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Autore: Soul Mancini    09/01/2021    5 recensioni
[Joeminic]
Un tuono più forte degli altri squarciò l’aria improvvisamente, quasi a sottolineare la complicata e non troppo felice situazione in cui mi trovavo.
Il ragazzo, che intanto aveva preso tra le dita un mazzo di chiavi e richiuso la tasca del giaccone, si irrigidì immediatamente e i suoi occhi si sgranarono appena, colmi di emozioni che non sarei mai riuscito a decifrare.
“Dominic?” sussurrò con un filo di voce, e le sillabe del mio nome si fusero allo scroscio della pioggia.
Cazzo.
Come dovevo reagire in quella situazione? Come potevo comportarmi, ora che mi ritrovavo stipato sotto una stretta tettoia con il mio ex – colui che aveva rappresentato l’unico e più grande amore della mia vita – che non vedevo da almeno sei anni?
- SESTA CLASSIFICATA al contest "Falling in and out of love" indetto da inzaghina.EFP sul forum di EFP.
- Vincitrice del premio "Un mare di Angst" alla challenge "Fammeli shippare!" indetta da Kim_ sul forum di EFP.
- Partecipa alla challenge "Seasons Die One After Another" indetta da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dominic Craik, Joe Langridge-Brown
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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«Quando un amore finisce, uno dei due soffre. Se non soffre nessuno, non è mai iniziato. Se soffrono entrambi, non è mai finito.»
Marilyn Monroe
 
 
 
 
Mi passai una mano tra i capelli umidi di pioggia, portando indietro alcune ciocche corte e scure, mentre tentavo di riprendere fiato; sentivo il petto alzarsi e abbassarsi rapidamente sotto la giacca in pelle troppo leggera per quella giornata autunnale.
Quando ero uscito di casa, qualche ora prima, nulla sembrava preannunciare il forte temporale che ora si abbatteva impietoso sulle strade di Londra. Ovviamente non avevo un ombrello con me, così quando l’acquazzone mi aveva colto di sorpresa ero stato costretto a correre, cercando rifugio sotto la prima tettoia abbastanza grande da ripararmi – e non era stato facile trovarla.
Ancora in preda al fiatone, mi guardai attorno con circospezione: il mondo intero pareva ricoperto da una patina grigia e tetra, grosse gocce rigavano ogni superficie e si univano in piccoli rivoli, dando vita a uno scroscio che ovattava qualsiasi altro suono. Oltretutto le nuvole nere non facevano che ammassarsi sempre più fittamente in cielo e il gorgoglio dei tuoni sempre più frequenti non facevano presagire nulla di buono.
Sbuffai. Come sarei potuto tornare a casa in quelle condizioni? Potevo solo aspettare sotto quella malconcia tettoia in metallo attraverso cui si infiltrava qualche rigagnolo d’acqua gelida.
Si moriva di freddo là fuori.
Trascorse qualche secondo prima che mi rendessi conto di una sagoma in movimento alla mia destra, sfocata oltre la cortina di pioggia. La osservai con la coda dell’occhio senza troppo interesse mentre, metro dopo metro, si faceva sempre più vicina. Si trattava di una figura esile e slanciata – non fui in grado di capire a primo impatto se si trattasse di un uomo o una donna – della quale spiccavano la carnagione pallida e i capelli chiari.
Distolsi lo sguardo per qualche istante – non volevo risultare maleducato o inopportuno – e tornai a fissare la via asfaltata davanti a me, che pareva essersi trasformata in un piccolo fiume in piena.
Mi riscossi soltanto quando realizzai che la persona che avevo osservato fino a poco prima si era fermata sotto la pensilina, proprio accanto a me, e armeggiava con qualcosa all’interno delle tasche del suo giaccone.
A quanto pareva non ero l’unico ad aver dimenticato l’ombrello.
Mi voltai appena, discretamente, e incrociai un paio di occhi blu profondi e torbidi, più del cielo che ci sovrastava.
Quegli occhi blu.
Un tuono più forte degli altri squarciò l’aria improvvisamente, quasi a sottolineare la complicata e non troppo felice situazione in cui mi trovavo.
Il ragazzo, che intanto aveva preso tra le dita un mazzo di chiavi e richiuso la tasca del giaccone, si irrigidì immediatamente e i suoi occhi si sgranarono appena, colmi di emozioni che non sarei mai riuscito a decifrare.
“Dominic?” sussurrò con un filo di voce, e le sillabe del mio nome si fusero allo scroscio della pioggia.
Cazzo.
Come dovevo reagire in quella situazione? Come potevo comportarmi, ora che mi ritrovavo stipato sotto una stretta tettoia con il mio ex – colui che aveva rappresentato l’unico e più grande amore della mia vita – che non vedevo da almeno sei anni?
