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Autore: Mikayla    27/08/2009    3 recensioni
Hotaru è poggiata ad una porta.
Si fa coraggio, semplicemente.
Ma cosa l'aspetta al di là?
[ Della serie Tales of True Life. ]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hotaru/Ottavia, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più serie
- Questa storia fa parte della serie 'e' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Note doverose
La notte porta sconsiglio… in realtà questa storia è nel mio computer dallo scorso san valentino, ma non ne ero pienamente soddisfatta. A distanza di tempo e rimettendoci le mani più volte ho deciso che era pronta alla publicazione.
Questa storia è parte di “Tale of True Life”, in particolare si rifà alla precedente Valentine’s Day della quale consiglio la lettura per poterci capire qualcosa di più. Se avete voglia di capirci davvero allora è meglio leggere l’intera raccolta -ma è lunga, e vi capisco perfettamente se non ne avete voglia.
Un grazie dal profondo del cuore a Clà, perché senza di lei questa storia non sarebbe mai nata e cresciuta. La dedico a te, nella speranza che sia di tuo gradimento almeno un poco.
Oltre questo non mi sembra necessario aggiungere altro.
Vi lascio alla alla storia, assaporatela ^_^

Another Valentine’s Day


Hotaru se ne stava mollemente poggiata alla porta di mogano accanto sé.
Le mani incrociate al petto stringevano un piccolo pacchetto rettangolare, avvolto con cura in una carta dalle grandi margherite rosa. Un nastrino viola completava il pacchetto.
La carta scricchiolò maggiormente nella sua presa.
- Rovinerai il pacchetto, se lo stringi a quel modo - l’avrebbe dolcemente avvertita sua madre, posandole una mano tra i capelli per calmarla; allora Hotaru avrebbe sorriso e avrebbe fatto un gran respiro, annuendo vigorosamente e trovando l’equilibrio.
Ma Setsuna non era lì, al momento.

E Hotaru aveva perso il proprio equilibrio ormai sei anni prima, quello stesso giorno.

Osservava con quei suoi grandi occhi ametiste la porta che la separava dal resto del mondo, e sospirò profondamente.
Si sentiva ancora una bambina, una ragazzina alla prima cotta.
Non capiva ancora perché, ma ogni volta che quel giorno tornava lei non si sentiva per niente cresciuta.

Ascoltò lo scricchiolare della carta tra le proprie braccia e si domandò ancora perché non riusciva ad aprire la porta, perché temeva che quel rumore significasse qualcos’altro.

«Non avrei dovuto vestirmi di nero.»

Il petto le si alzò e abbassò velocemente.
Era in ansia.
Il cuore era attanagliato dal terrore - possibile che dovesse succedere qualcosa di male?

«Che rumore fa un cuore che si spezza?»

Quello era l’ultimo San Valentino di Hotaru come studentessa.
Dopo quell’anno si sarebbe laureata, e sarebbe entrata nel mondo del lavoro.
A vent’otto anni Hotaru aveva paura.

[Michiru-okaa-chan, che rumore fa un cuore che si spezza?]
[È come un’onda che s’infrange sulla sabbia]

In quei sei anni passati, Hotaru non aveva mai smesso l’abitudine di sedersi sotto il grande albero di ciliegio quando era libera.
Nonostante ora quel soprannome le andasse stretto, Mugon-hime sedeva ancora lì, da sola, ad osservare i petali rosa. In silenzio.

Alzava il viso rilassato ai petali freschi e profumati e si lasciava cullare dal vento che stormiva tra le fronde.
Gli altri studenti la osservavano da lontano, chiedendosi come facesse a sembrare sempre così calma e posata.
Nessuno di loro era mai andata a disturbarla lì; era la sua isola di pace, il suo regno.
Il regno di Mugon-hime non veniva violato da nessuno.

Successe solo una volta che qualcuno interrompesse quella pace rilassante che circondava la ragazza; e a farlo fu proprio la persona più impensata.

«Hotaru, devo parlarti.»

Quando la voce di Takashi raggiunse la trasognata Hotaru un petalo di ciliegio scivolò nella brezza, cadendo a qualche metro da loro.
Una nota stonata.

Ma Takashi non era mai stato una nota stonata, per Hotaru.

Grandi occhi ametista si rivolsero al giovane.
Un velo di confusione appannava la luce della lucciola.

«Takashi?»

Si guardarono negli occhi; lampone nell’ametista.
Uno sguardo determinato e serio che ne incontrava uno sorpreso e fragile.

Hotaru si portò una ciocca birichina dietro all’orecchio e lisciò con la mano la propria gonna scozzese.
Con un cenno del capo e uno sguardo invitò Takashi a sedere accanto a lei, come aveva fatto anni prima con Sakura.
Ma il ragazzo negò con il capo e fece un passo indietro.

