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Autore: sugarbear    31/12/2020    1 recensioni
Molti anni prima degli eventi del Ciclo delle Streghe, Tata Ogg è una giovane madre, e sta perdendo uno dei suoi bambini. Cerca di guadagnare più tempo possibile da Morte.
Storia ispirata a un dialogo che mi ha colpito molto tra Tata Ogg e Magrat, presente in Streghe di Una Notte di Mezza Estate.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Morte
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ballo in fa diesis minore


 
Sono io la Morte, e porto corona
Io son di tutti voi Signora e Padrona
E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
E dell’oscura Morte al passo andare.


Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo
Posa la falce, e danza tondo a tondo
Il giro di una danza, e poi un’altra ancora
E tu del tempo non sei più Signora.


A. Branduardi
 
 
Da qualche parte, sulle montagne Ramtop, sorge un villaggio. Non è particolarmente grazioso, o pittoresco; non ci abitano ragazzine con mantelle rosse, né stallieri con strane voglie sulla schiena e un aspetto troppo curato per lo stalliere medio, che normalmente puzza di cavallo ed è gradevole alla vista quanto un gibbone, solo più sporco.
Ha, tuttavia, due particolarità. La prima è che ci abitano delle streghe; la seconda, è che è l’unico posto dove sanno ballare la vera danza moresca. La eseguono una sola volta, all’alba, nel primo giorno di primavera. Poi non danzano più per tutta l’estate.
Era un bel giorno di autunno. Tutti pensano che lo scenario per una tragedia debba essere necessariamente una notte di temporale, o un giorno così freddo e cupo che il sole non si azzarda nemmeno a far capolino. Come se bastasse il bel tempo a tenere lontano il dolore.
Tata Ogg era una delle poche che lo sapevano. Tata Ogg era una strega, e uno dei privilegi delle streghe era appunto di conoscere cose da cui le altre persone non erano nemmeno sfiorate. Ma quello era uno di quei momenti in cui la conoscenza non sembrava proprio un privilegio.
I raggi del sole passavano tra le foglie degli alberi e poi cadevano a illuminare la stanza, colorando le pareti di riverberi gialli e arancioni. Il lettino nell’angolo era rischiarato da piccoli arcobaleni dovuti ai giochi di luce coi vetri. Tutto aveva un aspetto così assurdamente allegro.
Tata Ogg strizzò la pezza imbevuta di acqua fredda e si avvicinò all’occupante del lettino. Una bimba di forse cinque anni giaceva tra le coperte, il viso rosso e sudato, la pelle ardente di febbre. Il suo respiro rantolante si sentiva per tutta la stanza. Tata Ogg appoggiò la pezza sulla sua fronte e si sedette sulla sedia su cui aveva dormito per gli ultimi dodici giorni a quella parte, gli occhi fissi sul viso della bambina. Aveva l’aria di una che non avrebbe distolto lo sguardo nemmeno se un tifone avesse spazzato via il villaggio.
La porta si aprì con un cigolìo che voleva essere esitante, ma altresì consapevole che il proprietario del braccio che l’aveva aperta non sapeva neanche cosa fosse, l’esitazione. Tata Ogg non si voltò.
«Ciao, Esme.»
«Gytha.»
Nonna Weatherwax entrò nella stanza e si fermò accanto alla sedia. Scostò delicatamente le ciocche sudate dalla fronte della bambina, che non si mosse. Nonna Weatherwax non parlò. Non c’era molto da dire. Entrambe sapevano. Erano streghe.
«Non manca molto» disse Tata Ogg. La voce era tranquilla, ma aveva le unghie affondate nei palmi delle mani. Nonna Weatherwax fece per posarle una mano sulla spalla, ma il braccio le ricadde mollemente lungo il fianco. Cosa si può fare in una situazione del genere? Quello era un dolore che le sarebbe sempre stato estraneo.
«Non scervellarti, Esme.»
«Mi dispiace, Gytha.»
«Lo so. Grazie, Esme.»
L’orologio batté le tre.
«È venuta anche Goodie Whemper» disse Nonna Weatherwax, lasciando che una piccola quantità di disapprovazione acida s’insinuasse nel suo tono.
«Oh» sospirò Tata Ogg, e per la prima volta sembrò veramente consumata.
«È molto gentile da parte sua, ma pur con tutta la sua abilità nella medicina… Abbiamo provato di tutto, Esme. Non c’è più nulla da fare.» Il suo sguardo percorse il corpicino quasi immobile di sua figlia. Le posò una mano sulla guancia. A Nonna Weatherwax sembrò che con quel gesto la stesse trattenendo con tutte le sue forze, ovunque la bimba stesse andando.
«Non c’è più tempo» disse piano Tata Ogg.
All’esterno si udirono degli schiamazzi, poi la voce agitata di una donna sulla mezz’età. Tata Ogg si riscosse un poco.
«A proposito, non avevo affidato a Goodie i ragazzi, mentre ero occupata?»
Nonna Weatherwax sospirò.