Un brivido mi corse lungo la schiena e lo dissimulai con una scrollata di spalle. Poi abbozzai un sorriso stentato. “Joe… che ci fai qui?”
Che domanda intelligente e sensata… si ripara dalla pioggia, no?
“Beh… non avendo un ombrello con me, mi sono fermato per cercare le chiavi dell’auto” ribatté lui in tono piatto e distaccato, giocherellando con ciò che aveva in mano.
Lo scrutai attentamente, cercai di decifrare la sua espressione e mi sorpresi nel notare quanto riuscisse a essere freddo e imperscrutabile, proprio come lo ricordavo. In effetti, a ben pensarci, non era cambiato quasi per niente nonostante il trascorrere degli anni: le ciocche dorate, seppur più corte, riflettevano la luce di un sole che non c’era e incorniciavano un viso dai lineamenti delicati, affilati dalla tensione ma sempre estremamente affascinanti. Sulla sua pelle diafana non era apparsa nemmeno una ruga, solo un filo di barbetta bionda che gli conferiva un’aria più matura.
Eravamo cresciuti, lui doveva avere ormai una trentina d’anni – forse trentuno –, ma era rimasto sempre lo stesso, il mio Joe, come lo ricordavo.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo; era pur sempre il mio ex, non potevo permettermi di contemplarlo in quel modo. “Oh, capisco… sei fortunato ad avere un’auto.”
“Tu sei a piedi?” domandò lui.
Annuii. “E ovviamente non ho l’ombrello. Il tempo passa, ma sono sempre il solito incasinato.” Accennai un sorriso e mi parve di scorgere una lieve scintilla di nostalgia nelle iridi di Joe.
Mi strinsi nelle spalle. “Pazienza. Vorrà dire che aspetterò finché non smetterà di piovere.”
“E se piovesse fino a stanotte?” ribatté prontamente lui con una punta di ironia.
Che ti importa? Perché ti dovresti preoccupare per me?, avrei voluto chiedergli. Tuttavia tacqui e mi limitai a lanciargli un’occhiata in tralice; in realtà non sapevo bene come interpretare quel briciolo di apprensione che aveva mostrato nei miei confronti. Certo, nonostante ci fossimo lasciati non eravamo mai arrivati al punto di detestarci, ma ormai era finita da un pezzo.
“Affitterò un gommone e tornerò a casa, in un modo o nell’altro.” Decisi di buttarmi sull’ironia, il campo in cui mi sentivo decisamente più ferrato.
Joe abbozzò un sorriso, piegò appena la testa di lato e mi osservò con attenzione. “Ma almeno ti sei accorto che sei completamente zuppo?”
Rabbrividii nel rendermi conto che una manica della mia giacca in pelle si era infradiciata e una piccola pozza d’acqua mi si stava formando ai piedi, rischiando di inghiottirmi le scarpe. Sollevai lo sguardo e mi accorsi che la piccola infiltrazione d’acqua nella tettoia non era così piccola: praticamente pioveva anche là sotto.
“Fottuta pensilina” borbottai, scostandomi appena per cercare un punto in cui stare all’asciutto.
Joe ridacchiò. “Senti… e se aspettassimo dentro la mia macchina? Qui fuori si gela e non credo che smetterà di piovere tanto presto.”
Avevo sentito bene?
Dovevo tenere i piedi per terra e non immaginare chissà quali colpi di scena. Quelli non erano certo dei celati tentativi di fare un passo avanti verso di me; Joe era sempre stato una persona educata e gentile, era normale che mi offrisse una mano d’aiuto vedendomi in difficoltà.

Mi sforzai per non far intendere la mia perplessità, annuii e sorrisi. “Se per te non ci sono problemi…”
“Okay.” Si voltò a osservare la pioggia che continuava a battere senza tregua attorno a noi, poi sollevò lo sguardo sul cielo plumbeo illuminato da un lampo improvviso. “Sei pronto a correre?”
“Dove hai la macchina?”
Indicò un punto alla mia sinistra, in cui individuai una vettura scura ferma a una ventina di metri da noi.
“Potevi anche parcheggiarla più vicino…” commentai ironico, battendomi teatralmente una mano sulla fronte.
“Potevi anche portare un ombrello” ribatté lui con lo stesso tono di scherzoso scherno, coprendosi il capo col cappuccio.
Ci scambiammo uno sguardo complice e divertito – com’è che in quel momento mi sembrava di essere tornato indietro di sei anni? – e io gli scoccai un sorriso. “Pronto?”
“Pronto.”
Sgusciammo fuori dal raggio di protezione della tettoia e cominciammo a correre a perdifiato in mezzo alla tempesta, calpestando ogni pozzanghera e schizzandoci l’un l’altro, ma soprattutto ridendo come due stupidi ragazzini.
