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Autore: Ghillyam    25/12/2020    5 recensioni
Storia ispirata alla serie "Absentia", in cui il personaggio di Stana Katic viene rapito e tenuto prigioniero per sei anni. Qui ho provato a immaginare la reazione dei vari personaggi se tale destino fosse capitato a Beckett.
[Dal testo]
Da quando ti hanno tirata fuori da quella vasca, sembra che ogni passo sia utile solo a condurti una volta in più verso l'Inferno.
Il corpo non ti appartiene più, la pelle è un semplice involucro che serve a separarti da un mondo che ormai ti risulta estraneo. Ti circondano volti un tempo familiari, ma adesso fai fatica a ritrovarvi i tratti delle persone che conoscevi. Pensi che anche per loro deve essere lo stesso: tu di certo non ti riconosci più.
Non pensavi che tornare a vivere sarebbe stato più difficile dello scampare alla morte, ma dopotutto da questa strada ci sei già passata, non è niente di nuovo.
La differenza è che questa volta sei morta davvero – o così pensava il mondo.
[Storia partecipante all'H/C Advent Calendar indetto sul gruppo Facebook "Hurt/Comfort Italia"]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Da quando ti hanno tirata fuori da quella vasca, sembra che ogni passo sia utile solo a condurti una volta in più verso l'Inferno.
Il corpo non ti appartiene più, la pelle è un semplice involucro che serve a separarti da un mondo che ormai ti risulta estraneo. Ti circondano volti un tempo familiari, ma adesso fai fatica a ritrovarvi i tratti delle persone che conoscevi. Pensi che anche per loro deve essere lo stesso: tu di certo non ti riconosci più.
Non pensavi che tornare a vivere sarebbe stato più difficile dello scampare alla morte, ma dopotutto da questa strada ci sei già passata, non è niente di nuovo.
La differenza è che questa volta sei morta davvero – o così pensava il mondo. Un po' ti ci senti, morta. La Kate Beckett che tutti conoscevano non esiste più, e ne hai la conferma ogni volta che guardi negli occhi di chi è abbastanza temerario da posare lo sguardo sulla "nuova te" per più di qualche secondo.
Castle ci prova, con gli occhi azzurri – risultano quasi grigi sotto le luci dell'ospedale – che ti scrutano cercando di risolverti come la prima volta che vi siete incontrati. Ma sai che stavolta la storia che cerca non vuole davvero trovarla; sei diventata un mistero troppo grande, troppo doloroso, e lui non scrive più. Con te ha seppellito anche la sua abilità, qualcosa in quella tomba doveva pur metterci.
Tu non riesci a smettere di guardarlo: è il suo viso che hai tracciato e ritracciato nella tua mente quando credevi che ancora poco e saresti impazzita, ma quello che hai di fronte adesso è un Castle più maturo, duro, segnato da un dolore che si è insinuato nelle pieghe attorno agli occhi e nei solchi sulla fronte. La luce da bambino si è spenta, e avverti il cuore spezzarsi ancora e ancora. Sei responsabile anche di questo.
Vorresti allungare la mano e afferrare la sua, se non altro per assicurarti che non sparirà da un momento all'altro, ma hai paura che sarebbe proprio questo gesto a farlo scappare. Se qualcuno come te ti toccasse te ne andresti anche tu. Ma è lui che si muove e, esitante, intreccia le dita alle tue.
Lo osservi mentre piange e sussurra il tuo nome.
Lasci che si sfoghi, che dica e faccia quello che vuole, che si alzi – temi di vederlo uscire dalla porta e non tornare più – solo per risedersi subito dopo; non sai cosa aspettarti e l'unica cosa che riesci a fare è guardarlo. Nonostante il tempo e le ferite lo trovi ancora estremamente affascinante.
Pare essere passata un'eternità quando riesci finalmente a schiudere la bocca. Hai la voce roca e le corde vocali stridono quando cominci a parlare: quanto tempo è passato dall'ultima volta?
