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Autore: acidosolforic0    06/04/2021    0 recensioni
Prompt: "I don't do hugs."
Non era bravo a capire le persone, ma sapeva come controllarle.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kalifa, Rob Lucci
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Rob Lucci era un bambino diverso dagli altri. I suoi coetanei cercavano un gruppo di persone con cui stare, ridevano tutti insieme, facevano giochi stupidi.
Lui no. A Lucci piaceva stare da solo, e non sopportava quando gli altri bambini lo invitavano a giocare; rifiutava sempre, ma non alzava mai la voce, o non sfociava nella maledicazione.
Sua madre gli aveva insegnato le buone maniere: “se non ti piace qualcosa, fallo capire, ma sempre con educazione ed eleganza”, diceva sempre lei. Ed era educato anche con chi non lo era con lui. Alcune volte veniva preso in giro per via dei suoi capelli ricci, che tendevano a somigliare ad un piccolo cespuglio scuro. Lui non rispondeva a nessuna delle prese in giro, in nessun modo; restava inespressivo, silenzioso. Finiva per essere lui a spaventare gli altri. Le maestre erano preoccupate per quel comportamento insolito – e per tutti gli altri atteggiamenti strani che aveva – ma quando ne parlarono con la madre ai colloqui, lei non parve battere ciglio e non si stupì. D'altronde lo aveva cresciuto lei, sapeva benissimo come il bambino agisse, non trovando che il suo carattere fosse anomalo.
Né lei né Lucci sapevano chi fosse il padre. La donna era giovane ed aveva avuto moltissimi uomini nel periodo in cui era rimasta incinta. Aveva cresciuto il piccolo da sola, e tra i due era nato un bel legame. Lui la aiutava a tenere la casa pulita, talvolta svolgendo le faccende al posto suo, dato che lei era spesso stanca e senza forze.
Nonostante lui fosse solo un bambino era molto maturo per la sua età. Era intelligente, intuitivo, furbo e selettivo. Faceva soltanto ciò che gli conveniva maggiormente.
Non era molto emotivo. Piangeva in rarissimi casi, e quando accadeva non ricercava in alcun modo del conforto; soltanto la madre poteva vederlo in alcuni momenti di debolezza, ma anche nei suoi confronti in quei casi era schivo.

Era un ragazzino. Non aveva più di tredici anni quando ricevette l'ennesima batosta.
Sua madre morì davanti agli occhi del piccolo Lucci, uccisa da una malattia che la logorava da fin troppo tempo. Il giovane voleva bene alla madre, ma da qualche settimana sapeva che ogni giorno sarebbe potuto essere l'ultimo con lei. Ed una cosa che Lucci detestava più di ogni altra, erano le situazioni inaspettate. Odiava le novità, le sorprese. Lui voleva avere il dominio totale delle sue emozioni, così da sapere sempre come gestire ogni momento della sua vita.
Ed era proprio per quel motivo che aveva scelto una data per la morte della madre: lei soffriva troppo, nemmeno secondo i medici non sarebbe guarita, e la sua morte improvvisa avrebbe devastato l'equilibrio di Lucci. Avrebbe dovuto fare in modo che morisse il giorno da lui stabilito. Per quel giorno sarebbe stato pronto: le avrebbe somministrato del veleno nella razione giornaliera di sciroppo. Se ne sarebbe andata nel sonno, senza rendersene conto, senza soffrire.
Ma così non andò.
La data scelta era per il quindici di quel mese.
Lei se ne andò il quattordici, mentre Lucci le stava facendo degli impacchi di acqua fresca.
In quella stanza regnava il silenzio, che prima era colmato da due respiri, ora soltanto da quello del piccolo, che si era fermato con la pezza a mezz'aria. Aveva sgranato gli occhi, senza parole.
Era stato colto alla sprovvista.
Il destino si era preso gioco di lui, non solo portandogli via la madre, ma facendolo all'improvviso, senza lasciargli il controllo.
Pianse di nascosto nonostante fosse da solo, l'ennesimo filo si spezzò dentro di lui. La sua rabbia aumentò, e con lei anche il bisogno maniacale di avere ordine nella sua vita, di non perdere le redini delle sue emozioni.