Solo quando giungemmo presso l’auto di Joe mi resi conto che, forse per paura che cadesse o forse per trascinarmelo dietro, avevo afferrato una sua manica e avevo finito per stringergli un polso.
Lo lasciai andare di botto e circumnavigai in fretta il veicolo per aprire lo sportello dalla parte del passeggero e scaraventarmi sul sedile.
Una volta all’interno dell’abitacolo, entrambi zuppi di pioggia e col fiatone, ci abbandonammo ognuno alla rispettiva spalliera e continuammo a ridere senza un reale motivo.
“Ci prenderemo una polmonite” affermò Joe mentre azionava il riscaldamento.
Mi strinsi le braccia al petto, continuando a sorridere. Ora che avevamo rotto il ghiaccio, dopo tanti anni di lontananza, mi stavo pian piano accorgendo di quanto tutto quello mi fosse mancato. Io e Joe, nei nostri tre anni insieme, avevamo vissuto tante di quelle piccole avventure quotidiane, apparentemente banali ma rese indimenticabili dalle nostre risate e le nostre occhiate complici. Ne eravamo ancora capaci, dopotutto.
E realizzai – mentre scrutavo Joe con attenzione, il viso rosso per l’affanno e le labbra appena schiuse da cui uscivano respiri corti e spezzati – che mi era mancato da morire posare lo sguardo su quel viso così dannatamente perfetto e armonioso. Ed era così dura resistere alla tentazione di insinuare le dita tra quei capelli umidi e scompigliati, di impossessarsi di quelle labbra invitanti e tracciare il profilo della mandibola con un polpastrello…
Mi era mancato da morire quel ragazzo. Forse non ero mai realmente riuscito a dimenticarlo, forse non l’avevo mai voluto fare; del resto la nostra separazione non era stata una mia scelta.
“Che c’è?” mi chiese Joe distogliendo lo sguardo e fissandolo sulle sue mani, che aveva sporto verso la bocchetta del riscaldamento nel tentativo di scaldarle.
Dovevo smetterla di fissarlo. Lo metteva in soggezione, era palese.
Di certo lui non provava ancora ciò che sentivo io.
L’ennesimo forte tuono fece tremare i vetri, ancora una volta in linea con il mio stato interiore.
“Niente, stavo pensando…” cominciai in tono leggero e indifferente, frugando nella mia mente in cerca di qualcosa di credibile. “Curioso incontrarti in questa zona della città.”
Gran bel modo per cambiare discorso. Ma effettivamente ci trovavano in un quartiere residenziale, puntellato soltanto da qualche triste ufficio; certo, nell’arco di sei anni poteva essersi trasferito, ma io ricordavo che l’abitazione di Joe era da tutt’altra parte.
Lui scrollò le spalle. “Potrei dirti la stessa identica cosa.”
“Ero uscito a fare una passeggiata” spiegai.
“Non passi spesso di qui, vero?”
Sgranai gli occhi. “Come lo sai?”
“Lavoro qui e non mi è mai capitato di vederti.”
Oh. Quando ci eravamo lasciati, Joe si era da poco laureato ed era alla ricerca di un impiego.
Sorrisi. “Ma è fantastico! Di cosa ti occupi?”
Lui scosse il capo, come a sminuire. “Lavoro per un’azienda, settore amministrativo. Sto in ufficio per otto ore, nulla di troppo esaltante.” Poi si voltò verso di me e mi rivolse un’occhiata incuriosita. “Tu invece?”
Risi appena. “Guarda, la mia vita è sempre la stessa: abito sempre nel solito appartamentino che cade a pezzi e, come al solito, lavoro come cameriere in un bar.”
Un po’ mi vergognavo ad ammettere, a ventott’anni, di condurre la stessa vita di quando ne avevo venti, ma non era nient’altro che la verità.
Joe parve illuminarsi, colto dai ricordi. “Sempre nella palazzina con l’ascensore rotto?”
“Sì, e l’ascensore è ancora rotto.”
Lui ridacchiò. “Cazzo!”
Gli regalai a mia volta un sorriso divertito.
“Ehi, ma se abiti ancora lì posso darti un passaggio fino a casa, sono proprio di passaggio. Visto che non credo smetterà presto di piovere…” propose, schioccando le dita e poi accennando al parabrezza su cui scivolava acqua su acqua, come se ce la stessero tirando addosso a secchiate. “Del resto si sta facendo tardi, con questo maltempo non c’è campo e non ho nemmeno potuto avvisare Melanie, sarà in pensiero…”
“Melanie?” Non riuscii a frenare la lingua, quella domanda venne fuori spontanea. Anche se non avrebbe dovuto interessarmi chi fosse questa Melanie, anche se non avrebbe dovuto darmi fastidio che Joe l’avesse nominata. Anche se avrei dovuto farmi gli affari miei.