«Ecco, è proprio di questo che sono venuta a parlarti. Goodie è una strega in gamba, ma non è molto brava coi bambini. E i tuoi stanno cominciando a diventare irrequieti.» La disapprovazione si espanse ancora un po’.
«Avresti potuto lasciarli a me. Ma questa è una mia opinione, naturalmente» concluse Nonna Weatherwax, col tono di chi non ha ancora capito come mai le proprie opinioni non siano state scritte su delle tavole e inchiodate alla porta di un tempio.
«Perché se li avessi lasciati a te, in due giorni non avrei più avuto dei figli, ma uno stagno pieno di ranocchi.»
Nonna Weatherwax s’impettì con fare molto teatrale.
«Gytha! Queste illazioni mi offendono. Sai benissimo che quando mi ci metto ho la pazienza per qualunque cosa, e i tuoi ragazzi….ecco…be’.»
Ci fu una breve pausa imbarazzata.
«E comunque, io non sottovaluterei l’ornamentalità degli stagni, se fossi in te» fece Nonna Weatherwax, con tutta la dignità rimasta, sistemandosi il cappello a punta.
Tata Ogg sorrise, mesta. Era grata a Esme per il tentativo di riportare la realtà alla familiare routine dei loro battibecchi, ma si sentiva come al centro di un buco nero che stava inghiottendo ogni cosa. Non c’era niente, tranne il respiro sempre più difficoltoso della sua bambina e la sensazione quasi fisica dei secondi che scivolavano via. Non c’era più tempo.
La porta sbatté violentemente, e una torma unna assassina si riversò nella stanza. Ad una seconda occhiata, tuttavia, la torma unna si ridimensionò in un ragazzino di circa sette anni con la stazza di un torello e la stessa espressione caparbia, che si trascinava per mano un bimbetto di circa tre anni. Seguiva a ruota Goodie Whemper, con un bebè in braccio e l’aria esausta di una Mary Poppins senza più zucchero, né pillola, e nemmeno l’ombrello per volare via.
«Gytha! Scusami ma non sono riuscita a trattenerli, ai bambini mancava tanto la loro mamma, e…»
Venne interrotta da quello che da primo acchito somigliava in tutto e per tutto a un muggito.
«Mamma!» Jason Ogg corse in avanti, trascinandosi dietro il fratellino Jamie, che inciampò, sbatté la fronte e iniziò a piangere. Il fratello lo ritirò su con la noncuranza di chi ormai ci ha fatto l’abitudine. Il piccolo Willie, in braccio a Goodie, per simpatia iniziò anche lui a ululare come una sirena. Jason alzò la voce di qualche decibel per farsi sentire.
«Mamma! Io voglio…» Si bloccò quando intercettò l’occhiata rivoltagli da Nonna Weatherwax, che avrebbe congelato la fucina di un fabbro.
Entrambe le streghe si erano alzate e sistemate praticamente davanti alla porta per impedire ai bambini la visuale del letto. Tata Ogg diede un bacio alla fronte di Jamie, che si sentì subito meglio, prese in braccio il piccolo Willie, che smise immediatamente di piangere e le si accoccolò contro, succhiandosi il pollice, e accarezzò Jason.
Jason alzò lo sguardo su sua madre e raccolse il coraggio.
«Mamma, io voglio vedere Lizzie!»
Jamie annuì e si accodò al fratello.
«Anche io! Mamma, dov’è Lizzie?»
Tata Ogg si irrigidì, ma solo Nonna Weatherwax se ne accorse.
«Lizzie sta dormendo, bambini. Non potete vederla, o la svegliereste.»
«Ma…!»
«Niente ma! So che non è facile per voi, ma dovete avere pazienza e fare i bravi. Jason-»
Un rumore proveniente dall’altra stanza l’interruppe. Era un suono orribile, di una persona coi polmoni ostruiti che sta tentando disperatamente di respirare con tutte le sue forze. Finì in un gorgoglio e si spense. Jason indietreggiò, gli occhi sbarrati, e prese Jamie per mano, stringendo forte. Tata Ogg era bianca come il gesso. Riconsegnò Willie a Goodie Whemper.
«Io devo andare. Jason, va’ con Goodie e fa’ il bravo. Bada ai tuoi fratelli.»
Jason annuì, ammutolito dall’espressione di sua madre. Goodie Whemper li ricondusse verso la porta.
«Mi dispiace, Gytha» disse piano. Tata Ogg annuì.
Appena mise piede sul prato fuori casa, Jason Ogg iniziò silenziosamente a piangere, con ancora il piccolo Jamie stretto per mano.
Nonna Weatherwax seguì Tata Ogg al capezzale di Lizzie. La bambina era cadaverica sotto le chiazze rosse sulle gote, e ormai il suo respiro era talmente stentato che non si capiva se sarebbe arrivata al successivo. Era ora di andare.
«Gytha…»
«Mi ha fatto piacere vederti, Esme.»
Nonna Weatherwax dubitava che Tata Ogg si rendesse conto che esisteva una dimensione al di fuori dell’angoscia che la stava divorando, ma annuì educatamente. Quando non rimane più nulla, ci si aggrappa alle apparenze.
Arrivò a metà della stanza, poi si voltò. Tata Ogg stava rimboccando le coperte a Lizzie.
«Gytha, noi non possiamo…»
«Lo so, Esme.»
«Mi dispiace, Gytha.»
«Lo so. Grazie, Esme.»
Nonna Weatherwax uscì, stringendo i pugni per la frustrazione. Detestava non poter fare niente.

