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Autore: Lukman01    23/06/2020    0 recensioni
La battaglia continua. In un universo parallelo rispetto a quello degli eventi di Fate (zero e stay night), l'anno 2020 vedrà riunirsi sette maghi e sette servant per la fatidica guerra del Graal. Il campo di battaglia questa volta è la bella Italia, più precisamente la città di Firenze, patria di poeti, artisti e leggende che ancora oggi impregnano di cultura il nostro paese. Storie coinvolgenti, atmosfere mozzafiato, personaggi storici e mitici di prima categoria: una vera e propria "Sinfonia" di voci fuori dal coro, che combattono a suon di ideali, magie di comando e armi nobili.
Disclaimer: non ho giocato al gioco Fate/Grand Order, inoltre la mia conoscenza della lore dei servant si Fate si basa principalmente sulle serie che ho letto-visto, vale a dire stay Night, Zero e Apocrypha. Per cui, dato che le vere identità dei servant e le loro caratteristiche fisiche e caratteriali sono state create ex novo dal sottoscritto, può darsi che ci siano delle divergenze tra i servant della mia storia e la loro controparte nell'opera originale. Spero solo che non me ne vogliate per questo.
Genere: Fantasy, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Firenze, sabato 15 febbraio 2020, ore 16:30
Una donna camminava con passo grave per le vie impervie della periferia. I lunghi capelli rossi, seppure non molto in ordine, le ondeggiavano sulla schiena, coperta da un sontuoso e regale vestito blu, orlato di pizzi e merletti bianchi. Nessun gioiello, a parte una semplice collana. Avrebbe potuto mettersi un abito normale, per poi rivestirsi per bene sul posto; ma le piaceva talmente tanto che, secondo lei, sarebbe stato uno spreco non sfoggiarlo in tutto il suo splendore davanti alla gente. Quel suo carattere timido e impacciato desiderava segretamente farsi un po’ notare dagli altri, anche se di gente sul suo cammino non ne aveva trovata poi così tanta, soprattutto non in quelle strade malmesse e pericolanti. Si guarda un po’ intorno: non c’è anima viva nel raggio di chilometri, e con tutte quelle viuzze e stradine secondarie chiunque si sarebbe perso almeno 5 o 6 volte; e lei non aveva certo il senso dell’orientamento più sviluppato al mondo. Circondata da vecchie abitazioni a lei estranee, non aveva mai visto quella zona in tutta la sua vita: eppure da piccola era solita correre a perdifiato con i suoi amichetti per tutte le strade della città, finché non si faceva tardi; allora li salutava, per poi ritornare a casa stanca morta e con le ginocchia sbucciate. Erano bei tempi, pensava, e la nostalgia iniziava ad insinuarsi anche nel suo cuore. Adesso però non c’era tempo per tutto questo. Doveva trovare quel posto. Già, facile a dirsi, in quelle strade sconosciute e stranamente silenziose per un sabato pomeriggio.  “Rossini 23…23…”  Tutto d’un tratto si ferma. Si guarda un po’in giro confusa, per poi sbuffare.
21…27?! Ah, maledizione, ho sbagliato strada di nuovo…” e così torna indietro per riprendere quella viuzza che prima non aveva considerato. Non era la prima volta che le succedeva in quei 10 minuti che girovagava tutta trafelata portandosi appresso quell’abito scomodo; aveva persino avuto sfortuna, perché nonostante le vie fossero ben strette, erano perfettamente esposte al sole soltanto nelle ore più calda della giornata, ovvero quelle. In fondo però, anche se sudava e le facevano male le piante dei piedi, si sentiva bene con sé stessa…
“Potrei chiedere loro se posso acquistarlo definitivamente… nah, impossibile; l’associazione non me lo lascerà tenere ancora per molto”.
All’ improvviso da lontano sentì un fischio. “Ehi! Lei, laggiù” Si volta. Una donna anziana, sulla settantina, tutta vestita di nero, la stava chiamando dal fondo della strada. “Sorella Teresa!” esclamò lei, avendola riconosciuta e venendole incontro.
“E’ da molto che cammina, signorina Giovanna?”
“Aehm, no, sono appena arrivata” rispose lei cercando goffamente di ridarsi un contegno. Segue poi un caloroso abbraccio.
“Scusi se salto le cerimonie, sorella; purtroppo non ho molto tempo a mia disposizione. La sala è già stata allestita?”
“Aspetta solamente lei.”
“Perfetto. La ringrazio.”
Ripresero a camminare. Dopo poco si fermarono davanti ad una piccola porta di legno che dà su una catapecchia a due piani, suggestiva quanto malridotta e pericolante.
Davvero sarà questo il posto giusto?” si chiese Giovanna mentre saliva gli stretti scalini facendo attenzione a non cadere tenendosi saldamente alla ringhiera. Le scarpe della ragazza, che pure erano l’unico capo d’abbigliamento relativamente comodo che indossava, scricchiolavano lungo la scalinata (di legno anch’essa) facendo un gran rumore per via del riverbero. “Beh, per un prete che predica la povertà dovrebbe bastare e avanzare…
“E’ da tanto che la chiesa si è traferita qui?” chiese.
