Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    19/09/2021    0 recensioni
“Colpa mia” si trovava a ripetere, a volte, quando Jean riusciva a carpire le sue confidenze, a costo di farlo crollare, perché si liberasse. “È stata tutta colpa mia… è il nostro personale inferno, mio e di Eren e io non posso permettermi di fermarmi”.
ATTENZIONE: SPOILER PER CHI NON HA LETTO IL FINALE DEL MANGA!
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Drabble scritta per la challenge Wriptember del gruppo Hurt/Comfort Italia – Fanfiction and fanart - GRUPPO NUOVO
 
 
Fandom: Attack on Titan
Autore: Perseo e Andromeda, Heather-chan
Titolo: Domani starò meglio
Prompt: Il cibo è un problema – Il caretaker è fastidioso (Day 11)
Personaggi: Armin e Jean (presenza spirituale di Eren)
Generi: angst, introspettivo, hurt/comfort, drammatico
Rating: giallo o forse addirittura arancione per la presenza di disturbi alimentari, depressione, vari disturbi mentali. Tematiche delicate
Note: I due prompt mi sono un po’ sfuggiti di mano e quella che doveva essere una cosa breve è andata… un po’ oltre. Sappiate solo che mi ha ucciso un po’ dentro. Accenno a tanti miei headcanon su come immagino la situazione di Armin dopo il finale del manga. SPOILER PER CHI NON HA LETTO IL MANGA!!!
 
 
 
DOMANI STARÓ MEGLIO
 
“Armin” mormorò Jean quando aprì la porta della stanza nella quale il giovane Arlert stava rinchiuso da ore.
Vide la sua schiena china sulla scrivania, nella stessa identica posizione nella quale lo aveva lasciato ore prima.
Non poteva credere che non si fosse mai mosso, con i suoi occhi delicati fissi su quei fogli, le mani affondate nei capelli e i gomiti sul tavolo.
Quante volte aveva riscritto e modificato il discorso che avrebbe dovuto fare davanti ai politici Marleyani? Quante volte lo aveva riletto e studiato? Quando si era concesso qualche istante di riposo, da quando erano stati condotti in quell’alloggio a loro riservato, sotto stretta sorveglianza, senza poter muovere un passo per le strade?
Quando, Armin, si era preoccupato di pensare alla propria salute fisica e mentale dal giorno in cui Eren li aveva… liberati… distruggendo il mondo che Armin amava tanto e morendo egli stesso?
Mai, questa era la risposta.
Armin aveva perso tutto e, in quell’impresa di pace che si era imposto e che costituiva l’ultima promessa fatta ad Eren, stava perdendo anche se stesso.
La maledizione dei giganti, scomparendo, aveva riacutizzato tutte le fragilità fisiche di un tempo, un effetto collaterale al quale, probabilmente, neanche lo stesso Eren aveva pensato, non avrebbe mai immaginato, di sicuro, che salvando Armin dalla maledizione, avrebbe compromesso la sua salute a tal punto.
Le scelte erano due d’altronde.
Morire dopo pochi anni per la maledizione, o accettare un’esistenza trascinata da un corpo fragile e in una condizione perenne di salute precaria: una vista che si indeboliva sempre di più, malori e emorragie improvvise che sembravano scaturire dal nulla…
Nella speranza che, nonostante tutto, a causa di tutto questo, la vita non sarebbe stata, comunque, troppo breve.
Anche se Jean aveva la sensazione che, dentro di sé, Armin lo sperasse.
Armin non amava vivere… non più…
Andava semplicemente avanti perché sentiva di doverlo fare, perché andare avanti era stato l’ideale di Eren e ora lo aveva fatto suo: lo doveva ad Eren, lo doveva anche a quel mondo che avevano sognato e che, proprio a causa di questo sogno, era stato ridotto in un luogo di morte e disperazione.
Anche questo si rimproverava Armin: se non fosse stato per quel libro, per il sogno condiviso, Eren non avrebbe mai voluto vedere il mondo oltre le mura, non ne sarebbe rimasto deluso e non avrebbe commesso il più atroce dei delitti.
“Colpa mia” si trovava a ripetere, a volte, quando Jean riusciva a carpire le sue confidenze, a costo di farlo crollare, perché si liberasse. “È stata tutta colpa mia… è il nostro personale inferno, mio e di Eren e io non posso permettermi di fermarmi”.
