Lo stavo guardando. Con quel sorriso ebete che non riuscivo a togliermi. Forse se accorse. Forse no. Ma accadde in quel momento. «Devo dirti una cosa.»
«Non dirmi che sei incinta», mi resi conto solo dopo aver parlato che quelle sue parole pesavano come macigni.
«Effettivamente è da un po’ che non ho il ciclo…» le labbra si allargarono nel sorriso più ampio che io abbia mai visto. Tutto sorrideva in quella faccia, persino i pori. «Vado a convivere.»
Mi mancò l’aria. Davvero. Aprii la bocca per recuperarne un po’. Sentii la gola chiudersi.
«Accosta» dissi mentre mi mettevo rigido sul sedile, con gli occhi sgranati. Era come se la saliva non scendesse più.
«Cosa?»
«ACCOSTA, SUBITO» e con una manovra accelerò e si avvicinò al marciapiede. Slacciai la cintura, aprii la portiera ed ero già piegato in avanti a salutare la cena.
«Cazzo, Marco, non stai bene?» e io continuavo ad esser scosso da sussulti interni, mentre ormai versavo per strada anche i succhi gastrici.
Bestemmiai riappoggiando il capo al poggiatesta, alla ricerca d’aria.
«Vuoi tornare a casa?»
«Nella mia tasca c’è il portafogli, prendilo. Vai a prendermi una bottiglia d’acqua al ristorante lì dietro, per favore.» Uscii senza darmi retta. Mentre mi sciacquavo la bocca continuava a chiedermi se volessi tornare a casa. Non so quante volte me l’abbia chiesto e non so quante volte abbia ricevuto il no di risposta.
Andammo al piazzale della stazione, ancora una volta.
«Chi è il fortunello?», eravamo seduti nello stesso spiazzo della serata del concerto.
«Si chiama Rick. Ci esco da sei mesi.»
«Allora la California è davvero qualcosa di più di uno stato mentale?»
«È la mia vita» disse e io dondolai la testa a destra e sinistra.
Ripensai a tutte le conversazioni degli ultimi mesi. Sentivo dentro di me montare la rabbia, l’invidia, la gelosia. Ripensai a tutte le fotografie dei ragazzi con quei fisici da attorni porno, di cui sapevo le prestazioni tra le lenzuola. E ogni singolo pensiero, ogni singolo ricordo veniva ora marchiato con la parola “convivere”. E la rabbia, l’invidia, la gelosia aumentavano. Strinsi le labbra tra loro, facendole diventare pallide. Non lo avrei detto. Non avrei colpito. Presi un altro sorso d’acqua. Non avrei colpito, vero? Lo feci passare da una parte all’altra della bocca, poi sputai.
«E lui è okay con il fatto che mentre vi frequentavate scopavi con altri?». Invece lo colpii.
«Sì, eravamo d’accordo», aggrottò la fronte.
«Moderni» dissi alzando le spalle. Presi ancora un po’ d’acqua. La mia espressione in volto non lasciava più alcun dubbio.
«Non credo di averti mai capito fino in fondo» sputai l’acqua colpito da quelle parole. Lo fissai.
«Perché?»
«Negli ultimi tempi ho cominciato ad adottare una strategia. Non so se mi pagherà nel futuro, però ci provo. Ed è quella di parlare chiaramente» ascoltavo ogni parola attendendo la successiva come si desidera l’acqua in un deserto. Cosa voleva sapere, dannazione? «Marco, credo che tu stia provando qualcosa per me». Le mie dita lasciarono la presa sulla bottiglia. Il rumore della plastica che toccò il suolo riempì il piazzale. Cominciò poi a rotolare allontanandosi da noi seguita dai nostri sguardi.
«Cosa te lo fa dire?»
«Non sei mai stato felice quando ho frequentato Francesco e non mi sembri felice ora, davanti alla notizia di Rick. Sembri quasi geloso»
Rimasi in silenzio. Non era quello che mi sarei spettato dalla serata. «Mi…» mi fermai. Mi guardai le mani. Non le riconoscevo. Non erano le mie mani. Mi sembrava di esser dentro ad un altro corpo. «Mi hai chiesto di uscire per parlarmi di Rick oppure per chiedere di me?»
«Di Rick»
«Oh, certo», scattai in piedi. «Non esiste, non è mai esistita una singola volta in cui tu non ti sia preoccupato per te stesso. Non esiste una singola volta in cui tu abbia mai pensato se quello che facevi poteva ferirmi»
«Perché non me lo hai mai detto?»
