Capitolo
II
Il
rumoreggiare della folla giungeva ovattato alle sue orecchie. Le spesse
mura
calcaree dell’anfiteatro, unitamente al pesante elmo in
bronzo che indossava,
facevano da filtro. Allentò la fibbia della calotta in
cuoio, che foderava la
parte intera del copricapo, la quale gli passava sotto il mento.
L’alto tasso
di umidità presente lì sotto, mischiato
all’aria stantia, lo facevano respirare
a fatica. La cella in cui era rinchiuso gli sembrò
più claustrofobica del
solito. Si impose di respirare lentamente, conosceva ormai da tempo
quella
sensazione. Ogni volta che il suo turno di combattimento si avvicinava,
un
senso di inquietudine lo pervadeva. Non che temesse per la sua vita o
che
avesse paura di procurarsi qualche ferita, ormai era abituato. Odiava
con tutto
sé stesso quella gente che, dall’alto degli
spalti, urlava nel vedere persone
che combattevano fra di loro, per il mero e disgustoso piacere. Odiava
vedere i
loro sorrisi compiaciuti, ogni qualvolta qualcuno, stremato dalla
fatica,
collassava al suolo. Odiava la loro voglia di sangue a tutti i costi.
Cosa ne
sapevano loro della guerra? Cosa significasse combattere? Cosa si
provasse ad
ammazzare un uomo a sangue freddo, solo per soddisfare la loro orrenda
sete di
morte. Non sapevano neppure come si impugnasse una spada o una lancia,
poiché
il loro maledettissimo regno conosceva un lungo periodo di pace. Cosa
potevano
saperne della sensazione che si provava nel vedere la vita spegnersi in
un
uomo? Magari la stessa persona con cui, fino a qualche giorno prima, si
era
condiviso lo stesso tugurio. D’altronde, che poteva saperne
lui di cosa volesse
dire vivere un’esistenza pacifica? Da quando aveva memoria, i
suoi giochi erano
state le armi e la sua istruzione il continuo esercitarsi alla lotta e
alla
guerra.
Scosse
la testa. Prese la cote dalla sacca che era poggiata sulla panca in
legno.
Molare il filo della spada, prima di uno scontro, lo rilassava sempre.
Era il
suo modo personale per esorcizzare la paura, che tentava di
attanagliarlo.
Il
cozzare di un bastone di legno, contro le sbarre metalliche della
cella, lo
ridestò dai suoi pensieri. Aveva appena finito il suo
personale rito.
«Preparati, il prossimo sei tu.»
Annuì
con la testa. Si alzò in piedi, si sistemò meglio
la corazza, stringendo tutte
le fibbie. Poi passò ai vambraci e agli schinieri.
Avanzò lentamente verso le
scale che lo avrebbero portato nell’arena. Sentiva gli occhi
degli altri
schiavi-guerrieri puntati su di lui, ma non gli importava. Il mito che
lo
accompagnava non lo aveva mai minimamente interessato. Che senso aveva
uscire
da ogni scontro sempre vincitore e senza un graffio, se poi ritornava
ad essere
uno schiavo? Persino un animale aveva più libertà
rispetto a lui. L’unica cosa
che gli interessava era porre fine, nel modo più veloce
possibile, quella
pantomima che lo avrebbe visto protagonista. Non gli importava nulla
delle
persone che avevano pagato per lo spettacolo, delle loro proteste e
degli
insulti che avrebbe preso, perché non avrebbe soddisfatto le
loro
aspettative.
La
grata del cancello lentamente cominciò a dischiudersi. Le
urla della gente
aumentarono di volume, finalmente l’attrazione principale
stava scendendo sul
campo. Appena mise piede sul terreno polveroso e intriso di sangue
dell’arena,
un boato si alzò dagli spalti. Donne che urlavano estasiate
il suo nome, uomini
che lo insultavano e altri che lo acclamavano. Ma, tutto questo
cessò,
all’unico movimento della mano dell’uomo che
occupava la postazione d’onore.
«Signori
e signore, che oggi mi onorate della vostra presenza»
cominciò l’uomo «come vi
ho promesso, in onore dei dieci anni del mio governatorato in questa
bella
città, vi ho offerto tre giorni di spettacoli. E ora, in
quest’ultimo giorno,
per concludere tutto magnificamente, come ultimo spettacolo vi voglio
offrire
il miglior combattimento che possiate mai immaginare. Credetemi,
racconterete
di quest’incontro finché avrete vita. Sarete
invidiati da tutte le persone di
questo regno, perché nessuno sarà capace di
eguagliare ciò che vedrete
quest’oggi. Ecco» e indicò il gladiatore
nell’arena «io vi offro Caesar,
l’imbattuto,
l’invincibile, il combattente senza ferite.»