Tutto quello che Jean riusciva a fare era ascoltare, non credeva fosse giusto che Armin dovesse sentirsi così, ma con le parole non era bravo ed era costretto a rassegnarsi alla propria impotenza.
Giunse dietro di lui, posò le mani sulle sue spalle e finse di ignorare il sussulto e i tremori che si diffusero nelle membra del più piccolo: era naturale, tutti loro erano reduci da una vita di terrore costante, non c’era niente che si potesse fare perché quel terrore e quella condizione di all’erta li abbandonassero definitivamente.
“Sono io, Armin” si limitò a dire, gentilmente.
Il ragazzo si portò una mano agli occhi, sospirò. La stanchezza che provava arrivò a Jean in tutta la sua tangibilità, sembrava di percepirla attraverso l’aria.
“Non hai ancora finito?”.
La mano di Armin ricadde sul foglio davanti a sé, le dita lo stropicciarono, con tremiti nervosi.
“È sbagliato… è tutto sbagliato…”.
“Io sono sicuro di no. Andrà benissimo invece, se vuoi poi lo guardiamo insieme. Ma adesso devi riposare… e soprattutto mangiare qualcosa”.
Già… mangiare.
Jean aveva perso il conto delle ore trascorse dall’ultimo pasto decente di Armin.
Quand’era stato l’ultimo pasto?
C’era stato, in effetti?
Le mani di Jean scivolarono giù dalle spalle, lungo le braccia, in quella che voleva far sembrare una carezza, ma in realtà era anche un modo per rendersi conto, una volta di più, della magrezza del compagno e, come accadeva sempre più spesso, ne rimase sconvolto.
“Vai pure a cena, Jean. Io mangerò qualcosa dopo”.
Jean strinse i denti in un ringhio, i pugni si serrarono sulle braccia di Armin ed ebbe la sensazione che sarebbe stato facile spezzargliele.
Il titano colossale…
Il dio della distruzione…
Quanto sembrava ridicolo, tristemente ironico, adesso, ricordarlo.
“Jean… mi fai male…”.
Allentò subito la stretta.
Era diventato davvero così delicato?
Ancora più di quando era il più debole tra i cadetti, quello che doveva essere sempre sostenuto e spesso portato a braccia in infermeria?
“Scusami…”.
Gli rispose un sospiro, il capo del compagno che si muoveva in senso di diniego.
“No… scusami tu…”.
Il solito Armin, che si scusava per ogni cosa e si sentiva sempre in difetto, che non colpevolizzava nessuno se non se stesso, anche per le cose che doveva subire.
“Armin, ti prego, vieni a mangiare”.
Gli rispose il silenzio, ma la tensione dell’altro gli arrivò con forza, era come uno schiaffo che lo respingeva anche se, di fatto, Armin non si mosse. Ma ogni vibrazione, che fosse interiore o esteriore, intercorreva tra loro e faceva capire ogni cosa.
“Armin…”.
“Non credo di…”.
“Non dire che non hai fame!”.
La voce di Jean si era alzata fin troppo, provocò tremori violenti sotto le proprie mani, che strinsero di nuovo, a causa del nervosismo che non era riuscito a trattenere.
Se ne rese conto e le staccò subito dal corpo di Armin.
Quest’ultimo rintanò la testa tra le spalle, le sue mani scivolarono verso il basso e Jean seguì il loro movimento, mentre non poteva fare a meno di notare quanto fossero diventate piccole e scheletriche anch’esse: un lieve strato di pelle che rivestiva le ossa sottili.
Andarono a rifugiarsi tra le ginocchia e Armin le strinse, quasi volesse nasconderle.
“Armin, davvero, se non vuoi venire, posso portarti qualcosa qui” ritentò Jean, ritrovando tutta la propria gentilezza.
Il viso di Armin si nascose tra le spalle a tal punto che a Jean sembrò ancora più piccolo di quanto il ragazzo già fosse:
“Ho lo stomaco chiuso… finché non ci sarà stato questo incontro…”.
Il nervosismo tornò, non poteva farne a meno, la frustrazione ebbe la meglio su ogni tentativo di mostrarsi comprensivo e paziente:
“Quando ci sarà stato questo ce ne sarà un altro, quando avremo finito con questa cosa avremo altro da fare, tu avrai altro da fare, perché lo sai bene che non ti riposerai neanche se potessi farlo, credi che non ti conosca?!”.