Ma non ero bravo in questo, tantomeno a stare zitto.
Joe mise su una smorfia leggermente irritata, distolse lo sguardo e si ritrasse appena, stringendosi in un angolo; tipico di lui quando si trovava in difficoltà e cercava di distaccarsi dalla situazione.
Ma io non gli staccai gli occhi di dosso.
“Melanie è mia moglie” disse quindi Joe in tono glaciale.
“Moglie?!”
Non potevo crederci. Dopo tutto ciò che avevamo detto e vissuto insieme, dopo tutte le promesse che ci eravamo fatti, dopo tutti gli sforzi e i passi avanti che avevamo compiuto, alla fine Joe aveva scelto di negarsi.
Aveva deciso di seguire una strada che non era la sua, di essere qualcuno che non era.
Aveva consapevolmente pianificato la sua rovina.
 
 
Quella sera Joe non riusciva a smettere di tremare.
Da che lo conoscevo – in realtà solo da un paio di mesi –, non l’avevo inquadrato come un tipo particolarmente freddoloso, eppure quel giorno non sembrava bastare nemmeno il plaid pesante che gli avevo offerto e il riscaldamento che avevo impostato al massimo per farlo stare meglio.
Distolsi lo sguardo dal televisore, in cui scorrevano le immagini del film che avevamo deciso di guardare insieme, e lo posai su quel biondino che mi aveva rubato il cuore fin dal primo istante. “Sei sicuro di stare bene?”
Lo vidi deglutire a fatica e la voce gli uscì strozzata quando mi rispose. “Sì, perché?”
“Hai freddo?”
“N-no…”
D’istinto mi allungai per afferrargli una mano, trovandola gelida e tremante.
“Ehi” sussurrai, sinceramente in apprensione. Non riuscivo a capire cosa gli stesse capitando.
“Va tutto bene, okay?” Cercò di ritrarsi dal mio tocco, quasi irritato, ma io non glielo permisi.
Mi sporsi appena per poterlo guardare negli occhi, ma lui evitava il mio sguardo.
Era in imbarazzo, forse. Aveva il volto paonazzo e le sue dita fremevano appena intrecciate alle mie, come se una parte di lui volesse interrompere quel contatto mentre un’altra lo desiderasse profondamente. E tremava tantissimo, sempre più man mano che mi accostavo a lui.
“Joe?” mormorai, prendendogli anche l’altra mano.
Lui non accennava a parlare né a sollevare lo sguardo.
“Hai paura?”
“Paura?” ripeté lui. Mi lanciò solo un breve sguardo, con occhi sbarrati e colmi di dubbio e spavento.
Era così bello, in tutta la sua fragilità.
Persi il controllo.
Azzerai la distanza tra i nostri volti e premetti le labbra sulle sue; me ne impossessai piano, con delicatezza, perché una creatura come lui meritava quel rispetto.
Joe si irrigidì, conficcò le unghie sul dorso delle mie mani che ancora stringevano le sue, ma non si ritrasse. Non mi scacciò via, assaporò le mie labbra per alcuni istanti ma senza avere il coraggio di approfondire quel contatto. Ogni fibra del suo essere in quel momento gridava confusione.
Lo lasciai andare quasi subito, consapevole che quella situazione lo stava mettendo in difficoltà; tuttavia incatenai il mio sguardo al suo, volevo capire cosa gli passasse per la testa.
Il suo sguardo era appannato di lacrime.
“Joe” mormorai mortificato, mollando la presa sulle sue mani.
Lui portò subito due dita a sfiorarsi le labbra. “A me… non erano mai piaciuti i… sono etero…”
Eppure tutto in quel breve bacio aveva smentito la sua dichiarazione. Joe ci era stato, aveva ricambiato e anche ora, mentre ci trovavamo uno di fronte all’altro sul divano, ricercava inconsapevolmente il contatto con me. Sapeva di essere attratto da me e la cosa lo atterriva.
“Cos’ho fatto? Cosa sto diventando?” mormorò guardandomi dritto negli occhi, forse in cerca di risposte, e le lacrime rischiarono di sfuggire al suo controllo.
Mi sciolsi in un sorriso intenerito. Forse in quel momento era un gesto del tutto fuori luogo ma, anche se avessimo dovuto affrontare questa sua crisi, ora avevo la certezza che mi ricambiasse e questo mi rendeva euforico.
Gli circondai le spalle con un braccio e lo attirai a me, facendogli posare il capo sul mio petto e stringendolo forte. “Non c’è nulla di male” gli mormorai tra i capelli, cercando di usare un tono rassicurante.
“Ma io non sono mai stato così… non mi è mai capitato” disse, la voce spezzata. Ora tremava ancora più di prima e si stringeva forte a me, aggrappandosi ai miei vestiti come fossero l’unico appiglio per non crollare.