Ormai era un adolescente. Quel ragazzino era cresciuto.
Si era lasciato alle spalle la tragica morte della madre, e con quella anche la casa in cui aveva vissuto la sua infanzia.
Se la sarebbe cavata benissimo da solo, ne era sicuro, ma qualche giorno dopo l'accaduto, un grosso uomo bussò alla sua porta: si presentò come suo zio, e lo invitò a vivere con lui.
Lucci accettò. Scoprì presto che quell'uomo era un individuo piuttosto ordinario, un lavoratore come gli altri. Lasciava al ragazzo le sue libertà, e con questa era compreso un animale domestico. Convinse lo zio a tenere un piccione bianco, e riuscì ad ammaestrarlo.
Forse quel volatile era l'unico essere vivente, oltre alla madre, ad aver ricevuto un vero e proprio coinvolgimento emotivo da parte di Lucci. Lo aveva curato, lo sfamava, lo teneva al caldo.
A diciassette anni il ragazzo viveva una vita tranquilla. Non aveva amici, ma a lui andava bene così. Le uniche persone che aveva attorno a sé erano lì per loro scelta, perché erano consapevoli che Lucci non le considerasse in nessun modo come suoi pari. In ogni caso, a lui facevano comodo. Riusciva a controllarle a suo piacimento, giocava con i loro sentimenti, e ciò non faceva che accrescere in lui il benessere per aver soddisfatto il bisogno di ordine.
A nessuno di loro era permesso toccare il suo animale – l'aveva chiamato Hattori. Non erano degni di quel piccione, a cui lui voleva quasi bene.
Un giorno come un altro era davanti alla sua scuola, seduto su un muretto, mentre si accendeva una sigaretta. Non aveva il vizio del fumo, ma gli piaceva il gusto che lasciava in bocca. Iniziò a fumare con calma, sperando che le persone al suo fianco se ne andassero, ma loro volevano stare in sua compagnia, anche se non era di tante parole. Di lui sapevano il minimo indispensabile: per esempio non erano a conoscenza del terribile passato con la madre.
Marinette era la più socievole del gruppo che lo circondava, e spesso lo faceva innervosire tutta quella sua allegria, ma non diceva niente, limitandosi a stare in silenzio e sopportare. Loro soddisfavano la sua smania di controllo, e si accontentava quindi dei loro caratteri così diversi dal suo. Quello stesso giorno, la ragazza si stava lamentando di sua madre, che a detta sua era troppo invadente. A Lucci diede fastidio, perché lui una madre non ce l'aveva più. Quando lei si voltò verso il ragazzo, lo invitò a prendere parola, come se fosse lei ad avere le redini del gruppo.
Lui inarcò un sopracciglio; aveva capito che voleva sapere di più sul suo conto, in particolare su sua madre o la sua famiglia, dato che era il discorso aperto al momento.
«Parlaci della tua famiglia.» disse lei. Lucci fece un tiro dalla sigaretta e sbuffò fuori il fumo, terribilmente infastidito. Scrollò le spalle. Si decise a parlare, soltanto perché non aveva niente di meglio da fare. «Quattro anni fa mia madre è morta. Vivo con mio zio.» ed una volta spiegata la sua situazione riprese a fumare, come se nulla fosse. Marinette gli circondò le spalle con un braccio e lui irrigidì completamente.
«No.» affermò, e la ragazza si allontanò immediatamente, come si fosse scottata. Era arrossita, terribilmente in imbarazzo. Borbottò delle scuse e tornò a parlare con gli altri. Aveva capito da sola, senza fare domande, che a lui non piacesse il contatto fisico affettivo.