«Perché avresti fatto come tutti, te ne saresti andato. E sono fatti miei. Se mi piace qualcuno non sono affari di quel qualcuno, sono affaracci miei»
«Io non sono qualcuno»
«Ti sei comportato come se lo fossi, come se fossi qualcuno con cui non avessi mai condiviso niente di me. Ti ho dato ogni parte di me, ogni briciolo della mia anima, ogni centimetro del mio corpo. È quello che ho ricevuto indietro è vederti piangere per un tizio, vederti andare via senza voltarti indietro, i resoconti delle tue scopate e ora la notizia della convivenza. Quindi sì, scusami se non sono contento. Esser contento è l’ultima»
«Calmati» disse provando ad allungare la mano verso di me, ma gliela respinsi con un colpo ben centrato.
«delle cose che riesce ad essere», cominciai a piangere, «E non mi scuserò se non sono felice» il muco cominciò a scendere ed impiastricciarmi il viso, me lo levai con un gesto di mano, «ho tutto il diritto di piangere e disperarmi anche davanti a te». Ma mi stavo vergognando e abbassai il volto.
«Devi dirmi altro?»
«Perché?!» feci tornando a guardarlo. Non me l’hanno mai posta questa domanda. E non so neanche se lui l’ebbe mai ricevuta. «Perché non ti sono piaciuto? Perché è stato così semplice innamorarti di Francesco e non di me?» ma è una domanda stupida.
«Probabilmente perché…» alzò i palmi delle mani per poi abbassarli, «non lo so, perché non ti avrò mai visto in quella luce.»
«E in che luce mi hai visto?»
«Non lo so… un buon amico… qualcuno con cui era piacevole parlare e non è colpa di nessuno, né tua né mia se le cose non sono andate in un certo modo. Mi dispiace» si fermò un attimo, «se le cose non sono andate come ti aspettassi e non sono stato in grado di ricambiare i tuoi sentimenti.»
Si scusano sempre di non esser in grado di ricambiare i propri sentimenti. Se non lo fanno li consideriamo stronzi ma almeno dovremmo apprezzarne la sincerità. Ogni tanto penso che dovremmo metterci nei panni delle altre persone. Anche per una sola volta e provare ad immaginare quella situazione. Quella situazione in cui ti dispiace vedere una persona che quasi si contorce del dolore a causa tua ma non poter far niente per lenirglielo. Se non mentire, affermare di avere sentimenti che non si hanno mai avuto e che potenzialmente non ci saranno mai. Farsi e farle del male. Chi decide di esser sincero però ha scelto una strada: quella della sopravvivenza. E gli animali, in situazioni di pericolo, seguono l’istinto con l’obiettivo di sopravvivere.
Ogni giorno cerchiamo di sopravvivere. Alla morte. Ad un dispiacere. Alle malattie. Sopravviviamo. È il nostro primo istinto, ci nasciamo.
E sarei sopravvissuto. Sarei sopravvissuto al parassita che era entrato dentro di me quando lo avevo conosciuto e che aveva preso a mano a mano il controllo della mia vita, del mio corpo. Dovevo sopravvivere. Quella sera fu l’ultima sera, me lo promisi in quel momento. Ad alta voce. Con la vista offuscata dalle lacrime, con il suo viso disturbato e frammentato, ma sufficientemente chiaro per vedere la tristezza formarsi in lui. La tecnologia, così potente nell’unirci tramite le distanze sa esser davvero spregevole se utilizzata opportunamente. Dopo quella sera lo bloccai su tutte le piattaforme da cui potevo contattarlo. Avrei sopportato l’idea di farlo soffrire, avrei sopportato l’idea di vederlo aprire la nostra chat e far sì che non vedesse più la mia immagine profilo su WhatsApp o Telegram. Avrei sopportato l’idea che se mi avesse cercato su Instagram un messaggio gli comunicava che lo avevo bloccato.
Regalai il cappello della California a mio nipote. Vederlo correre in giro mentre lo indossava mi scaldava il cuore e al contempo mi ricordava che qualcuno, mesi e mesi prima, aveva scavato così tanto dentro la mia anima da conoscermi come nessun altro aveva provato a fare prima. L’estate successiva lo avrebbe perso al mare e di lui non mi rimase nulla, solo un nome – che pronunciavo a fatica – e ricordi sempre meno chiari e definiti.
Quanto al nostro ultimo scambio, avvenne in macchina, sotto casa mia.
«Finisce così, quindi? Non ci parliamo più?»
«Credo che sia la scelta migliore» dissi senza riuscire a guardarlo. Stavo ricominciando a piangere.
«Allora sei come tutti gli altri di cui parlavi male. Quelli che se ne vanno una volta che si diventa sinceri sui sentimenti», un ultimo tentativo di tenermi con sé, di farmi scontrare con la mia testardaggine.
Ma dovevo sopravvivere.
Gli sorrisi. Una lacrima mi attraversò lo zigomo sinistro. «Già, Giuseppe.»
   
 
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