“Benissimo, allora lo faremo capitare. Con i tuoi tempi e con le tue esigenze, ma ti prometto che, se questo è ciò che senti, lo faremo diventare la cosa più bella della nostra vita.”
Era impaurito da se stesso e dalle sensazioni che provava. Non sarebbe stato facile per lui accettare la sua sessualità; tuttavia nel suo abbraccio trovai l’assenso di cui avevo bisogno.
Ci avrebbe provato.
Ci avremmo provato.
 
 
Joe si passò una mano sulla fronte e perse lo sguardo fuori dal finestrino. “Dom, per favore…”
Per favore?! Ho appena scoperto di aver sprecato tre anni della mia vita, scusa se sono incazzato!” sbottai, incapace di contenermi.
Incrociò le braccia al petto e sbuffò. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che stava facendo uno sforzo enorme per non scendere dall’abitacolo, abbandonare la conversazione e chiudersi in se stesso.
“Semmai sono io che ho perso tre anni della mia vita a essere qualcosa che non posso essere. E poi a te che importa? Ci siamo lasciati sei anni fa!”
“Joe, tu sei omosessuale, lo sappiamo entrambi! O vuoi negarlo? Non ti sono mai interessate le donne e mai ti interesseranno, non puoi cambiare questo fatto sposandone una!”
Ecco, ero esploso, ormai ero un fiume in piena e non sarei riuscito a fermarmi. Anche quello non era cambiato di una virgola: la mia impulsività.

Ed ero sicuro che la verità che sputavo fuori feriva le orecchie di Joe più del martellare infernale della pioggia e dei tuoni che rombavano minacciosi in cielo.
Mi lanciò un’occhiata veloce, ma sorprendentemente non vi trovai rabbia né risentimento; i suoi occhi erano piuttosto rassegnati. “Certe volte si cresce e si cambia, Dominic.”
“Stronzate! Queste non sono cose che scegli!” obiettai.
“Ma puoi decidere di tenerle nascoste. Ho preso un’altra strada e non me ne pento, voglio molto bene a mia moglie. Vorremmo anche avere un figlio.”
“Ah sì?” Mi sporsi appena verso di lui e gli sfiorai la spalla per attirare la sua attenzione. “Guardami negli occhi e dimmi che sei felice in questa situazione. Voglio vedere se riesci a mentire così bene anche con me!”
Lui si ritrasse e mi fulminò con un’occhiata, ma non mi sfuggì il suo mordicchiarsi appena il labbro inferiore, simbolo di nervosismo. “Si può sapere cosa cazzo vuoi da me?”
Lo inchiodai con lo sguardo. “Si può sapere perché ti fai questo? Cosa ci trovi nello star male?”
Scandagliai quelle iridi così glaciali e distaccate – così morbide, nella sua durezza – e per un attimo pensai che avrei potuto spaccarglielo, quel bel visetto. Pensai che dopotutto potevo odiare Joe e forse già lo facevo, perché era stato troppo debole per accettarsi.
Era stato troppo debole, semplicemente, per stare con me e sbatterlo in faccia al mondo.
“Perché non vuoi essere libero, Joe?” soffiai con rabbia.
“Io non sono gay.”
“Ah no? E quando stavi con me cos’eri?”
Lui abbassò di nuovo lo sguardo. “Non avrei dovuto.”
“Quindi non ti fa nessun effetto avermi così vicino?” lo provocai, accostandomi ancora di più. Eravamo occhi dentro occhi, Joe ormai era premuto con la schiena contro la portiera.
Non rispose, ma il suo sguardo si fece liquido, testimone di desideri celati troppo a lungo. Forse nemmeno se ne accorse, ma gettò appena il capo all’indietro, invitandomi a dargli ciò che gli mancava da sei anni.
“Vuoi negare che sei attratto da me, Joe?” Glielo sussurrai a un centimetro dalle labbra, quando ormai avevo scavalcato la leva del cambio e ci trovavamo stretti sul sedile del guidatore.
Allora Joe socchiuse gli occhi come un gatto in cerca di attenzioni e dalle sue labbra fuoriuscì un indecente mugolio. Fu flebile, quasi sommerso dal suono della tempesta attorno a noi, ma fu come se mi stesse gridando di prendermi tutto e farlo mio ancora una volta.
“E così tu non saresti omosessuale.” Sorrisi beffardo prima di premere con impeto le mie labbra sulle sue.
Fu devastante. Un deja-vu, una scossa elettrica che permeò ogni singola fibra del mio corpo, e non potei fare a meno di chiedermi come Joe potesse desiderare di rinunciare a tutto ciò.