Quando arrivò ai vent'anni andò a vivere per conto suo, naturalmente insieme ad Hattori, in un piccolo appartamento nel centro della sua città.
Lucci era un uomo ormai. Era sempre stata una persona di bell'aspetto, ma crescendo non faceva che diventare sempre più attraente. Lavorava in un cantiere; nonostante fosse di norma molto elegante, gli piaceva fare fatica e sporcarsi le mani, per poi tornare a casa e fare lunghi bagni caldi. Passava ore al cantiere, ed ogni giorno a pranzo si fermava alla solita locanda per mangiare un boccone, giusto per riprendere le forze necessarie.
Lo serviva sempre la solita donna – con il tempo aveva appreso si chiamasse Kalifa – e sembrava quasi fosse ossessionata da lui, o almeno così pensava, non ne era certo. Non era bravo a capire le persone. In ogni caso, spesso la donna cercava di introdurre una conversazione, ma lui era davvero di poche parole, e non interessato a parlare con lei.
Mangiava il suo sandwich in silenzio mentre sfogliava il quotidiano, beveva un caffé, e pagava il conto, senza rispondere alle domande superflue della donna. Usciva dalla locanda e Hattori si poggiava sulla sua spalla, poi in qualche minuto tornava al cantiere, pronto ad affrontare altre dure ore di lavoro.
La sua routine era quella, e secondo lui era perfetta.
Un giorno quella quotidianità venne spezzata, e proprio dalla donna che tanto lo ambiva. Tra le varie cose, mentre lui cercava il giusto quantitativo di soldi da darle, lei gli domandò un appuntamento per una cena. Guardò con più attenzione i tratti della donna, notandone la bellezza, l'eleganza, la raffinatezza. Accettò. Pagò il suo conto e tornò a lavorare, pensando all'imminente uscita della sera stessa. Non era assolutamente coinvolto emotivamente da Kalifa, aveva intenzione di portarsela a letto, per poi rivederla il giorno dopo alla locanda. Niente in più.
Una volta finito di lavorare, andò a casa e si lavò, si vestì elegante – un completo nero – e permise ad Hattori di svolazzare libero per la città quella sera. Andò a prendere la donna al posto stabilito e la ascoltò parlare per tutto il tragitto fino al ristorante, scelto da lei. Non gli dispiaceva la sua compagnia dopotutto, aveva interessi particolari ed assolutamente non banali, cosa che lo sorprese in positivo – per quanto potesse interessargli. Mentre cenarono lui parlò, il minimo sindacale, ma espresse il suo parere su alcuni dei discorsi da lei introdotti. Quella lunga serata, a tratti noiosa, continuò a casa di lui, una volta che Kalifa venne invitata a salire.
Era evidente che entrambi avessero voglia di arrivare al sesso. Bevvero un bicchiere di vino rosso, giusto per sfizio di Lucci, che amava vantarsi dell'alta qualità dei suoi averi, che venne di fatto apprezzata anche dalla donna. Nei successivi minuti la tensione in quella stanza andava crescendo, ed a fare il primo passo fu lei: si alzò in piedi, avvicinandosi all'uomo, che la stava squadrando da capo a piedi. La trovava bella.
In pochi minuti arrivarono alla camera da letto, ossessivamente ordinata e pulita, già privati di alcuni indumenti. Una volta che furono entrambi completamente messi a nudo, eccitati e fortemente attratti l'uno dall'altra, fecero sesso. Una, due, tre volte. Si fermarono entrambi, privi di energie per permettersi una quarta volta, e si sdraiarono nel letto.
Kalifa osservava il profilo dell'uomo al suo fianco; forse stava iniziando a fantasticare su un possibile futuro insieme a lui, a come si sarebbero amati per l'eternità. Lucci invece, percependo quello sguardo fisso su di lui, iniziò ad infastidirsi, ma allo stesso tempo il suo ego accresceva.
La donna si avvicinò a lui, lentamente, e si accoccolò al suo petto; era un classico, dopo aver fatto sesso, la ricerca di affetto. «Non do abbracci.» disse l'uomo freddamente. Quella frase, quel tono, ferirono moltissimo Kalifa, ma lui non se ne rese conto. D'altronde, non se ne rendeva mai conto, quando faceva del male a qualcuno, a meno che non lo facesse volontariamente, al solo fine di avere il controllo. Lei quindi si spostò bruscamente da Lucci, alzandosi. Si rivestì. «Grazie per il buon vino e per avermi offerto la cena. Ci rivedremo domani a pranzo, sempre che tu scelga la nostra locanda per consumare il tuo pasto.» aggiunse, mentre si infilava la giacca. Senza dire altro, varcò la porta principale ed uscì dall'appartamento, lasciando l'uomo solo. Lui era soddisfatto. Aveva ottenuto del sesso discreto, con una bella donna; tutto era andato esattamente come aveva pianificato.
Sentì picchiettare sul vetro della finestra, e girandosi vide Hattori che richiedeva di entrare. Scivolò fuori dal letto ed aprì l'anta, cosicché il volatile bianco potesse rintanarsi nella sua dimora.

Rob Lucci continua a vivere la sua vita facendo sì che tutto resti sotto il suo controllo. Nulla deve prenderlo alla sprovvista.
   
 
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