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Autore: crazy lion    07/07/2020    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti che Demi e la sua famiglia hanno vissuto, raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Demi ha appena compiuto vent'anni e lotta ancora contro i suoi problemi perché, nonostante stia meglio, il processo di guarigione è lungo e tortuoso. Nella notte sente Madison, sua sorella minore, lamentarsi, e credendo che si senta male va a vedere. La bambina sta avendo un incubo, o almeno questo è quanto la ragazza pensa vedendola agitarsi in quel modo. Una volta sveglia, la bambina non vuole parlare del sogno fatto ma, non avendo sonno, resta con Demi e le due si fanno compagnia. Nelle ore seguenti si prenderanno cura l'una dell'altra ma, nonostante i gesti dolci, il passato e le paure porteranno alla luce demoni ancora presenti e pensieri tormentati e nascosti che provocano loro un dolore profondo, difficile da scacciare. Riusciranno ad affrontare tutto insieme, o le sofferenze saranno più forti di loro?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare veritiera rappresentazione del carattere di queste persone, né offenderle in alcun modo.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Demi Lovato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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PER SEMPRE

 
PREMESSA IMPORTANTE
 
In questa storia verranno trattate alcune tematiche delicate. Come sempre, anche se non lo scrivo in ogni racconto, preciso che non è bello soffrire di ansia, attacchi di panico, anoressia, bulimia, e nemmeno nell’essere autolesionisti, o nel soffrire di altri disturbi di qualsiasi tipo, o peggio. Non c’è nulla di romantico in tutto ciò, non sono cose affascinanti, ma problemi e malattie veri. Lo ripeto perché spesso molti, nella vita in generale, tendono ancora a credere il contrario, o che queste persone cerchino attenzione e si comportino così per tale motivo. Nulla di più lontano dalla verità. Tratto questi argomenti perché credo se ne debba parlare di più, non in quanto voglio esaltarli.
 
Preciso che, a quanto Dianna ha scritto, in realtà Demi dal 2011 (e non so fino a quando) non viveva con loro ma in un altro appartamento con un sober companion. Si trattava di una persona che stava con lei tutto il giorno, tutti i giorni e controllava che non si drogasse o non bevesse. Come sa chi mi legge da tempo, non ho mai trattato le tematiche della droga, dell’alcolismo e del disturbo bipolare di Demi, perché sono argomenti troppo difficili per me. Sento che, per quanto potrei documentarmi sulle droghe o su altro, e l’ho fatto quando ancora pensavo di parlarne, non riuscirei a trasmettere come si sta davvero.
Giorni fa, nella serie Private Practice, ho visto una donna con il disturbo bipolare. Sono rimasta piuttosto turbata e mi sono detta che no, non riuscirei mai a parlare di una malattia tanto devastante. Per cui, la Demi delle mie fanfiction non ha avuto certi problemi e vive ancora con i suoi.
 
Ho sempre immaginato il periodo in cui ho ambientato questa storia, che si svolge nel giro di poche ore nell’agosto del 2012, come molto delicato per Demi. È uscita dalla clinica da poco più di un anno e mezzo e, benché sia trascorso un lasso di tempo non proprio breve, una persona con i suoi problemi sta sì meglio, in certi giorni magari anche molto, ma non ancora bene, non del tutto. Non ci si riprende da malattie e problemi del genere facilmente, il percorso è fatto di alti e bassi e per uscirne ci vogliono quantomeno alcuni anni. Ho fatto tantissime ricerche, ascoltato video, letto interviste alla ragazza, testimonianze di altre persone, mi sono riempita la testa di articoli di psicologia per capire ancora meglio come sta davvero chi soffre di questi problemi.
 
Ci sarà una descrizione un po’ forte ma non troppo esplicita né volgare, questo mai, di ciò che vedrà una bambina. So perfettamente che, se un bambino nella realtà vedesse una persona vomitare a causa dell’anoressia, ad esempio, o altre scene che mi viene da definire violente (violente per la sua mente ancora fragile), rimarrebbe segnato a vita. Ma, per quanto Madison sia sconvolta da quanto accaduto a Demi, Dianna e alla loro famiglia, racconterà la scena che ha visto rimanendone meno turbata di quanto ci si aspetterebbe, in quanto essa non è avvenuta nella realtà. Leggendo capirete di cosa sto parlando, so che ora può sembrare una spiegazione strana.
 
Nel caso dell’ansia e degli attacchi di panico, le descrizioni che darò sono anche frutto di esperienze personali o di racconti che ho sentito da parte di persone che ne soffrono e che mi sono vicine. Le cose che dirò non vogliono essere un incitamento a fare nulla, non mi permetterei mai. Servono solo a spiegare la situazione e a rendere il tutto il più realistico possibile.
 
 
 
 
 
 
Demi stava dormendo. Aveva compiuto vent’anni il giorno precedente e, dopo una festa in famiglia nella quale era riuscita a mangiare una fetta di torta senza che la voce dell’anoressia la tormentasse, ora riposava tranquilla. Si mosse e aprì piano gli occhi. Un gemito provenne dalla stanza di Madison. Si ricordò che aveva lasciato la porta aperta, per cui quel suono era arrivato chiaro alle sue orecchie. La ragazza trasse un profondo respiro e si alzò, infilò le ciabatte e si diresse in camera della sorella – pensava si sentisse male, il lamento era stato forte – stando attenta a non svegliare nessuno.
La trovò rannicchiata su un fianco, con le gambe e le braccia strette al petto come per proteggersi da qualcosa o qualcuno, scossa da violenti tremori. Dormiva ancora. Demetria accese la lampada sul comodino, sperando di non spaventarla con quella luce. Il viso della sorellina era pallido, rigato di lacrime e la guancia, così come il braccio e la mano che le sfiorò, freddissimi. Chissà da quanto tempo restava scoperta.
Che faccio? La sveglio o meno? O chiamo la mamma?
Scartò la seconda ipotesi: era grande, a meno di problemi seri preferiva evitare di svegliarla nel bel mezzo della notte. Attese qualche tempo. I sogni durano sette secondi, o così le pareva di aver letto in un articolo, ma o quello era particolarmente lungo, o si trattava di più incubi in sequenza.
“Madison?” chiamò con dolcezza. Niente. Gli occhi restavano serrati, anche più di prima. “Madison!” Le toccò piano il braccio, poi la scosse appena chiamandola una terza volta.
Perché non si svegliava? Una notte era successo anche a lei, durante l’adolescenza. Aveva udito la voce della mamma che la chiamava, ma le palpebre erano state tanto pesanti che non era riuscita ad aprirle. La sera prima di quell’episodio aveva pianto tutto il tempo dopo aver vomitato la cena di nascosto, pensando alle parole dei bulli che, anche dopo anni, le riecheggiavano nella testa e non ce l’aveva fatta: si era tagliata di nuovo. Quando la mamma l’aveva chiamata e lei si era svegliata, Dianna le aveva detto:
“Mi hai fatto spaventare, credevo fossi finita in coma.”
Impossibile, dato che non era accaduto niente che avrebbe potuto portare a questo, ma adesso Demi capiva i timori della madre. Il cuore le martellava nel petto a velocità tanto elevata da far male, batteva contro la cassa toracica come se volesse spaccarla e uscire. Un sudore freddo le colava dalla fronte e non solo, mentre la mente lavorava frenetica. Chissà quali cose orribili stava sognando Madison – fece qualche ipotesi, ma preferì non pensarci – e si disse che nessuno avrebbe dovuto essere sottoposto ad una simile tortura.
Chiamo la mamma, non è possibile che non si svegli.
Qualcosa non andava. Pensò alla paralisi del sonno, ma era l’incapacità di muoversi o parlare poco prima dell’addormentamento o appena dopo il risveglio, una cosa diversa da quella che stava accadendo. Senza indugiare oltre, attraversò la stanza con due ampie falcate.
“Demi? Demi, sei tu?”
La ragazza lasciò andare un lungo sospiro di sollievo, mentre il macigno che le gravava sul cuore si faceva sempre più leggero fino a sparire. Si girò di scatto e corse accanto al letto, poi si inginocchiò.
“Madison, tranquilla, sono qui” mormorò, scostandole una ciocca dalla fronte, poi le asciugò il sudore con un fazzoletto di carta che trovò in uno dei cassetti del comodino. “Come ti senti?”
“I-insomma.”
Tremò con violenza e Demi la coprì con il lenzuolo e il copriletto. La stanza era fresca anche grazie al condizionatore acceso, che la ragazza spense.
“È tutto finito, non preoccuparti. Ora sei nella tua camera con me, di là ci sono mamma e papà e c’è anche Dallas.”
 
 
 
