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Autore: Queen of Snape and Joker    26/10/2020    2 recensioni
Questo è ciò che accade quando il trash prende il sopravvento. Ovvero, l'amore pazzesco di una ship improponibile. René/Duccio
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Duccio Patanè, René Ferretti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Renè conosceva Duccio da ventuno anni. 

 

La prima volta che si erano incontrati era stato sul set di "Amore pazzesco", per un lavoro in comune che aveva inaugurato la loro fortunata collaborazione. Sia lui che Duccio all'epoca avevano molti chili in meno e facce un po' più sane, da ragazzi appena usciti dalla borgata. A ventisei anni si scapicollavano entrambi tra un set e l'altro, tra un corto montato in fretta e furia e quattro fotografie pubblicate su giornali di terza mano, tanto per arrotondare e non morire di fame (e, nel caso di Renè, per non tornare mai più nella bettola di Fiano Romano). 

 

"Amore pazzesco", però, era un'altra storia: un melodramma di quattordici puntate da girare per conto della Rai. Colasso, il regista che originariamente avrebbe dovuto occuparsi del progetto, si era fatto venire un infarto a tre giorni dall'inizio delle riprese, nell'agosto più caldo di Roma dall'anteguerra. Tutti i suoi colleghi erano, naturalmente, in villeggiatura. Tutti, naturalmente, tranne Renè Ferretti.

 

Duccio, invece, era riuscito a rimediarsi una piccola raccomandazione, grazie a suo fratello maggiore, che si era fidanzato con la figlia di un dirigente televisivo. 

 

«Piacere, Renato Ferretti, regista della serie. Ma puoi chiamarmi Renè, preferisco».

«Renè, allora. Io sono Duccio, direttore della fotografia».

«A proposito, come la vogliamo gestire la fotografia pe' 'sta mmerda?»

«Mah, io direi di smarmellare».

«E smarmelliamo, allora! Smarmelliamo tutto! Daje! Me stai simpatico».

 

A ventotto anni Renè era stato - come si suol dire? - solato dalla sua fidanzata storica. La cagna non aveva nemmeno avuto il coraggio di dirglielo in faccia. Lo aveva telefonato sul set di "Amore pazzesco 2", alla fine di un'altra giornata di intense riprese e di straordinari, per colpa delle solite moine dell'attrice principale, che era arrivata in studio con tre ore di ritardo perché le era morto il gatto o una cosa del genere.

«Io non ce la faccio più. Sono due mesi che non trovi neanche il tempo di mangiare una pizza con me. Due mesi. Addio, Renato».

Sarà stata la stanchezza, sarà stato che in fondo c'aveva il cuore tenero, ma non riuscì a non scoppiare in un pianto disperato. Tanto, ormai, nello studio non era rimasto più nessuno. O, almeno, così credeva, finché Duccio non sbucò da un angolo, arrotolando qualche pesante cavo elettrico. Smise immediatamente, non appena lo vide in quelle inconsuete quanto disperate condizioni, lasciando cadere il cavo a terra per posargli una mano sulla spalla.

«Aòh, 'a Renè, ma che c'hai?».

Lui non era riuscito a spiegarsi e, per buona misura, aveva continuato a singhiozzare, aumentando il ritmo e il volume dei propri gemiti. Duccio lo aveva fissato con intensa preoccupazione, spostandogli la mano dalla spalla alla schiena e spingendolo gentilmente verso la porta:

«Ma calmati, dai, non è successo niente. Ora sai che facciamo? C'andiamo a mangiare una bella pizza al Pincio. Vedi come ti riprendi subito! Così mi spieghi che cazzo ti prende».

 

Renè, alla fine, si era effettivamente calmato. E Duccio pure, visto che si erano scolati due cartoni di birra a testa. In qualche modo erano riusciti a chiamare un taxi, barcollando, nell'attesa, sul marciapiede davanti al ristorante; Duccio aveva dato all'autista l'indirizzo di una via che Renè non conosceva:

«Ma 'ndò annamo?»

«A casa mia, 'ndò voi annà, a casa tua? Così la cagna te caccia fòri a carci in culo, a quest'ora!». E qui giù a ridere tutti e due, scompisciandosi sui sedili posteriori in finta pelle del tassì. 