Perché lui – lo sapevo – provava le mie stesse sensazioni: mi accolse dentro la sua bocca come se non avesse atteso altro, mi divorò le labbra con voracità e lasciò che io facessi lo stesso con le sue, riempì i nostri baci di gemiti soffocati. E nel frattempo si aggrappava a me, mi artigliava le spalle, si inarcava contro di me e premeva su di me la sua eccitazione, palese anche attraverso i vestiti.
Insinuai le dita tra i suoi capelli – quanto avevo desiderato farlo! – e vi giocai, fino a tirarli piano per invitarlo a inclinare ancora di più il capo all’indietro. Le sue ciocche dorate non erano più lunghe come un tempo, ma avevano mantenuto lo stesso potere di farmi impazzire.
Joe, col fiato corto, posò la nuca contro il vetro freddo e socchiuse gli occhi.
Gli afferrai i polsi per impedirgli di sfuggirmi e mi avventai sul suo collo, marchiandolo con la lingua e con le labbra, tempestandolo di morsi leggeri, rivendicandone il possesso.
Dal canto suo, respirava forte e di tanto in tanto si lasciava sfuggire qualche mugolio, nonostante il suo sforzo di contenersi. Nonostante la posizione scomoda, non perdeva occasione di incollarsi a me, richiamare la mia attenzione e dimostrare l’immenso desiderio che provava nei miei confronti.
“Dimmi un po’” gli mormorai all’orecchio qualche minuto dopo, mentre gli sfilavo il giaccone pesante che indossava e svelavo una sobria camicia nera che gli fasciava divinamente il corpo. Partendo dall’alto, slacciai prima un bottone, poi un altro. “Quand’è che tua moglie ti fa provare queste sensazioni? Mai, scommetto.”
Gli mordicchiai appena il lobo mentre liberavo anche l’ultimo bottone dall’asola. Feci scivolare i due lembi dell’indumento di lato, senza preoccuparmi di sfilarglielo del tutto, e feci scorrere i polpastrelli su quel petto scolpito ma non troppo possente. La pelle di Joe si increspò in un’onda di brividi, e lo vidi mordersi il labbro quando giocherellai con un suo capezzolo.
Lessi nei suoi occhi la volontà di fare a sua volta qualcosa per procurarmi piacere, ma era in uno stato di estasi tale che non riusciva a controllarsi. Da quanto tempo non provava un appagamento del genere?
Accalcati sul sedile di un’auto parcheggiata in una strada deserta e dimenticata da tutti, protetti dal buio che ormai era calato sulla città e dal rabbioso temporale che rigava i vetri d’acqua, ci stavamo riprendendo ciò che ci era sempre appartenuto.
Baciai le spalle, il petto e il ventre di Joe, mordicchiai i suoi capezzoli turgidi, giocai con la sua erezione intrappolata nei vestiti e nel contempo sperai che capisse.
“Dom” lo sentii pronunciare mentre mi adoperavo per aprire la zip dei suoi jeans, la voce tramutata in un gemito.
“Dominic, per favore” ripeté dopo qualche secondo, strattonandomi appena per i corti capelli in modo che sollevassi lo sguardo.
Aveva gli occhi pieni di sensi di colpa, oltre che appannati dal piacere.
“Basta così, okay? Non possiamo.” Posò entrambi i palmi sul mio petto e mi spinse via, lentamente ma con fermezza.
Col fiato corto e un calore a penetrarmi ovunque nel corpo, strinsi i pugni e serrai la mascella. Avrei voluto colpire il cruscotto, il parabrezza, qualsiasi altra cosa; distruggere la macchina intera.
Come al solito, l’autocontrollo di Joe aveva prevalso.
Come al solito, aveva deciso di distruggere la sua felicità e così aveva distrutto anche la mia.
Perché forse lui non mi amava più, ma io lo amavo ancora. E faceva male.
Gli lanciai un’occhiata e per un attimo mi parve di rivedere quel ragazzino fragile e perso che avevo conosciuto tanto tempo prima. Nonostante avesse più di trent’anni, nonostante fosse più grande di me, era davvero un ragazzino spaventato che non sapeva come affrontarsi.
 
 
Quando entrai nella stanza, trovai Joe seduto rigidamente sul bordo del letto, il capo chino e una mano posata sulla fronte; una cascata di capelli biondi gli pioveva sul viso troppo pallido e stanco.
“Che c’è?” mi preoccupai subito, accomodandomi accanto a lui. Cercai di sollevargli il viso posandogli due dita sotto il mento, ma lui oppose resistenza.
“Non possiamo andare avanti così, Dom” disse, il gelo nella voce.
Il mio cuore perse un battito. Aggrottai le sopracciglia e incrociai le braccia al petto. “In che senso?”
“Noi… discutiamo sempre ultimamente e so che hai ragione tu, lo so ogni volta: dovremmo smetterla di nasconderci, dopo tre anni che stiamo insieme. Lo so, ma io non ce la faccio, è più forte di me. E non voglio farti vivere ancora in questo modo.”