“Più o meno due anni. Sa, dopo l’incidente non abbiamo avuto più un tetto sotto cui stare, e così Padre Mancini si è offerto di mettere a disposizione la propria abitazione. C’era proprio da aspettarselo, da un tipo come lui. Ecco, entri pure” invitò la suora dopo aver spinto la porta socchiusa. La ragazza venne travolta da un fortissimo odore di incenso. Ciò che vide entrando era un vecchio e stretto salotto, completamente coperto di mobili in legno e soprammobili-cianfrusaglie di ogni tipo, adibito sommariamente a sala per le celebrazioni. Un crocifisso di metallo si stagliava davanti a lei, ma non era al centro della sala: quel punto era occupato da un cerchio magico che era stato disegnato appositamente per lei e pronto per essere utilizzato. Si capiva che era stato fatto da poco; i materiali erano ancora freschi…
Giovanna mosse due passi verso l’interno, quando riconobbe affacciato all’unica, piccola finestra della stanza un uomo a lei familiare:
“Padre Mancini? È proprio lei?”
Si girò un uomo piuttosto anziano, dai capelli argentati e dall’espressione caritatevole nascosta sotto due lenti rettangolari, segno di un’ormai evidente presbiopia. Aveva in mano un libercolo, probabilmente il breviario, sobrio e essenziale esattamente come la persona che lo leggeva. Anche l’abbigliamento non era né più né meno di quello che si poteva richiedere da un uomo di Dio. La postura era un po’ gobba, a causa sicuramente dell’età. Era un po’ cambiato da come Giovanna lo ricordava, ma notò con piacere che l’odore di quella persona era rimasto lo stesso anche dopo 12 lunghi anni: un profumo nostalgico, quasi da nonno; anche se all’epoca lui avrebbe potuto essere a malapena padre.
Il prete sorrise. Posò il libro che aveva in mano su un piccolo scrittoio, poi le venne incontro a piccoli passi. Si scambiarono un lungo e affettuoso abbraccio, per poi guardarsi e cominciare a parlare.
“Bentornata in Italia, Gianna. Hai fatto buon viaggio dall’Inghilterra?”
Lei annuì sorridendo. “È bello tornare a casa dopo tanto tempo; peccato che non si tratti di una visita di piacere…” il prete toglie gli occhiali da vista e ridacchia “Per me è sempre un piacere averti qui con noi, mia cara; che tu sia venuta per tua volontà o meno. A proposito, come sta tuo padre, Giacomo?”
“Purtroppo, la sua malattia lo ha costretto a non poter partecipare alla guerra; avrebbe voluto venire qui di persona, ma i medici non gliel’hanno permesso. Però l’ultima volta che l’ho visto era bello pimpante, mi ha chiesto di salutare calorosamente lei e tutte le converse.”
“Mi fa piacere risentire un vecchio amico, anche se indirettamente” sospira il vecchio sacerdote, guardando per un attimo dalla finestra il sole che ormai iniziava a calare. Comunque, ormai si sta avvicinando l’ora. Sai già cosa fare?”
“Mio padre mi ha spiegato tutto nei dettagli” risponde lei facendosi seria. “ma piuttosto, è proprio sicuro di volermi aiutare? In fondo, ecco… lei dovrebbe essere quello imparziale…”
Il reverendo sorrise. “E’ mio dovere aiutare ogni persona che si trovi invischiata in questa guerra. Come sai, devo offrire riparo e protezione a tutti coloro che chiederanno asilo. Tu non fai eccezione, Gianna: inoltre sarei preso dal rimorso per tutta la vita se decidessi di non aiutare una delle mie vecchie allieve, e per di più la figlia di uno dei miei più cari amici.”
Giovanna si sentì rincuorata da quelle parole. Finalmente avrebbe potuto procedere senza remore.
“Vorrei procedere il prima possibile.”
“Bene. Iniziamo, sorella.”
La suora si recò nell’altra stanza. Vado a prenderli. Con permesso.”
 
Treno Frecciarossa per Bologna Centrale, prima classe, sabato 15 febbraio 2020, ore 19:30
Sembrava non finire più quel viaggio. Lei si annoiava a morte. Dopo le infinite ore di aereo da Kidlington, ora anche il treno.  Aveva riletto talmente tante volte quel libro di arti magiche che si era portata dalla Torre dell’Orologio che le sembrava di sapere ormai già tutto e il contrario di tutto. Era in cuor suo impaziente per l’evocazione che la aspettava al suo arrivo: aveva preparato con cura il cimelio e si ricordava alla perfezione ogni parola della formula. Guardò il suo riflesso nel finestrino, ormai perfettamente visibile grazie all’oscurità della sera. “Come tramonta tardi il sole qui…” pensava distrattamente. I capelli neri erano sempre in ordine, la camicia e la gonna perfettamente piegati da quanto li aveva compulsivamente sistemati durante il viaggio. Si avvicinava man mano sempre di più al finestrino, tentando di vedere che fine aveva fatto il neo sulla sua guancia sinistra, di cui andava tanto orgogliosa; dopo avere praticamente il naso attaccato al vetro, finalmente vide che era ancora lì, e che nessuno poteva averglielo sottratto. Si guardò ancora intorno. Aveva viaggiato da sola per tutte quelle ore, senza parlare con nessuno? “Che noia…però, meglio così…nessuno deve venire a conoscenza di nulla…”
“Siamo quasi arrivati, signorina Tohsaka.”
La voce della cameriera del treno la destò dai suoi pensieri. Cercò il più compostamente possibile di staccare la faccia dal finestrino, e inforcati i suoi spessi occhiali rispose:
“Ottimo. Chiama la squadra e di’ loro di venire a prendermi. E, già che ci sei, portami un’altra tazza di quel tè inglese.”
La donna prontamente annuì e tornò sui suoi passi, uscendo sul vagone posteriore.