Gli chiedi di Alexis e per un momento torna a illuminarsi: vive a San Francisco adesso, è innamorata. Hayley è una ragazza fantastica; certo, è più grande – all'inizio non l'ha presa bene – però la rende felice e sa che con lei sarà sempre al sicuro.
Cosa fa, chiedi, e il Castle cupo che non conosci ti risponde che... non ne è sicuro, ma sa che quando aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a cercarti è stato il suo nome a saltar fuori. Inutile dirlo, prova a scherzare, è stato un fallimento, ma almeno sua figlia ha trovato qualcuno che la ama.
Non sai come rispondere perciò preferisci restare in silenzio. Un'altra novità: Castle non tenta di romperlo.
Fuori vedi il cielo diventare buio e solo quando l'infermiera annuncia che l'orario di visita è finito ti accorgi della sedia vuota, opposta a quella su cui è seduto Castle.
«Dov'è mio padre?»
*
Jim ha ripreso a bere, Castle lo ha mandato in riabilitazione.
È una danza che va avanti da quando sei scomparsa, ti racconta. È l'ennesimo colpo ma ti sforzi di chiedere se qualcuno lo abbia informato di dove ti trovi tu adesso e se puoi chiamarlo.
In questa fase del recupero è meglio evitare contatti con l'esterno, ma Rick ti promette che la prima cosa che farà domani sarà chiamare la clinica. Tu però lo fermi: hai già messo a rischio la sobrietà di tuo padre una volta.
«Deve saperlo, Kate.»
«No.»
«È tuo padre.»
«E cosa pensi che gli farà vedermi così?»
«Kate-»
«Sono stanca, Castle, vai a casa. Martha sarà preoccupata.»
Passano giorni prima che ti dica che la tomba di sua madre è vicina a quella con inciso sopra il tuo nome.
*
Provi sollievo quando vedi il Capitano Gates entrare nella stanza: almeno lei è rimasta uguale. Noti qualche ruga che prima forse non c'era, ma la risolutezza è la stessa di sempre.
È un piacere rivederti, Detective, ti saluta e la risposta più simile a un sorriso che riesci a fornire è un leggero piegamento dell'angolo della bocca, ma sai che la Gates non è tipo da prendersela.
Non perdete tempo in convenevoli, lei si limita a chiederti come ti senti e a ricordarti che presto o tardi dovrai fornire la tua deposizione. Ma possiamo lasciarti altro tempo, concede, e le sei grata per il fatto che non mascheri la schiettezza col riguardo e viceversa. Victoria Gates è quello che è e nulla può cambiarlo.
Desideri chiederle come stiano andando – come siano andate – le cose al Dodicesimo ma le parole ti si bloccano in gola e... è troppo e troppo presto. Iniziare questa conversazione ti darebbe l'illusione di essere ancora quella persona, la persona pronta a tornare al lavoro come se quelli sulla sua schiena fossero semplici graffi e non cicatrici indelebili di torture subite, la persona che vorresti non fosse stata fatta a pezzi in un bunker sottoterra.
La Gates deve capire il tuo disagio perché si congeda augurandoti di rimetterti presto in piedi e di chiamarla quando sarai pronta a parlare. Tu prometti, poi torni a dormire.
*
Esposito è diventato Sergente e lui e Ryan non si parlano più.
È Lanie a dirtelo, te lo confida mentre Javier è fuori dalla stanza per rispondere a una telefonata, e tu la guardi confusa. C'è qualcosa che ti sfugge.
«Dopo il tuo fun-»
Vedi il medico legale mordersi la lingua per ciò che si è lasciata sfuggire ma tu nemmeno ci fai caso, impegnata come sei a immaginare i migliori partner che hai avuto l'onore di incontrare prendere strade così diverse da non rivolgersi neanche più la parola. Come è successo?