“Stai scherzando, vero? Come sarebbe a dire?” cominciai ad alterarmi.
Joe finalmente sollevò il viso e rivelò i suoi bellissimi occhi blu, torbidi e pieni di lacrime. “Tu sei forte, Dom, e non t’importa di rivelare a tutti che mi ami e che stai con me. Ma io non ce la faccio, non sono pronto ad affrontare tutte le conseguenze di questa mossa. Non lo voglio fare ora e non voglio più litigare con te.” La voce gli si spezzò sulle ultime parole.
Scattai in piedi. “Mi stai lasciando? Stai mettendo a repentaglio tutto ciò che siamo solo perché non hai il coraggio di dire al mondo che ami un uomo? Come se fosse un reato!”
Lui tirò su col naso e si strinse le braccia attorno al corpo. “Lo so che non è sbagliato, altrimenti non starei con te, ma… Dom, perdonami, mi sento male alla sola idea. Non ce la faccio. Sono un fottutissimo debole e non ti merito.”
“Ma non capisci che, non accettandoti, fai del male solo a te stesso? E pensi che io, standoti lontano e sapendoti in questo stato, starei meglio?”
“Mi dispiace tantissimo. Io non ce la faccio più a stare in una relazione come questa.”
Mai come in quel momento avevo sentito la gola chiusa e una voglia immensa di piangere. Perché era vero, avevamo discusso tanto sull’argomento, ma un conto era non avere la forza per uscire allo scoperto.
Un altro conto era non avere nemmeno la forza per stare con me.
E stavolta non potevo fare nulla per salvarlo.
 
 
“Che ti piaccia o meno, ho una moglie e non le posso mancare di rispetto in questo modo” mormorò Joe, abbottonandosi in fretta la camicia e gettandosi il giaccone sulle spalle. Aveva tentato di utilizzare un tono fermo, ma era chiaro che la situazione l’avesse destabilizzato.
Presi un profondo respiro per cercare di calmarmi. “Le hai già mancato di rispetto quando l’hai sposata.”
“Fammi capire una cosa: sei geloso di lei? Perché non riesci ad accettarla?”
Risi amaramente e tornai a guardarlo. “Non ho bisogno di essere geloso, so che per te verrò sempre prima di lei.”
Joe assottigliò lo sguardo. “Il tempo passa, ma la tua presunzione no.”
Mi strinsi nelle spalle. “Non è presunzione, è un dato di fatto. Altrimenti perché oggi avresti ceduto così?”
Joe spostò lo sguardo fuori dal finestrino e non rispose.
“Dimmi, dove sono andate a finire tutte quelle promesse che mi hai fatto? Che ci avresti provato, che dalla nostra storia avevi imparato tanto e l’avresti messo in atto quando ti saresti sentito pronto, che avresti trattato te stesso con rispetto…”
Lui sbuffò, sempre più spazientito. “Ancora? Quante volte ti devo spiegare che ci ho riflettuto e ho capito di voler stare con una donna?”
“Non fa una piega” commentai sarcastico.
“Ma cosa cazzo vuoi da me?” sbottò allora, divenendo paonazzo per la rabbia. Era la prima volta che alzava la voce quel giorno.
Mi rassegnai. Non c’era davvero niente da fare e realizzarlo era devastante.
“Io non voglio niente da te. Speravo solo che capissi che potresti essere davvero libero, se solo lo volessi. Noi saremmo potuti esserlo e saremmo anche ancora in tempo, lo potremmo essere in qualsiasi momento se tu avessi il coraggio di guardare in faccia la realtà” ribattei in tono arreso, ma non sapevo nemmeno perché stessi sprecando fiato.
“Sai cosa vorrei io, invece? Che sparissi dalla mia vita e mi lasciassi vivere in pace. Non avrei mai dovuto invitarti in macchina.” Era tornato il solito ragazzo glaciale, freddo, distaccato e chiuso che era abituato a essere.
Così tanto controllato e calibrato da non riuscire a lasciarsi andare nemmeno con se stesso.
“Hai ragione, abbiamo solo perso tempo.”
Non mi importava che fuori imperversasse ancora la tempesta e io non sapessi come tornare a casa; aprii lo sportello e mi preparai a scendere, a lasciare quell’auto e il suo proprietario – forse, questa volta, in maniera definitiva.
Non avevamo più nulla da spartire, nulla che mi trattenesse lì.
Prima di andarmene, mi voltai un’ultima volta verso Joe e lo guardai dritto negli occhi. Non dicemmo una parola, trascorremmo quegli istanti semplicemente a leggerci dentro a vicenda, scandagliarci le anime, dire quello che a parole non avremmo mai detto.
