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Autore: simochan    16/08/2020    3 recensioni
L'estate a Camporialto sembra non voler passare mai. Finché il protagonista non verrà a conoscenza della leggenda che ruota attorno a Mamerzio e al suo incredibile viaggio: riuscirà il giovane estrusco a tornare sano e salvo dalla sua amata Spurinna?
Un racconto breve dal sapore nostalgico.
N.d.A.
Racconto vincitore del "Premio della Critica" al Primo Concorso Letterario Nazionale indetto dalla città di Viterbo, edizione 2020.
- Premiato come "Segnalazione speciale della giuria" al Concorso Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno 2020, Sezione Racconto Tema Libero.
©️ Tutti i diritti sono riservati.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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  mamerzio3-4

 



La storia che sto per raccontarvi, non è soltanto una storia.

È un lascito. Il ricordo di un'estate che cambiò per sempre il mio modo di pensare del passato. Chi sono io, non è interessante da sapere. Lo è invece la scoperta delle mie origini e di come queste abbiano influenzato le scelte che ho fatto nella mia vita. Ma non voglio rovinarvi la sorpresa, per cui direi di iniziare il racconto partendo dal principio, ossia dal viaggio in treno che mi permise di conoscere la turbolenta storia di Mamerzio.

Sceso con mia madre, autoctona del posto, per fare visita ai miei nonni, mi ritrovai ragazzino di metropoli a dover combattere l'inerzia nel caldo e sperduto borgo di Camporialto, un paesello arroccato poco distante dalla città etrusca da tutti conosciuta sotto il nome di Tarquinia. Mia madre, che fu sempre, a detta della nonna, una scardelletta, finì le superiori con il massimo dei voti e mio nonno, che stravedeva per la sua unica figlia, pagò tutti gli studi di tasca sua affinché mia madre si realizzasse come infermiera. L'Università di Trento fu la scelta di mia madre, e Trento divenne infine anche la sua città.

Ero, e sono tutt'ora, figlio unico di una figlia unica, e questo significava anche essere l'unico nipote a gironzolare per la campagna dei nonni, costretto a giocare da solo per passare il tempo che sembrava essersi rallentato dal primo momento in cui misi piede nella loro tenuta. I giorni scorrevano tra la noia e la calura, mentre io diventavo sempre più bravo nell'arte di catturare le lucertole spaparanzate a prendere il sole sulle rocce di peperino. Mio nonno, che a suo dire non era proprio una cima, si accorse di me e del mio malessere. Decise quindi di portarmi a fare una gita, convinto che una visita al museo etrusco sarebbe stato momento di grandissimo svago per un bambino di dodici anni. Raggiungemmo Tarquinia in meno di mezz'ora e parcheggiammo la sua fiat malandata in uno dei tanti vicoli stretti che caratterizzano il centro; camminammo in un silenzio interrotto soltanto dal tubare dei piccioni e dal rintocco lontano di qualche campana, finché non giungemmo davanti all'entrata del museo. Nonno pagò il totale dei biglietti a prezzo ridotto perché, come scoprii poco dopo, fu per molti anni custode in quel mausoleo pieno zeppo di cocci e cianfrusaglie antiche.

Iniziò a mostrarmi tante cose, raccontandomi con entusiasmo tutto ciò che sapeva sul popolo degli etruschi, descrivendoli come i più grandi e abili navigatori nella storia dell'uomo. Più spiegava, più non lo ascoltavo, mostrando sul mio volto solo disappunto e noia; anche se, a ripensarci, ancora me ne vergogno di quel comportamento da bambino viziato, esso era dovuto non solo dalla giovane età, ma anche dal fatto che il mio primo grande amore fosse minato da un rivale: Eleonora, la bambina che mi piaceva, con i capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare, avrebbe passato l'intera estate a giocare nel parco dietro casa con Luca, il mio migliore amico.

Più ci pensavo, più ci stavo male. La voce di mio nonno mi irritava profondamente e senza accorgermene iniziai ad odiarlo, perché ai miei occhi la colpa del fatto che stavo perdendo Eleonora era sua e di quello stramaledetto paesello dimenticato da Dio.