“Ci siamo, finalmente” pensava mentre, alzandosi dal sedile, si rimetteva giacca e berretto. “Speriamo che almeno la città sia all’altezza di quanto si dice in giro”.
Passano dieci minuti. La ragazza aspetta con l’ombrello in mano fuori dalla stazione mentre la pioggia continua inesorabilmente a cadere. “Ma quanto ci mettono?!” pensava seccata.
A un certo punto, sente una voce chiamarla.
 “Signorina! Signorina, mi scusi! Sa, non sono del posto… sa se per caso ci sono dei buoni ristoranti nelle vicinanze?”
Lei si volta, palesemente seccata. La guardava un tipo alto, sui quarant’anni; poteva sembrare un padre di famiglia.
“Sorry, I can’t speak italian very well…”
Lui goffamente si ritira, ingarbugliando qualche parola in un inglese limitato: “oh, sorry for the disturb...don’t worry, have a good journey…”
Lei lo guarda andarsene, pensando “Che tipo strano. E maleducato.”. Aveva capito perfettamente le sue parole: d’altronde, essendo una Tohsaka, non poteva non conoscere una lingua importante come l’Italiano. Ma siccome le era sembrato che guardasse insistentemente il suo seno, allora aveva deciso di fare la gnorri. E poi, non aveva certo tempo da perdere per dare indicazioni a sconosciuti, su posti che nemmeno lei conosceva più di tanto per di più. Era ancora irritata con quel tizio, quando la sua attenzione è presa totalmente da una lontana limousine bianca che stava tentando di farsi strada tra la confusione della stazione, al buio e sotto la pioggia che seppur flebile, minacciava di diventare un acquazzone.
Eccoli là. Finalmente
Venne incontro alla macchina, facendo attenzione a non mettere i piedi nelle numerose pozzanghere, fallendo miseramente. “Maledizione!” pensava mentre tentava di scrollarsi l’acqua di dosso. “non ci sono abbastanza lampioni qui. Dannazione, sono ancora arrabbiata per quel tizio… se lo ritrovo, non so cosa gli farei…”
 
Boschetto ad un’ora circa dalla stazione, ore 20:30
L’uomo scese dalla sua macchina in fretta e furia, cercando di non sbattere forte la portiera per non fare troppo rumore. Era una fiat punto di quelle vecchie, che doveva avere già i suoi bei chilometri: ciò era testimoniato dalle numerose ammaccature sul cofano e le fiancate praticamente distrutte.
“Era sicuramente un incantesimo di comando” pensava tra sé mentre si incamminava verso il sentiero. “Non poteva essere un semplice tatuaggio. Uff, peccato che mi dovrò scontrare con una tale bellezza. Che tette che aveva!” Era tutto in visibilio. D’altronde, seni non ne vedeva da vicino da anni ormai.
Lui era un eterno Peter Pan, giovanile nei modi di fare e di vivere. Il suo aspetto muscoloso e prestante era tradito dai suoi 45 anni suonati, un’età che preferiva nascondere piuttosto che andarne fiero. Non gli piaceva troppo mettersi in mostra, e nemmeno essere troppo curato: bastava guardare i suoi jeans strappati, la camicia spiegazzata, i capelli castani in disordine e la barba incolta per capire che questa persona sprecava ben 2 secondi al giorno per decidere cosa mettersi la mattina, e ben di meno per effettivamente vestirsi. Ma tanto il lungo cappotto grigio topo, rattoppato da cima a fondo, riusciva a nascondere perfettamente ogni cosa. Le scarpe vecchie e rovinate erano costantemente slacciate e rischiavano di sfondarsi ogni due metri. Nessuno avrebbe mai sospettato che in realtà si trattava di uno dei maghi più stimati e rispettati del paese, il professor Angelo Donati: ma nessuno, al di fuori delle proprie conoscenze, avrebbe mai dato credito a prima vista ad un uomo del genere.
Ma dove sarà finito? Doveva mettersi a piovere proprio adesso, accidenti?!” si guardò in giro sospettoso, poi iniziò a socchiudere gli occhi per cercare di vedere più lontano, con scarsi risultati. Gli era sembrata un’idea furba, quella di trovare un nascondiglio nel bosco dove occultare il cimelio, lontano dagli occhi indiscreti di colleghi dell’università. Ora, però, iniziava ad avere dei ripensamenti.
Sarà quello?” pensava. Non ricordava bene nemmeno lui dove lo aveva nascosto. Era sicuro di averlo sotterrato ai piedi di un albero cavo, già, ma chi poteva scorgerlo con tutta quella pioggia al buio. “maledizione! Che sfiga! Speriamo solo che non l’abbia trovato qualcuno… in quel caso…” pensò a cosa avrebbe dovuto fare se qualche persona estranea alla guerra l’avesse scoperto. Si rese conto di non avere con sé nemmeno un coltellino o una qualsiasi altro tipo di arma, e si maledisse da solo.
 “Dannazione, Angelo! Non ne fai una giusta!”
Fortunatamente scorse una luce familiare in mezzo al diluvio. Aveva incastrato nel tronco di quell’albero, ad altezza d’uomo, una speciale pietra magica che risplendeva alla luce della luna. Anche se la pioggia rendeva difficile scorgerla, non poteva essersi sbagliato.
