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Autore: DhakiraHijikatasouji    02/10/2020    0 recensioni
Siamo in tempo di guerra, anno 1916. Nessuno però sa che sotto un bunker una donna sta partorendo e un bambino alla luce sta dando. Questo cucciolo però non sa che dovrà crescere affrontando un’orribile infanzia da orfano dove scoprirà la sua vera natura che in tutto il racconto non riuscirà a negare a sé stesso. Soprattutto quando incontrerà l’aspirante artista Bill Kaulitz. E lì riuscirà a capire tutti i ritratti del mondo…del loro mondo.
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Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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KAPITEL 1

Ricordo ancora le note che suonavano in quei maledetti anni...

Leipzig, anno 1916

La prima guerra mondiale stava radendo al suolo la Germania come mai prima di allora. Gli aerei solcavano il cielo con i loro motori assordanti che facevano accapponare la pelle al solo sentirli. Bombe, un’infinità di bombe pioveva sopra il suolo tedesco. E quando esse toccavano la terra, quella saltava, zampillava, ardeva...soffriva. L’uomo poteva essere intelligente quanto stupido per non accorgersi di ciò che era davvero importante. Poteva essere generoso quanto opportunista, se c’era qualcosa che andava contro i suoi interessi. Ma in quella notte dove c’era solo da scappare, le esplosioni stavano facendo di sottofondo alle grida di una donna, alla quale si erano appena rotte le acque. Era incinta di otto mesi, e lo sforzo della corsa, l’ansia, la paura, le avevano indotto il parto. Quando suo marito aveva chiuso la botola, aveva trovato la moglie ansimante su una pozza di liquido amniotico. Lui non era un medico, né potevano permettersi di cercarne uno al momento. Fu solo in grado di aiutarla a svestirsi e di mettersi lì ad aspettare fino a che il bambino non le fosse arrivato alle ginocchia.

- Sto male...ti prego, Joerg…-


- Cosa devo fare, Simone?- Le chiese con evidente esasperazione, come se la donna avesse potuto evitare di avere le doglie proprio in quel momento.

- Tiramelo fuori!- Gridò completamente sfinita dalle spinte che aveva dovuto dare. Una bomba cadde e il suolo tremò. Doveva essere molto vicina, ma questo non era rilevante per la donna quanto per l’uomo, che ebbe un fremito interiore e deglutì.

- Va bene, va bene…- Le alzò la gonna e si posizionò per accogliere il bambino tra le sue mani. Riusciva a vedere la testa: era piena di sangue e ricoperta da qualche capello chiaro. Ma non era normale che aveva già le mani sporche di sangue. - Simone…- Deglutì. Non sapeva se dirglielo, ma stava avendo una grossa emorragia. Tuttavia decise che era meglio affrontare un problema per volta. - Spingi! Fra poco sta per nascere...manca poco…- Simone lanciò un ultimo urlo prima di cadere completamente sfinita stesa sul suolo. Insieme alle bombe ora si riusciva ad udire il sottile pianto di bambino che riecheggiò nell’aria sempre più forte e sempre più sfocato nel cuore di Simone. Sorrise. Joerg invece non smetteva di guardare quella piccola creatura infreddolita dal mondo che strillava indifesa. Poi però ebbe modo di abbassare lo sguardo e sussultò: la pozza di sangue si era triplicata e la gonna di Simone ne era completamente imbrattata.

- Joerg...dammi mio figlio, ti prego- Disse con voce debole, tremante, e provata dall’enorme sforzo che aveva sopportato. Appena l’uomo glielo dette, ella liberò una lacrima: sapeva di avere poco tempo. Intanto il neonato si era calmato tra le braccia della sua mamma. - Amore mio...temo che dovrò lasciarti- Sussurrò per poi baciarlo sulla fronte. - Ti chiamerai Tom, va bene? E perdonami se non sarò con te quando crescerai…- Singhiozzò poche lacrime prima di voltarsi verso Joerg. Glielo passò delicatamente in braccio e il neonato riprese a piangere.