L’orologio batté le sei.
Tata Ogg non si era mossa dalla propria posizione. Il suo universo cominciava e finiva col respiro di sua figlia. Ora i raggi del sole al tramonto coloravano le pareti di rosso-arancione, e il buio stava conquistando la stanza poco a poco. Il respiro di sua figlia era sempre più tenue. Non c’era più tempo.
In quel villaggio sulle Ramtop, dove sanno esattamente cos’è la vera danza moresca, un certo giorno, quando le notti si accorciano, i danzatori staccano presto dal lavoro e tirano fuori dagli armadi e dalle soffitte quell’altro costume, quello nero, e le altre campanelle. Vanno separatamente in una valle circondata da alberi privi di foglie per danzare. Non c’è musica. È nel freddo pomeriggio, mentre la luce sparisce dal cielo, tra le foglie gelate e l’aria umida, che eseguono l’altra danza moresca. Per l’equilibrio delle cose.
Tata Ogg si alzò e andò alla cassapanca. Tirò fuori dal fondo uno scialle nero. Era fatto di un tessuto normalissimo, un po’ liso dagli anni, ma appena se lo infilò, inghiottì tutta la luce che c’era nella stanza. Si sciolse i capelli, che le scesero ondulati fino ai fianchi. Aprì la credenza e prese le campanelle, non quelle d’argento, le altre. Quelle che quando le agitavi non facevano rumore.
Il sole era quasi calato. Tata Ogg dedicò una lunga occhiata alla figuretta stesa sul letto. Scosse la chioma e si esibì in una bella riverenza.
«Sarebbe un onore danzare con te» disse a qualcuno che un attimo prima non c’era, o forse era sempre stato lì. Era alto e scuro, e le ombre che danzavano sulla sua figura disegnavano il profilo di uni scheletro coperto da una veste nera.
IO SONO QUI PER FARE IL MIO LAVORO. NON MI È CONCESSO SVAGO ALCUNO.
«Ma sarebbe scortese rifiutare» disse Tata Ogg. Le campanelle danzarono tra le sue dita.
Morte assunse un atteggiamento pensoso, per quanto possibile a uno scheletro.
SIA. DAL MOMENTO CHE TI SEI INCHINATA A ME, SE COSÌ DEV’ESSERE, COSÌ ANDRÀ.
Appoggiò la falce alla parete e s’inchinò.
Ad uno spettatore esterno sarebbe sembrata una scena alquanto singolare: una giovane donna con i capelli sciolti e lo scialle nero che danzava da sola, senza fare il minimo rumore, neanche il fruscìo dei vestiti o i piedi nudi sul pavimento. Ad ogni passo il colorito la abbandonava, i capelli si facevano più opachi, gli occhi più spenti. Eppure continuava a danzare.
Il suo cavaliere, invece, non si stancò mai. Si muoveva in modo molto aggraziato.
«Te la cavi bene, considerata la tua, ehm, conformazione fisica» ansimò Tata Ogg, facendo una giravolta.
SO BALLARE DA PRIMA CHE FU INVENTATA LA MUSICA.
«Non hai occasioni per farlo, però.»
NO. MA BISOGNA ESSERE UN BUON BALLERINO PER SAPERE ESATTAMENTE QUANDO FINISCE LA DANZA.