Uscimmo dal museo senza entusiasmo. Ricordo di aver sentito lo sguardo del nonno su di me, troppo orgoglioso per ammettere a me stesso che quel viso ferito mi feriva a sua volta. Mi portò a prendere un gelato in uno dei baracchini posti sul litorale e lì ci fermammo a contemplare il panorama del mare in pieno pomeriggio: sbuffi di schiuma si riversavano sulla spiaggia scura come il carbone, mentre stormi di gabbiani sorvolavano il cielo acceso di un brillante arancio sanguigno.

«Ti è piaciuto il giro al museo?» mi chiese dopo un po', passandomi un fazzoletto sul lato della bocca, probabilmente sporca di pistacchio.

«Sì, molto», mentii, facendo scendere un silenzio tombale. Guardai l'orizzonte, scoprendo in quel mare azzurro gli occhi di Eleonora.

«Cos'è quell'espressione mogia?» chiese ancora, vedendomi così crucciato.

«Nulla,» brontolai. «È solo che sono rimasto deluso.»

«Da cosa?»

«Dagli Etruschi.»

Nonno guardò nei miei occhi, dandomi l'impressione di essere un ispettore di Polizia in cerca di un indizio. Con la vergogna e la paura di poter essere scoperto, volsi lo sguardo sulla sabbia umida, prendendo a scavarne la superficie con un dito:

«Mi hai detto più volte di quanto fossero abili nella navigazione, ma in quel museo non c'era nulla che lo provasse. Tutto quello che ho visto sono state solo un paio di ciotole sbeccate e qualche graffito, niente di più.»

«E cosa ti aspettavi di trovare?»

«Che ne so, magari una bussola.»

La sua risata si disperse nel rimbombo del bagnasciuga:

«Non ne avevano bisogno. Utilizzavano le stelle per tracciare la loro rotta.»

«Vuoi dire che, abili com'erano, non avevano ancora inventato uno strumento per orientarsi?»

Ci guardammo per un lungo istante, lui impacciato, io deluso. Alla fine, decisi di lasciar perdere tutto il discorso, non m'interessava poi granché.

«Beh... In effetti, una bussola c'è.»

Incuriosito da quell'ultima affermazione, alzai lo sguardo verso mio nonno che iniziò a parlarmi con uno strano sorriso sulle labbra:

«Anni fa, quando ancora lavoravo come guardiano al museo, alcuni archeologi trovarono i resti di una tomba assai particolare.»

«E perché era particolare?»

«Devi sapere che gli antichi Etruschi erano molto legati alla famiglia. Le loro tombe infatti rappresentavano delle vere e proprie case, dove all'interno si potevano trovare tutti suppellettili utili nell'aldilà: scope, pentole, perfino specchi. Ma la tomba ritrovata dagli studiosi era priva di oggetti, come se la famiglia di quel pover'uomo lo avesse abbandonato... o, addirittura, come se non ne avesse mai avuta una».

Nonno si fermò, facendomi segno di continuare a mangiare il gelato che si stava inevitabilmente sciogliendo sulla mia mano. Presi il fazzoletto di prima e lo passai sulle dita appiccicose, continuando ad ascoltare il suo racconto:

«Decisi a scoprire di più sulla sua storia, gli studiosi portarono il sarcofago e la mummia all'interno di esso nel centro di restauro del museo. Io stesso ebbi l'onore di vedere la magnifica alcova che-»

«Cosa scoprirono gli archeologi?» chiesi emozionato, senza lasciargli il tempo di finire la frase. Il nonno mi sorrise ancora una volta, prendendosi del tempo solo per lo sfizio di lasciarmi sulle spine:

«Il sarcofago racchiudeva nelle sue incisioni una leggenda, quella di Mamerzio e della bussola d'oro.»

Il bagliore della battigia colpì i miei occhi incantati di bambino.