- Le bombe si sono fermate-

- Vorrei tanto poterlo allattare- Joerg capì ciò che intendeva dire con quelle labbra tremanti e il respiro corto.

- Simone, non dire così. Tu lo crescerai, tu lo allatterai, tu gli darai tutto ciò di cui ha bisogno. Ti prego, non parlare in questo modo, sei una donna fantastica- Ella però scosse la testa, gli occhi erano rossi e lucidi, erano l’immagine della morte che la stava cogliendo, della paura dell’ignoto, della fine che le stava toccando e alla quale oramai non poteva più sottrarsi.

- Joerg, vattene…- Sussurrò. - Prendi il bambino e vattene!- Disse a voce più alta. Aveva un brutto presentimento, qualcosa che sarebbe successo da lì a poco. Voleva perlomeno cercare di salvare le due persone più importanti della sua vita.

- Ma che stai dicendo? Non posso lasciarti qui!-

- Sì che puoi. A me non resta molto, io sto…!- Improvvisamente un’altra esplosione, sembrava lontana ma non avrebbe tardato molto ad arrivare. - Ti prego, Joerg! Scappa!- Lo guardò negli occhi. - Fallo per me...fallo per lui!- Si chinò e dette un secondo bacio sulla fronte del neonato. - Un giorno ci rivedremo, amore mio- Gli sussurrò al piccolo orecchio. Era il suo cucciolo, era ciò che aveva sognato per così tanto tempo, ma la guerra glielo aveva strappato via. Ecco cosa causa l’uomo opportunista, vile, crudele...e che non sa cosa sia davvero importante. Diede un bacio morente anche sulle labbra del marito, prima di accasciarsi nuovamente al suolo. L’uomo piangeva e lei sorrise al toccargli le guance. In tutti gli anni di matrimonio non lo aveva mai visto o sentito piangere e ora lo stava facendo per lei, perché doveva abbandonarla. - Vai, ti prego, vai…- L’uomo si alzò e la guardò un’ultima volta prima di aprire la botola.

- Ti amo, e mi dispiace...per tutto- Ella sorrise.

- Lo so- Sussurrò impercettibilmente, poi il rumore delle bombe coprì le sue ultime parole. Joerg scappò fuori e vide il cielo grigio le cui nuvole stavano venendo cavalcate dagli aerei da guerra. Se avessero lasciato cadere l’ennesima bomba sarebbe morto, ma alla fine non aveva più nulla da perdere, doveva perlomeno cercare di mettere suo figlio al sicuro. Iniziò a correre stringendo il bambino al petto, il quale aveva nuovamente ripreso a strillare. Stava lasciando tutto: la sua casa, sua moglie...tutto ciò che aveva cercato di guadagnare in tutti quegli anni stava svanendo in un colpo solo. E per cosa, poi? Per il potere. Riuscì ad arrivare giusto un centinaio di metri dal bunker quando questo venne colpito da una bomba in pieno. L’onda d’urto lo investì e cadde a terra perdendo i sensi…

***

4 anni dopo… (Leipzig, anno 1920)

- Papà! Papà, guarda!- Tom era cresciuto in quegli anni. Era diventato un bambino pieno di energie. Aveva degli occhi dorati così profondi che potevi perdertici dentro, un dolce nasino a patata e una chioma biondo cenere che soleva portare legata in una coda di cavallo. Beh, suo padre non sapeva tagliargli i capelli, e quindi spesso gli uscivano robe improponibili, così Tom, per ovviare a tutto questo, se li legava ogni mattina con un elastico ricavato dai laccetti delle proprie scarpe vecchie.
Jorg abbassò lo sguardo. Il bambino gli stava porgendo un pezzo di ferro che aveva sicuramente preso dal capanno. - Non avevi detto che ti serviva questo?- Aveva capito che a suo padre serviva qualcosa tipo quello per aggiustare la macchina.

- No, Tom...non ho mai detto che mi serviva- Rispose con tono serio riabbassandosi nuovamente dentro il cofano dell’automobile. Il piccolo assunse un’espressione triste. Voleva solo aiutarlo, ma suo padre non voleva mai saperne niente di lui. Sembrava che volesse rimanere distaccato, che egli non avesse un figlio che necessitava del suo affetto, o perlomeno delle sue attenzioni.