Madison si guardò intorno non riuscendo a focalizzarsi su nulla in particolare. La testa le girava. Era davvero in camera sua? Sì, sentiva il proprio letto sotto il corpo, riconosceva il comodino in legno con i due cassetti e, accanto, la sedia sopra cui erano impilati alcuni vestiti, poi l’armadio, la scrivania di fronte a lei e la libreria a sinistra di essa. Uno sbadiglio le sfuggì prima che potesse anche solo pensare di coprirsi la bocca con la mano.
“Scusa” disse e arrossì.
“Figurati, capita a tutti.”
“Mi sembrava di essere da un’altra parte. Sempre in casa, ma in un’altra situazione.”
“A volte è strano tornare alla realtà dopo gli incubi.”
“Già. Sembrano così reali. Ho paura, Demi!”
Si aggrappò con forza ai bordi del letto, poi al cuscino, cercando di fermare il tremore alle braccia. Teneva la testa alzata e il collo teso, li girava da una parte e dall’altra per captare rumori che non esistevano più, avevano solo fatto parte di quel sogno. I denti le battevano producendo piccoli schiocchi e il suono del suo respiro accelerato non la rassicurava di certo. Grondava di sudore.
La ragazza si chinò su di lei, la strinse a sé trasmettendole tutto il suo calore e le parlò con dolcezza, sussurrandole frasi rassicuranti.
“Grazie. Mi sento più tranquilla quando sono fra le tue braccia. Voglio alzarmi.”
“Sei sicura?”
“Sì.”
Guardarono entrambe la piccola sveglia di metallo sul comodino: le quattro. La bambina disse che non aveva sonno e nemmeno Demi. Di certo, pensò la più piccola, dopo un incubo del genere non sarebbe più riuscita a dormire. Si tirò a sedere, con il cuscino dietro la schiena e ancora coperta.
“Era molto brutto?” domandò Demetria in tono pacato, così piano che l’altra quasi non la udì.
Forse era stata incerta fino all’ultimo, chiedendosi se fosse stato o no il caso di porre quella domanda per paura di turbarla oltre.
“Molto. Il più orribile che io abbia mai fatto” rispose la piccola in tono greve.
“Nella tua vita?”
“No, in questi ultimi anni.”
“Ne vuoi parlare?”
La bimba scosse la testa.
“Ti va di fare un bagno? Ti aiuterà a rilassarti.”
Accettò con un lieve cenno del capo.
Le due si diressero nel bagno accanto alla camera della bambina e Demi cominciò a riempire la vasca, poi andò in camera della sorella a prenderle un pigiama pulito. Un lieve bussare alla porta le distrasse.
“Che succede, una di voi sta male?”
La mamma era sulla soglia e lanciava loro sguardi preoccupati, ma Demi si affrettò a spiegarle la situazione.
“Piccola, mi dispiace!” esclamò Dianna stringendola forte. “Come ti senti?”
“Meglio, mamma, grazie.” Madison sospirò e si lasciò andare fra le sue braccia, liberando qualche lacrima che aspettava solo di uscire. La abbracciava sempre forte, soprattutto da quando la donna era tornata dal ricovero, stringendola fin quasi a soffocarla, come se volesse assicurarsi che non sarebbe andata mai più via. “Ma ora non vorrei pensarci più.”
“Va bene. Vado a fare un tè.”
“Grazie, mamma, ma non ne ho voglia adesso. Forse dopo, potrebbe prepararlo Demi.”
Capiva che volesse rendersi utile ma, per quanto spaventoso, era stato solo un incubo e nessuno avrebbe potuto fare nulla per scacciarlo, ormai era passato. Si godette altre coccole della mamma fino a quando l’acqua fu pronta, poi chiese alle due di uscire. Vi si immerse lasciandosi cullare dalle piccole onde che la increspavano e che creava con i movimenti del suo corpo, poi affondò le mani nella schiuma soffice e profumata e sospirò mentre i muscoli si distendevano. Sentendo la testa pesante socchiuse gli occhi, ma dopo qualche minuto nel quale rimase immobile cominciò a lavarsi. Il bagno la rinvigorì, schiarendole la mente e tranquillizzandola. Quando si vestì e si guardò allo specchio, sorrise. Fuori dal bagno non c’era nessuno, ma udì dei rumori in cucina. Vi trovò Demi.
“La mamma?”
“L’ho convinta a tornare a letto promettendole almeno cento volte che la chiameremo se ci sarà bisogno.”
Madison sbuffò.
“Perché fa così? È stato un incubo, non sono malata.”
Demi sorrise.
“Perché è una mamma, è normale. Quando sarai più grande, il suo comportamento non ti sembrerà più così strano.”
“Se lo dici tu” rispose, poco convinta, poi si sedette al tavolo.
“Forse è meglio che ti asciughi i capelli, prima. È estate, ma tenerli per troppo tempo bagnati e avvolti in un asciugamano non ti farà bene.”
Madison la guardò.
“Potresti farlo tu, come quando ero più piccola? Ti prego!” esclamò con una voce in falsetto.
Demi ridacchiò.
“Ma certo.”
Mentre, con il phon acceso, Demi le passava le dita fra i capelli, glieli muoveva, li spostava, le diceva di piegarsi in avanti e poi di rialzarsi, Madison prendeva respiri profondi. Aveva sempre adorato che la sorella le asciugasse la testa, anche se amava ancora di più quando a farlo era la mamma. Socchiuse gli occhi godendosi quel massaggio delicato, ma all’improvviso brevi flash dell’incubo appena fatto le apparvero in mente come se stessero accadendo in quel momento. Lei che scendeva le scale e l’orrore che vedeva, e poi l’angoscia, la paura, e infine il dolore al petto che aveva sentito appena sveglia e che, ne era sicura, aveva provato anche durante l’incubo. Prese a grattarsi freneticamente una mano con le unghie dell’altra.
“Madison, che stai facendo?”
Demi spense in phon e fu solo allora che la bambina notò il suo sguardo serio e preoccupato su di lei e un piccolo segno rosso sul proprio palmo.
“Niente, non… non è quello che pensi, non sono autolesionista. Vuoi vedere? Te lo mostro, non ho problemi.”
Parlò in modo concitato, poi senza che la sorella riuscisse a risponderle le mostrò i polsi e le braccia, non coperti dato che indossava le maniche corte, e infine le gambe.
“Va bene, va bene, tranquilla. Ferma.” Demi le prese il viso tra le mani. “Ammetto che per un attimo ho avuto paura che potessi averlo fatto, ma mi fido e vedo che non hai nulla. Se però c’è qualcosa che non va, ti prego, parlamene.”
“Avrei potuto spogliarmi, se me l’avessi chiesto. Non ho neanche un graffio. Ti preoccupi troppo.”
“Forse, ma la nostra famiglia ne ha passate tante con me e la mamma e a volte non posso farne a meno” rispose sospirando.
Madison non la trovava assillante, era contenta che avesse a cuore la sua salute e sapeva che le voleva bene, ma desiderava chiudere quel discorso quanto prima. Demi soffriva molto nell’essere autolesionista e ormai aveva capito anche lei come funzionava, o almeno credeva di averlo fatto: la sorella si tagliava per scacciare le emozioni negative e stare meglio, ma dopo un po’ si sentiva peggio. Perché tante persone vivevano una tortura del genere?
“Ho ripensato a quel sogno, mi sono venute in mente alcune cose e a causa dell’ansia e della paura ho cominciato a graffiarmi, ma non è niente. Ho le unghie corte e non si vede più nulla.”
“Non sono i graffi a preoccuparmi, adesso.” Demi aveva parlato con voce grave. Si inginocchiò davanti a lei. “Il tuo sogno, invece, lo fa. Secondo me è il caso di parlarne. Potrebbe farti bene, aiutarti a sfogarti. Se hai avuto tanta paura dev’essere stato spaventoso.”
La voce di Demetria e il suo sguardo erano così dolci. Non sarebbe stato facile aprirsi, ma la tentazione era tanta. Però… come avrebbe reagito sentendo quello che aveva sognato? Ci sarebbe rimasta male, di sicuro, si sarebbe sentita uno schifo e lei non voleva farla soffrire.
“Abbastanza.” Sminuì la cosa. “Te ne parlerò quando sarò pronta, okay? Non chiedermelo più, per favore.”
La ragazza lasciò andare un lieve sospiro.
“D’accordo, scusami.”
Madison le fu grata per aver capito e la ringraziò mentalmente perché non la forzava ad aprirsi quando non se la sentiva.
Era ora di smettere di pensare a questo e concentrarsi su altro, rilassarsi un altro po’ e poi provare a dormire qualche ora in più.
 
 
 
