Haferbrei
“Ha di nuovo la febbre,”
Marco non è del tutto certo di sentirle davvero,
quelle voci. Nascono come qualcosa di indistinto, suoni liquidi e caldi che si
infrangono come bolle contro le macerie dei suoi sensi.
“È la terza ricaduta in poco più di una settimana…”
Prova ad aprire gli occhi, una fitta gli ricorda che
gliene è rimasto uno solo.
Intorno a sé, delle ombre si aggregano come granelli di polvere sospesi a
mezz’aria; si torcono, si allungano, la pupilla ne segue il guizzare da un
punto all’altro del suo campo visivo.
E non sa decifrare come si senta.
Una mano va a poggiarsi sulla fronte scatenando l’ira
delle sue ferite.
Apre la bocca. Si accorge di non poter urlare.
“Tranquillo, va tutto bene—”
“La caposquadra Hange dice che se la caverà, però…”
“Se Hange dice che se la caverà, se la caverà. Non c’è
ragione di credere non sia così, Lia.”
Geme. Il respiro retrocede ruvido in gola.
Un angolo di letto si piega sotto un peso differente;
non è Jean.
Non ne porta neanche l’odore, neanche il modo di muoversi.
Non è Jean.
Il cuore accelera, i muscoli fremono. Non ha
abbastanza aria nei polmoni.
“Jea-n—” Non è neanche certo
si sia sentito, tagliato in quel modo dai suoi denti.
“Va tutto bene—” ripete ancora. E sa che lo continuerà a fare fin quando non la
smetterà di far frusciare il lenzuolo in quel modo.
“Molti dei nostri sono stati convocati nella capitale.
Torneranno domani.”
Marco ingoia qualcosa che ha bloccato in gola. L’eco
di quelle parole è sporcato dal battere dei suoi denti.
“Noi non ci siamo ancora presentati come si deve. Mi
chiamo Moblit. Moblit Berner. Sono vice capo della
quarta squadra. Aiuto Hange con le sue ricerche…”
Il suo occhio rintraccia appena il profilo sbiadito, ondeggiante come immerso
in uno specchio d’acqua.
C’è qualcosa di potente, in quella mano gentile che sente scivolare nell’incavo
del collo; qualcosa che riesce a far tornare i suoi polmoni ad incamerare aria
ad un ritmo più umano.
“So che sei un ragazzo tenace. Non fanno che parlare
tutti di te, sai? La caposquadra Hange è entusiasta dei tuoi progressi.”
Lo osserva ancora un paio di secondi, prima che il suo
stesso fiato gli chieda di scegliere tra il respirare e il restare a guardarlo.
“E Jean, il tuo amico: lui è il ritratto della gioia ogni qualvolta sente che
stai migliorando…”
Jean.
Cerca di ricordare che forma ha la gioia sul volto di Jean, ma la sua mente
è capace di mettere insieme solo immagini fumose, sbiadite, confuse. Si
arrende.
Jean piange soltanto, negli ultimi tempi.
“Quand’è stata l’ultima volta che le sue bende sono
state cambiate?”
“Ieri sera. Dovranno essere cambiate di nuovo tra
qualche ora—"
“Le cambiamo subito. Lia, prepara l’occorrente, per favore.”
Sente la posizione dell’uomo mutare; struscia involontariamente le maniche
della camicia contro il suo petto adesso nudo; si scusa per il lamento che gli
strappa.
“Non sono bravo come la caposquadra Hange,” premette con imbarazzo, “ma cercherò
di farti meno male possibile”, e Marco ci prova a dirgli di non preoccuparsi, perché
non può fargli più male di quanto le sue ferite non gliene facciano già da sole.
La pressione delle bende che allentano la presa su ciò che resta delle sue
membra è una sensazione fin troppo familiare. Ciò che riesce ad articolare, sono
i soliti suoni rauchi che si levano dal proprio ventre rigonfio e che ormai non
prova più neanche a soffocare.
Ormai, non prova più neppure a credere di poter avere il minimo controllo sul
proprio corpo.
“Non hanno un brutto aspetto, l’infezione sta
regredendo bene…”
Non sa se il tono è davvero così morbido, o se sono i suoi singhiozzi a
distorcerlo.
Un asciugamano umido porta via le lacrime che gli sono scivolate sin nelle
orecchie (o in quel che ne resta), e la stanza si riempie di suoni, di frasi e
sospiri che sembrano volerlo portare lontano da ciò che accade intorno a lui.
Il tempo impiegato a fasciarlo in nuove garze è il tempo di un altro universo,
ed è scandito da mani che lo aiutano a sollevarsi, a voltarsi, a sopportare
garze intrise di fuoco.
Le parole che gli rivolge sono una emorragia simile a quella che di tanto in
tanto esplode da qualche parte dentro di sé, e che qualcuno, puntualmente, va a
richiudere.
Sostituiscono un fastidio grande con un altro, ma più piccolo – più sopportabile,
e neanche tanto brutto, oserebbe dire - e non sa se è il connubio con la febbre,
che lo ha reso così malleabile; così interessato a continuare a sentire il
suono di quelle parole, anche se non sono di Jean.
“Abbiamo finito,” sostiene inverosimilmente; se ne
avesse le forze, Marco verificherebbe da sé, ma il tentativo di sollevare anche
solo il braccio sano, fallisce con lo stesso sottofondo di gemiti che le
maniere di Moblit gli hanno risparmiato.
“Fai piano,” lo redarguisce, il palmo che poggia sulla spalla muta, diventa un
tocco differente in pochi istanti; e Marco, non sa perché, ma torna ad avere
paura.