- Papà?-

- Mh?-

- La mamma di che colore aveva gli occhi?- Chiese sedendosi da una parte per non dare fastidio.

- Come te- 

- E di che colore ho io gli occhi?-

- Marroni, suppongo- Tom si ritrovò a sospirare e ad abbassare lo sguardo. Aveva un padre che non si ricordava nemmeno di che colore aveva gli occhi. Eppure lo vedeva ogni giorno da quando era nato. - Tom, per favore, non riesco a lavorare con te che mi stai qui. Appena ho finito di riparare la macchina, prometto che parleremo, ma adesso vai via- Si sentì trattato come un cagnolino, un cucciolo che era fastidioso perché troppo gioioso e perciò veniva allontanato. Mestamente, si allontanò ed entrò nella piccola casa che li accoglieva. La guerra era finita da ormai due anni, eppure dentro il cuore del piccolo Tom c’era ancora un conflitto. Era un’eterna battaglia tra ciò che non conosceva e ciò che sapeva e non gli piaceva. Non aveva mai provato felicità, anzi...non sapeva neanche che cosa volesse dire sorridere. Joerg non lo aveva mai accarezzato, non gli aveva mai detto “ti voglio bene”, ma solo “tua madre è morta in un bunker il giorno che nascesti”. Tom non sapeva come sentirsi, se un dono o un rifiuto di dio. Non credeva di meritarsi di stare al mondo, anche se a volte gli accadevano cose così brutte che pensava fosse proprio il posto adatto ad uno come lui. E questo successe dopo quella notte dove Joerg lo stava mettendo a letto.

- Papà?-

- Mh?-

- Ma tu mi vuoi bene?- L’uomo più lo guardava negli occhi, più non aveva il coraggio. Continuava a ripetersi se fosse la cosa giusta da fare, se davvero suo figlio si meritasse una cosa tanto meschina. Tuttavia era giusto che non sospettasse nulla, e poi pensava che in fondo Tom si meritasse un minimo di soddisfazione.

- Sì. Sei mio figlio, è ovvio che te ne voglio- E Tom non era così grande da contestare, da rispondergli che no, non era così ovvio...ma era piccolo abbastanza da farsi bastare quelle parole, da sorridere e da coricarsi sotto le coperte. - Buonanotte, Tom- Si diresse verso la porta e spense la luce.

- Papà…-

- Dimmi-

- Anche io te ne voglio- Joerg rimase per qualche istante immobile, poi annuì leggermente con la testa e Tom si sentì finalmente in pace, finalmente felice, finalmente soddisfatto. Forse qualcosa stava cambiando nell’animo di suo padre, forse era stato sempre così freddo per non farlo crescere con l’idea che era tutto dovuto, perché aveva un carattere severo e con un bambino piccolo credeva fosse un buon atteggiamento per non fargli fare i soliti capricci. Insomma, tante idee si stavano mischiando nella mente di Tom, il quale si ritrovò a guardare le stelle dalla piccola finestrella e pensò per la prima volta che il mondo fosse un’autentica opera d’arte.

***

“Waisenhaus”. Erano dei segni che formavano una nuova parola che avrebbe aggiunto al suo vocabolario quando avrebbe saputo leggere. O forse non occorreva che sapesse leggere. Con la macchina ormai riparata, il padre aveva deciso di caricarlo sopra e di portarlo “a fare un piccolo viaggio”, diceva.

- Ma dove andiamo?- Chiedeva il bambino guardando la strada sterrata e cercando di non respirare il polverone che le ruote del veicolo creavano. Tossì. Troppo tardi. D’altronde quel catorcio non aveva i finestrini, suo padre l’aveva costruito da solo con le proprie conoscenze in meccanica. Però doveva ammettere che andava che era un piacere. Certo, ogni tanto emetteva qualche rumore di natura incerta, ma sembrava reggere ancora un po’. E poi a Tom stava piacendo tanto andare in macchina. Non ci era mai salito, aspettava solo che il padre finisse per poterci salire. Finalmente avrebbe visto il mondo, pensò. E invece niente. Appena arrivati camminarono per qualche minuto fino a giungere ad una costruzione parecchio isolata dal resto della civiltà. Tom era arrivato davanti alla porta e aveva alzato il naso: “Waisenhaus”. Che cosa voleva dire?