“Posso avere un po’ di tè freddo alla pesca con i biscotti al cioccolato? Per favore!”
Il volto di Demetria si aprì in un luminoso sorriso.
“Va bene, ma facciamo piano, gli altri dormono.” Non sarebbe mai riuscita a dirle di no quando la guardava con quegli occhi dolci e le parlava con una voce da cucciolo, modificandola per sembrare più piccola. “Che ne dici di una camomilla, invece?” le propose poco dopo. “Ti calmerà.”
“Buona idea.”
Demi preparò ogni cosa. Quando l’aveva vista graffiarsi le era saltato un battito, ma per fortuna la paura era durata solo pochi secondi. Eterni, in quel momento, ma pur sempre tali. Non faceva altro che pensare a quel sogno immaginando cosa potesse aver spaventato tanto la sorellina.
Avrà sognato il periodo in cui ero in clinica? O le volte nelle quali, a causa dell’ansia o delle mie malattie, non mi comportavo in modo normale e la trattavo male?
Non aveva il coraggio di chiederglielo, ma più ci rifletteva più una lama fredda le penetrava con lentezza nel petto. Doveva prendere respiri profondi, altrimenti le sembrava di non respirare affatto, ma inspirare era sempre più difficile. Per tentare di distrarsi eseguì tutti i semplici passaggi per preparare la camomilla e, mentre aspettava, ripensò alla propria festa. Ma il pensiero di quell’incubo e dei turbamenti della sorella si era annidato nella sua mente, anche se ora era un sussurro in mezzo a tutti gli altri. Madison poteva fingere che non le importasse, ma adesso guardava nel vuoto, era pallida da quando si era svegliata e non diceva niente, e Demi non credeva stesse riflettendo su qualche evento felice.
“Forse mi sto preoccupando troppo” si disse.
A volte le capitava di esagerare, di ingigantire i problemi. Ma stavolta non era così, ci avrebbe scommesso qualunque cosa.
Mise le due tazze fumanti sul tavolo e aspettò, in silenzio come Madison, che la bevanda si raffreddasse un po’. Si avvicinò il bicchiere alle labbra, esitante. Si aspettava che la voce dell’anoressia tornasse, di sentire la malattia parlarle nella testa. La mano le tremò come a causa di uno spasmo e la camomilla rischiò di finirle fuori dal bicchiere.
“Stai bene?” le chiese Madison. “Senti le voci?”
Demetria respirava appena e notò il pallore della sorella. Doveva essere turbata all’idea che quello schifo fosse venuto a disturbarla, a far del male alla sua sorella maggiore.
“No, per ora no. Ma potrebbero tornare in qualsiasi momento.”
Mangiò un paio di biscotti godendosi il sapore deciso per cioccolato fondente che avevano dentro. Erano freschi perché, dato il periodo estivo, la mamma li teneva in frigo.
“Hai parlato di me, per caso?”
Eccola.
Se non avessi risposto a Madison, forse lei non sarebbe arrivata. È colpa mia.
“Vattene” disse Demetria fra sé, perentoria.
L’altra rise, una risata maligna che scosse la ragazza facendole contorcere lo stomaco.
“Sai benissimo anche tu che sei felice e stai meglio solo quando non mangi, o se lo fai quando rimetti. E poi, cioccolata? Ma sei scema? Sai quante calorie ha e quanto ti farà ingrassare? Non dovresti toccare nemmeno quelli senza zucchero. Anche il momento che ora stai vivendo con Madison non è vera felicità, è solo una finzione, un attimo fugace che passerà in fretta.”
“Posso mangiare quello che voglio, non mi controlli più. Sono proprio i momenti come questo, le piccole cose, a rendere un rapporto tanto speciale” rispose ancora lei.
“Davvero?” La voce allungò la e. “Chi te l’ha detto? La tua psicologa? La tua psichiatra? Sono delle stronze.”
“Anche il mio cuore.”
Era stata sincera e, pur essendo sempre stata conscia di quella verità, da quando era entrata in clinica per lottare per la sua guarigione l’aveva capito ancor più nel profondo.
“Lui è stupido. Credi che tua sorella sia felice di avere accanto una cicciona, un cesso come te? Dice di volerti bene, di aver bisogno del tuo affetto, ma in realtà dentro di sé sta ridendo, dicendo che fai schifo.”
La voce le rimbombava nella testa, a destra e a sinistra, in continuazione. Proveniva da qualsiasi parte e al contempo da nessuna.
Demi si aggrappò al bordo del tavolo. Madison la stava guardando, le chiedeva come stava e lei rispose che era tutto a posto, ma la bambina le prendeva la mano, gliela stringeva, la chiamava e lei la sentiva da così lontano, da così lontano…
“Madison, sono solo stanca e mi fa male la testa. Mi sono distratta, scusa.”
Risponderle utilizzando un tono di voce normale fu uno sforzo quasi sovrumano e, alla fine, la ragazza si appoggiò ancora meglio allo schienale della sedia, reclinando la testa da un lato e lasciando penzolare le braccia lungo i fianchi.
“Ah, meno male, mi stavi facendo spaventare” rispose la bambina, ansimando appena. “Se non mi avessi risposto, sarei andata a chiamare la mamma.”
Demi notò che i muscoli della bambina si stavano rilassando, anche il respiro era più regolare. Buon segno. Almeno non si rendeva conto del tormento interiore che la attanagliava, del dialogo con la sua testa, del fatto che anche in quel momento stava lottando. Meglio così, almeno con quella frase le aveva risparmiato un bello spavento. Una lacrima le corse giù per la guancia: quella voce stava riuscendo ad abbatterla, a indebolirla, a farle pensare che sarebbe bastato mandare Maddie a letto ora che non sapeva ancora niente, poi precipitarsi in bagno, infilarsi due dita in gola e rimettere e infine lavarsi i denti. Nessuno avrebbe mai saputo. Ma no, non voleva avere una ricaduta ora che si sentiva meglio. Sarebbe successo di nuovo, ma non in quel momento. Non doveva permettere alla malattia di prendere il controllo della sua mente.
“Corri in bagno a vomitare quello che hai mangiato, poi ti sentirai più magra, più bella, meno pesante, sarai sempre più vicina alla perfezione. Certo dovrai fare un lungo percorso, visto il peso che hai accumulato in questo periodo, ma io sono la tua unica amica e ti sto dicendo, ti sto assicurando che possiamo tornare come prima se lavoriamo insieme, così nessuno riderà più di te, ti apprezzeranno tutti e tu sarai sempre più perfetta, come desideri.”
L’unica cosa positiva era che, quel giorno, la voce diceva meno parolacce e la prendeva meno in giro per aver mangiato. Altre volte era stata molto più cattiva. Da tempo sapeva che era così, che lei non voleva il suo bene perché la malattia desiderava distruggerla, non aiutarla, ma pensare di averle dato ascolto per anni e di farlo ancora, a volte, nei giorni brutti del percorso di recupero, era orribile. Non sarebbe mai guarita del tutto. Non che qualcuno gliel’avesse detto, ma credeva che malattie del genere, per quanto possano essere superate, restano comunque dentro. Ogni tanto in futuro l’anoressia o la bulimia l’avrebbero attaccata con qualche frase o commento, ma non come ora, e lei sarebbe stata in grado di respingerle.
“Come desideravo. Ora non più. Vattene, esci dalla mia testa! Tu non sei mia amica, non fai parte di me. Tu sei una malattia e c’è differenza tra essere magri ed essere malati. Io voglio stare bene, essere sana e felice, accettare il mio corpo pur con le sue imperfezioni, occuparmi di mia sorella e della mia famiglia sentendomi psicologicamente stabile.”
Si stupì di aver pensato quelle cose, un anno prima per arrivarci ci avrebbe messo un po’, due anni addietro, invece, dato ragione a lei.
“Stai sentendo le voci, vero? Qual è, quella dell’anoressia?”
Madison allungò una mano verso di lei e gliela strinse e Demi annuì.
“Come fai a saperlo?”
“Hai detto quelle cose ad alta voce.”
Oh, Dio, quindi non le aveva solo pensate. Eppure le era parso di farlo.
“Scusami, Madison, non voleco mentirti. Poco fa ero stanca, sì, ma perché lei mi sta tormentando. Non desideravo spaventarti, tutto qua.”
“Non fa niente.” La dolcezza con cui Madison replicò, con quella voce angelica, commosse Demi nel profondo. La bambina le accarezzò la mano, poi si fece più decisa. “Mandala via, Demi, non ascoltarla. So che è difficile, lo immagino, ma puoi farlo, sei più forte dei tuoi problemi.”
La ragazza sorrise fra le lacrime, solo allora si rese conto che anche Madison stava piangendo.
“Mi hai chiamata più volte, vero? Ti ho spaventata, è colpa…”
“N-non parliamo di colpe, basta. L’importante è che mi ascolti.”
Dovrei essere io a occuparmi di lei, invece sta accadendo il contrario. Non è giusto, non è normale.
Ma cosa lo era stato, nella propria esistenza? Forse alcuni momenti, certi giorni, ma la sua vita in generale no di certo. Si scusò con Madison, ma questa le disse che non c’era nessun problema. Demi, però, vide che tratteneva le lacrime. Alla fine lo ammise.
“Sì, mi sono spaventata a morte. Non mi rispondevi quasi più, fissavi il vuoto, sembravi in trance e non sapevo cosa fare! Quando mi hai detto che eri stanca… beh, non ti ho creduto del tutto.”
Si era sentita impotente, le raccontò, un po’ come nell’incubo, anche se lì era stato peggio. Le due sorelle si abbracciarono, con Madison che tremava come una foglia fra le braccia di Demi, il cuore in tumulto, che batteva tanto che anche la maggiore lo percepiva, e alcune lacrime solitarie che bagnavano i vestiti dell’altra.
Intanto, la voce continuava a parlarle e Demi si stava sforzando per udire la sorella e non lei. Strinse la lingua fra i denti, attenta a non farsi troppo male, la guardava fisso negli occhi, cercava di concentrarsi su qualsiasi dettaglio che la tenesse incollata al presente: le sue mani sul tavolo, il ticchettio dell’orologio, un uccellino che cinguettava fuori dalla finestra.
A volte era una sola voce, come in quel caso, altre di più ma tutte uguali, come se la stessa persona si dividesse in varie ragazze. Se la figurava più o meno della sua età, magra e slanciata, molto bella e, nonostante avesse soltanto vent’anni o pressappoco, manipolatrice. Strano che una persona così giovane lo fosse, ma lei l’aveva pensata a quel modo fin dalla prima volta. Temeva sempre potesse tornare, anche nei giorni buoni che, per fortuna, erano un po’ più frequenti di prima. Aveva spiegato a Madison di cosa si trattava, in passato. Chissà come si figurava le voci. Forse come ancora più orribili di quel che udiva lei. Una volta gliel’aveva detto, in realtà. Immaginava fossero dei mostri, demoni bruttissimi, tutti neri, con i denti affilati e il tono tagliente. Demi era rimasta colpita da quella descrizione e l’aveva rassicurata sul fatto che erano terribili, ma non così tanto. Madison, però, che allora aveva quasi dieci anni – ne avevano parlato dopo qualche settimana da quando lei era entrata alla Timberline Knolls –, aveva sicuramente trasportato la paura di perdere la sorella e delle sue malattie, dell’autolesionismo e dell’ansia che la ragazza provava, in quelle voci, per rendere il tutto più reale.
“Demi, dopo faremo tante cose insieme” riprese Madison asciugandosi gli occhi. “Usciremo per una passeggiata, guarderemo un film, giocheremo a carte e suoneremo un po’, o tutto quello che vorrai. Vedrai, sarà una bella giornata. Certo, stamattina dovrai lavorare, ma poi tornerai a casa.”
“Continua a parlarmi.” La voce si stava indebolendo, era più triste, le diceva di dar retta a lei e non a quella mocciosa, ma Demi cercava di non badarla. “Vai avanti, Maddie, sta funzionando.”
“Uhm… che posso raccontarti? Una mia amica mi ha detto che ora a casa ha sei criceti. Sei, ti immagini? Ognuno nella sua gabbietta, ha un lungo mobile sopra il quale ci sono solo le gabbie, tipo sei appartamenti.” Ridacchiò. “La sera vanno tutti sulla ruota e fanno sicuramente casino. Non vedo l’ora di andare da lei per conoscerli e accarezzarli. Uno so già chi è, si chiama Speedy, è bianco e ha il pelo morbidissimo.”
Sempre più flebile, quella voce terribile, ora quasi un sussurro che si perdeva fra le parole di Maddie. Perfino la sua figura, che Demi vedeva ogni tanto, stava sparendo come avvolta da una nebbia, ora era solo una forma indistinta. Non ne riconosceva più nemmeno le parole.
Trasse un respiro così profondo che Madison smise di parlare e aumentò la stretta.
“Tranquilla, piccola, è tutto a posto. C'è… c'è silenzio, è sparita."
"Se n'è andata? Per sempre?"
"Non credo, ma per il momento sì ed è stato anche grazie a te."
La bambina sospirò e sorrise e Demi ricambiò, ma le uscì più una smorfia che altro.
L'aveva fatta sparire, ci era riuscita davvero. Ma allora perché adesso percepiva un vuoto dentro di sé? Una parte di lei seguitava a ripeterle che aveva fallito, che avrebbe dovuto darle ascolto, che aveva ingerito troppo cibo, che doveva essere perfetta, senza nemmeno un grammo di cellulite o di grasso. A cos’erano serviti i biscotti? E la camomilla? L'aveva fatta ingrassare, poco ma sicuro e ai biscotti preferiva non pensare per non schiaffeggiarsi. Il cuore prese a batterle all'impazzata, mentre le mani si mossero da sole aprendosi e chiudendosi a gran velocità. Si alzò e prese a camminare per la stanza non riuscendo a stare ferma nemmeno un secondo. Stava andando in iperventilazione, respirava ma Dio, lì dentro non c'era aria, sarebbe morta nel giro di poco, lo sapeva, e il peggio era che Madison avrebbe visto ogni cosa. Non solo, ma aveva terrorizzato sua sorella, sì, proprio lei che invece avrebbe dovuto proteggere. Non era la prima volta che accadeva, i suoi problemi erano più forti della propria volontà, ma non se lo sarebbe mai perdonato. Avrebbe dovuto tenerli a bada, essere più forte, migliore. Si portò le mani al petto per cercare di scacciare il dolore continuo che lo dilaniava, per lanciare via il metaforico peso che sembrava volerlo spaccare in mille pezzi.
"Maddie… attacco di panico" ebbe la forza di sussurrare, per farle capire cosa stava accadendo.
La bambina scattò in piedi.
Demi non capì se fosse preoccupata o meno, aveva gli occhi chiusi e non riusciva a vederla in viso, ma immaginava di sì. Come avrebbe potuto essere altrimenti?
 
 
 
Maddie aveva visto altri attacchi di panico come quello, sapeva come aiutarla. Ma non era facile. Demi ansimava e restare lì a tenerle la mano e a guardarsi occhi negli occhi non le pareva il massimo. Fece ricadere le braccia lungo il corpo e abbassò la testa verso il pavimento.
"Demi, c'è aria, stai respirando" iniziò a mormorare e glielo ripeté più volte perché quelle frasi le entrassero in testa.
“No, non è vero” rispondeva la ragazza.
Dio, per qualche secondo anche alla bambina venne spontaneo iperventilare. Come si poteva non agitarsi davanti ad una situazione del genere? Farlo le provocò una stilettata al petto, qualcuno ci stava piantando dentro un coltello lacerando carne e ossa. Era questo che Demi provava, anche se in maniera più amplificata? Perché orribile non lo descriveva minimamente. La prima volta che aveva visto la sorella con un attacco di panico era scoppiata a piangere a singhiozzo. Dallas l'aveva portata via di peso e distesa a letto, mentre Madison non aveva fatto altro che respirare con affanno per minuti interi. Dopodiché aveva chiesto informazioni ai genitori e letto qualcosa su internet.
"Respira come il mare, come le onde. Avanti e indietro, avanti e indietro."
Tempo prima aveva avuto una crisi simile in una notte terribile in cui si era anche tagliata, e aveva raccontato a Maddie, la bambina lo rammentava perfettamente, che Andrew le aveva detto questo per calmarla. Riprese a parlarle del mare, della sabbia, dei gabbiani, dei vari rumori che si udivano, perfino di quello del vento, ma non funzionò.
"Demi, devi lasciarlo vincere per un attimo."
"No!" La ragazza inspirò con tanta difficoltà che Madison si gelò sul posto. "No, non può vincere lui."
"Solo per un momento, così inizierà a passare. Davvero, l'ho letto in un articolo."
Maddie si sforzò di controllare il proprio respiro. Stava accelerando e anche lei iniziava a sentire che non c’era aria.
Non è vero, è solo che vedi lei stare male e ti agiti per questo. Non stai avendo un attacco di panico, Maddie, è diverso.
Lo pensò e ripensò facendo respiri profondi, inspirando dal naso ed espirando dalla bocca, poi contò più volte fino a dieci. La preoccupazione non passò del tutto, non avrebbe potuto, ma nel giro di qualche minuto andò meglio e si sentì più in grado di aiutare la sorella. Ma la verità era che non sapeva più che fare. Le aveva provate tutte, l'unica sarebbe stata darle le medicine. Prendeva un farmaco da quando era entrata in clinica, tre pastiglie al giorno, quattro se stava molto male, distribuite fra mattina, pomeriggio e sera. Il dosaggio era basso. Madison sapeva dove trovarle e le chiese se ne volesse una. L’altra negò, forse preferiva vedere se fosse riuscita a calmarsi senza farmaci, almeno in quel momento. Ciò che aveva passato con la sua famiglia aveva reso Madison più matura e pronta ad affrontare situazioni del genere, anche se non aveva ancora undici anni. Non era da molto che riusciva a farlo con relativa calma, ma nel tempo aveva imparato che era la cosa migliore, l'unica da fare. Non serviva dire alla persona con l'attacco d'ansia o di panico di calmarsi, né di respirare, bisognava accogliere il suo problema e cercare di affrontarlo insieme.
La sorella maggiore aprì le braccia, poi iniziò a farsi aria con le mani quasi che stesse soffocando. Madison prese un ventaglio e gliene fece a sua volta. La mamma lo usava quando aveva caldo e sperò che funzionasse anche in quel caso. Dopo qualche tempo, Demi respirava con meno difficoltà ma era ancora sudata, pallida e debole.
"Sto… sto m-"
Non finì quella parola, forse si era accorta troppo tardi di averla iniziata, ma Madison aveva capito cosa intendeva già quando aveva cominciato la frase.
"No, te lo assicuro. Se farai come ti dico andrà tutto molto meglio."
Demi si accasciò sul tavolo come se volesse piangere, poi si sollevò e guardò la sorella come a chiederle se era convinta di quanto stava dicendo.
"Sicurissima."