Da piccolo lo vide farsi minuscolo, aveva il medesimo atteggiamento di un bambino rimproverato, di un cagnolino a cui qualcuno stava gridando contro e non sapeva cos’altro fare se non raccogliersi su se stesso e desiderare solo di scomparire.
“Scusami, Jean…”.
Il naso di Jean si arricciò in un broncio di dolorosa sorpresa.
Lui si scusava?
Avrebbe forse potuto girare a proprio vantaggio quell’assurdità, in ogni modo.
“Ti perdonerò solo se mangi”.
Una mossa improvvisa, il suono stridulo della sedia che strisciava con violenza sul pavimento e quasi cadde in seguito a quel repentino mettersi in piedi.
Jean se lo trovò davanti, occhi negli occhi, quelli di Armin che guardavano in alto, verso di lui, perché le loro stature non permettevano un confronto del tutto paritario.
“Non trattarmi come se fossi un bambino, non ne ho bisogno, non ho bisogno anche di questo!”.
Avrebbe voluto ribattere, dirgli che non era così, che non era mai stato un bambino, nonostante non avesse mai creduto di valere qualcosa in quel mondo di merda nel quale si trovavano immersi.
In quale modo avrebbe potuto essere un bambino?
Nessuno di loro aveva mai potuto, chi più chi meno, neanche quando bambini lo erano stati davvero.
E, in qualche modo, l’infanzia di Jean non era stata così terribile come quella di Armin.
Ma non fece in tempo a pronunciare neanche una parola, subito distratto dall’evidente barcollare dell’amico, una mano che salì agli occhi, l’altra che si appoggiava allo schienale della sedia.
Le sue braccia si mossero con naturalezza, ormai era puro istinto quando si trattava di raccogliere quei crolli, che erano tipici di Armin fin da quando era piccolo, ma che, ora che il colossale non lo proteggeva più e la sua tensione era cresciuta in maniera proporzionale alle tragedie subite, si erano fatti preoccupanti.
“Lasciami” mormorò Armin in un soffio, con un debole tentativo di divincolarsi.
Jean non lo ascoltò, allora il compagno gli posò le mani sugli avambracci e, tremando, cercò di staccarlo da sé.
“Sto bene Jean… lasciami…”.
La sua voce era un lieve sospiro, i suoi occhi si tenevano bassi e guardavano ovunque, ma non in alto, verso di lui.
Eppure sapeva ancora essere volitivo, a dispetto della fragilità del suo fisico e, quando si imponeva, tale era la testardaggine che persino il robusto Jean faticava ad opporsi.
Suo malgrado, sentì le mani staccarsi dal corpo di Armin e il giovane scivolare via da lui, creatura evanescente, senza consistenza…
Sempre più senza consistenza.
Jean rimase con una mano tesa, avrebbe voluto provare ancora, perché vedeva che Armin, per reggersi in piedi, adesso si teneva con le mani e la schiena contro il tavolo, sembrava che le sue gambe non avessero più la forza di sostenere quel lieve peso che era diventato il corpo. Persino le chiazze rosse sulle gote e sul naso, che avevano sempre reso tanto particolare il colorito del suo viso, sembravano spiccare come ferite sanguinanti, ora, su un pallore che si era fatto malsano.
“Andrò a dormire Jean… te lo prometto… ora vado a letto”.
“Prima però…”.
“Domani mattina farò una colazione abbondante… te lo assicuro…”.
Avrebbe voluto gridargli contro che le sue parole suonavano false e che da esse si sentiva preso in giro, perché Jean lo sapeva che gliele diceva solo per levarselo dai piedi, in quel momento.
Il fatto che Armin parlasse continuando a fissare il pavimento, non rendeva la promessa più credibile.
Invece non gli gridò contro, non si arrabbiò: si sentiva solo infinitamente triste.
“Armin…” si limitò a sussurrare.
“Per favore… sono davvero stanco… vorrei andare a dormire”.
Il viso di Jean si abbassò e anche le spalle ricaddero, con una mestizia palpabile. Se Armin lo avesse guardato, avrebbe provato ulteriore senso di colpa, anche nei suoi confronti.
Ma Armin non lo guardava.
Cercò di incontrare i suoi occhi, ma l’amico sembrava volerli tenere nascosti, si ostinava a non sollevarli.
“Va bene… buonanotte”.