 “Meno male!” pensò “iniziava a fare freddo…” corse più veloce che poteva verso il tanto agognato tesoro, ma guardandosi in giro furtivamente cercando di capire se qualcuno l’avesse seguito (magari quella donna…)
“Ma no, sono stato attento… non c’era nessun’altra automobile dietro di me…e sono andato talmente piano e per strade secondarie, nemmeno i vigili avrebbero avuto motivo di venirmi dietro…”
Nessuno in vista. “Ehehehe!!” rideva tutto soddisfatto mentre era intento a ravanare un mucchio di terra bagnata vicino alle radici della pianta. Scava. Scava, scava. Continuava a scavare. Ma non trovava nulla. Inizia a sudare freddo. Continuava a scavare buche lungo il perimetro del fusto, come in preda al panico.
“Ero sicuro che fosse qui…”
“Cercavi questo?”
Ad un certo punto sentì una voce di scherno provenire da dietro di lui. Angelo si girò di scatto, e vide di fronte a lui una misteriosa figura in piedi, non meglio riconoscibile per via della pioggia e dell’oscurità, che nel frattempo erano entrambe aumentate di intensità.
“Maledetto!” digrignò fra i denti, mentre cercava di guardare in cagnesco quel figuro davanti a lui.
“Sai, te lo renderei volentieri… il fatto è che, come dire… ora non ti servirà più.”
Angelo inizia a tremare. Non gli serviva più il cimelio, aveva detto. Ha capito che per lui è finita. La guerra del Graal, la sua vita e le sue speranze. “Se vuoi uccidermi, fallo ora. E fai in fretta”
L’altro sembrava interdetto. Lo squadrò per un po’, e poi scoppiò a ridere scompostamente.
“Ma che hai capito? Non voglio mica ucciderti! Sono una persona con una morale, io. Intendevo solo dire che il tuo servant è già stato evocato, soltanto che è dalla mia parte. Guarda, eccolo qui.”
Angelo girò lo sguardo verso la sua destra, e riuscì indistintamente a scorgere nella pioggia e nel buio un’altra sagoma, più alta e robusta, ma con un fare decisamente più rassicurante del suo compagno. Sembrava emanare una luce particolare, di onore e lealtà; era nettamente in contrasto con l’altra persona, il quale sembrava ispirare soltanto pericolo.
“C-che cosa vuoi da me? Lasciami stare! Vattene!” Angelo stava tremando. Indietreggiò, e cadde sulle ginocchia. Nonostante il suo fisico fosse allenato e se l’era sempre cavata nelle risse, questa volta non riusciva quasi a muoversi dal terrore. Usare quelle parole gli era costato un coraggio infinito, e ora non sapeva neppure più come respirare normalmente.
“…”
Restarono in silenzio per infiniti attimi. La pioggia intanto diventava temporale.
“Ascoltami” disse finalmente la figura nell’ombra. Fece un piccolo passo verso il povero Angelo, abbassando un poco il tono della voce. “Presta attenzione. Ormai possiedi l’incantesimo di comando e l’Associazione Maghi sicuramente verrà a sapere ogni cosa. Se ti uccido ora, non mi sarai di alcun aiuto. Perciò, facciamo così: diventa il mio prestanome. Combatterai con questo servant durante la guerra, ma sarò io a possedere gli incantesimi di comando; perciò me li darai o ti strapperò quel braccio con la forza, così da unirli a quelli che ho già con me”
Angelo ormai era in un bagno di sudore misto ad acqua piovana. Non sapeva più cosa fare. Anche il servant vicino a lui rimaneva immobile, impassibile. Quel silenzio lo terrorizzava; l’unico rumore che sentiva era quel fastidioso scrosciare.
 Quando a d’un tratto, un’idea.
“O la va o la spacca” pensò.
“Permettimi soltanto una parola.” Dice Angelo con il cuore in gola. “se hai già l’incantesimo di comando, significa che possiedi già un altro servant oltre a quello che mi hai rubato; anzi no, l’avresti già evocato altrimenti. Significa che ti hanno rubato il cimelio? O era troppo debole e hai preferito lasciar perdere?”
L’uomo nell’ombra rise di nuovo. “E’ come hai detto tu. Possedevo già un cimelio per evocare un servant, ma siccome mi è stato detto essere un famiglio di bassa lega ho preferito puntare su una classe guerriera, come il qui presente Lancer.” Nel parlare estrae da una tasca un oggetto simile ad un sacchettino, dentro al quale avrebbe dovuto trovarsi il tanto decantato attrezzo. Non passano nemmeno due attimi, che dopo il primo sentì la sua mano più leggera.
“Ma cosa…” l’uomo si guardò la mano, confuso. Il sacchettino era sparito.
“Ah, stavi cercando questo?” risuonò una voce canzonatoria.
Il tipo misterioso tornò a posare lo sguardo davanti ai suoi occhi, ma non vide più la figura di Angelo. Al suo posto c’era la terra divelta sotto l’albero, che nel frattempo si era riempita d’acqua.
 “Ma dov’è finito?”
Ad un tratto sentì dei forti rumori provenire da lontano.
“Sta scappando con il catalizzatore! Lancer, inseguilo!” comandò al suo servant. “Uff, e così è questo il mio primo incarico. Ma tu guarda…” rispose quello. Con un balzo felino iniziò a inseguire lo sventurato.