 

Duccio era riuscito, miracolosamente, ad aprire la porta del suo modesto appartamento e, sempre barcollando, lui e Renato erano entrati nel piccolo soggiorno, arredato alla buona con quattro mobili scadenti, accasciandosi rovinosamente sul divanetto al centro della stanza. Duccio ancora rideva, ma a Renè la sbornia stava cominciando a prendere male. Si trovò a ripensare alla sua grande storia d'amore finita, ai pochi soldi che si ritrovava in tasca e alla sua dignità perduta di artista, ritrovatosi a girare serie di merda per una massa di pecore ignoranti. Improvvisamente fu di nuovo triste, molto triste, e una lacrima solitaria gli sfuggì da un occhio. Duccio se ne accorse, nonostante fosse brillo, e forse proprio per questo, o forse no, gli venne spontaneo di portare una mano alla guancia dell'amico e di lavar via col pollice quella lacrima furtiva. Renè, che stava guardando fisso allo schermo spento della televisione davanti a lui, spostò gli occhi sull'amico, che fece una cosa incomprensibile: gli si avvicinò e lo baciò. Non appena Duccio si fu staccato da lui, Renè recuperò qualche parola: «A' Du', ma che stai a ffà?». Il suo non era un tono arrabbiato, quanto attonito e curioso, pur macchiato dal solito alone di tristezza che si portava appresso da tutta la sera. «Perdòname... Io, nun lo so. Nun m'è mai successo co' 'n om...». Ma non ebbe il tempo di finire la frase, perché Renato lo prese per il solito gilet da cacciatore e stampò la propria bocca sulla sua.

 

A trentacinque anni era successo quello che era successo. Renè aveva chiesto alla cagna di sposarlo e Duccio aveva iniziato a pippare coca. Il regista faceva finta di niente, ogniqualvolta il suo direttore della fotografia si presentava sul set con i baffi pieni di quello che diceva puntualmente essere oh, perdonatemi, lo zucchero a velo del cornetto che ho mangiato stamattina. Fino al giorno in cui non aveva più potuto fare finta di niente. Duccio non si era presentato in studio e, per giunta, era irrintracciabile. 

La sua preoccupazione, malgrado i propri tentativi di autocontrollo, aveva raggiunto vertici a loro volta preoccupanti. Arianna, la nuova stagista, gli si era avvicinata, guardandolo in modo strano: probabilmente si chiedeva perché non stesse sbraitando come al solito riguardo alla condotta del direttore della fotografia e fosse, invece, inconsuetamente silenzioso.

«Tutto bene, Renè? Vuoi che vada a casa di Duccio, per vedere se è lì? Abbiamo poco tempo e bisogna chiudere le scene di oggi entro le sei».

«Lo so! Ché, pensi che nun lo so? No, comunque. Te statte qua. Vado io a trovà a quello». Arianna fece per bloccarlo:

«Se vuoi che non vada io, posso mandare qualcun altro. Non penso che sia una buona idea che tu...»

«Senti: te sei la stagista? - Arianna esitò, incerta - E risponneme!»

«Sì...»

«Io so' il regista?»

«Sì.»

«Allora fai quello che te dico e nun sta' 'a rompe sempre er cazzo! E mò levati dai cojoni che me ne devo annà».

Arianna lo lasciò passare, sbigottita, e lui si precipitò in macchina all'appartamento dell'amico

 

Provò a bussare più volte alla porta, me nessuno rispondeva, così, senza perdere altro tempo, frugò sotto lo zerbino in cerca della chiave di scorta che sapeva essere lì e, non appena l'ebbe trovata, la inserì nella toppa e diede una mandata. Spalancò l'uscio e si trovò difronte uno spettacolo raccapricciante: il suo invito di nozze sul tavolino del soggiorno e, riverso sul divano davanti ad esso, Duccio svenuto, mezzo morto con la bava alla bocca. Con uno scatto di cui non si credeva capace fu al divano, si inginocchiò e prese l'amico per le braccia, scuotendolo disperatamente:

«Du', Du', che cazzo hai fatto? Te sei ammazzato! Mò vòi che m'ammazzo pure io, ve'?». Renè aveva cominciato a piangere, sconvolto, abbracciando Duccio come fosse una bambola di pezza. Dopo qualche istante rinvenne parzialmente dal suo stato di shock, riacquistando almeno la lucidità per chiamare un'ambulanza. I paramedici giunsero nella stanza dopo quelli che a Renè parvero secoli, trasportando in fretta e furia all'ospedale il corpo esanime di Duccio, posato su una barella.