 
 
La ragazza le chiese di aprire la finestra e, quando Madison lo fece, il vento fresco la aiutò a respirare meglio. Si abbandonò contro lo schienale della sedia e lasciò andare. Mollò, smise di combattere per un momento. Ciò che la sorella aveva detto non era sbagliato. Anche lei nel tempo aveva capito che, a volte, nonostante tutte le tecniche di respirazione, l’unico modo per liberarsi di un attacco di panico è arrendersi alla sua forza di gran lunga superiore a quella di chi ne soffriva, capire che è lui il più potente, quello che riesce a distruggere qualcuno.
“Devo solo lasciare che passi” sussurrò. “Non scacciarlo e dargli la possibilità di liberarsi del tutto per poi andare via.”
Non aveva mai accettato appieno questi suoi momenti di arrendevolezza. In clinica non gliene avevano mai parlato, perfino la psichiatra e la psicologa che la seguivano non concordavano con lei su quel modo in cui, a volte, aveva di affrontare gli attacchi di panico o, ancora peggio, quelli d’ansia. Ma non doveva conformarsi al pensiero di nessuno, nemmeno degli esperti. Ognuno trova la sua maniera di sentirsi meglio durante episodi del genere e lei utilizzava quella tecnica solo in casi estremi, nei quali né il pensare alle onde del mare e respirare come quel movimento lento, né aprire e chiudere le mani a pugno piano per far circolare di più il sangue – entrambe tecniche che le aveva insegnato il suo migliore amico Andrew  funzionavano. In uno dei suoi periodi peggiori aveva creduto che anche un bicchiere di succo l’avrebbe fatta ingrassare, e vomitato anche cinque volte al giorno, tanto che nel water aveva sputato sangue. Ora, però, non era più così, e prima aveva fatto la cosa giusta, si disse ora che era più lucida. Sì, perché lei voleva guarire, stava lottando dalla fine del 2010 per questo e aveva capito che il cibo non era suo nemico, ma lei di se stessa. Per questo andava in terapia, per affrontare tutto ciò, i problemi con il cibo, le ricadute, ma anche per parlare del proprio passato e dei giorni buoni. La voce l’aveva tentata e lei avuto la forza di scacciarla senza ascoltarla. Non aveva sbagliato, aveva mangiato e bevuto per fare compagnia alla sorella e perché, cazzo, ne aveva voglia. Da tempo nella sua dieta, all’inizio nutriente ma più leggera per riabituare lo stomaco al cibo, erano stati inseriti di nuovo alimenti più pesanti come il cioccolato e, santo cielo, la prima volta che li aveva riassaggiati se li era gustati come non aveva fatto da anni e poi aveva pianto. Cercava di bilanciarli, di non esagerare o le venivano i crampi, anche se a volte si domandava se fossero reali o si trattasse dei suoi disturbi. I medici dicevano che era difficile dirlo, il suo stomaco non aveva nulla che non andasse  - aveva fatto degli esami per sicurezza – perciò poteva trattarsi di un fattore psicologico e anche di questo stava parlando con la psicologa e la psichiatra. Aveva il diritto di mangiare ciò che voleva quando lo desiderava, quella voce non doveva influenzarla.
Fosse facile…
Forse il giorno dopo, o quella stessa sera, avrebbe avuto una ricaduta, ma per il momento la vedeva così, si era ripresa, e l’attacco di panico avuto per quel suo errore che poi non lo era e per l’ossessione per il cibo, la magrezza, la perfezione date dall’anoressia e da tutto ciò da cui era causata, per ora non avevano più importanza. Aveva fatto la cosa migliore per la sua salute, contava solo questo.
“Stai meglio?” le chiese Madison.
“Sì, ti ringrazio.”
Il respiro si era calmato anche grazie a quei pensieri, la mente era di nuovo lucidissima e sorrise.
“Posso fare qualcos’altro?”
Demi le chiese dell’acqua, la ringraziò e bevve a piccoli sorsi, poi le due sorelle rimasero a guardarsi senza fiatare. Madison non sapeva cosa dire e forse aveva capito che era il caso di restare in silenzio, Demi non aveva ancora le energie per parlare. Un attacco di panico, lo sapeva, svuota di qualunque forza.
Lei stava vivendo un periodo difficile, fatto di alti e bassi, ma anche per la mamma non era facile. Aveva sofferto di anoressia fin dall’adolescenza, nascondendo tutto in modo che nessuno sospettasse nulla. Ma, crescendo, le figlie si erano rese conto che il suo era un serio problema e anche Eddie l’’aveva notato. Spesso Dianna non era più la stessa, restava a letto molte ore al giorno, cercava di mostrarsi forte ma appariva fragile. E Demi l’aveva capito ancora meglio dopo il suo ricovero. Un giorno di aprile dell’anno precedente, era tornata a casa con Eddie, Dallas e Lisa, un’amica della mamma. L’avevano trovata a letto, con una valigia già pronta vicino ad esso. Demi l’aveva svegliata a fatica e convinta a farsi aiutare, ad entrare in una clinica come aveva fatto lei.
“Non posso farlo” si era lamentata la donna, poi aveva guardato la valigia come inorridita.
E così era scoppiata. Aveva parlato di tutto. Raccontato l’anoressia, la depressione post partum che aveva vissuto con Demi e Madison, parlato dei farmaci che aveva preso nel secondo caso e poi smesso di assumere senza che fosse il medico a dirglielo, detto loro della depressione di cui aveva sofferto dopo, del deficit d’attenzione, della dipendenza dallo Xanax che andava avanti da alcuni anni. Aveva spiegato che, negli ultimi mesi, la mattina indossava anche dodici vestiti prima di trovarne uno che la facesse sentire magra, non pesante, anche se quando si guardava allo specchio si vedeva grassa pur pesando poco meno di trentotto chili. Aveva aggiunto che quella mattina i pensieri suicidi, come altre volte, erano venuti a tormentarla, tentatori, e parlato di tutto il dolore che aveva vissuto, soprattutto in quell’ultimo periodo, a causa di tutto ciò, ammettendo poi che pur di proteggere le sue figlie, ma soprattutto Madison, da sua madre, aveva pensato di andarsene. Ma dalla sua espressione era stato chiaro a tutti che solo allora aveva realizzato cosa stava per fare e che il pensiero l’aveva sconvolta. Amava le sue figlie, era stata forte per loro, e se aveva deciso di andarsene era accaduto solo per disperazione ma, in realtà, forse non si era nemmeno resa conto di ciò che intendeva fare fino a quando non ne aveva parlato, o almeno Demi la vedeva così. Non avevano detto nulla alla bambina riguardo il pensiero di Dianna di abbandonarla per non traumatizzarla. Anche lei era entrata alla Timberline Knolls e Maddie ci aveva sofferto tantissimo. Ne aveva viste troppe.
Ora la mamma stava meglio, ma anche per lei il percorso risultava lungo e difficile.
“Pensi a mamma?”
Demi si riscosse.
“Sono stata molto in silenzio?”
Le pareva di aver pensato a così tante cose da essere restata lì per ore intere.
“Qualche minuto.”
Meno male!
Per un attimo aveva temuto di aver spaventato Madison un’altra volta. E quella sera l’aveva già fatto abbastanza. La ammirava per il suo coraggio.
“Sì, penso a lei. Come l’hai capito?” chiese in tono grave.
“Guardavi lei nella foto con tutti noi, quella appesa in salotto. Sta ancora male, vero? Come te.”
“Stiamo migliorando tutte e due pian piano, ma ci vorrà ancora tempo per tornare a sentirci bene. L’importante, come nelle altre situazioni della vita, è fare un piccolo passo alla volta ogni giorno e trovare sempre la forza di rialzarsi quando si cade. Capisci?”
Sperò di non aver appena detto una frase troppo difficile per una bambina di dieci anni, ma questa annuì.
“Credo di sì. E rialzarsi è davvero così difficile? Insomma, a volte la mamma fa fatica a mangiare e anche tu, oppure hai una crisi.”
Capitava che vomitasse quanto mangiato, si abbuffasse – tutto di solito di nascosto, anche se i genitori e le sorelle avevano imparato a carpire certi segnali e cercavano di aiutarla affinché non avvenisse – o che si tagliasse ancora. Il fatto che fosse uscita dalla Timberline Knolls non significava che non avesse ricadute. Non si faceva male da due settimane, era vero, e si trattava di un grande passo per lei, ma i pensieri autolesionisti la tormentavano ogni giorno. Quella voce maledetta le diceva di farsi del male, che era la cosa giusta per stare meglio. Lei la respingeva fino a rimanere senza energie, ma le risultava ogni giorno più difficile. Senza dimenticare l’ansia che la attanagliava anche in momenti nei quali avrebbe dovuto sentirsi tranquilla.
“Sì, non è facile e a volte non basta la forza di volontà, anche se è importante.”
“E cos’altro serve, allora?”
“L’affetto della famiglia e degli amici. Io sono fortunata, ne ho tantissimo” disse, poi sorrise.
Madison ricambiò quel gesto, ma subito si incupì.
“Quando sei entrata in clinica, io ero disperata. Ho pianto per giorni, di notte quasi non dormivo e mentre studiavo non riuscivo a concentrarmi. E quando la mamma mi ha detto che sarebbe andata anche lei in quel posto e mi ha spiegato come stava ho pensato:
Ecco, è finita, non staremo mai bene.
So che avete fatto…”
La sua voce si incrinò a causa del dolore, rischiò di spezzarsi come quando si dà un pugno troppo forte ad un vetro e questo si crepa. La vita aveva fatto ciò con tutti loro: li aveva piegati, lasciando crepe e ferite che si stavano ancora rimarginando e forse non l’avrebbero fatto mai.
“Cosa? Continua, tesoro, ti ascolto.”
La bambina prese un sospiro tremante.
“So che avete fatto tutto il possibile per starmi accanto in quel periodo tu, Dallas, papà e Lisa e vi ringrazio. Ci siamo aiutati. Ma nessuno di voi è come la mamma. Tu e Dallas usavate il nostro shampoo, quello alle ortiche e vi mettevate il suo profumo.”
“Non cercavamo di sostituirla, Maddie!” si affrettò a spiegarle Demi. “Volevamo solo darti una parvenza di normalità, farti capire che prima o poi tutto sarebbe tornato come prima, o almeno sperarci.”
La bambina si portò le mani al volto.
“Sì” mormorò. “Ma c’era comunque differenza.”
“Già. Madison, so che questo non ti farà sentire meglio, ma mi dispiace per quello che ti abbiamo fatto passare.”
“Non importa. Mamma dice sempre che chi sta male non ha colpe.”
Demi sorrise amaramente: quella bambina era cresciuta molto in fretta, troppo visti i problemi familiari ai quali aveva assistito.
“Demetria, ti ho fatto una domanda.”
La voce di Madison raggiunse le sue orecchie un po’ in ritardo.
“Scusami, tesoro, ero distratta.”
Dio, ti prego, fa’ che non me ne chieda il motivo.
“Ti ho chiesto perché guardavi nel vuoto come facevi la prima volta che siamo venuti a trovarti in clinica.”
Tutti le avevano detto che stava benissimo, ma lei non si era sentita affatto così. Aveva parlato poco e fissato un punto indefinito dello spazio, detto solo qualche parola anche al suo migliore amico Andrew e nient’altro.
“Pensavo ancora alla mamma e a tutta la situazione. L’unico momento bello di quel giorno sai qual è stato?”
“No, quale?”
“Quello in cui ci siamo sedute vicine, Madison, e le nostre teste si sono toccate.”
L’altra sorrise.
“Non abbiamo detto nulla, ma non era importante.”
“Già. A volte il silenzio può fare molto di più, ed io sapevo che eri lì per dirmi “Non capisco quello che stai passando, ma ti voglio bene.” Sei stata molto forte, Maddie, nonostante la tua età.”
“La mamma ha detto che stavi male e io volevo esserci. Ricordi quando ti ho portato quel quaderno pieno di frasi di incoraggiamento dei tuoi fan che avevo trovato su Twitter?”
“Come potrei dimenticarlo? Ce l’ho sopra il comodino, sempre vicino a me quando sono in camera, perché oltreché dei miei fan mi fa anche ricordare di te, di quel bel gesto.”
“Sono stata sveglia tutta la notte per scriverle.”
“Me l’avevi detto. Grazie ancora, Maddie.”
“Demi, stai mangiando!” esclamò la bambina battendo le mani.
Aveva parlato ed era già al quarto biscotto.
La ragazza sorrise.
“Non me ne sono quasi accorta. E non sento più la voce da qualche minuto.”
 