«Mamerzio era un giovane etrusco, il cui sogno era quello di spingersi oltre i confini del mondo conosciuto. In tempi come quelli, pensare di intraprendere un viaggio simile significava morte certa.»

Annuii, concentrato sempre di più sul suo racconto.

«Deciso a partire, Spurinna, sua promessa sposa, gli fece dono di un oggetto unico: una piccola pietra, levigata e di forma sferoidale, che aveva nel suo centro un ago d'oro. La giovane, molto devota a Turan, lo aveva ricevuto proprio dalla dea, che le spiegò di come l'ago puntasse solo in direzione del proprio spirito affine. Dea dell'amore e protettrice dei naviganti, Turan promise a Spurinna che avrebbe protetto il viaggio di Mamerzio finché questi fosse rimasto fedele alla sua promessa di ritorno, vietandole in alcun modo di rivelargli il vero potere della bussola.

Mamerzio partì per la sua avventura accompagnato dallo strano regalo della sua innamorata che dalla spiaggia lo salutava e lo chiamava a gran voce, sicura che il suo amato sarebbe tornato da lei sano e salvo.

Passarono giorni, mesi, addirittura anni, prima che Mamerzio potesse fare ritorno a Tarquinia. La bellezza delle terre che visitò lo spinsero ad allontanarsi sempre di più dalla sua casa, dai suoi affetti e dalla sua vecchia vita. Viaggiò oltre i confini conosciuti, toccando spiagge inesplorate, visitando città dalle ricchezze inimmaginabili, finché non s'innamorò di una fanciulla talmente bella da fargli dimenticare il nome e il volto di Spurinna.»

«Ma non è possibile!» replicai, gonfio di rabbia. «Se davvero amava Spurinna, perché avrebbe dovuto dimenticarla?»

Nonno inarcò la sua bocca rugosa in una smorfia che io non compresi: ero ancora troppo piccolo per capire lo strano mondo dei grandi, ma il nonno sembrava aver intuito la mia indignazione. Sospirò e assunse una postura che lo fece apparire ai miei occhi ancora più vecchio di quanto non lo fosse già:

«Mamerzio sposò la donna. Lei era bella e misteriosa come quella sua terra a lui sconosciuta. Ma il loro matrimonio non durò a lungo, perché il giovane aveva iniziato a soffrire di una malattia assai rara, che colpisce solo chi si sente davvero legato al suo luogo d'origine...»

«Aveva nostalgia di casa.»

«Proprio così. Mamerzio si rese conto di essere legato a Tarquinia e alle sue distese erbose al punto da sentirne la mancanza; e la libertà che tanto aveva agognato iniziò a stringergli la gola, facendogli mancare il fiato ogni volta che guardava oltre l'orizzonte di quel vasto mare.

La donna, che non riusciva a comprendere il malessere del marito, si stancò presto delle sue lamentele, gettando in mare ogni oggetto appartenutogli, con il malaugurato intento di fargli dimenticare il posto da qui era venuto... tra quegli oggetti, c'era anche la bussola d'oro.»

Il mio stomaco si contrasse in uno spasmo di panico. "Come aveva potuto fargli una cosa simile?" pensai, sentendo le mie mani irrigidirsi dalla rabbia.

«Desideroso di partire alla volta di Tarquinia, l'etrusco cercò più volte di convincere sua moglie a partire con lui, ma lei rifiutò ogni volta: non voleva abbandonare il suo paese per andare incontro a qualcosa di sconosciuto che, oltretutto, non le apparteneva. A quel punto il giovane si rese conto di quanto fossero diversi, e di come la loro incomprensione fosse dovuta non soltanto dalla grande differenza culturale, né dal loro reciproco egoismo...

Mamerzio e quella donna non erano spiriti affini.

Finalmente consapevole di ciò, l'etrusco lasciò la moglie egoista e la terra straniera per fare ritorno nella sua amata Tarquinia. Il viaggio però non fu facile: i mari burrascosi, i venti impetuosi e le nubi di tempesta misero a dura prova il marinaio che, senza stelle, non riuscì più ad orientarsi.