E io colsi nel suo sguardo tutta la tristezza, il dolore, la disperazione. In fondo a quelle iridi si celava una supplica affinché io restassi e lo salvassi da se stesso.
Capii solo in quel momento che nemmeno per Joe era veramente finita. Capii che non mi aveva dimenticato, non aveva smesso di amarmi e soprattutto non aveva mai smesso di soffrire per questo sentimento che reputava sbagliato.
Era così meravigliosamente, fottutamente complicato.
Complicato e fragile.
Scesi dall’auto, mi immersi nel temporale, richiusi lo sportello e mi allontanai senza più voltarmi indietro. La pioggia mi rotolava addosso, ma in quel momento non me ne poteva importare meno.
Camminai lentamente lungo il marciapiede fradicio, forse serbando in fondo al cuore la speranza che Joe non mi avrebbe lasciato andare, ci avrebbe ripensato e mi avrebbe richiamato a sé. Eppure sapevo che non sarebbe accaduto, perché l’amore che vince su tutto era soltanto una favola e chi provava a farlo succedere era soltanto un illuso.
Nel cielo scuro di nubi i lampi spezzavano l’oscurità, i tuoni si mescolavano in un brontolio lamentoso e per un istante pensai che fosse il loro modo di concordare e darmi ragione.
Dopotutto non avevo che tuoni dentro l’anima quella sera.
Avevo realizzato, a sei anni dalla rottura con Joe, cosa mi aveva fatto così male e continuava a farmene. Non era l’essere stato abbandonato, non era l’aver perso una persona meravigliosa, ma l’aver visto colui che amavo di più al mondo negarsi e autodistruggersi senza poter fare nulla per aiutarlo.
Eppure, leggendo nei suoi occhi e nel mio cuore, avevo compreso che per nessuno dei due era finita.
 
 
 
 
♣ ♣ ♣
 
 
Prompt utilizzato per la challenge “Seasons Die One After Another”:
[Autunno] Tempesta - Erotico / Affanno
 
Ragazzi! Da qaunto tempo non scrivevo una Joeminic *-*
Che dire? Per questa shot devo ringraziare tantissime persone!
Prima tra tutte Sabriel, senza cui questa storia non sarebbe mai nata! Infatti è stata lei stessa quest’estate – quando ho chiesto alle mie lettrici nella categoria dei NBT di fornirmi un prompt su cui scrivere – a suggerirmi questa situazione. Non posso riportarvi parola per parola ciò che lei mi aveva scritto (perché sono una deficiente e l’ho perso -____-“), ma ad ogni modo la situazione consisteva in questo: X ha avuto una relazione con Y (del suo stesso sesso). I due si sono lasciati, ma si rincontrano dopo diversi anni; X, che non ha mai accettato la sua omosessualità, si è ormai fatto una famiglia ed è impegnato in una relazione eterosessuale. Come reagirà nel vedere il suo/la sua ex?
Ammetto che in primo momento questo prompt mi aveva messo in difficoltà, ma poi ho pensato che sarebbe stato benissimo cucito addosso alla Joeminic. Non so perché, ma ho immaginato che Joe, per quanto appaia come un ragazzo indifferente al giudizio altrui e dalle larghe vedute, in una situazione del genere si troverebbe parecchio in difficoltà; non so perché mi dà quest’impressione, forse perché tra i componenti della band è il più riservato e il meno avvezzo a parlare di sé.
E ci voleva proprio un Dom senza peli sulla lingua che lo provocasse e gli sbattesse in faccia la verità XD
Poi… ringrazio Inzaghina per il suo contest STUPENDO, che mi ha dato la spinta definitiva per mettere giù questa storia! Spero solo di aver sfruttato in maniera decente il pacchetto e la citazione, perché non ne sono del tutto convinta :P
Infine ringrazio Laila per la sua challenge che è ORO e Kim per avermi concesso di dar spazio a una delle mie OTP, che invece lei non shippa granché ;) sorella mia, non avrei mai fatto la bastardata di consegnarti una Mylash AHAHAHAHAH XD
Non credo ci sia altro da aggiungere ^^ essendo questo un AU, infatti, non c’è nessun riferimento da spiegare e credo che la storia sia perfettamente leggibile come un’originale! Tutta la situazione (il lavoro d’ufficio di Joe, quello di Dom come cameriere, la moglie di Joe – anche perché lui È MIO XDD) è completamente inventata da me, tranne per il fatto che i ragazzi vivono a Londra. Altro dato vero è la loro differenza di età e il fatto che Joe sia più grande di Dom di tre anni ^^
Penso di essermi dilungata fin troppo XD quindi vi saluto, ringrazio chiunque sia giunto fin qui e spero che la mia shottina vi abbia trasmesso qualcosa ^^
Alla prossima!!! ♥
 
 
   
 
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