 
 
Le due sorelle mangiarono ancora un po’, poi Madison propose di uscire a guardare l’alba, anche se mancava un po’ di tempo, almeno secondo Google che Demetria controllò sul cellulare.
“Come sei poetica!” esclamò poi. “Perché?”
“Beh, non lo facciamo certo tutti i giorni. Ora che possiamo, non dovremmo perderci questo spettacolo.”
Finirono di bere la camomilla, il cui calore e il sapore delicato stavano già trasmettendo loro un senso di calma.
“Va bene. Alba sia.”
In giardino vennero accolte dal buio. Alzarono gli occhi al cielo, ma non videro nulla. La notte era quasi del tutto silenziosa, solo il canto delicato dei grilli riempiva l’aria.
“Demi?”
“Sì?”
Madison le prese la mano e le loro dita si intrecciarono con delicatezza.
“Vorrei parlare dell’incubo. Credo di essere pronta.”
“Per me va bene, ma solo se te la senti.”
La bambina inspirò ed espirò.
“È stato davvero bruttissimo. Non so neanche come descriverti quanto. Non avevo mai sognato niente del genere prima.”
Demi avrebbe voluto dirle che la stava spaventando, ma ingoiò il groppo che le serrava la gola, anche se fece male, e continuò ad ascoltarla. Madison aveva bisogno di dirlo a lei perché si fidava, e non desiderava frenarla. La mano della piccola le stritolò la sua, ma nonostante il dolore fisico Demetria non mosse un muscolo né disse niente.
Madison trasse un profondo respiro, giunse le mani e poi le intrecciò, cercando di fermarne il tremore continuo.
“Era notte, mi trovavo nel mio letto e dormivo, ma ad un certo punto un rumore di passi mi ha svegliata. Si sentivano appena, ma li ho riconosciuti. Eri tu, Demi, e stavi scendendo le scale in velocità. Ho aspettato un po’, poi non ho sentito più nulla, non tornavi più su. Pensando ti possi sentita male, sono andata in camera tua a controllare se, per caso, fossi salita, ma come immaginavo non c’eri.”
“Così sei andata al piano di sotto.”
“Esatto. Tutto era silenzioso e non ho nemmeno acceso la luce, cercando prima la porta della stanza e poi il corrimano delle scale a tentoni. Ho anche rischiato di scivolare. Avevo paura di svegliare qualcuno, ma volevo fare in fretta.”
“Lo capisco. Mi è successa la stessa cosa, prima, con te.”
“Quando sono arrivata in salotto, ho sentito dei lamenti provenire dal bagno. Erano sussurrati, ma non lo sembravano visto il silenzio.”
La bimba strinse così forte la mano della sorella da stritolargliela, le si gettò addosso, la abbracciò, poi la lasciò andare, le prese piano il polso e tornò alla posizione iniziale.
“Madison, che cosa…”
Era impallidita e sudava, se ne rendevano conto entrambe, e si appoggiò alla sorella maggiore come se non avesse più forze. Fissava il vuoto.
“Madison? Maddie? Guardami.” Demi alzò il tono e le prese il viso tra le mani. “Puoi dirmelo un’altra volta.”
“N-no, voglio farlo ora, o ne avrò sempre paura.”
La sua voce si affievolì mano a mano che pronunciava quella frase, pareva dovesse spegnersi da un momento all’altro. Demi quasi non respirava, stringeva i denti fino a farsi male e restava immobile. Ma era quella la cosa giusta da fare? No, decise, e dopo averla fatta sedere a terra andò a prenderle un bicchiere d’acqua e un biscotto, poi le scaldò le mani. Madison si accorse appena di quanto stava accadendo, persa com’era nei ricordi di un incubo che ancora la tormentava.
“Non è reale” continuava a ripetersi, ma più lo faceva, meno una parte del suo cervello ci credeva.
Eppure, nulla di quanto aveva sognato era accaduto davvero. Sentiva ancora ogni suono, perfino quello del silenzio, provava ciascuna emozione. Sorrise appena quando la sorella le porse ogni cosa. Già dopo aver bevuto, Madison iniziò a riprendere di nuovo colore.
“Grazie, ora va meglio.” Si rialzò, ma non le riprese la mano. Rimase accanto a Demi senza più muoversi. “Ce la faccio.”
Cominciò a raccontare per filo e per segno, non tralasciando nemmeno il minimo dettaglio per immergersi in quel sogno assieme alla sorella come se lo stessero vivendo insieme.
Dopo aver udito quel rumore, si era diretta verso il bagno, da dove proveniva. Nel passare accanto alla cucina, aveva annusato il buon odore delle polpette cucinate quella sera. Anche se mamma e papà avevano aperto le finestre, ne era restato ancora un lieve sentore.
“Ho bussato una prima volta, ma non ho chiamato nessuno” continuò. “E non ho sentito nulla, neanche un lamento.”
Era rimasta con l’orecchio sulla porta per alcuni secondi, che però le erano parsi una tremenda eternità.
“Demi?” aveva chiamato in un sussurro, poi l’aveva ripetuto più forte, bussando ancora.
“Ed io non rispondevo?”
“No, no, non sentivo nulla, neanche un respiro, niente di niente.”
Quel silenzio le aveva fatto accapponare la pelle. Era rimasta immobile, come congelata nello spazio e nel tempo, per quanto? Secondi? Minuti? Ore? Non l’avrebbe mai saputo. Ad un certo punto, però, era stato il suo orecchio appoggiato alla porta, la sensazione della pelle su  legno freddo, a far scattare qualcosa nella sua testa.
“Mi sono detta che dovevo salvarti, o aiutarti,” continuò Madison, “perché sapevo che era successo qualcosa di molto brutto, e smettere di avere paura.”
O almeno, metterla da parte per concentrarsi sulla sorella, per chiamare qualcuno se fosse stato necessario. Si era ricordata che conosceva il numero dell’ambulanza, 9-1-1, e prima avrebbe dovuto avvertire mamma, papà e Dallas. Aveva sperato che la porta del bagno non fosse stata chiusa a chiave, cosa che aveva temuto dato che, con tutta probabilità, la sorella aveva avuto un attacco d’ansia o di panico e preferito stare da sola o, ancora peggio, vomitato la cena a causa dell’anoressia, mangiato fino ad abbuffarsi e poi vomitato per la bulimia se invece era in quella fase – la bambina aveva capito che le malattie si alternavano –, o si era tagliata. Tutti problemi che partivano dalla mente, le avevano detto, da dolori profondi legati al passato della sorella, a ciò che Patrick aveva fatto alla mamma, alle difficoltà della madre stessa, non solo al resto. Le era già capitato di vedere che Demetria lanciava piatti pieni di cibo e poi correva via, o di incoraggiarla durante i pasti come faceva il resto della famiglia, o di fare lo stesso con la mamma, perché le era stato spiegato che chi soffre di disturbi alimentari ha bisogno di supporto, di incoraggiamento e di un ambiente sereno e tranquillo, nel quale magari parlare di cibo il meno possibile, almeno nelle fasi iniziali della guarigione. Con il fiatone, pur non avendo corso, aveva appoggiato la mano sulla maniglia.
“Tranquilla, Demi, sto entrando” aveva sussurrato, anche perché non sarebbe riuscita a dirlo più forte vista l’estrema velocità dei battiti del suo cuore.
Porta chiusa.
La maniglia si era abbassata appena.
Dentro non aveva visto nessuna luce accesa, come se non ci fosse stato alcun segno di speranza.
“Mammaaa!” aveva gridato, con tutto il fiato che aveva in corpo.
La voce le era uscita tanto potente che l’aveva riconosciuta a stento.
Aveva sperato che Demi rispondesse, ma non era stato così.
“Cioè, fammi capire,” intervenne la sorella riportandole al presente, “tu mi stai raccontando questo sogno con ogni emozione che hai provato?”
“Le principali, quelle che mi ricordo, anche se alcune sono confuse. Per esempio, non so se il cuore mi battesse tanto forte, o se ho davvero sperato che tu rispondessi, o se ho pensato alle tue malattie. Sto aggiungendo qualche dettaglio per coinvolgerti di più” ridacchiò.
Sapevano entrambe che i sogni, di solito, non si ricordano in modo tanto preciso, anche se può accadere e Demi era piuttosto impressionata.
“Continua.”
“Sono arrivati tutti e tre, e quando hanno capito cosa stava accadendo papà ha detto che non aveva una seconda chiave, così ha provato con una carta di credito. Poi non ricordo, ho come un velo nero che oscura quanto è successo dopo, ma so che alla fine la porta si è aperta con un clic. Ho sospirato e mi sembra di averlo fatto anche nella realtà.”
“E cos’avete visto?”
Madison le avvolse un braccio attorno ai fianchi e la strinse.
“Piccola, qualsiasi cosa sia, puoi dirmela” mormorò Demi con dolcezza.
“È che è… è davvero…” farfugliò, trattenendo a fatica le lacrime. “La mamma era davanti” riprese, con voce flebile. “Mi ha urlato di non entrare, di non guardare, era nel panico.”
Ma Madison non si era arresa, non aveva ascoltato i genitori e la sorella che le dicevano che una bambina non può vedere certe cose, che l’avrebbero distrutta.
“Non mi interessa! È mia sorella e voglio vederla, lo pretendo!” aveva urlato, stringendo i pugni fino a farsi male.
Avrebbe voluto schiaffeggiarli affinché la lasciassero passare, ma si era trattenuta. Non aveva mai desiderato far del male alla propria famiglia né a nessun altro e non aveva provato piacere nel pensarlo, in quel momento, ma solo schifo verso sé stessa. Com’era arrivata a figurarsi nella mente cose del genere? Ma non si era data il tempo di rifletterci. Aveva spinto il papà per spostarlo da una parte, ma lui non si era mosso e nemmeno la mamma; provato prima con un braccio a persona, poi con entrambe, tuttavia nemmeno Dallas si era spostata. Tutti e tre stavano singhiozzando, i loro corpi erano scossi da violenti sussulti.
“Spostatevi, cazzo! Ve lo devo dire così? Devo usare le parolacce?” aveva sbottato Madison.
Non era riuscita a capire se la mamma l’avesse udita o meno, ma si era precipitata verso la figlia per poi inginocchiarsi accanto a lei.
“Demi! Oh, Demi, tesoro, ti prego! Ti prego, respira. Coraggio, piccola!”
Le aveva sollevato la testa appoggiata sul pavimento freddo, a differenza del corpo che era sopra dei tappeti, poi aveva urlato. La bambina non avrebbe mai dimenticato quel grido, intriso di un dolore tanto profondo e grande che avrebbe potuto avvolgere l’intero universo nel suo buio. E allora Madison aveva capito perché avessero voluto proteggerla nonostante lei dicesse spesso di sentirsi grande, perché avessero desiderato tenerla lontana da lì, mandarla via.
“Madison, non… vai via! Vattene!” aveva esclamato Eddie guardandola come se solo allora si fosse reso conto che era ancora lì.
Ma era troppo tardi.
“Nel mio sogno eri sdraiata e nella stanza c’era un odore nauseabondo. E rosso, rosso dappertutto!” urlò la bambina battendosi le mani sul viso fino a lasciare due chiazze rosse sulle guance.
Lo raccontava, ma non si sentiva più connessa al presente ormai da tempo. Lei era tornata in quell’incubo, o forse il momento in cui si era svegliata era stata solo una parentesi e in realtà ci era sempre rimasta dentro.
“Madison, che cos’hai visto?”
Demi non era più convinta che ritardare il momento di parlarne fosse una buona idea, forse era ora che la bambina buttasse tutto fuori. La ragazza aveva capito, visto ciò che la piccola aveva detto sulla mamma, ma voleva sentirlo dire dalla sorella, perché solo parlando si riescono ad affrontare anche i problemi e i dolori.
Madison attese qualche secondo.
“Eri morta.”
Aveva abbassato il tono nel dirlo, le era uscito un sussurro rauco, la voce frantumata in mille schegge di dolore.
Demi deglutì rumorosamente cercando di sciogliere il groppo che le serrava la gola, ma senza successo. Tossì varie volte, poi ringraziò il cielo di trovarsi all’aperto e di poter respirare l’aria fresca. Immaginarlo era una cosa, udirlo un’altra.
“Ero… Hai detto che ero morta? Ho sentito bene?”
Forse aveva capito male, o almeno lo sperava, non poteva essere. Magari la mamma aveva urlato perché aveva visto che si era tagliata in profondità, ma era ancora viva. La sorella le aveva detto di averla sognata tante volte mentre aveva una delle sue crisi, ma i suoi incubi non si erano mai spinti oltre questo, o il periodo in clinica suo e della mamma, o le difficoltà degli anni precedenti.