«Non qui.»

Aveva detto semplicemente.
Non le aveva porto la mano per aiutarla ad alzarsi, non le aveva regalato uno dei suoi soliti larghi sorrisi, non l’aveva chiamata principessa.
Non sembrava più il suo Takashi.
La sua preoccupazione e la sua ansia erano palpabili, come un velo di seta calato tra loro.

Hotaru non aveva risposto; l’aveva osservato interdetta per un eterno secondo - e lei conosceva fin troppo bene l’eternità, e il lancinante e degradante dolore che essa portava con sé.
Con la propria eleganza innata si era alzata.
Non una singola parola, solo un gesto con la mano, un invito a farle strada.

E osservava tutto come una spettatrice esterna.
Come se non fosse successo a lei.
Come Morte che osserva Vita; e non capisce.
Perché mai la morte potrà comprendere la vita, neppure in infiniti e continui cicli di morte e di rinascita. Perché per comprendere era necessario che Morte stessa vivesse, e che morisse.


Si allontanarono, l’una dietro l’altro.
Lasciando il muto spettatore a profumare l’aria coi suoi petali dal tenue rosa.
Adornava il silenzio che avevano lasciato, come sottile ricamo nell’aria.

[Otou-chan, che rumore fa un cuore che si spezza?]
[È il suono del vento in uno stretto canale]

Seduti l’uno di fronte all’altra al tavolino del Café Parisien Takashi e Hotaru non sembravano più loro.

Una nota stonata; quella meravigliosa melodia dettata dal semplice battiti dei loro cuori aveva una nota stonata.

Sedevano seri, senza guardarsi negli occhi.
Takashi con il suo caffé nero, Hotaru con il suo frappé alla fragola.

Era tutto uguale, tutto normale.
Era la loro consuetudine.

Erano loro, ad essere irriconoscibili.

«Hotaru…»
«Parla, Takashi, per favore.»

Una nota stonata.
Supplica.

«Cos’è successo?»

Una nota stonata.
Preoccupazione.

«Takashi…»

Una nota stonata.
Esitazione.

«Hotaru, io ho paura.»
«…»
«Temo di non riuscire più a capirti.»

Una nota stonata.
Paura.

Le piccole mani di Hotaru tremarono attorno al vetro della coppa.
Takashi esitò troppo a lungo prima di prenderne una tra le proprie e stringerla.
Un piccolo gesto accorato, un vago ricordo di quel che era stato prima; ma sarebbe mai tornato dopo?

Cosa stava succedendo loro?

«Hotaru, spiegami perché ti comporti in questo modo strano.»

Una nota stonata.
Tremore.

«È dalla nascita della piccola Chibiusa che sei diversa

Una nota stonata.
Dubbio.

Un nuovo silenzio tra i due; come un filo in tensione, pronto a rompersi alla prima variazione, seppur minima. Tutto, in quel momento, poteva rompere la situazione.
E tutto era semplicemente troppo.

«Ti racconterò tutto, Takashi.»

Era stato un sussurro appena accennato, ma aveva spalancato davanti a sé l’immensità del vuoto che riempiva la morte stessa.
Perché raccontare e spiegare chi si è e cosa si è non è mai facile.
E soprattutto essere la Morte e la Rinascita, una leggendaria guerriera dagli impavidi ideali e dalla forza di salvare l’intero mondo, non era facile.
Non era per niente facile.

Ma Hotaru aveva scelto.
Avrebbe messo la propria vita, il proprio passato e il proprio futuro tra le mani di Takashi.
Perché lo amava.

Ironica era l’immagine di Morte che pone la propria vita tra le mani mortali di un semplice uomo.

Non c’entrava la fiducia, la felicità, il desiderio di restare insieme.
Si trattava solo d’amore.
Ed Hotaru era pronta a perdere per sempre quell’amore che la teneva unita, rivelandogli chi era in realtà.
Era pronta.

«Vieni, camminiamo assieme.»

[Setsuna-okaa-chan, che rumore fa un cuore che si spezza?]
[Il rumore delle stelle lontane che si spengono]

La strada che portava al parco era deserta.
Solo Takashi e Hotaru la popolavano, una al fianco dell’altro.
Insieme, eppure soli.

Una passeggiata conosciuta; chissà quanti altri innamorati avevano percorso quel viale, un’oasi di pace e armonia in una caotica città come Tokyo.
Loro stessi ci si erano recati più volte, in quegli anni.

«Takashi… tu cosa sai delle guerriere Sailor?»

Uno sguardo smarrito.

«Cosa c’entra…?»