«Dopo che sei scomparsa, loro... Litigavano di continuo, Kate. Javi non riusciva a credere che fossi morta e Kevin- Hanno passato un anno a cercarti, devi credermi, però... Ryan doveva pensare alla sua famiglia, capisci? Javier non l'ha presa bene. Si sono detti delle cose terribili. Castle ha provato a farli ragionare, come me e Jenny, ma non riuscivano più a lavorare insieme. Non senza di te.»
Non capisci se siano le pareti o la tua testa a girare, ma improvvisamente senti delle mani afferrarti per adagiarti sul letto – finalmente puoi camminare e muoverti liberamente, ma la debolezza è dietro l'angolo – e poi Lanie ti bisbiglia che va tutto bene, che hai solo bisogno di stenderti un attimo.
I tuoi pensieri sono rivolti a Esposito e Ryan: si sono separati per colpa tua, senti il pensiero vorticare.
«No, tesoro, non sei stata tu.»
E invece sì. Invece sì, urli dentro di te – e forse anche fuori – ecco altre persone che hai distrutto. Gli hai fatto così male che non sai se potranno perdonarti. No, non dovrebbero farlo.
«Beckett, Lanie?»
Nella tua confusione vedi Esposito stringere la mano della tua amica – c'è un anello al suo dito – e poi lo vedi avvicinarsi a te. Lo senti parlare in spagnolo, chica e quiero sono le uniche parole che afferri, e con gentilezza ti bacia la fronte. Devo andare, conclude, ma prima di uscire stringe Lanie a sé e conduce le loro mani intrecciate sulla curvatura che delinea il profilo di lei. Neanche te n'eri accorta fino a quel momento.
Rimaste sole, dai voce a ciò che hai visto.
Vogliamo chiamarla Kate, è la risposta che ricevi.
Se anche volessi non sapresti come fermare i singhiozzi che ti riducono a un ammasso tremante.
*
Sarah Grace è un concentrato di spensieratezza e gioia. Le piace giocare coi pulsanti che regolano la testiera del letto, perciò le lasci campo libero e vai a sederti vicino alla finestra.
Ancora un paio di giorni e potrai tornare a casa, te lo ha annunciato il dottore questa mattina. Per poco non ti sei messa a ridere per il sollievo: non hai mai amato gli ospedali e ancor meno dopo che hai rischiato di lasciarci la pelle. Questa volta non è diverso, ma almeno prima avevi un posto dove andare.
Prima che ti rapissero era il loft la tua casa, Castle, Alexis e Martha la tua famiglia. Ora non sei nemmeno più sicura di averne una.
Castle ti ha ripetuto più di una volta di tornare – il sì ti era sulla punta della lingua – ma per qualche motivo sai che non sarebbe la decisione migliore. Forse dipende dal profumo che non è il suo che aleggia sui suoi abiti.
«Chi è stato a farti male?»
La voce di Sarah Grace ti riscuote e la vedi ondeggiare sui piedini davanti a te, con la mano indica verso la cicatrice che hai sulla fronte.
Oh, rispondi e il resto di quello che vuoi dire muore quando è di nuovo lei a parlare.
«Quando io mi faccio male il mio papà mi canta le canzoni. Canto anche io se vuoi.»
Riesci solo ad annuire mentre la prendi in braccio e Sarah Grace inizia a canticchiare un motivetto che non conosci ma che ti riempie gli occhi di lacrime. Fai fatica a credere all'esistenza di un essere tanto puro. Istintivamente la stringi più vicina a te, le accarezzi i capelli e chiudi gli occhi, lasciandoti cullare dalla sua voce acuta e leggermente stonata che, anche se per poco, riesce a cancellare le immagini che da quando ti hanno trovata sono impresse sul retro delle tue palpebre. Una maschera bianca che ti perseguita, il non sapere chi nasconda l'ennesimo fattore che permette al panico di crescere.
Restate così a lungo e sai che a un certo punto Jenny e Ryan devono essere rientrati nella stanza perché senti la bambina agitarsi per qualche istante, ma poi torna immobile e le canzoni si susseguono una dietro l'altra.