Ormai sul punto di cedere, Mamerzio invocò la dea Turan affinché lo aiutasse nel suo vagare, ma la dea non lo ascoltò. Provò ad invocarla ancora e ancora, facendole dono di tutto ciò che aveva nella sua piccola stiva, arrivando a svuotarla di tutte le sue provviste...

Turan sembrava averlo dimenticato.

Mamerzio pianse. Pianse nel sentirsi abbandonato dalla sua dea, pianse per essersi perso in balia di quelle onde alte più di una montagna... e pianse, per la vergogna di aver dimenticato la promessa fatta a Spurinna.

Di colpo, quasi come si fosse svegliato da un lungo letargo, Mamerzio si ricordò del nome della sua amata. Spurinna gli apparve nella mente appannata, vestita come il giorno in cui l'aveva lasciata, lì, su quella riva, ad aspettare il suo ritorno: le sue mani affusolate giunte in segno di preghiera, le ciocche ricce che ondeggiavano nel vento salmastro, e i suoi grandi, dolcissimi occhi dorati, che lo salutavano tristi ma fieri dell'uomo che tanto amava.

Da quel ricordo, ecco che si materializzò anche la bussola dall'ago d'oro che lei stessa gli aveva regalato.

Distrutto per il senso di colpa ma con in mano la sua ultima speranza, Mamerzio lottò più e più volte contro le forze della Natura, sperando, anzi, desiderando con tutto sé stesso che quell'ago dorato gli avrebbe permesso di rivedere ancora una volta Spurinna, conducendolo dunque alla sua madrepatria.»

«E ce la fece?»

«Dovette affrontare molte peripezie, prima di fare ritorno a Tarquinia.»

«Incontrò i Ciclopi?»

Il nonno rise di gusto. «Ah sì! Ne incontrò parecchi. Gli lanciarono alcune decine pietre, ma con le sue abilità di marinaio riuscì a schivarle tutte.»

«E uccise anche dei draghi?»

«No,» mi rispose aggrottando un sopracciglio, «ma dovette scontrarsi con un enorme serpente marino che aveva scambiato la chiglia della sua imbarcazione per una femmina della sua specie.»

In quel momento giunse nelle mie orecchie il suono delle onde che s'infrangevano sulla riva. Il loro fragore mi portò lontano, liberandomi dall'oppressione che sentivo nel petto. Alzai lo sguardo verso mio nonno e lo vidi contemplare la marea con occhi pieni di sentimento. Attesi ancora qualche istante prima di fargli quella dolorosa domanda:

«Quando tornò a Tarquinia, trovò Spurinna ad aspettarlo?»

Glielo sussurrai come si sussurrano i segreti. Nonno si voltò verso di me abbozzando un mezzo sorriso:

«Lui non poteva vederla, ma lei era lì.

Riconobbe l'odore della sua terra natia ancor prima di vederla all'orizzonte: il profumo dei campi di grano, dei papaveri e dei fiori d'ulivo arrivarono a salutarlo assieme al vento salmastro della costa; il cielo azzurro cozzava con il verde intenso delle colline boscose e Mamerzio pensò, con un certo orgoglio, di non aver mai visto nei suoi viaggi un posto più bello di casa sua.

Scese dalla piccola nave malandata senza nemmeno gettare l'ancora, tanta era la voglia di riabbracciare la sua amata. La cercò ovunque, ma di Spurinna non c'era traccia.

Sapeva che erano passati molti anni dalla sua partenza, ed era dunque naturale pensare che Spurinna lo avesse dimenticato e si fosse sposata a sua volta.

Con quella dolorosa immagine nel petto, Mamerzio stette per arrendersi, quand'ecco che l'ago della bussola prese a girare impazzito: si creò così una forte raffica di vento che alzò la sabbia circostante, e quando il vento cessò, dalle sabbie apparve la sagoma di Turan, la protettrice dei navigatori che lui stesso aveva invocato più volte nel corso degli eventi.