La
folla esplose in un boato. Il ragazzo rimase impassibile a tutte quelle
parole,
a tutto quell’ardore della gente. L’unica
sensazione che provava era la
collera. Era stufo di essere considerato una misera attrazione, per
tutta la
sua vita non era stato che quello. Una stupida marionetta, a cui era
stato
imposto di combattere per sopravvivere. Volevano lo spettacolo? Bene,
glielo
avrebbe fornito; non voleva certamente deludere le loro aspettative, ma
lo
avrebbe fatto a modo suo.
Vide
entrare il suo avversario dalla porta opposta alla sua. Lo superava in
altezza
di almeno quindici centimetri, anche la massa muscolare era il doppio
in
confronto a lui. Ma non gli importava, se pensavano di spaventarlo con
un
energumeno di quella taglia, si sbagliavano di grosso. Estrasse la sua
fida
spada corta dal fodero, mentre sistemava lo scudo dietro la schiena;
con un
avversario di quel calibro, alla lunga, sarebbe risultato
controproducente. Lo
vide correre, mentre roteava l’ascia. Rimase impassibile al
suo urlo di guerra;
quello schiamazzo mal riuscito non poteva spaventarlo. Restò
fermo in attesa
fino all’ultimo secondo poi, agilmente, schivò il
colpo. Continuò quella strana
danza per tutto il tempo; schivava ma non affondava mai il colpo, come
se fosse
incapace di maneggiare un’arma. Nel frattempo, il
rumoreggiare della folla
aumentava. Era giunta lì alla ricerca dello spettacolo e del
sangue, invece,
stava assistendo ad uno strano e sgraziato balletto, fra due uomini
male
assortiti. Poté chiaramente sentire le urla del suo
schiavista, che lo
minacciava di essere frustato fino alla morte, se non avesse cominciato
a darsi
da fare. Sbuffò, quella prospettiva non lo spaventava
minimamente. Certo,
sperava di morire in modo più glorioso ma, per la vita che
conduceva, morire in
un’arena per mano di uno sconosciuto o in una cella resa
fetida dal suo sangue,
non faceva molta differenza. Vide il suo avversario ansimare sempre
più, era
quasi allo sfinimento. Lo osservò caricare a testa bassa e
con tutta la sua
potenza, voleva chiuderla lì. Era il momento giusto.
Aspettò fino all’ultimo
momento poi, agilmente, scartò di lato, roteò su
sé stesso ritrovandosi
esattamente alle sue spalle. Fulmineo, lo colpì con
l’elsa della spada alla
base del cranio. Il malcapitato stramazzò al suolo svenuto,
non si sarebbe
svegliato prima di qualche ora. La platea, che fino a quel momento
aveva
pesantemente protestato per quello spettacolo da strapazzo, adesso era
silente;
ammutolita dalla velocità di quel colpo. Ma quel silenzio fu
interrotto dalle
urla furenti del governatore, rivolte al suo schiavista.
«Tu,
lurido venditore di morte, mi avevi promesso uno spettacolo degno
d'essere
cantato da tutti i bardi del regno e invece cosa mi ritrovo? Un
saltimbanco.
Ora, trova subito una soluzione, prima che affidi la tua testa alle
cure del
mio boia.»
«Io,
io…non ho nessun altro combattente con cui farlo
sfidare…»
«Diecimila
scudi d’oro e non hai nessuno da far combattere? Chiamate il
boia, che si diverta
a far soffrire quest’uomo!»
«Aspetti,
aspetti!» urlò disperato l’uomo
«Ho un’idea. Prima, mentre ero nel ventre
dell’anfiteatro, in una cella ho notato tre tipi poco
raccomandabili.»
«Sono
dei banditi che ho condannato a morte. Hanno ucciso oltre venti
persone, tra
uomini, donne e bambini.»
«Li
faccia combattere contro quel traditore. Gli prometta la
libertà se vinceranno.
Sono sicuro che ricorreranno a ogni bassezza per avere salva la vita .
La folla
gradirà, ne sono certo.»
«Sembra
una buona idea! Guardie, andate giù nelle celle, liberate e
armate quei tre
banditi, poi mandateli nell’arena a combattere contro quel
bastardo.»
La
gente sugli spalti approvò con un’ovazione quelle
parole. Finalmente, avrebbero
avuto lo spettacolo che gli era stato promesso. Caesar, invece, rimase
impassibile. Aveva combattuto, aveva sconfitto il suo avversario ma, a
quanto
pare, non bastava. Lo volevano costringere a versare sangue e, questa
volta,
non avrebbe potuto esimersi.
Prese
lo scudo da dietro la schiena e lo afferrò saldo nella mano
sinistra. Si mise
in posizione di guardia. Non sarebbe stato uno scontro facile. Non lo
preoccupava il numero di avversari; non era la prima volta che si
trovava in
una situazione di svantaggio numerico. La sua preoccupazione era
motivata dalla
risma di persone che si trovava ad affrontare: tagliagole e, a quanto
pare,
della peggior specie. All’interno dell’arena, tra
combattenti, vi era un codice
d’onore da rispettare. Era uno scontro all’ultimo
sangue ma, comunque, vi erano
delle regole non scritte a cui si attenevano tutti; nutriva forti dubbi
che
quei tre le avrebbero rispettate, visto che in ballo vi era la loro
libertà e
la vita. Li vide entrare, il loro equipaggiamento era di
prim’ordine. Gli
avevano fornito armi ed armature dell’esercito. Doveva aver
fatto veramente
arrabbiare il governatore, per farli agghindare in quel modo.