Alla fine, riesci a tornare alla realtà e col primo sorriso sincero da giorni la ringrazi, assicurandole che non fa più male.
Vedi il suo faccino illuminarsi e l'orgoglio sul volto di Ryan è così dirompente che non puoi che sentirti tu stessa fiera di lui.
La prima volta che è venuto a trovarti si è scusato talmente tante volte che hai dovuto minacciare di usare la sua pistola per farlo smettere e, forse, proprio il fatto di sentire una battuta così simile a quelle che la vecchia te avrebbe fatto è riuscito a zittirlo.
Gli hai assicurato di aver compreso il perché si sia comportato in un certo modo – «Hai fatto il possibile, Kev, non hai nessuna colpa.» – e a quel punto lui ti ha ringraziato, un ultimo mi dispiace pronunciato.
Lo hai sentito di nuovo come un fratello.
*
Sei tornata nell'appartamento di tuo padre. Non è lo stesso in cui sei cresciuta, ma hai imparato a ritenerlo un posto ugualmente sicuro e, considerato che non avresti saputo dove altro andare, ti è sembrata la scelta più logica da fare. Inoltre, Jim è ancora in riabilitazione.
In un modo o nell'altro Castle è riuscito a convincerti che informarlo del tuo ritorno – hai notato la sua esitazione nello scegliere la parola meno compromettente – non gli avrebbe certo nociuto e non appena hai potuto lasciare l'ospedale sei andata a trovarlo.
Ci sono state molte lacrime, da parte di entrambi, ma adesso sai che lui farà di tutto per tornare a starti vicino. Pensavi che sarebbe stata dura rivederlo nelle stesse condizioni in cui si trovava dopo la morte di tua madre, e lo è stato, ma hai visto una convinzione nei suoi lineamenti la cui esistenza non avresti mai scorto la prima volta. Forse dipende dal fatto che tu sei tornata, rifletti, Johanna non l'ha fatto.
Pensare a tua madre ha assunto delle nuove sfumature adesso: quante volte hai pensato che se solo avessi ceduto avresti potuto rivederla? In fondo, bastava poco. Tuttora credi che forse sarebbe stato meglio.
Sono pensieri che non riesci a scacciare e da quando non sei più circondata da altre persone ventiquattro ore al giorno è ancora più difficile ignorarli. Più ti guardi intorno più capisci che un posto per te non esiste: Kate Beckett è un ricordo, qualcuno impossibile da riaccogliere nella propria vita.
Il dottor Burke sostiene che questa sia una percezione fittizia, che in realtà le persone che ami ti vogliono bene allo stesso modo di quando sei scomparsa. Ti sforzi, ma non riesci a credergli fino in fondo.
Loro sono andati avanti, tu sei bloccata a sei anni fa. Non aiuta il fatto che della tua prigionia tu non abbia che ricordi confusi, e per questo ancora più terrificanti. Le condizioni in cui ti trovavi dopo essere quasi morta per un colpo al cuore non si avvicinano minimamente a quelle attuali; in confronto gli attacchi di panico di allora puoi considerarli una specie di scherzo.
A volte ti senti ancora affogare in quella vasca. Non c'è aria e l'acqua ti invade i polmoni quando il bisogno di respirare si fa impellente; l'acqua ti circonda, è tutta intorno a te, e tu cerchi di scappare, sbatti i pugni contro il vetro ma è impossibile da rompere, non cederà mai. Ti disperi, vedi Castle e vuoi continuare a lottare per lui, dall’altra parte c’è tua madre che ti sorride. Sai che la fine è vicina.
Puoi solo pregare che arrivi in fretta.