Angelo scappava a più non posso. Fortuna che aveva vissuto per anni nei bassifondi, e per lui rubare era diventato come bere un bicchier d’acqua. Sapeva che uno come quello non avrebbe resistito a pavoneggiarsi sventolandogli davanti al naso il suo tesoro; ne aveva incontrati tanti, di fessi così. E poi, non avrebbe fatto in tempo ad ordinare a Lancer di attaccarlo, e sinceramente non aveva avuto l’impressione che quel guerriero avrebbe potuto agire di sua spontanea volontà. Ora doveva soltanto seminare i suoi inseguitori, cercare un riparo ed evocare il servant che, se fosse andato tutto bene, sarebbe riuscito a proteggerlo. È facile” pensava “tra il buio e questo tempaccio, scappare e nascondersi sarà uno scherz…”
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che si ritrovò a terra steso in una pozzanghera con il sedere all’aria. Sentì un dolore atroce venire da sotto di lui, e la sensazione orrenda di avere del ferro conficcato nel corpo. Alzò lo sguardo e vede davanti a sé il volto di quel servant che, in men che non si dica, l’aveva già raggiunto e trafitto.
“Fine della corsa, amico. Ma dai, pensavi sul serio di riuscire a sfuggirmi? Ma non temere, non voglio ucciderti; o almeno, tu probabilmente morirai, perché basta che il mio master mi ordini di ucciderti con la magia dell’incantesimo di comando. Mi spiace solo dover usare le mie armi in questo modo…”
Ora è davvero finita. Gli bastava fare qualsiasi movimento, ed era morto. Lancer avrebbe potuto ucciderlo in qualunque momento, ed anche se fosse riuscito a scappare sarebbe stato comunque inseguito da quell’uomo. “Merda” pensò “eppure gliel’avevo fatta sotto al naso…”
Anche l’uomo l’aveva ormai raggiunto. Lo afferrò per i capelli e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Un lampo di uno dei tanti fulmini che avevano iniziato a cadere rivelò una faccia scarna, un’espressione da maniaco e dei capelli crespi bluastri. “Maledetto bastardo, ti ho preso finalmente. Forza, Lancer, usa la tua arma nobile. Te lo ordino tramite il mio incantesimo di comando. Voglio che soffra come il maiale che è.”
Gli occhi di quel tipo brillavano di una strana luce. Angelo sembrava scorgere all’interno una specie di simbolo…
Una lacrima stava per uscire dal suo occhio. Sarebbe andata a bagnare il cimelio che era sbalzata avanti dalla caduta, fermandosi proprio davanti alla sua faccia. Nell’impatto era anche uscita fuori dal suo contenitore, rivelando la sua forma simile ad una pallottola…
Fortuna vuole che, al posto della lacrima, fu una goccia d’acqua che cadde dal suo mento a bagnarla.
Il cimelio colpito dalla goccia inizia a emanare una luce abbacinante. “Ma cosa diavolo…” esclama Lancer stordito. Angelo guarda stupefatto la scena. Un’altra figura umana ora si stagliava di spalle davanti a lui.
Del trambusto, Angelo non capisce più nulla: uno sparo, delle urla, un forte prurito sotto al piede, dei rumori di passi, lo scrosciare della pioggia e infine una voce giovanile rotta da un fiatone continuo.
“Ehi master! Sei sveglio?”
“…”
“Accidenti, se cominciamo così non mi annoierò di certo, ah ah ah!”
E poi, il buio, la perdita di coscienza.
Una casa in campagna nella provincia di Napoli, mercoledì 12 febbraio 2020, ore 15:00
La ragazzina entrò senza bussare dalla sua camera nel salotto di quella casetta, con in mano un vassoio colmo di tazzine di porcellana piene fino all’orlo. I movimenti bruschi delle sue gambe facevano cozzare tra loro tutto il servizio; poi appoggiò con decisione sul tavolino, facendo irrimediabilmente rovesciare tutto sulla tovaglia e macchiando le camicie e le cravatte di alcuni dei signori seduti. “Papà, signori, ecco qua! Ho preparato del caffè per tutti!” Serve a tutti quegli uomini vestiti come dei pinguini una strana brodaglia, che tutto poteva sembrare fuorché quell’espresso napoletano che erano abituati a bere durante le pause al lavoro.
“Mi stanno antipatici” pensava “ma sono amici del papà; quindi devo farli sentire a loro agio”.
La solarità della bambina stonava troppo con il clima di tensione che si respirava in quella stanza, la quale era certamente troppo spaziosa per una riunione del genere. Il tavolo, lungo e stretto, era praticamente l’unico mobile nella stanza, o almeno l’unico che poteva essere distinto a vista d’occhio: infatti, le veneziane di tutte le finestre della casa erano sprangate, in modo tale che nessuno dall'esterno potesse vedere nulla, ottenendo però come effetto contrario un buio tale da non poter riconoscere nemmeno chi si aveva di fianco seduto al tavolo. La bambina però non fece caso a tutto ciò, anzi sembrava proprio emanare lei stessa una piccola luce in quella tenebra ristagnante. Tossì un po’ per la soffocante puzza di fumo che riempiva ogni poro e cellula lì dentro, facendo rovesciare ulteriore liquido per terra. L’ultimo a essere servito fu un uomo grasso, seduto a capotavola, vestito anche lui in maniera simile agli altri ma con un cappello e con un fiore rosso all’occhiello. Era l’unico commensale che poteva essere distinto con chiarezza, grazie ad uno spiraglio vicino alla finestra dove era seduto; d’altronde, era la persona più importante lì dentro. Continuò a fumare il suo cubano mentre guardava assorto il vuoto, come stava facendo ormai da qualche minuto. Era da qualche tempo che aveva preso quel vizio, ma nessuno dei suoi uomini aveva abbastanza fegato di interrompere quel silenzio tombale per farglielo notare. Si sfilò di bocca il sigaro per spegnerlo nel posacenere che aveva davanti a sé, quando incrociò lo sguardo della figlia. Ad un tratto si destò dal suo sogno ad occhi aperti, e iniziò improvvisamente a tuonare con gran spavento degli altri compari.