La dea, furiosa con lui per aver dimenticato la sua promessa d'amore, gli spiegò di come Spurinna l'avesse implorata affinché tornasse sano e salvo da lei, una volta concluso il suo viaggio. Turan, che conosceva bene il cuore degli uomini, mise alla prova la fedeltà di Mamerzio. Vittima del suo capriccio d'avventura, il giovane etrusco, che aveva abbandonato Tarquinia e la donna che lo amava senza mai voltarsi indietro, infangò la sua parola e così perse il diritto e la protezione della dea.

Ma Spurinna era diversa da lui. Il suo cuore puro di giovane fanciulla innamorata riponeva piena fiducia in Mamerzio, e perciò attese giorno dopo giorno senza curarsi delle lingue velenose di chi le diceva che non lo avrebbe più rivisto. Si occupò di sua madre e suo padre come avrebbe fatto ogni buona moglie; coltivò i campi, lavorò sodo, e al calar della sera, quando tutti i braccianti tornavano a casa dalle proprie famiglie, lei si recava sulla riva con la speranza di rivedere la sua piccola imbarcazione fare ritorno al porto.

E così fece per molti anni.

Alla fine, il suo cuore non resse. Spurinna morì di dolore, ma non dimenticò mai il volto e il nome del giovane che aveva tanto amato.

La dea, che nel corso degli anni aveva sentito il rumore assordante di ogni lacrima caduta dal volto di Spurinna, commossa dalla forza di quell'amore tanto puro, raccolse l'ultimo respiro della fanciulla e la trasformò in un fiore sempiterno, dandole così la possibilità di rivedere Mamerzio se questi avesse davvero fatto ritorno a Tarquinia.

Turan terminò la sua spiegazione scomparendo in una folata di vento. Rimasto solo, con il cuore in gola e la consapevolezza di avere ancora la possibilità di chiederle perdono, Mamerzio
urlò il nome di Spurinna come fosse una preghiera. L'ago d'oro riprese a girare impazzito, finché non si fermò puntando in un'unica direzione...

Est.

Seguì l'ago oltre i campi di granturco, lungo le strade sterrate che circondavano la città, giungendo infine laddove lo aveva sempre aspettato.»

«E cosa ci trovò?» domandai impazzito. Nonno indicò un punto lontano del litorale, e io seguii il suo dito come un pirata che segue la rotta in cerca di un tesoro:

«In mezzo alla baia, tra ciottoli di ghiaia e granelli di sabbia, Mamerzio riconobbe un mazzolino di fiori dello stesso colore degli occhi di Spurinna. Fu così che i due amanti si rincontrarono, e fu così che il giovane etrusco poté finalmente dirle addio.»

Ancora imprigionato nella sua storia, mi ritrovai a sospirare forte, buttando fuori tutta l'adrenalina che avevo accumulato fino a quel momento.

«Cos'è successo poi a Mamerzio?» chiesi, non ancora stanco della storia del nonno. Lui sospirò a sua volta, massaggiandosi il collo grinzoso:

«Non si sa. La storia descritta nella pietra si ferma qui, ma mi è sempre piaciuto pensare che Mamerzio abbia fatto tesoro delle sue vicende, tornando comunque a solcare i mari senza però dimenticarsi di Tarquinia e della bella Spurinna, facendone ritorno ogni volta che ne sentiva nostalgia.»

«La bussola!» urlai poco dopo. «Che fine ha fatto la bussola d'oro?»

«E' un vero mistero. Nella tomba non venne rinvenuto nulla, fatta eccezione di due oggetti stretti nelle mani della mummia: un rametto di fiori sempiterni e un sasso levigato, avente al centro una fessura larga quanto uno spillo.»

Non so se fu il modo di guardarmi del nonno, o il mio sesto senso di bimbo più grande della sua età, fatto sta che mi ritrovai ad aggrottare le sopracciglia poco convinto:

«Di' la verità, te la sei inventata.»

Nonno scoppiò in una fragorosa risata. «Forse l'ho colorita un po',» confessò tra i rantoli, «ma la storia di Mamerzio è vera quanto la storia impressa nelle ciotole, nelle giare e nelle anfore etrusche che ogni giorno vengono ripescate dal nostro mare.»