*
Sei stata al distretto oggi. Ti hanno accolta tra gli applausi e hai ricevuto sguardi di ogni tipo: affetto, curiosità, compassione – sei stata testimone di ognuno di questi. Non hai resistito e hai guardato verso la tua scrivania. Notizia del giorno: non è più tua. Non hai conosciuto il nuovo occupante, di lui hai solo visto i resti di pasti consumati che non si è preso la briga di buttare nel cestino poco più in là. Sulla lavagna, compagna fedele e indispensabile aiutante per la risoluzione di numerosi omicidi, era appesa la tua foto. Spazi vuoti e cancellature ti hanno fatto capire che il tuo è ormai un caso risolto o, se non altro, un caso che non riguarda più le competenze del Dodicesimo. Sai per certo che l’FBI è entrato in gioco; perlomeno, è questo che ti ha suggerito l’uomo in giacca e cravatta seduto accanto alla Gates nella sala degli interrogatori. Ha lasciato che fosse il Capitano a porre le domande, nel tentativo di farti sentire il più possibile a tuo agio, ma non ti ha staccato gli occhi di dosso nemmeno per un attimo. Ti chiedi cosa stesse cercando di scorgere così disperatamente.
Hai fatto del tuo meglio. Ti sei impegnata davvero: hai forzato i ricordi, cercando di riportare a galla immagini che riemergono con chiarezza solo la notte, e hai risposto a ogni domanda. Sì, no, non ne sono sicura. Per un momento ti è sembrato che fosse andato tutto per il meglio. Poi ti sei quasi fatta sparare.
Se ci pensi non sei sicura di sapere cosa sia successo veramente. Ricordi solo che un attimo prima stavi per stringere la mano alla Gates e andartene e quello dopo eri per terra con sangue ovunque su di te. Lo hai sentito sulle braccia, sul viso, sui tuoi vestiti; ne avevi le mani piene. Devi aver afferrato la sedia per difenderti – da cosa? Da chi? – perché quando ti sei ripresa l’hai vista scaraventata dall’altra parte della stanza e l’agente con lo sguardo inquisitore teneva ancora in mano la pistola.
«Beckett. Beckett!»
«Metta via quell’affare.»
«Beckett, ascoltami: va tutto bene, va tutto bene.»
«Chiamate il 911.!»
«Non le serve un’ambulanza.»
«Ah no? E allora cosa?!»
«Attacca il telefono, Ryan! Beckett, ehi, Beckett, sei al sicuro.»
«Non la stai aiutando!»
«Capitano, lo faccia uscire prima che gli spari.»
Hai continuato a sentirli urlare, e nel frattempo stavi affogando: sangue, acqua, entrambi fluiscono senza fermarsi. Non sai dove sei e anneghi nel dolore. Non dovrebbe andare così, non è questa la tua vita, non hai lavorato per questo. C’è qualcuno che ti aspetta, devi tornare a casa, devi andare da lui.
«Cas- Castle.»
«Sta arrivando, Beckett.»
«Castle, per favore.»
«Sarà qui tra poco.»
«Castle, mi dispiace. Castle…»
«Kate! Oh mio Dio, Kate. Grazie, Esposito, ci penso io adesso. Kate, ehi, sono qui.»
«Castle? Mi dispiace. Mi dispiace, Rick. Scusa, scusa, scus-»
«Ehi, no. No. Va tutto bene. Dammi la mano. Puoi farlo, Kate? Puoi darmi la- Ecco, così. Respira con me, ci sei. Respira. Sei con me adesso, Kate, va tutto bene.»
*
Rick ha insistito perché tornassi a stare da lui e questa volta non ha accettato un no come risposta. Lasciami aiutare, Kate, ti prego e non sei riuscita a rifilargli il discorso sul fatto che il tuo sia un casino da cui è meglio stare alla larga.
Il loft è più spazioso o almeno così ti sembra. Forse dipende dal fatto che né Alexis né Martha lo occupino più – fai fatica a credere che non vedrai più la matriarca scendere dalle scale in vestaglia e con un’orrenda maschera verde a coprirle il viso – o forse sei tu a sentirti più piccola. Non sei più la donna che dominava la stanza coi suoi tacchi vertiginosi e il distintivo alla cintura; con le spalle incurvate e i maglioni larghi è come se cercassi di raggomitolarti su te stessa. Come un bambino cerca di inserire il rettangolo lì dove andrebbe andare il cerchio anche tu tenti di riadattarti a uno spazio che non è il tuo.