Uno sguardo di supplica.

«Rispondimi, Takashi, per favore

Uno sguardo d’assenso.

«So quello che sanno tutti, Hotaru. Sono le guerriere che hanno salvato la terra in diverse occasioni, proteggendoci dal male.»

S’erano fermati uno di fronte all’altra.
Davanti ad una panchina che in un futuro poco distante avrebbe visto un altro tipo di conversazione.
Hotaru teneva lo sguardo basso, insicura.
Takashi non poteva far altro che osservarla dall’alto.

Si sentiva distante da lei, enormemente distante, eppure così vicino.
Sarebbe stato ancora in grado di raggiungerla?
Non voleva vederla andare via, avrebbe corso anche tutta una vita pur di poterla percorrere al suo fianco. Non si sarebbe mai fermato né riposato, se questo avesse significato poterle stare accanto per sempre.

Ma ora aveva bisogno che lei si fidasse.
Aveva bisogno di vedere che aveva capito che poteva appoggiarsi a lui.
Che stare insieme voleva dire anche questo: condividersi.

Confidati, Hotaru!


«Perché, Hotaru?»

Le piccole ed esili spalle tremarono un secondo.
Lo sguardo fiammeggiante e determinato -da guerriera- scrutò Takashi.
Le labbra sottili e pallide mantennero una linea seria.

«Takashi»

Esitazione.

«io»

Timore.

«sono»

Coraggio.

«la guerriera di Saturno»

Verità.

«Sailor Saturn.»

Una dichiarazione al vuoto del silenzio che li circondava, quello stesso silenzio che Hotaru conosceva fin troppo bene.
Aveva sempre vissuto in quel silenzio perché da lì era nata.
Mugon-Hime lei era, da interminabili secoli.
All’alba dei tempi vi era stata solo lei, e da allora lei era sola.

Non voglio mai più essere sola, non voglio. Desidero restare per sempre al tuo fianco, Takashi!

Ametista e lampone si scontrarono in un dialogo di sguardi.
C’erano confusione e incredulità, ma anche timore e aspettativa.

Improvvisa comparve le esili mani di Hotaru una strana penna viola, con incisa una acca dorata.
Un simbolo.

Qualcosa di conosciuto.
Qualcosa di temuto.
Qualcosa di pericoloso.
Qualcosa di spaventoso.
Qualcosa di mostruoso.

«Saturn planet power, make up!»

E davanti a occhi attoniti la dolce Hotaru si trasformò nuovamente, dopo anni di pace e inattività; anni di fiducia e serenità; anni di vita.

Perché da se stessi non si poteva scappare?
Non era possibile dimenticare mai che cosa si era realmente?
Quanta forza bisogna avere per non venir soffocate da quel fardello?

Hotaru sapeva di non avere tutta quella forza.
Non da sola, non senza la luce donatale dalle persone che amava.
Non senza Chibiusa.

Non senza di te, Takashi.

«Io ricevo il sostegno di Saturno, pianeta del Silenzio… sono la guerriera della Distruzione e della Rinascita. Sailor Saturn!»

Una lunga falce era ben salda tra le stesse mani che erano solite carezzare il viso dell’amato.
Un’arma di morte come unica amica e compagna.
Parole taglienti sulle sue labbra.

La verità si presentò in un abitino alla marinaretta, viola e bianco.
Un diadema sulla fronte e un malinconico sorriso conosciuto.

Quell’immagine leggendaria s’impresse nelle retine di Takashi.

Poi, come d’incanto, ecco nuovamente Mugon-hime davanti a lui.
La ragazza che aveva sempre conosciuto e amato.
Nessun’altra che lei.
Nessun nome altisonante, nessun compito improrogabile.
Solo… Hotaru.

«Takashi… sono stata chiamata in molti modi.»

Voce triste e spezzata, in attesa di una reazione che non arrivava.

«Sailor Saturn, guerriera della Distruzione e della Rinascita, soldato del Silenzio, guerriera e Principessa di Saturno… ma… ma ciò che realmente sono, chi io realmente sono è Morte e Rinascita.»
«Hotaru…»
«E ora puoi odiarmi.»

Il cuore di Hotaru si spezzò alle proprie stesse parole.
Non ci credeva davvero, non avrebbe mai potuto chiedere a Takashi di amarla nonostante ciò che in realtà era.
Sapeva che nessuno poteva amarla: chi mai avrebbe amato la Morte stessa?

Perfino Chibiusa l’aveva abbandonata…

«Hota-chan…»

Era stato solo un sussurro, ma riscosse la guerriera con una violenza inaudita e impensata.
S’accorse dello sguardo di Takashi e tremò.