Stavo per ribattere, ma lui precedette i miei tormenti stringendo la mia spalla con forza:

«La nostra è una lunga discendenza, mio caro nipote. Anche se non puoi vederlo, nel tuo sangue c'è un po' di Mamerzio e degli esploratori etruschi salpati in cerca della loro avventura. Così come c'è un po' di Spurinna, che attese il ritorno del suo amato amando a sua volta la terra che lui stesso aveva abbandonato.»

Tornammo a casa che il sole era ormai calato. Durante il viaggio di ritorno, nella fiat malandata di mio nonno, mi ritrovai a fantasticare sulla vita di Mamerzio e sulle sue incredibili avventure, sentendomi meno estraneo a quel territorio e molto più vicino alle mie origini di quanto non lo fossi mai stato.

Arrivò la mattina della nostra partenza quasi senza accorgermene. Ricordo il sorriso mesto di mio nonno e le lacrime incontrollabili di mia nonna che pizzicò le mie guance con tanta forza da lasciarmi il segno. Mamma fu la prima a salire sul treno, lasciando a me e al nonno la possibilità di salutarci. Nonno mi diede una forte stretta di mano e mi augurò di fare un buon viaggio; lo trovai un saluto sterile, dopo tutto quello che avevamo passato insieme. Salii i gradini della carrozza con una strana stretta al petto, quando sentii la mano rugosa di mio nonno afferrare la mia per porvi un piccolo mazzo di fiori gialli:

«Dalli alla bambina che ti ha fatto penare» mi disse, facendomi l'occhiolino. Il capotreno fischiò, e capimmo che era davvero giunto il momento di dirci addio.

Salutai mio nonno e raggiunsi mia madre nella carrozza; nei miei occhi, ancora riesco a vedere la sagoma di mio nonno che si allontana fino a scomparire. Ricordo anche mia madre, che guardò i fiori tra le mie mani squittendo tutta emozionata:

«Oh, ma questi sono fiori di elicriso! Tuo nonno me ne raccoglieva un mazzetto ogni volta che facevo ritorno a Trento. Sai che sono fiori sempiterni?»

Fu l'ultimo regalo del nonno.

Portai i fiori con me, ma non li regalai a Eleonora. Invece li tenni come ricordo della promessa fatta tra Mamerzio e Spurinna, per non dimenticare mai la loro tragica storia e l'importanza delle mie origini.

Mio nonno morì due anni dopo. Se ne andò nel sonno, senza dolore né paura: aveva avuto una vita tranquilla, una buona moglie e una brava figlia. In tutto questo io torno a fargli visita ogni volta che ne ho la possibilità: ora sono un marito e un padre di famiglia, così come sono anche un assistente di volo; al pari di Mamerzio, ho viaggiato e viaggio tutt'ora in cerca di nuove avventure da raccontare ai miei figli, con la sola differenza che lui navigava i mari, mentre io solco i cieli. Ma una cosa ci accomuna: la voglia di tornare ancora una volta a respirare i colori della Tuscia.

Ho visitato molti posti, eppure non riesco a trovare nulla che possa essere paragonato alle meraviglie di questo territorio: è un ecosistema unico nel suo genere, in cui passato e presente si mescolano in un armonioso scorrere del tempo, dove anche le tradizioni più antiche vengono tramandate e mantenute con orgoglio di padre in figlio, in un perfetto cerchio di morte e rinascita.

Mio nonno aveva ragione. Non riesco a vederlo, ma lo sento il legame che mi tiene ancorato a questo posto: le colline boscose, le distese di campi di grano, il profumo dell'elicriso nel vento salmastro del litorale... ogni cosa in questo luogo mi incanta, mi affascina, mi trasforma. E ogni volta che devo ripartire, è come sentire un nodo alla gola che stringe e soffoca il mio respiro, mentre il mare mi saluta tingendosi di un brillante arancio sanguigno.

 

  
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