Schivò abilmente
la lancia che il bandito più basso gli aveva scagliato
contro. Con la coda
dell’occhio la vide conficcarsi pesantemente nel terreno;
estrarla avrebbe
richiesto solo tempo e fatica, due cose che al momento non poteva
permettersi.
Il più muscoloso dei tre gli si avventò subito
addosso. I suoi colpi erano
potenti, ma mancava di tecnica; prevedere le sue mosse non era
difficile.
All’ennesimo affondo si abbassò; poi, velocemente,
con la spada vibrò un colpo
verso la gamba destra. Il malcapitato urlò di dolore, ma
quel grido fu
sopraffatto dal boato della gente, che finalmente vedeva il sangue
scorrere. Si
guardò subito attorno, per capire dove fossero gli altri
due. Trovò il primo,
vicino al cancello da cui era entrato; fece per cercare il secondo, ma
non ne
ebbe il tempo. Sentì intorno alla sua gola un cappio; si
dimenò, ma quel
bastardo non mollava la presa; anzi, ad ogni suo sforzo diveniva sempre
più
forte. Nella foga lasciò andare la spada, che il suo
avversario fu rapido nello
spedire lontano, con un calcio. Si impose di rimanere lucido e fu la
sua
salvezza. Vide che l’altro iniziava ad avvicinarsi
velocemente, con la spada
sguainata pronto a colpirlo. Deviò il colpo con lo scudo;
sfruttò quel momento,
in cui era privo di ogni difesa, per colpirlo con un calcio violento
allo
stomaco e lo vide piegarsi a terra dal dolore. Sentì la
presa sul collo farsi
meno pressante; approfittò di quell’attimo per
sfoderare una vigorosa gomitata
all’addome del suo carceriere, ma non ebbe il risultato
sperato. Nonostante
l’imprecazione di dolore, il bandito lo teneva ancora
saldamente per la gola.
Usò tutte le sue forze residue, per trascinarlo con
sè al suolo. Sperava che
quella mossa lo facesse cedere, ma non sortì alcun effetto.
Anzi, la sua
situazione peggiorò, dato che l’avversario ne
approfittò per immobilizzargli il
braccio dello scudo con una gamba. Si agitò disperato; era
privo di difese e
vide l’uomo, che poco prima aveva colpito, riprendersi e
pronto a trapassarlo a
morte. Chiuse gli occhi, mentre con la mano libera andava alla
disperata e vana
ricerca di un’arma, una qualsiasi. Ed il suo desiderio si
realizzò. Sentì nel
palmo un manico di legno molto familiare. Lo afferrò con
tutte le sue forze e
lo indirizzò contro il suo avversario. La lancia
trapassò la gola del
malcapitato, uccidendolo sul colpo. Sentì la pressione sul
collo diminuire
all’improvviso; ne approfittò per dare una
poderosa testata sul naso del suo
carceriere. Lo sentì guaire dal dolore. Si servì
di quel momento per liberarsi
completamente dalla presa. Si alzò in piedi rantolando. Si
guardò rapidamente
intorno. Il bandito a cui aveva squarciato il quadricipite femorale si
era
rimesso in piedi, ma faticava a camminare. Si sarebbe occupato di lui
dopo. Si
avvicinò lentamente alla sua preda. Si slacciò lo
scudo e si mise a cavalcioni,
immobilizzandolo. Colpì la testa del malcapitato diverse
volte con il bordo
dello scudo. Volevano uno spettacolo memorabile? Bene, glielo avrebbe
offerto.
Si fermò soltanto quando il volto dell’uomo
divenne una poltiglia
irriconoscibile. La folla urlava estasiata per quel macabro spettacolo.
Prese
la sua spada da terra e si avvicinò all’ultimo
obiettivo. Lo guardava mentre
cercava di sottrarsi al suo destino. Mentre cercava di scappare da lui,
inciampò diverse volte, finché non si
trovò bloccato contro il muro dell’arena.
Gli avrebbe dato una morte rapida. Puntò la spada contro la
sua testa e con un
colpo secco lo decapitò. Lasciò andare
l’arma a terra mentre, lentamente, si
trascinava verso l’uscita. Un senso di nausea lo
investì; non un uomo, un
macellaio, ecco cos’era. Il pubblico estasiato inneggiava in
suo onore, solo un
uomo rimase impassibile a quel massacro. Con uno sguardo indecifrabile
guardò
il combattente lasciare l’arena, che lo aveva visto
protagonista.