 

 

Qualche ora dopo Renè si disperava in sala d'aspetto, in attesa, appunto, di notizie sullo stato di salute di Duccio. Aveva telefonato a quelli della produzione, biascicando qualche parola sull'accaduto e dicendo che li avrebbe informati lui sugli ulteriori sviluppi di quella terribile situazione. La troupe era stata ovviamente congedata e mandata a casa in anticipo con una scusa banale, affinché nessuno venisse a sapere dell'overdose del fotografo. Ecco perché fu sorpreso quando vide Arianna corrergli incontro, dopo essere sbucata da un corridoio attiguo alla sala d'aspetto del grande ospedale. La ragazza non riuscì bene a mascherare la sua sorpresa quando vide, per la prima volta, Renè piangere. Si sedette su una sediolina di plastica vicino alla sua e gli portò, un po' imbarazzata e impacciata, una mano sulla schiena, prendendo a muoverla in carezze circolari, in un goffo tentativo di consolarlo.

«Lopez mi ha avvertito della situazione. Dai, Renè, vedrai che andrà tutto bene. Duccio è forte».

«N-No, stavolta no. Q-questa è t-tutta c-colpa m-mia».

«Ma cosa dici? Non dipende assolutamente da te. Non è colpa di nessuno».

«E inv-vece s-sì. Si è am-maz-zato per c-colpa m-mia».

«Come puoi pensare una cosa del genere?»

Renè tentò di respirare, aspettando che almeno i singhiozzi scomparissero e fosse in grado di parlare senza interruzioni di quel tipo. Non appena si calmò un po', raccontò ad Arianna la verità. Le raccontò tutto, perché si fidava della ragazza e perché ormai non aveva davvero più niente da perdere. Le raccontò di quella notte di sette anni prima, del tempo in cui erano stati clandestinamente insieme; di Duccio che non ce la faceva più a vivere la loro relazione di nascosto come fossero criminali e di lui che, alla fine, era stato un codardo. Le raccontò di quando aveva riallacciato i rapporti con la sua futura moglie, di quando Duccio era venuto a saperlo e l'aveva lasciato; di come nessuno dei due, tuttavia, era riuscito ad andare avanti. Le raccontò della dipendenza di Duccio e della sua spregevole indifferenza. Le raccontò che lo amava ancora e che era una merda, ma che non ce la faceva proprio ad essere coraggioso. Dopo che ebbe finito di raccontarle tutte queste cose, Arianna lo abbracciò, stringendolo forte:

«Sei stato coraggioso a confidarti con me. Renè, vedrai che andrà tutto bene, me lo sento». 

«Mi dispiace se ti ho trattata male prima».

«Non ti preoccupare».

Proprio in quel momento, un medico uscì dal reparto della terapia intensiva, per rivolgersi al regista: «Lo abbiamo preso per i capelli. Siamo stati davvero fortunati ad essere riusciti a salvarlo. Qualche momento di ritardo e non ci sarebbe stato più nulla da fare».

«È sveglio?»

«Sì. Se vuole può vederlo brevemente. Giusto cinque minuti, mi raccomando. Non può fare grandi sforzi».

Renè non se lo fece ripetere due volte e, scortato dal medico, entrò in una stanza del tutto uguale a quelle che si vedevano in alcuni dei film che lui stesso aveva girato: era piena di macchinari e marchingegni vari, a cui si collegavano tubi di ogni tipo, i quali pendevano e si estendevano in una massa nodosa dal corpo del malato. Non appena il dottore ebbe chiuso la porta dell'ambiente, lasciandoli soli, Renè si precipitò su una sedia posta accanto al letto di Duccio e gli strinse una mano.

«Ma che hai fatto?», gli disse, commosso. Il fotografo lo fissava, debole, lacrimando a sua volta:

«T'importa di me solo quando mi ammazzo». La voce di Duccio era flebile e rassegnata:

«Sai che non è così».

«E allora perché sposi quella?», gli chiese con rabbia, le lacrime che ormai gli avevano inzuppato le guance. Renè lo guardò, assente. Sciolse le mani da quella di Duccio e le andò a posare sul viso dell'altro, liberandolo da tutta quell'acqua salata.

«Io ti amo, ma non ho il coraggio di mostrarlo al mondo. Riesco a mostrarlo solo a te. O, almeno, ci riuscivo. Adesso nemmeno quello».

«Vaffanculo, Renato».

 

   
 
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