“Cosa stai facendo, Margherita?! Torna subito in camera tua! Non vedi che sono in riunione?! Guarda che casino che hai combinato qua per terra! Smamma, sciò!”
 La bambina ridacchiò sotto i baffi, e subito saltellando allegramente tornò sui suoi passi, canticchiando. I suoi riccioli d’oro volteggiavano davanti alla sua fronte di colore candido come la neve. Gli occhietti azzurri erano tesi in un sorriso lievemente accennato, mentre salutava tornando da dove era entrata.
“Buon divertimento!”
Il Boss sospira.
“Gesù santissimo. Non oso pensare a come avrà ridotto la cucina.”
Si guarda intorno. I suoi uomini in evidente shock per la sfuriata di prima. Era così da sempre: riusciva anche con la sola sua presenza a incutere timore a tutti, ma non a lei. Prese la tazza, e iniziò a trangugiare quella sbobba preparata con tanto amore e incapacità in cucina.
Ad un tratto l’uscio si apre. Un uomo in giacca e cravatta entra annunciando a gran voce che l’ospite era arrivato dal centro Italia.
“Era ora” sentenzia l’uomo a capotavola, poggiando la tazzina vuota di fianco a sé. “Coraggio, portatelo qui e fatelo sedere al tavolo.”
L’uomo entra dalla porta circondato dagli uomini del boss. Ma non per intimorirlo, quanto per farlo sentire al sicuro. O meglio, questo era quello che il prete avrebbe dovuto pensare.
“Il signore sia con voi” saluta il boss mentre scambia i rituali tre baci sulla guancia.
“E con il vostro spirito” risponde quello. “La ringrazio dell’ospitalità, Don Santis. È un onore essere ricevuto da un uomo influente come lei.
“Suvvia, non faccia tutti questi convenevoli. In questa casa è sempre accetto un portatore della parola del signore; soprattutto se si tratta del supervisore della guerra in persona.”
Il prete non rispose. Si sedette all’altro lato del tavolo di fronte al suo interlocutore, mentre si guarda attorno scrutando gli uomini che facevano di guardia a quella saletta di una casa di campagna. Saranno stati una quindicina in tutto; ma solo due o tre erano armati, oltre al boss. Avrebbero dovuto inspirargli fiducia e protezione?
“Veniamo subito al dunque.” Iniziò il sacerdote. “Ho portato quello che mi ha chiesto. Ma è davvero sicuro?”
“Certamente. Un servant solo è troppo poco, specie se si tratta di Caster; è il più debole di tutti, ma è il migliore nel difendere il suo territorio. È perfetto per uno come me. Ma, come può comprendere, mi serve anche l’artiglieria pesante. Sono certo che lui farà al caso mio.”
Il prete sembrava piuttosto preoccupato. “Le ho già parlato di quanto possa essere pericoloso contravvenire alle regole della guerra per evocare più servant: se l’associazione maghi venisse a sapere di tutto ciò, sarebbe un grosso problema; e quelli non vedono l’ora di mettere le mani sulle vostre faccende…Inoltre si tratta della classe Berserker, la quale è risaputo essere la classe più difficile da tenere a bada, malgrado abbia un enorme potere distruttivo”
“Non si deve preoccupare di nulla, padre; ho numerosi contatti con la torre dell’orologio e anche con la prefettura di Fuyuki; sono in una botte di ferro. Se invece si preoccupa per la potenza di Berserker, può constatare anche da solo che sono pieno di uomini capaci di far fronte anche a cento di quelle bestie!”
Il prete scuote la testa. Sa perfettamente che sta sottovalutando il problema, ma tanto non riuscirà mai a convincerlo.
“E va bene, ha vinto. Si tenga il cimelio.” Mette sul tavolo una specie di fodero che teneva nascosto sotto i paramenti sacerdotali. “ma faccia molta attenzione. Non vorrei compromettere i rapporti con l’associazione…
“Stia tranquillo, la nostra banda sistemerà tutto prima che gli altri master facciano in tempo a fare la loro prima mossa. A tal proposito, quali tra i servant sono stati già evocati?”
“Quasi nessuno, in realtà. Sono stati evocati soltanto Archer e Lancer, oltre al suo Caster. Ma posso stimare che in meno di una settimana sarà tutto pronto, e la guerra potrà iniziare senza nessun problema.”
“E i master? Posso conoscere le identità”
“Oltre ai soliti rampolli di Tohsaka e Makiri, questa volta non sembrano essersi fatti vedere gli Einzbern; il che è molto strano per la verità. Gli altri Master sembrano essere esponenti di potenti famiglie di maghi italiane rimaste nell’ombra fino ad ora; per esempio, voi, i Santis, o gli Ardito.” Degli altri due non sappiamo nulla, dal momento che non si sono presentati a fare visita alla mia chiesa; ma sicuramente si faranno vivi entro questi pochi giorni. Inoltre, l’ultimo master sarà dalla sua parte con Berserker, a quanto pare.”
“Quindi partiamo avvantaggiati…non poteva andare meglio di così…” pensò fra sé il boss compiaciuto.
“Parlando d’altro…ha la cifra pattuita con sé?”