Madison annuì, non ebbe la forza né fisica, né psicologica di comportarsi in altro modo.
“Ti eri suicidata” mormorò. “Suicidata. Tagliandoti con un coltello affilatissimo che poi ho visto lì vicino.”
La gola le bruciava come fuoco vivo, lì dentro c’era un inferno, lo stesso che l’avrebbe inghiottita se Demi sarebbe morta davvero. Anzi, quello sarebbe stato peggio. Appoggiò la testa su una mano e poi continuò. L’aveva vista distesa a terra, con la mamma vicino che la scuoteva, che le sentiva il polso.
“Coraggio tesoro, su, respira. Ti prego, respira!” aveva urlato a squarciagola, mentre il papà era andato a chiamare il 9-1-1.
“I vestiti della mamma, le sue mani, erano pieni di sangue, e anche le tue, i tuoi abiti, il tuo viso, tutto!”
Demi spalancò la bocca. Altre volte si era trovata in una situazione simile, ma mai fino a quel punto. Spesso si era tagliata in doccia, per poi lavare i tagli, che avevano bruciato da morire, e il sangue sul pavimento e sistemare il tutto senza che nessuno notasse nulla. Madison, invece, fece un verso strozzato e la sua faccia si contorse in una smorfia di dolore. Le si formarono profonde rughe sulla fronte e le doleva ogni muscolo del corpo. Riprese a raccontare il sogno con voce appena udibile.
“Mamma, spostati” l’aveva pregata Dallas, con quanta più dolcezza possibile e le lacrime agli occhi.
“No! È la mia bambina, non la lascio. Non la lascio, capito?” aveva ribattuto, mentre le sue lacrime, copiose, si erano mischiate al sangue sul tappeto e sul corpo della figlia.
“Devo iniziare le compressioni. So come si fa un massaggio cardiaco, potrei riuscire a rianimarla.”
E la ragazza ci aveva provato. Aveva fatto di tutto, premendo sul suo petto e contando fino a dieci per poi riprendere, senza pause. Madison aveva visto sangue dappertutto. Il pavimento, la base del muro lì accanto, i tappeti, fin quasi alla porta, tutto era ricoperto da una pozza di sangue nella quale era immersa anche Demi. I tagli aperti si vedevano benissimo, squarci che si era inferta nella pelle fino ad arrivare alla carne, dal polso fino al gomito e, poco sotto quest’ultimo, Madison aveva notato un taglio molto più profondo degli altri.
“Si è recisa l’arteria radiale” aveva spiegato Dallas, “la principale dell’avambraccio.”
Ascoltando quel racconto la vera Demi, quella che non aveva mai pensato nella sua vita di morire, si sentì stringere il cuore. Gli incubi possono essere terribili, fare male, ma non aveva mai visto nessuno tanto sconvolto per un sogno come lo era stata Madison, e sapere che la vita l’aveva sottoposta anche a quell’ennesima sofferenza era terribile e ingiusto. Avrebbe voluto prendere quel dolore su di sé e avere la forza di farlo sparire, tornare indietro nel tempo e non farglielo mai provare, ma non poteva. L’unica cosa che era in grado di fare era rimanerle accanto. Alzò gli occhi verso il cielo. Recidere l'arteria radiale è molto difficile, la persona è immersa in un lago di sangue e, se si salva, può avere o meno problemi alla mano e al braccio a seconda che i tendini e i vasi sanguigni siano recisi o meno, o in alcuni casi perdere molte funzioni o peggio, lei lo sapeva. Madison non l'aveva sentita urlare, o almeno non ne aveva accennato, ma Demi era consapevole che in una situazione del genere sarebbe rimasta quantomeno senza voce dal dolore.
“Mio Dio, fa’ che non mi accada mai una cosa del genere, che non succeda né a me, né a nessun’altra persona che conosco, ti prego!” implorò.
Per quanto considerasse il suicidio sbagliato, nel senso che non era la soluzione a nulla, non condannava chi si toglieva la vita, perché se arrivava a farlo doveva essere al culmine della disperazione. Lei aveva sofferto in modo indicibile, ma sperò di non arrivare mai a tanto.
Madison le strinse il braccio, percorse le sue cicatrici fino ad arrivare a quell’arteria, sulla quale non era mai stato inciso, a differenza dei polsi ormai martoriati.
“Ricordo solo che mi sono avvicinata, l’odore del sangue mi faceva vomitare. Ci ho camminato sopra, sembrava tutto irreale. Non ci volevo credere. Mi sentivo debolissima, la terra mi stava crollando sotto i piedi e respiravo appena e con fatica. Poi ti ho toccata ed eri fredda.”
Demi sapeva benissimo che il corpo non si raffredda in così poco tempo, ma che ci vogliono ore. Quello però era un sogno e Madison una bambina, non tutto doveva essere coerente.
“Continua.”
“Non ho mai sentito una cosa del genere, dentro avevo freddo anch’io, mi sembrava di congelare sia fuori che all’interno, non riuscivo più a staccare la mano dalla tua fronte. E rimanevi immobile, immobile!” Le strinse forte il braccio, poi si avvicinò a lei il più possibile come per percepire il calore della sorella. “Io ho urlato, ho gridato, ti ho dato degli schiaffi, e intanto mamma piangeva sopra di te e poi in ginocchio, e tutto è finito, mi sono svegliata e…” La piccola continuò a ripetere quelle frasi ancora e ancora e Demi la lasciò sfogare. “Pensavo davvero che fossi morta, e io non saprei cosa fare senza di te. Non ero arrabbiata, nel sogno, per la tua morte, soffrivo e basta, stavo impazzendo, forse mi domandavo perché, se fosse colpa mia, non so. E quando mi hai chiamata e ti ho vista, credo di non essermi mai sentita così sollevata dopo un brutto sogno.”
Madison le si gettò addosso facendola barcollare, ma Demi fu in grado di tenerla su e se la strinse al cuore. La bambina scoppiò in un pianto quasi convulso, dapprima solo lacrime silenziose e tremiti, poi un lungo lamento con la voce, uno di quelli che sembrano non finire mai, strazianti. Era basso, sembrava provenire dal profondo della sua gola e si sprigionava, lento, nell’aria rimbombando appena nel giardino. Si sentì spingere in avanti da una forza misteriosa, la schiena e il petto erano schiacciati da un peso invisibile e riprovò quella sensazione di gelo fin dentro le ossa, nella testa che le dolse con tanta intensità che dovette stringere i denti e le mani a pugno per non urlare. Era questo che si provava prima di morire? Perché lei, nel sogno, quando aveva toccato la sorella, sapeva di aver desiderato di andare con lei per un singolo istante, per non lasciarla, perché non aveva sopportato nemmeno l’idea di perderla. E sì, ora si rendeva conto, e lo capì anche Demi quando Madison glielo disse, che il fatto che una bambina di dieci anni pensi di morire, seppur in un sogno, è da brividi, ma era andata in quel modo.
“Non so se sarebbe così nella realtà” mormorò la piccola.
“Non pensarci nemmeno, Maddie. Non dirle, queste cose! Se…” Demi non riusciva neanche a pronunciare quelle parole, facevano troppo male. “Se dovesse succedere una cosa del genere, io non vorrei che tu…”
“Ho capito. Non lo penserò più, te lo prometto.”
Ma era un pensiero forte, d’impatto, che si era ricordata anche dopo il sogno, e le risultava difficile scacciarlo. Ringraziò Dio che la sorella la stesse sostenendo, o le gambe non avrebbero retto. Tremavano senza controllo. Le lacrime non ne volevano sapere di smettere di scendere. Calde, le bagnavano il collo e i vestiti e lei non le asciugava, lasciava che seguissero il loro corso. Assomigliavano a gocce di lava che le bruciavano e scavavano la pelle e l’unica cosa che riusciva a fare era scuotere la testa per tentare di farsi un po’ d’aria. Per il resto non si muoveva, il freddo e una serie di emozioni negative si erano impossessati di lei bloccando e facendo dolere ogni suo muscolo.
“Piangi, Maddie, piangi” mormorava Demi e anche a lei sfuggivano alcune lacrime, ma cercava di trattenersi. Le raccolse i capelli in una coda alta, in modo da toglierglieli dalla fronte e dal collo per evitarle di sudare più di quanto già stava facendo. L’argomento che stavano trattando era difficile, non avrebbe mai creduto di parlare del suicidio con una bambina dell’età di Madison. Prese alcuni respiri profondi, poi cercò di calmarsi e di parlare con un tono di voce normale, che però le uscì grave. “Se dovessi suicidarmi, non sarebbe colpa tua, né mia, né di nessuno.”
“Ne parliamo un po’? Per favore.”
Madison alzò gli occhi e la guardò, serissima.
Quella domanda spiazzò del tutto Demi.
“Non credo sia il caso, Maddie, anzi, non lo è proprio. Sono brutte cose per qualsiasi persona, ma per una bambina ancora di più.”
Non voleva turbarla un’ennesima volta o causarle incubi ancora più terribili in seguito. Nessuno è pronto a sentir parlare di suicidio, ma a quell’età è fuori discussione.
“Ma ho sognato che tu lo facevi!” protestò la bambina. “Vorrei capirci qualcosa di più. Perché si arriva a farlo?”
Demetria si disse che forse, senza entrare troppo nei particolari, avrebbe potuto dire alcune cose. Si fermò un momento a pensare alle parole adatte.
“Perché la vita con queste persone è stata troppo dura, ha fatto così male che non la ritenevano più degna di essere vissuta. E non riescono a chiedere aiuto, quando sono a quel punto, perché non hanno più speranza.”
“H-ho capito, quindi chi soffre così non va giudicato, come mi hai sempre detto di non giudicare gli autolesionisti, o gli anoressici, o i bulimici eccetera.”
“Esatto. Tu puoi anche pensare che tentare il suicidio o suicidarsi sia sbagliato, ma se dirai questo ad una persona che vuole farlo, non la aiuterai.”
“E cosa dovrei fare, allora?”
Demi sospirò.
Era un tema delicatissimo e parlarne ad una bambina non rendeva le cose più facili, anzi, le complicava.
“Di solito chi confessa di volersi uccidere o di volerci tentare lo fa con te perché ti conosce, o si fida. Queste persone hanno bisogno di essere ascoltate, e gli altri possono dimostrare loro affetto, dire “Io ci sono, se vuoi puoi sfogarti con me, non sei solo, ti ascolto e non ti giudicherò mai”, cose del genere che si utilizzano anche con chi ha altri problemi. Sembrano sciocchezze o frasi banali, dipende da come le si dice. Se lo si fa con il cuore, chi sta male lo capirà e si sentirà compreso. Magari non si salverà, ma saprà che qualcuno lo comprende, o prova a farlo, e gli vuole stare vicino per davvero e questo varrà tantissimo. Possiamo dare tutto il nostro supporto e il nostro amore alle persone, Madison, ma alla fine ognuno di noi deve salvarsi per gran parte con le proprie forze, se vuole uscire da un problema. Molti parlano di ciò dicendo che bisogna salvarsi da soli. Secondo me, queste due parole sono molto tristi, perché sembra che gli altri non ci stiano accanto, quando non è così, per cui preferisco parlare della forza che abbiamo dentro.”
“È molto bello, quello che hai detto.”
Madison faticava un po’ a capire, ma cercava di seguire il ragionamento che Demi stava spiegando in termini semplici. In pratica bisognava aiutarsi per risolvere le difficoltà e ognuno dentro aveva la forza per superarle. Se c’era una cosa positiva, si disse la bambina, era che i problemi della sorella, della mamma e le tematiche delle quali ogni tanto parlavano, l’avevano fatta crescere e diventare più sensibile.
“Grazie. Ti ricordi la parola che ho usato poco fa? Deve. non mi piace. Ognuno dovrebbe fare quello che sente, anch’io per un lungo periodo sono stata male e non mi sono fatta aiutare, perché pensavo di non averne bisogno nonostante tutto il dolore, perché non volevo. Ma se si vuole uscire da una situazione è necessario provare a lottare con le proprie forze e il supporto degli altri, per quanto sia difficile e doloroso e nonostante spesso si pensi di non farcela, di essere troppo deboli, di trovarsi in un baratro senza uscita e ci possano volere anni. Non è facile, e molti non ce la fanno. Si arrendono alla depressione, ad altri problemi, o si uccidono. Non è giusto che siano stati così male in vita e la loro perdita farà soffrire per sempre chi resta, ma non bisogna giudicare queste persone, dire che sono state idiote o cose simili. Stavano troppo male e l’hanno fatto, e possiamo ritenerlo sbagliato, ma ciò non cancellerà il dolore che hanno provato.”