Il sole tramontò. La pendola batté le ore fino alla mezzanotte, e, stranamente, le batté tutte con un colpo solo. C’è una vecchia filastrocca che le nonne cantavano ai bimbi nelle notti d’inverno, che dice che quando Morte viene invitata a danzare, se i passi si succedono l’uno dietro l’altro con sufficiente velocità e i ballerini si perdono nelle giravolte del ballo (e si gira sempre in cerchio. Non c’è altro modo), Morte a un certo punto perde la sovranità sul tempo, che si mischia anch’esso alla danza.
Così Tata Ogg continuò a danzare con Morte. Non sapeva se sarebbe servito a qualcosa, ma sapeva che non c’era più tempo. E Morte, quando sente la musica giusta ed è invitato, deve ballare. Se fosse riuscita a trattenerlo per un tempo sufficiente, finché il tempo non avesse più avuto significato…
«GYTHA!»
La porta venne spalancata di scatto, e Nonna Weatherwax fece il suo ingresso. Era scarmigliata e col fiatone: doveva aver corso fin lì.
«Lo sapevo! Sapevo che avresti tentato qualcosa! Gytha, smettila! Non si può fermarlo, lo sai quanto me!»
«Zitta, Esme!» ringhiò Tata Ogg, continuando a danzare. La vita fluiva dai suoi gesti come calore da una fiamma.
«Devo tentare tutto! Non c’è più tempo! Se io…»
Nonna Weatherwax si lanciò in avanti e tentò di strapparle lo scialle. Tata Ogg la evitò, ma inciampò e perse il ritmo. Morte rallentò.
«Maledizione!» gridò Tata Ogg, e girò su se stessa, così in fretta che il suo scialle sfiorò una mano scheletrica.
Nonna Weatherwax entrò nel cerchio formato dalla loro danza. C’era freddo lì, e una strana assenza di luce, che non era buio ma qualcos’altro, di più definitivo. Lanciò un’occhiataccia a Morte, e si girò a fronteggiare Tata Ogg.
«Gytha… Non è così che funziona, lo sai.»
«C’è sempre l’eccezione alla regola!» rispose lei, disperata.
NO. NON C’È.
«Pensaci. Se fosse possibile… Quanti ce l’avrebbero chiesto? Quante persone ci hanno maledetto perché dicevamo loro che non c’era più niente da fare?»
«Noi siamo streghe!»
«È vero, e certe regole che valgono per la gente comune, non valgono per noi. Ma per noi valgono regole che loro non hanno.»
«Ma noi possiamo…!»
«Lo so!» Nonna Weatherwax quasi gridò.
«Ma è proprio perché possiamo, che non dobbiamo! Noi, più di chiunque altro!»
«Ma se non lo facciamo noi che ne abbiamo la facoltà, allora tanto vale che possano tutti!»
«Gytha Ogg, neanche tu lo pensi! Credi sia giusto che abbia la facoltà di fermare Morte chi non può vederla? Chi non fa nascere i bambini, chi non prepara i morti al loro ultimo sonno, chi non è a conoscenza della propria ora?»
«No.» Tata Ogg alzò la voce. «Ma la mia bambina…!»
«Non è diversa dalla figlia di Lucy Nitt» disse Nonna Weatherwax a voce bassa. «Né dal bambino dei Tarleton».
Tata Ogg trasalì, come se l’avesse schiaffeggiata. La fissò con gli occhi brucianti di rabbia.
«Questo è stato un colpo basso, Esme» sibilò, la voce tremante.
«Lo so».
Tata Ogg guardò Lizzie con gli occhi gonfi di lacrime. Non perse il ritmo, tuttavia, non lo perse mai.
«Non posso permetterlo» disse, ma erano le parole di un generale che stava per perdere la battaglia.
«Non è una cosa che devi decidere tu» sbottò Nonna Weatherwax, abbandonando del tutto la strada del tatto. «Succede così e basta. Smettila di intrappolare questo signore in una danza che ti ucciderà, e fattene una ragione.»