Ma non ci furono parole d’odio o di delusione.
Takashi la strinse al proprio petto, negli occhi il desiderio di affrontare tutto ciò assieme.
Le fece raccontare tutto, tutto quello che aveva vissuto e provato.
S’immerse per lei e con lei in quei tristi ricordi.
Secoli e secoli di oscuri ricordi.

E capì.

Capì finalmente la propria Principessa.
La consolò e condivise con lei quel fardello.
La rassicurò e asciugò le sue lacrime con gentilezza.
Non la lasciò allontanarsi ulteriormente da lui.
Non l’avrebbe permesso.

[Taka-chan… che rumore fa un cuore che si spezza?]
[Non fa rumore]

Hotaru strinse maggiormente il pacchetto al cuore.
La sua mano tremò impercettibilmente e lei sospirò piano.

Il suono dell’ultima campana echeggiò, invitando gli ultimi studenti ritardatari ad andarsene a casa e lasciare la scuola libera.
Fu solo quel suono e il ligio senso del dovere di Hotaru che riuscirono a far aprire quella porta alla mano tremante della ragazza.

La luce del sole morente, proprio in fronte a lei, la rese improvvisamente cieca.
Forse avrebbe perfino preferito restare così, e non poter vedere; non rischiare di non vedere.

Non c’è.

Strinse spasmodicamente il pacchetto al petto e strizzò gli occhi.
Nel rosso del tramonto non riusciva a distinguere bene forme e colori.

Con uno scatto si portò la mano alla fronte e accolse con sollievo lo sciogliersi del nodo che aveva alla gola, alla vista di Takashi.
Perché Takashi era lì, fermo nel bel mezzo dello spiazzo, che le sorrideva.

Le rivolgeva quel suo caldo e largo sorriso.
Quello che l’aveva fatta innamorare.
Quello che rivolgeva sempre e solo a lei.
Quello che sperava le avrebbe rivolto per sempre.

Perché avrebbe continuato a rivolgerlelo, vero?


Hotaru mosse un passo tremante e deglutì.
Neppure quella vista sollevante riuscì a toglierle quell’opprimente peso al petto.

Non avrebbe dovuto vestirsi di nero.

«Che rumore fa un cuore che si spezza?»
«Hai detto qualcosa?»

Mugon-hime scosse il capo e accennò un sorriso nervoso.
Takashi le rispose con dolcezza.
La strinse al petto e le baciò la fronte.

«Torniamo?»

Le offrì la mano come appoggio.
Ma Hotaru non l’afferrò subito.
Esitò qualche secondo.
Poi scosse leggermente il capo.

«Prima…»

Gli porse il pacchetto stropicciato.
E immediatamente sperò di non averlo fatto, notando il nastrino penzolare inerte da un lato, la ciocca sciolta.
Era rovinato, era tutto rovinato. Tutto.

Sono riuscita a rovinare tutto.

«Scusa…»

Un borbottio triste e contrito.
Tomoe sentiva dentro di sé solo la voglia di sciogliersi in mille lacrime.
Voleva smetterla con quella finzione.
Tanto era certa che sarebbe finita male, che dovesse per forza andare male.
Anzi, era già finita.

Come potrebbe mai andare bene, a Morte?

Senza accorgersene lacrime scivolarono sulle sue guance, rigandole.
Scendevano lente e silenziose, risplendenti come stelle in quella luce aranciata.

Lacrime di sangue.

Takashi le si inginocchiò davanti, con deferenza, come un Principe davanti alla propria Principessa.
Il suo sorriso non accennava a volersene andare.
Prese entrambe le sue mani tra le proprie e le baciò con dolcezza.

«Grazie.»

Ripose il dono nel cappotto.
Ma non si rialzò.
Le rivolse nuovamente lo sguardo e le prese la mano sinistra con delicatezza.

Attonita Hotaru lo osservava, incapace di scacciare quelle sciocche lacrime.

D’istinto provò a liberarsi.
Così facendo una lacrima cadde sulla sua mano.
E un riflesso attirò la sua attenzione, placandola.

Un piccolo anellino faceva bella mostra di sé al suo anulare.

Rivolse uno sguardo interrogativo a Takashi.
Ma lui si limitò a sorridere.

«Cosa…?»
«È il mio modo per chiederti di fidanzarti ufficialmente con me, Hota-chan.»

E calò il silenzio.
E Hotaru scoprì che esistevano silenzi che lei non aveva mai conosciuto.

Silenzi caldi e dolci.
Silenzi piacevoli.
Silenzi carichi di parole.
Silenzi pieni di emozioni.

«Sì.»
«Ti amo.»

Un bacio.
Leggero.

«Buon San Valentino, koi. »
   
 
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