Madison annuì.
“È molto triste” mormorò. “E non sono sicura di aver capito tutto.”
“Già. E lo so, piccola, mi dispiace. Forse ho parlato troppo.”
“No, è che non avevo mai pensato al tema del suicidio prima di oggi.”
“Meno male! Una bambina della tua età non dovrebbe nemmeno sentirne parlare.”
“Però l’ho sognato.”
“Purtroppo sì.”
“Cercherò di capire quando una mia amica starà così male, se succederà, e di aiutarla, di esserci per lei.”
Aveva colto il succo del discorso.
“Brava!”
Demi le sorrise e le diede un bacio.
“Grazie per avermene parlato, anche se è una cosa da grandi.”
“Ma figurati.”
In realtà la tematica sarebbe stata molto più complessa e piena di situazioni, problemi che potevano portare al suicidio, però Demetria non ci era entrata perché Madison non era ancora abbastanza grande.
“Tu ci stai riuscendo, però. A salvarti, intendo.”
“Sì, perché ho capito di volerlo e che non sono sola” rispose, più allegra. “Io sono qui, okay? Non ho mai pensato di uccidermi, nemmeno in tutti questi anni di sofferenza, neanche quand’ero in clinica o durante il periodo di guarigione che sto ancora affrontando. Mai, nemmeno una volta, te lo assicuro.”
Ogni tanto, però, si era detta che se fosse accaduto non gliene sarebbe importato. Preferì non confessarlo alla sorella, almeno non in quel momento.
“A-allora è stato solo un sogno? Sul serio?” chiese la bambina con la voce impastata dalle lacrime.
“Sul serio. Nulla di ciò che hai sognato è reale. Credo tu abbia  avuto quell’incubo perché hai paura di perdermi. Il sogno ha espresso il tuo timore più grande.”
“Sì, mi sa che hai ragione. Non ci penso spesso, ma a volte ho paura che tu e la mamma starete troppo male e che vi perderò, magari non così, anche in altri modi, a causa dell’anoressia per esempio, e non voglio.”
Demi la strinse forte.
“Siamo qui, ci seguono dei medici e vogliamo guarire, vivere. Non ci perderai” provò a rassicurarla, con la voce che le tremava.
“Promesso?”
Esitò.
Forse non avrebbe dovuto farlo perché non ne era sicura, ma non era giusto lasciare nell’incertezza una bambina.
“Per quanto mi riguarda, promesso.”
“Mamma mi ha detto che queste cicatrici che hai te le sei fatte perché soffrivi tanto, perché non sapevi come altro parlare del tuo dolore. E dice anche che le ferite più grandi le hai nell’anima, che credo significhi che sono dentro di te. È giusto?”
Demi sospirò.
“Sì, lo è.” Madison era davvero matura per la sua età, aveva dovuto crescere il fretta, il che non sempre era un bene. Demi le chiese mentalmente scusa per essere una delle cause di quella crescita tanto rapida. “Ma tutti mi aiutate a guarire da queste ferite, anche tu” ci tenne a puntualizzare.
“Davvero?”
“Te lo assicuro.”
Madison si asciugò le ultime lacrime. Non aveva molte forze, ma prima di tornare a letto desiderava passare qualche altro minuto con Demi.
“Allora non devo preoccuparmi. Non stai così male come nel sogno, non arriverai a fare quello. O sì?”
La bambina aveva bisogno di essere rassicurata molto, il che era normale vista la situazione degli ultimi anni.
“No, non sto così male. Spero non accadrà, Maddie, e se dovessi avere pensieri del genere cercherò di parlare con i nostri genitori, Dallas, la psicologa e la psichiatra prima di fare qualsiasi cosa, anche se non sarà facile. Te lo prometto” aggiunse, anticipando la successiva domanda della piccola.
“D’accordo.”
Demi però sapeva che c’era qualcos’altro che non andava, non la vedeva convinta, Maddie continuava a guardare i suoi tagli e il punto in cui, nell’incubo , aveva visto quello più profondo. La esortò a continuare.
“È che se io fossi arrivata prima sarei riuscita a salvarti! Ce l’avrei fatta, lo so, invece sono rimasta ferma a non fare niente e poi sono scesa, ma sono restata davanti alla porta del bagno. Dallas non è riuscita a farti battere di nuovo il cuore, ed io non ho fatto abbastanza in fretta. Non lo faccio mai, quando stai male. Cerco di darti una mano, ma tu ti tagli lo stesso, o vomiti dopo aver mangiato, o ti abbuffi e butti fuori, o hai gli attacchi d’ansia o di panico.”
Demetria restò letteralmente a bocca aperta per qualche attimo.
“Ti senti in colpa. È questo il problema, vero?”
Ne avevano già parlato, ma il senso di colpa è difficile da scacciare, ti può seguire per tutta la vita, la ragazza lo sapeva benissimo.
“Sì. N-non faccio mai abbastanza, per te. Tu ogni tanto stai ancora male, non sei guarita.”
Demetria la abbracciò così forte che Madison si sentì soffocare, ma non la scostò. I loro volti erano tanto vicini che potevano percepire il respiro l’una dell’altra e le loro lacrime si mescolavano in un’unica fonte di dolore.
La più grande si schiarì la voce.
“Ascoltami, Madison. Una persona che si recide quell’arteria rischia di morire nel giro di minuti se non viene aiutata tempestivamente, non so dirti quanti, ma non credo molti. Nel tuo sogno dev’essere successo così. Ma tu non lo sapevi, non capivi quale fosse la situazione.”
“Hai ragione, ma per il resto…”
“Tesoro, nessuno ha colpe in tutto questo. Il processo di guarigione è lento, ormai l’abbiamo sentito dire tantissime volte dai dottori, lo sai e credimi, a me dà un fastidio incredibile. O meglio lo dava all’inizio, perché avrei voluto sentirmi meglio subito, poi però ho capito che non poteva essere così, che dovevo darmi tempo e che gli alti e i bassi sono normali. Te l’ho già detto spesso, ma te lo ripeto: tu per me fai tantissimo. Mi tieni compagnia, mi racconti com’è andata a scuola, suoniamo la chitarra o il pianoforte insieme, ridiamo come sceme e, quando riesco, mangiamo schifezze senza che io abbia problemi nel nutrirmi, ed è questo, è tutto questo che conta per me. Avere con te un rapporto, sapere  che possiamo contare l’una sull’altra in qualunque momento.”
Il volto di Madison si aprì in un luminoso sorriso, più bello del sole stesso e la bambina sospirò di sollievo. Aveva temuto che la sorella sarebbe stata arrabbiata con lei, che le avrebbe dato le colpe che credeva di meritarsi, invece era avvenuto il contrario.
“Demi, Demi, guarda!” esclamò Madison, battendo le mani come avrebbe fatto una bambina piccola.
L’altra sorrise: adorava i momenti di pura gioia della sorella, la facevano sentire più viva e le ricordavano i bei tempi nei quali anche lei li aveva vissuti, quando la vita l’aveva segnata, ma non ancora così nel profondo.
“Che cosa?”
“Il cielo.”
La ragazza alzò gli occhi, seguendo quelli della sorella. La notte stava lasciando il posto al giorno. Da blu scuro illuminato dalle stelle, il cielo passò a grigio e a colori pastello ancora opachi: il porpora, che pian piano sfumò nel delicato rosa pesca, nell’ocra, nell’arancione, una gioia per gli occhi e per il cuore che prese a scalpitare nei loro petti. Non era mai successo alle due di vedere l’alba, i genitori a volte l’avevano descritta alle tre figlie dicendo che era bellissima, ma nessuna parola poteva eguagliare ciò che stavano vedendo. Il cielo si era trasformato quasi fosse stato sotto l’effetto di una magia, un pittore misterioso, nascosto, lo stava colorando con i suoi pennelli, creando uno spettacolo da togliere il respiro. Nell’aria si percepiva l’odore di rugiada, un profumo che sapeva di libertà. Madison prese a correre per il giardino, attenta a non calpestare le piante, e la sorella le andò dietro. Le due saltarono, risero, si buttarono a terra facendo finta di nuotare fra l’erba tagliata, annusando da vicino il forte odore della terra ancora fresca al tatto. Gattonarono nel giardino prendendo a inseguirsi e, quando possibile, nascondendosi sotto una siepe. Una delle due rimaneva così in silenzio fino a quando l’altra la trovava e il gioco ricominciava. Da tanto non si sentivano così libere e leggere, pareva loro di volare come farfalle, e chi se ne fregava se si erano sporcate il pigiama?
“Ho vinto io, ti ho presa!” esclamò Madison afferrandole una caviglia.
“Va bene” rispose Demi senza fiato, con la faccia sporca di terra e, sul viso, uno dei sorrisi più sereni che Madison le avesse mai visto.
Quando si rialzarono, videro che i colori del cielo tingevano nubi di passaggio, che si muovevano veloci come uccelli che volavano liberi nel vento.
Poco dopo, grazie a un’idea di Demi, tornarono fuori con due palloncini gonfi in mano. Li avevano presi da un sacchetto che la mamma aveva in cucina e gonfiati al volo.
“E adesso?” chiese la bambina, incuriosita.
Il suo era giallo, quello di Demi bianco.
“Facciamo una cosa che mi aiuta, forse potrebbe farlo anche con te.”
La ragazza finì il discorso e le due si concentrarono. Con i palloncini stretti fra entrambe le mani, incanalarono tutti i pensieri negativi, i pesi, i dolori, le ansie e le preoccupazioni. Non fu facile e venne loro un leggero mal di testa, alcune sensazioni proprio non se ne volevano andare, ma quando si sentirono pronte lasciarono andare i palloncini esclamando:
“Via!”
Il vento soffiava ed essi volarono subito lontano.
“Chi te l’ha insegnato? Mi sento meglio!” esclamò Madison.
“Una ragazza che era in clinica con me. Quando l’ho fatto la prima volta ho lasciato andare il palloncino senza crederci, quindi non ci ho incanalato dentro un bel niente, ma poi ci ho riprovato. A volte funziona, fa stare meglio per qualche tempo.”
Dopo alcuni minuti, da sotto la linea dell’orizzonte sbucò uno spicchio di sole splendente e dorato, assieme ad una punta di azzurro che colorò il cielo quando il primo pezzetto dell’astro iniziò a fare capolino salutando il mondo.
“Non è bellissimo?” chiese Madison.
“Avrei voluto fotografarlo, è pazzesco” rispose Demi.
“Ci resterà comunque in mente, ma oggi voglio raccontare nel mio diario cos’è successo stanotte e stamattina.”
“Fai bene a sfogarti scrivendo, Maddie, è un buonissimo modo per riordinare le idee.”
“Sì, e mi piace molto. Ti voglio bene, Demi” affermò poi con dolcezza.
“Anch’io, Madison, tantissimo! Non dimenticarlo mai.”
“Nemmeno tu. Me ne vorrai per sempre? Anzi, ce ne vorremo per sempre? E ci sosterremo e aiuteremo per sempre, come abbiamo fatto ora?”
Demetria si augurò di sì, che qualsiasi cosa sarebbe successa la vita non le avrebbe mai divise, neanche da Dallas. Avrebbero potuto litigare, discutere, separarsi a causa di mille motivazioni diverse, non andare d’accordo, non parlarsi. I genitori, però, avevano sempre detto loro di volersi bene, di sostenersi e risolvere i problemi, se possibile, di fare tutto ciò che era in loro potere per riuscirci. Demi ce l’avrebbe messa tutta, se fosse stato necessario salvare il loro rapporto di sorelle, e si augurava sarebbe stato lo stesso anche per le altre. Ma ad una bambina di nemmeno undici anni non si poteva dire tutto questo. Madison non doveva preoccuparsi già allora di come avrebbero – o non avrebbero – potuto andare le cose. E nemmeno lei avrebbe dovuto farlo, per quanto per gli adulti fosse più difficile non pensarci. Demi credeva nel per sempre, in amicizia, in amore e anche nei rapporti familiari, pensava che ci fossero relazioni speciali che potevano durare davvero in eterno, anche dopo la morte. Non capitava spesso, ma succedeva ed era per questo che erano tanto preziose. Per questo diede a Madison un bacio su una guancia che la bambina ricambiò e, dopo averle preso la mano per suggellare quella promessa, rispose:
“Sì, per sempre.”
 