- Vieni, Tom-

- Papà...dove siamo?- Chiese mentre l’uomo suonava il campanello. Infatti non gli rispose e Tom non si pronunciò nuovamente. Sapeva che se suo padre non rispondeva c’era un motivo, anche se aveva paura di sapere quale sarebbe stato. Quel silenzio rimase fortunatamente per pochi secondi, prima che una vecchia signora venne ad aprire loro.

- Buongiorno, le serve qualcosa?- Chiese gentilmente. Anche a quella domanda Joerg non rispose e Tom sperò che la signora non rifacesse la domanda. Non doveva rifarla. Era una regola. Tuttavia il padre abbassò lo sguardo su di lui e poi lo rivolse nuovamente all’anziana, la quale sembrò capire senza parole e si scostò per farli entrare.

- Allora Tom, tu aspetta qui. Io e questa signora entriamo in quella stanza. Tu non ti muovere. Mettiti a sedere lì- Il bambino obbedì a bocca chiusa e si mise composto su uno di quelle poltrone polverose e puzzolenti di vecchio, come se quello fosse stato un ospizio. C’era tanto silenzio e Tom stava cominciando già ad avere paura. Era buio, pieno di ombre sinistre...quel posto era inquietante. Voleva poter chiedere a papà di stare con lui, che avrebbe fatto finta di non sentire i loro discorsi, ma sapeva che non sarebbe stato un permesso accordato. Così rimase lì. Ogni tanto sentiva lo scalpiccio di piedi e delle risate che parevano appartenere a dei bambini. Sempre più sinistro tutto quello. Aderì meglio con la schiena alla poltrona e deglutì. Gli stava venendo da piangere, il suo respiro accelerato preannunciava lacrime, quando improvvisamente la porta si aprì.

- Papà!- Joerg uscì con l’anziana signora alle spalle e vide il figlio corrergli incontro. Quando lo raggiunse lo abbracciò forte appoggiando la testa sulle sue cosce. Non voleva più stare in quell’orribile posto. - Papà...andiamo a casa?- Domandò alzando lo sguardo, ma sussultò. Suo padre lo fissava con occhi vitrei, come se fosse cieco e non lo potesse vedere. Tom tremò internamente. Che cosa voleva dire tutto quello?

- Ti chiami Tom, giusto?- Chiese l’anziana signora e il bambino annuì. - Scommetto che farai presto amicizia con qualcuno, ci sono tanti bambini qui che potresti conoscere-

- Cosa…?- Un fil di voce uscì dalle sue piccole labbra, ma neanche il tempo di realizzare, che suo padre si trovava già alla porta. - NO, PAPA’!- Gridò e sentì la mano ossuta di quella donna trattenerlo per un braccio. Cominciò a piangere disperato. Joerg aprì la porta e si voltò un’ultima volta, esattamente come quando lasciò Simone quattro anni prima. Tom si riuscì a liberare dalla presa e lo seguì fino a che non arrivarono alla macchina. - Papà, non andare via! Io ti voglio bene!- Gli afferrò il cappotto.

- Lasciami, Tom!- Glielo levò di mano con uno strattone e questo fece cadere il bambino in ginocchio. Joerg non se ne curò e salì in macchina. Tom ebbe solo il tempo di alzare lo sguardo appannato e di vedere una figura distinta fare retromarcia e lasciare quel posto. Era stato il suo primo e ultimo viaggio in macchina. E lui che non vedeva l’ora di salirci, adesso aveva capito perché suo padre la stava costruendo.
L’aveva abbandonato lì, al “Waisenhaus”.
All’orfanotrofio.
   
 
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