Morte si girò un attimo verso di lei, con l’espressione che avrebbero fatto i suoi muscoli facciali a chiunque avesse apostrofato con “questo signore” una rappresentazione antropomorfica millenaria. Aspettò pazientemente la decisione della sua dama. Dicano quello che vogliono, Morte è un gentiluomo.
Tata Ogg emise un sospiro che era come l’insieme dei sospiri di tutte le madri di questo mondo, ma si fermò. La gonna smise di volteggiare, lo scialle penzolò senza vita sulle clavicole, le campanelle rimasero ferme tra le sue dita.
Tata Ogg fece un inchino aggraziato al suo cavaliere, che si era fermato anch’esso.
«È stato un piacere ballare con te», disse in tono formale. Morte chinò solennemente il capo.
HA RAGIONE, SAI. NON CI SONO ECCEZIONI ALLA REGOLA.
«Perché hai accettato il mio invito, allora?»
IO DOVEVO VENIRE QUI ALLE SEI E MEZZO. IL TEMPO NELLA DANZA NON HA SIGNIFICATO, QUANDO CI SI MUOVE IN CERCHIO.
La pendola batté l’ora. Nella stanza tornò una luce crepuscolare. Nonna Weatherwax strizzò un attimo le palpebre; non si era resa conto di quanto fosse stato buio, fino a quel momento. Morte prese la falce. Tata Ogg si piazzò istintivamente davanti al lettino. Morte non si mosse.
PUOI SALUTARLA.
«Cosa?»
HAI GUADAGNATO IL TEMPO NECESSARIO A DIRLE ADDIO. LEI SAREBBE MORTA NEL SONNO, E TU NON TE NE SARESTI ACCORTA.
«Ma io ti posso vedere!»
MI AVRESTI VISTO TROPPO TARDI.
«Questo non succederà mai.»
È GIÀ SUCCESSO. ME LO RICORDO.
Tata Ogg si sedette sulla sponda del materasso. Nonna Weatherwax si allontanò con discrezione, poi lanciò un’occhiataccia alla sua sinistra.
«Scusa, ti dispiace?» sibilò. «Gli umani in questi momenti gradirebbero un po’ di privacy.»
OH. GIUSTO. CHIEDO SCUSA.
«Immagino che dovrebbe essere la prassi per te, no?»
SÌ. EHM. TI DISPIACEREBBE SMETTERE DI GUARDARMI COSÌ? MI SENTO UN PO’… TRAPASSATO.
«No.»
VA BENE. VA BENE. CHIEDEVO SOLO. MI RICORDA QUALCUNO.
«È una caratteristica di famiglia.»
RODOLPHUS WEATHERWAX. ECCO CHI. UN TIPO INTERESSANTE.
«Era il mio bisnonno.»
Morte tirò fuori una piccola clessidra. La sabbia era scesa quasi tutta.
SCUSAMI. HO DA FARE.
«Prego» sibilò Nonna, glaciale. Morte si sentì di nuovo stranamente a disagio. FACCIO SOLO IL MIO LAVORO.
La falce si mosse, così velocemente da risultare impercettibile a chi avesse guardato. Tata Ogg si chinò sul letto, e fece un’ultima carezza a sua figlia. Lizzie non respirava più, e la stanza all’improvviso era molto più fredda. Tata Ogg rimase stranamente calma. Ravviò i capelli della bambina, poi le coprì il viso con il lenzuolo
Morte era sparito.
«Gytha…» iniziò Nonna Weatherwax.
«Va tutto bene, Esme.» Tata Ogg chinò la testa. Sembrava ripiegata su se stessa. «Grazie.»
«Non ringraziarmi. Non ho fatto una bella cosa.»
«Andava fatta, tuttavia.»
Tata Ogg si alzò. Nei suoi occhi c’era tutto il dolore del mondo.
«Coraggio, Esme. C’è molto da fare, adesso.»


 

«Tata?»
«Sì cara?»
«Non capisco. Era tua amica, ma non sembri…ecco… sconvolta.»
«Be’, ho seppellito qualche marito e uno o due bambini. Ci si fa l’abitudine.»

Streghe di Una Notte di Mezza Estate

Terry Pratchett
 

  
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