CREDITS:
la frase “Non posso farlo” è tratta dal libro di Dianna De La Garza Falling With Wings: A Mother’s Story. L’originale è “I can’t do this”.
 
NOTE:
  1. non so se Demi sentisse nella testa le voci delle quali ho parlato, ma dato che le malattie mentali sono, in pratica, una battaglia proprio con la mente, io ho immaginato così quella situazione. Anche qui mi sono documentata sui sintomi dell’anoressia e degli altri problemi dei quali la ragazza ha sofferto, leggendo articoli e ascoltando testimonianze.
  2. È possibile guarire del tutto dai disturbi alimentari? Bella domanda! Di sicuro se la pone chi sta guarendo e me lo sono chiesta anch’io che pur non avendone sofferto, grazie a Dio, mi documento per scriverne. Ho sentito di persone che l’hanno fatto totalmente dall’autolesionismo, dall’ansia, ma per quanto riguarda anoressia, bulimia e altre problematiche, ho dovuto fare ricerche. Tempo fa avevo letto un articolo, non ricordo più su che sito, in cui Demi asseriva che, per quanto stesse meglio, avrebbe dovuto combattere tutta la vita contro i disturbi alimentari. All’università ho conosciuto una ragazza che, invece, era guarita da anni e mi diceva di sentirsi bene, non aveva più problemi con il suo corpo, mangiava di tutto senza alcuna difficoltà, né soffriva più per le cause che l’avevano portata a entrare nel tunnel dell’anoressia. Infine ho fatto alcune ricerche.
Sul sito www.stylecaster.com, l’autore dell’articolo Is It Possible to Ever Fully Recover from an Eating Disorder?, Christina Grasso, dice che Carolyn Costin, una terapista molto famosa negli Stati Uniti, dà questa definizione di guarigione, in inglese recovery:
“Being recovered, to me, is when the person can accept his or her natural body size and shape and no longer has a self-destructive or unnatural relationship with food or exercise.”
 
Traduzione:
“Per me, la persona è guarita quando può accettare la sua taglia e forma naturali e non ha più una relazione auto-distruttiva o innaturale con il cibo o l’esercizio.”
 
L’autrice scrive anche che Christina Grasso è guarita quarant’anni fa dai suoi disturbi alimentari ed è convinta che sia possibile farlo del tutto.
Da quanto ho capito, da questo e altri articoli con testimonianze di persone, alcune guarite altre non del tutto, è che appunto avviene così anche per questi problemi: qualcuno ce la fa, qualcun altro no. Nelle mie storie, quelle ambientate più avanti rispetto a questa, Demi è guarita, va avanti con la sua vita, raggiunge obiettivi molto importanti per lei. Solo ogni tanto, davvero raramente, soprattutto in qualche periodo di forte stress, le malattie si fanno sentire. La sorprendono, la bloccano, ma lei riesce a non ricaderci, a volte con un po’ più di difficoltà (hanno fatto parte della sua vita per tanto tempo, sarebbe strano il contrario). Il suo processo di guarigione, comunque, è durato anni.
  1. Non so se Demi abbia mai preso farmaci per l’ansia. Io assumo il Trilafon da giugno 2018, dall’anno scorso negli stessi dosaggi scritti qui (per ora prendo sei milligrammi al giorno). Il Trilafon è un antipsicotico che cura gli stati d’ansia, oltre ad altre cose, quando questi sono gravi e i farmaci ansiolitici non hanno fatto effetto, come nel mio caso.
  2. Come ho scritto in altre mie storie, gli attacchi di panico e d’ansia (dei quali soffro anch’io da anni) sono differenti, per questo ho messo entrambi i termini. I primi si caratterizzano per essere molto brevi, massimo dieci minuti, improvvisi, scatenati di solito da un pensiero, da una paura, da un sentimento negativo e di forte preoccupazione e, durante tali episodi, si teme persino di morire. I sintomi (vertigini, soffocamento, sudorazione e altri a seconda dei casi) sono molto forti. Attacco d’ansia non è un termine clinico, ma si usa per descrivere stati di forte preoccupazione, paura o altri sentimenti negativi. Tali attacchi possono durare ore, giorni, ma anche settimane o mesi.
  3. Demi ha sofferto davvero di attacchi d’ansia e di panico, qualche volta, l’ho letto in un articolo dell’Huffington Post. Alcuni sintomi come il faticare a respirare, il bisogno di muoversi per la stanza, il sudore, le vertigini, sono tutti tratti da quell’articolo e fanno parte dei sintomi della sua ansia, benché io li abbia traslati nel panico, altri dalla mia esperienza. Per quanto riguarda il panico, ne ha avuto uno quando è entrata in clinica, così dice un articolo su www.younghollywood.com, in altri articoli ho trovato informazioni riguardo l’ansia e il panico ma con i termini confusi, quindi non so dire con sicurezza se ne abbia sofferto ancora, anche se penso di sì.
  4. Al Katie Couric Show Demi ha rivelato che quando stava male era arrivata a pensare che anche solo un bicchiere di succo l’avrebbe fatta ingrassare e che vomitava cinque volte al giorno, a volte si nutriva solo due volte in una settimana e rimetteva tanto che c’era solo sangue nel water.
  5. Dianna ha sofferto davvero di tutti quei problemi, si è ricoverata nell’aprile del 2011 alla Timberline Knolls e quanto accaduto quella mattina è la verità, tutte informazioni tratte dal suo memoir.
  6. Nel memoir Dianna scrive che Demetria si era comportata davvero così durante la loro prima visita alla Timberline Knolls, quando la ragazza ci era entrata da pochi giorni. Preciso qui che Andrew è un personaggio originale, quindi creato da me, migliore amico di Demi e che ha sei anni più di lei. Compare in altre mie storie. Anche l’episodio avvenuto tra Demi e Madison in clinica, quello del quaderno, è reale e tratto sempre dal libro.
  7. A 20/20, Demi ha rivelato:
“I don’t think I was ever trying to kill myself. But I knew that if I’d ever gone too far I wouldn’t care.”
 
Traduzione:
“Non penso di aver mai provato ad uccidermi. Ma sapevo che se mai fossi andata troppo in là non mi sarebbe importato.”
  1. Ho cercato di scoprire in quanto tempo si muore per la recisione dell’arteria radiale, ma non ho trovato nulla di preciso. Dipende da molti fattori. Se i vasi sanguigni non sono completamente recisi e i tendini non lo sono affatto, la persona è fortunata e nel tempo potrà recuperare tutte le funzioni della mano.
  2. Dato che sono non vedente, per quanto riguarda la descrizione dell’alba mi sono affidata a pochissime righe lette su internet (ho trovato più immagini, con la sintesi vocale del computer che mi leggeva Immagine, che altro) e all’aiuto delle mie amiche Emmastory e JustBigin45, che ringrazio moltissimo.
 
 
 
 
 
 
RIFLESSIONE CONCLUSIVA
 
Penso che questa storia meriti una riflessione, in particolare riguardo una delle tematiche trattate: il suicidio.
Demi non ha mai pensato di volerlo fare e, questo è ovvio, non so se i suoi familiari siano arrivati a credere che avrebbe potuto. Ho immaginato, però, che in una situazione del genere forse io avrei avuto questo timore, o comunque il terrore di perdere quella persona in altro modo, proprio com’è successo a Madison.
 
Per quanto riguarda il modo in cui aiutare qualcuno che sta male, che dice di voler tentare il suicidio o ha altri problemi, ciò che ha detto Demi è il mio pensiero a riguardo, ma ognuno può vederla come vuole e non l’ho scritto per imporre niente, né per mancare di rispetto a nessuno. So molto bene che è un tema delicatissimo, avendo perso la mia migliore amica per suicidio alcuni anni fa, un dolore che da quel giorno non mi abbandona mai, e sento questa tematica vicina anche per altre questioni nelle quali non entro per non andare troppo sul personale. Ho cercato di riportare, nelle parole di Madison, ciò che ho provato io appena la mia amica non c’è stata più (benché qui si trattasse di un sogno e le emozioni, a volte, proprio per questo siano risultate meno forti e più confuse di quanto sarebbero state nella realtà, ma è una cosa voluta). Per quanto riguarda ciò che Demi le spiega, immagino non sia facile raccontare queste cose ad un bambino. Ho provato a farlo al meglio delle mie possibilità e cercando di mettermi nei panni dell’una e dell’altra, spero di esserci riuscita bene. Come per tutte le altre tematiche, benché questa riguardasse un sogno, l’ho resa il più possibile importante, perché lo è e in quanto ha comunque segnato Madison, terrorizzandola, e ho fatto di tutto per trattarla con il massimo rispetto.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ci tenevo a dire che, come chi mi conosce avrà visto, ho usato uno stile un po’ diverso per le parole che ho voluto evidenziare nel testo (in corsivo, ma non più tra virgolette, così come i titoli dei libri o degli articoli citati), uno stile diverso per il titolo e altre cose. Sto imparando a migliorarmi, come facciamo tutti noi che scriviamo, nel corso del tempo, a capire cos’è più corretto e cosa, invece, è sbagliato. Chissà, magari un giorno sistemerò in questo modo anche le altre mie storie, per ora proseguirò su questa strada.
Mi sono fermata per il Coronavirus e altri problemi in famiglia, ma dopo le vacanze estive tornerò con Cuore di mamma. Ho la scaletta del capitolo pronta, devo solo scriverlo.
   
 
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