“Mi prende per un volgare ladruncolo? Carmelo Santis è un uomo d’onore, dovrebbe saperlo. Avanti, dateglieli.” E fa cenno a due uomini dietro di lui di portare qualcosa. Questi sbatterono sul tavolo diverse mazzette piene da bigliettoni da 100 - 200 euro. Il prete le prende in mano e le conta con aria soddisfatta, poi riprende a parlare.
4900…5000! Ci sono tutti. La ringrazio, Don Santis.”
“La prego, non mi piace essere chiamato in quel modo. Non in presenza di un vero sacerdote, per di più.”
“Mi scusi.”
“Mi chiami pure Carmelo, non c’è problema. Ora, se abbiamo finito… Domenico, accompagna il nostro Don alla macchina!”
E, dopo una vigorosa stretta di mano, il prete si alzò dal tavolo per seguire l’uomo chiamato Domenico fuori dall’uscio. Quando entrambi furono fuori dall’edificio, l’uomo in giacca e cravatta accese una sigaretta per fumare. Ne porse una al prete, che rifiutò. Quando furono vicino alla macchina, il tipo tolse di bocca la sigaretta e gli rivolse due parole, forse per rompere un po’ il ghiaccio.
“E’ un tipo particolare, il capo, eh?”
“…”
Il prete non sapeva che rispondere, quando vide qualcosa di particolare spuntare da quella casa…
Retro della casetta, 15:45
Stava cercando di nuovo di scappare nella fattoria vicina. Margherita cercava di scavalcare la finestra per uscire.
“Non mi lascerà chiusa qua dentro per sempre! Alla faccia sua!”
Niente da fare. Era troppo debole per arrivare a tenersi con sole braccia e sollevarsi. Cadde ancora una volta col sedere a terra, tossendo.
“Uffa, perché tutti i compagni di scuola possono uscire e io non posso nemmeno andare a raccogliere quei fiori laggiù.?”
Allora decise di provare la solita tecnica. “Vediamo se riesco a usarla anche da qui…”
 Si concentra, tende la mano e sussurra
extende dextram manum
Quei fiorellini tanto lontani ora si estirpavano e volavano dritti nella sua mano. Delle margheritine. Come lei, la piccola Margherita Santis: figlia di Don Carmelo Santis, il boss della cosca mafiosa che controllava tutte le regioni limitrofe e anche, come aveva capito da qualche discorso degli amici del papà, anche qualche altra zona d’Italia e addirittura del mondo. Non le importava molto, in realtà; voleva soltanto che suo padre la tenesse solo un po’ di più in considerazione, invece di lasciarla sempre da sola con quelle persone antipatiche che non la facevano mai uscire dalla sua stanza. Tutto perché doveva fare i suoi “viaggi” di lavoro. Tutto quello che voleva era poter uscire, per ammirare e annusare quei fiori. Li guarda compiaciuta, mentre sente una voce a lei nuova: “Ma che brava che sei! Che fiori sono?” la bambina vede in lontananza un uomo vestito da prete. Stava per entrare in macchina scortato dai pinguini, quando si era allontanato evidentemente per parlare con lei. “sono margherite! sa, anche io mi chiamo così. Lei invece è Padre Mancini, giusto? Dai discorsi di mio padre sembra che lei sia una persona importante. “
Il prete è sorpreso. Sembrava una bambina così ingenua, invece era abbastanza sveglia e intelligente per la sua età, oltre che bella come un fiore non ancora sbocciato. I suoi occhietti azzurri cielo lo guardavano attentamente, esplorando ogni particolare della sua persona.
“ah, ah, il tuo papà esagera. Sono solo un umile servo di Dio…” ora guarda i fiori che la bambina tiene ancora in mano. “Ne vuole uno? Io ce ne ho tanti!”
“Ti ringrazio” dice il prete sorridendole. “Sai, dovresti tirarli via dal terreno con ancora le radici attaccate… in questo modo le piantine sopravvivranno, e tu potrai ripiantarle in un nuovo vaso. Così cresceranno senza problemi!”
La bambina ascoltava attentamente. Era sempre pronta ad imparare qualcosa di nuovo.
Ad un tratto, però si bloccò. Le prese la mano. “Cosa ti sei fatta qua? È un livido?”
La bambina si guarda la mano destra. “Forse mi sono sporcata con le tempere. O magari mi sono fatta male sbattendo da qualche parte!”
Il prete non rispose. Prese con sè il fiore e si allontanò. E nel mentre le parlò di nuovo, con un tono diverso.
“Spero che ci rincontreremo; cerca di non perderti…” e si allontanò di nuovo.
La bambina rimase perplessa. Quel modo di parlare, non riusciva a capirlo… eppure, sapeva in cuor suo che doveva fare come le aveva detto…
 
Bologna, hotel a 5 stelle “Màxim”, ore 21:15
“Questa camera sarà abbastanza sicura?” pensava la ragazza agitando continuamente la chioma corvina mentre ricontrollava continuamente porte e finestre come se stessero per crollare da un momento all’altro. Anche se la sua famiglia aveva affittato tutto l’albergo per una settimana, non si sentiva ancora tranquilla. Ora recitava di nuovo a memoria le parole dell’evocazione, le formule, gli incantesimi, le abilità dei servant e leggeva le informazioni che aveva ricevuto sui master. I Makiri, o Matou, come si fanno chiamare adesso, non la preoccupavano nemmeno un po’; ormai partecipano alle guerre del Graal solo per disperazione, non possedevano più alcun circuito magico da generazioni. “Di certo nemmeno gli Einzbern devono essere in gran forma” pensava “se hanno deciso di non presentarsi nemmeno…anche se sinceramente questo mi preoccupa; chissà cosa staranno architettando…”
Sfogliò con attenzione le pagine dei registri della torre dell’orologio che le avevano consegnato prima della partenza. A un certo punto si ferma su una pagina, inforca gli occhiali e aggrotta la fronte.