“Lia,”
“Sì?”
“Potresti cambiare l’acqua del catino? Dobbiamo fargli
scendere la temperatura, ha bisogno di acqua fredda. E—di cibo, per favore. Del
cibo vero.”
“Non riesce a mandare giù nulla se non qualche cucchiaio di brodo…”
“Proviamo con della zuppa d’avena. Deve rimettersi in
forze, è troppo debole per continuare così—”
La fretta con cui abbandona l’angolo di letto nell’istante
in cui rimane solo è sospetta.
“Stai tranquillo,” mormora ad un certo punto, forse
perché prima di lanciarsi verso quel qualcosa di traballante sul fondo, che
solo dai suoi movimenti riconosce essere una delle librerie, ha visto qualcosa
di davvero orrendo nel modo in cui il suo volto si è distorto. “ricordo a
memoria la posizione di tutti i libri di Hange; anche quelli che farei bene a
dimenticare—” scuote la testa.
In controluce, Marco lo vede danzare tra gli scaffali,
la sua figura diventa erratica, disperde parti di sé nelle lame di sole che
trafiggono le finestre come se egli stesso fosse fatto di luce.
Non è interessato davvero ai libri che ha tra le braccia; c’è qualcos’altro.
Un doppiofondo, forse – ma non nel primo scaffale. Non vede da dove estrae i
libri che gli preme avere.
Ne spalanca sul tavolo due, forse tre. Si muove veloce,
frenetico.
L’infermeria ha adesso un secondo respiro affannoso.
Marco riesce a distinguerlo chiaramente soprattutto mentre l’uomo alterna la
scrittura di alcuni appunti ad occhiate disperate rivolte alla porta.
Lo vede calmarsi quando rimette ogni libro al proprio posto; poggia le spalle
alla libreria, come un fuggiasco, riprende fiato.
“Ancora un attimo di pazienza,” risponde così al gemito che si lascia sfuggire
quando una fitta da qualche parte gli fa inarcare il collo e stringere le
lenzuola.
Continua la danza tra gli scaffali, ma la frenesia di poco prima è sparita. Apre
cassetti, raccoglie piccoli oggetti al loro interno secondo la lista che ha
formulato; il ‘toc’ ‘toc’, ‘toc’ regolare del mortaio è un suono a cui
ha già fatto una discreta abitudine.
Non ha fatto l’abitudine però al dolore che si
risveglia ogni qualvolta qualcuno solleva la sua schiena, non importa quanti
cuscini abbia sistemato, o con quanta cura venga adagiato al torace.
Trova sempre le guance di Jean bagnate, quando accade.
L’odore che si espande è stranamente gradevole, ha
qualcosa che lo riporta ai tempi del refettorio della scuola, anche se i fumi
che si levano gli pizzicano il naso e l’occhio.
“Bevi, coraggio.”
Sa come funziona: prima berrà, prima potrà tornare a letto. Non se lo fa
ripetere due volte.
Gli va un paio di volte di traverso, e allora geme, tossisce – piange pure, in
realtà.
Piange perché fa male, e perché è stanco, e perché davvero – è tutto troppo.
Ma se ne accorge solo dai ‘shhh’ che sussurra
Moblit mentre fa tornare l’asciugamano alle sue guance.
“Questo decotto abbasserà la febbre e ti aiuterà anche a lenire il dolore; ma
dovrai berlo prima che torni Lia. È nuova, ci riempirebbe di domande—"
Non ha idea di quale sia il nesso, non è neanche certo
di aver capito tutto ciò che Moblit gli dice, ma non importa: non ha ancora
ingoiato gli ultimi sorsi, e già sente il tepore avvolgerlo, abbracciarne i
muscoli tesi, alleggerirgli il respiro.
Quando le braccia di Moblit lo riadagiano tra i
cuscini, sta già meglio.
E non ricorda più neanche quand’è stata l’ultima volta che il suo corpo abbia
realizzato di stare meglio.
“Ma—si è addormentato?”
“Ha solo bisogno di un momento. Lasciamolo riposare—"
“E la zuppa?”
“La mangerà,” si solleva, “Se vuoi, puoi andare in pausa, Lia. Penserò io a lui.”
“D’accordo, come vuole—” il suono dei passi che si allontanano riescono a
restituire ordine al caos.
Un panno freddo poggia sulla sua fronte; schiude la
palpebra quando sente la punta di un cucchiaio solleticargli le labbra socchiuse.
“Solo qualche cucchiaiata, avanti,” La voce tradisce l’imbarazzo di chi è
consapevole di chiedere un grosso favore, “so che ce la puoi fare.”
A giudicare dal suo tono, forse Moblit non lo crede sul serio: però lo spera.
Lo spera davvero.
“Facciamo una sorpresa a Jean, quando tornerà. Pensa
quanto sarà felice di trovarti in forze—”.
Marco batte un paio di volte la palpebra umida.
Pensa al Jean felice che non riesce a ricordare, schiude la bocca.
Fine
***
Note:
· Fanfiction
scritta per la ‘come as you
are (not)’ challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia.
Riporta nei dettagli una scena che viene menzionata in “The world on the
right” – era piaciuta tanto a Joy, e così l’ho realizzata
per lei, e a lei dedicata. <3
· Ho
l’headcanon che Hange abbia dei libri provenienti dal
mondo esterno (dunque proibiti) tra i suoi tomi di medicina, cosa che permette
loro di accedere a cure che altrimenti, sarebbero sconosciute.
· Grazie
per aver letto. Spero vi sia piaciuta. <3