«Ti ho preparato la stanza degli ospiti.»
A quanto pare Castle pensa lo stesso. Tu però nascondi la fitta che le sue parole ti infliggono e lo ringrazi. Non riesci a non pensare che abbia deciso così perché è qualcun altro a occupare ciò che una volta era tuo. Scruti la stanza alla ricerca di prove – certe abitudini sono dure a morire – e una riesci a trovarla: c’è una valigia nel suo studio. È nell’angolo, quasi nascosta, e capisci che non avresti dovuto vederla però l’hai fatto e finalmente riesci a muoverti dall’ingresso. Non è il bagaglio di qualcuno che resta.
Rick richiama la tua attenzione chiedendoti se hai fame, ma nemmeno il pensiero della sua ottima cucina riesce a schiuderti lo stomaco. No, dici, vorrei andare a sdraiarmi.
Annuisce. Non si aspettava una richiesta simile, ma ti accompagna lo stesso al piano superiore. Ti indica il bagno e ti fa vedere come regolare le luci, quasi non avessi vissuto anche tu in questa casa. Vorresti urlargli di non trattarti come un’estranea – sei tu, sei ancora tu – ma sei la prima a vederti come tale e Castle non si merita colpe che sono esclusivamente tue. L’hai abbandonato e se ti odia non trovi un buon motivo che possa farlo smettere.
Ti lascia dell’acqua sul comodino ed esce, chiudendosi la porta alle spalle. Non hai il coraggio di seguirlo.
*
La prima notte lo senti battere il pavimento del corridoio. Avanti e indietro, avanti e indietro. Lo ascolti fino ad addormentarti.
La seconda bussa e se anche le parole lottano per lasciarti la gola non riesci a rispondergli. Bussa ancora.
La terza notte entra nella stanza. Sei voltata verso la finestra e lo avverti esitare sulla porta: immagini lo sguardo profondo e scrutatore, le mani strette nelle tasche. Il respiro è frammezzato e nella testa lo vedi bloccato a metà di un passo che non sa se dirigere verso di te o nella direzione opposta. Vuoi che si avvicini. Ti senti esplodere dal bisogno che hai di lui.
«Castle.»
Credi di averlo sognato per un momento, il tuo è un respiro strozzato, ma poi il materasso si abbassa e lui è sotto le coperte. Nessuno dei due si muove, entrambi spaventati dalla reazione dell’altro.
Per te è uno sforzo enorme, è come se fossi immersa in ondate di cemento, ma è più forte il desiderio di vederlo di fronte a te. Per davvero, questa volta. Ti volti, e qualcosa si scioglie quando i vostri occhi si incontrano.
Castle piange, piangi anche tu. Lui sussurra il tuo nome e tu ripeti il suo. Lo accarezzi e Rick ti attira a sé, non teme che tu possa respingerlo e tu avverti il freddo lasciarti le ossa. È lo stesso che ti si è insinuato dentro quando ti hanno separata da lui. Ora non potreste lasciarvi andare neanche volendo. Le sue braccia si stringono attorno al busto sottile, tu nascondi la testa nell’incavo della sua spalla e Castle ti appoggia le labbra sul capo. Inspira: è inebriato da te tanto quanto tu lo sei da lui, e alle narici arriva il profumo di sempre.
Nel buio che vi circonda, hai ritrovato il posto a cui appartieni.






NdA: storia nient'affatto natalizia ma la sorte ha voluto così. Spero che per qualcuno possa essere un bel regalo; per me pubblicarla lo è di certo visto che mi dà qualcosa da fare in questi giorni di quarantena solitaria.
Tanti auguri a tutti!
   
 
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