“Santis… non mi piacciono per niente… hanno troppo le mani in pasta per i miei gusti. Chissà che non abbia contatti con altri master, o addirittura con l’associazione o con il moderatore della guerra… tra l’altro, avrò fatto bene a non fargli visita? Non mi sembrava necessario, anzi, avrebbe voluto dire che ero pronta a scendere a compromessi con certi mezzucci… e questo non si addice ad una della mia famiglia.”
Continua a rimuginare, sdraiata sul letto, guardando oscillare il suo gioiello preferito, una collana con una pietra scarlatta lucente, come ipnotizzata. “Yawn, che sonno.” pensò stiracchiandosi. Il jet lag aveva iniziato a farsi sentire anche per una come lei.
“…”
Aveva dormito per una buona mezz’oretta. Guarda l’orologio. “Accidenti, sono in ritardo! l’evocazione deve iniziare alle 22:00, e sono già le 21:58! Devo preparare ancora tutto!”
Era fatta così. Perdeva sempre talmente tanto tempo a pensare a come fare tutto, che quando arrivava il momento di agire commetteva sempre qualche errore, tutto per colpa della fretta. Ma sembrava che fosse un difetto di famiglia, perciò non poteva che essere orgogliosa anche di questo.
“Così…così…e così: fatto! Meno male, sono ancora in tempo!”
Si asciugò la fronte con impazienza. Era tutta in fibrillazione. Stava per evocare finalmente il guerriero che avrebbe dovuto portarla alla tanto agognata vittoria. Per lei, per la famiglia Tohsaka, per la Radice.
“Speriamo per Saber…è la classe più forte… oppure Archer, o al limite anche Lancer… mi va bene qualsiasi servant, purché sia un guerriero formidabile; mi dispiacerebbe evocare un famiglio di classe inferiore… ma ora basta pensare. procediamo con la formula.”
Poggiò la mano per terra, dove lasciò cadere una reliquia simile in tutto e per tutto ad una punta di baionetta, o giù di lì. Poi incominciò a recitare i versi della formula.
 
“The true Hero, who knows no fear;
 The proud Shepherd, who knows no lose;
The wise King, who knows no injustice.
 
His Heart is in fire, like a burning coal;
His mind is in ice, like a stormy snow;
His name has never had enemies.
 
The God in earth, born to lead his own army;
the Spirit of world, fighting on a White Horse;
And his glory will never know end.”
 
 
 
Una luce intensa avvolse la camera. Lei non vide più nulla. Rimase cieca per qualche secondo; era spaesata, ma non ebbe paura; si infuse coraggio stringendo a sé la sua collana. Sperò soltanto che da fuori nessuno potesse notare nulla. Quando tutto le sembrò più tranquillo, riaprì gli occhi. Cos’era questa nebbia scura? Fumo? No, non le veniva da tossire. Era mana. Pervadeva tutta la stanza. La potente magia dei Tohsaka doveva avere evocato un servant molto potente. Mentre il fumo si diradava, intravide la figura di un uomo regale, sobrio ma imponente e solenne. La sua figura era austera, ma infondeva calore e sicurezza. Il suo volto era impassibile, ma lei riuscì a percepire in lui una passione ed un ardore incontenibile.
 “Sono stata brava. Il Graal sarà mio.”
 
Via Rossini 23, Periferia di Firenze, ore 23:00
L’evocazione aveva avuto successo. La coppia di anelli e il vestito avevano funzionato come catalizzatori. Sorella Teresa si era offerta di rimanere di guardia davanti alla porta, mentre il reverendo Don Mancini era uscito per delle commissioni; perciò, si ritrovò ad affrontare da sola tutta quella tempesta di potere magico. Ma ormai il rituale era stato compiuto. Mano a mano che il fumo magico si diradava, Giovanna riusciva sempre di più a scorgere la figura di un giovane.
 “È sicuramente lui il mio servant.
Stranamente però, la sua sensazione non fu solo gioia. Fu anche malinconia. Era consapevole di aver risvegliato qualcosa di poco piacevole. Eppure ormai lui era davanti a lei: era chiaramente un guerriero, a giudicare dall’ abbigliamento fatto di calzari, schinieri, e l’armatura di bronzo che culminava in un coprispalle rosso porpora, il tutto sormontato da un viso ancora giovane, ma sfigurato dalle evidentemente molte battaglie, forgiato dalle sconfitte più che dalle vittorie. Il suo sguardo penetrante entrava direttamente nell’anima; ma non era nulla di fiero o di glorioso, semmai una brezza di dolore fu quello che colpì il cuore di una Giovanna tutta assorta dall’aspetto del suo guerriero. Distolse per un attimo lo sguardo dai suoi occhi verdi intenso; In mano teneva uno scudo dorato, nell’altra una spada. Entrambi erano finemente intarsiati, e emanavano luce propria, quasi come se fossero stati forgiati da un dio.
Finalmente il silenzio fu interrotto dall’uomo.
Fece due passi avanti, e iniziò a parlare.
“Sono stato evocato in questa guerra come guerriero appartenente alla classe Saber. Ora, parla: sei forse tu il mio Master?”
   
 
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