Scosse il capo, sospirò e, dandogli le spalle, uscì dalla stanza.
 
 
***
 
Non era giusto, Armin lo sapeva, eppure non aveva potuto fare a meno di trattarlo male.
Era grato a Jean per la sua dedizione, ma capitava spesso che lo mettesse a disagio.
Perché non lo meritava.
Quindi finiva per allontanarlo, per farlo sentire di troppo, per comportarsi con lui come se gli desse fastidio.
Probabilmente si autoconvinceva di essere infastidito da tutte quelle attenzioni, perché lui voleva restare solo, voleva che tutto quel peso fosse solo suo: Eren lo aveva lasciato a lui, era una cosa che apparteneva unicamente a loro.
Il sogno era appartenuto unicamente a loro.
La rovina del mondo che avevano sognato, anch’essa apparteneva unicamente a loro.
“La nostra colpa” mormorò quando rimase solo, ancora appoggiato al tavolo, ma una mano si staccò dall’appiglio, per salire alla fronte dolorante.
Le labbra si distorsero in un ghigno di autocommiserazione:
“Sono patetico, non è vero, Eren?”.
Ed era patetico anche a continuare quelle conversazioni con colui del quale non restava che un’evanescente illusione dentro la sua mente e, soprattutto, dentro il suo cuore.
Un altro sogno, un’altra illusione, un altro tassello di quel rompicapo di follia che, da sempre, era la sua vita.
La vita di tutti loro, non poteva autocommiserarsi, non ne aveva il diritto.
Un tempo sognava il mare e il mondo fuori dalle mura.
Adesso sognava Eren…
Ed era così vivido, i loro tocchi, i loro abbracci, le loro parole, così reali come neanche quel mondo che ora poteva davvero solcare era mai stato.
Niente era più vero di Eren, lui era sempre lì.
Era un chiaro segno del declino mentale, morale cui stava andando incontro: la decadenza fisica era il riflesso esteriore di ciò che stava accadendo dentro di lui.
Stava impazzendo.
C’era un’altra cosa che non aveva detto a Jean, e anche quel particolare lo aveva spinto a cacciarlo, a non sollevare mai lo sguardo su di lui.
Quando si era alzato dalla scrivania, mentre Jean gli parlava, lui non lo vedeva…
Non vedeva più nulla.
Si era alzato perché non riusciva neanche più a vedere il foglio su cui aveva appuntato il proprio discorso.
E adesso, mentre a fatica raggiungeva il letto, reggendosi ad ogni supporto trovasse sul suo cammino, la vista stava tornando lentamente.
Troppo lentamente…
Sempre più lentamente.
Si lasciò cadere prono sul materasso, come se il suo corpo proprio in quel momento avesse deciso di cedere. Afferrò il cuscino tra i pugni e vi affondò il viso.
Girava tutto, la sensazione era quella di una nave nel mare in tempesta: ormai sapeva cosa si provasse su una nave che solcava il mare, il mondo che un tempo immaginava soltanto, adesso lo aveva sperimentato.
Ogni cosa gli sembrava, tuttavia, vana ed insensata.
La testa gli faceva malissimo e le lacrime scesero lungo le guance, non sapeva neanche dire se era per il bruciore che sentiva agli occhi o se si trattasse di un pianto dato dal puro dolore morale. Ormai non distingueva neanche più le proprie emozioni e le proprie sensazioni, fisico e mente erano un tutt’uno confuso e ridotto allo stremo.
“Cosa mi sta succedendo?” mormorò nel buio della stanza. “Eren… Eren… che cosa devo fare? Non era quello che avevi immaginato per me, vero?”.
Il tempo passò, non sapeva quanto, lo cullava il silenzio, le sue lacrime mute, il buio che non era solo quella della notte, perché tutto era sempre più buio intorno a lui.
Aveva ancora le guance umide quando si rese conto che si stava assopendo, un dormiveglia inquieto, fatto di ricordi, visioni, chiazze rosse che si accendevano nelle tenebre.
“Basta” mormorarono le sue labbra, quando un rumore alle sue spalle lo convinse che stava arrivando qualcuno a fargli qualcosa di male…
Non sapeva cosa…
Ne aveva subite tante che ormai non distingueva neanche più una sofferenza inflitta dall’altra.
D’altronde lui aveva fatto lo stesso: quel bambino condotto alla morte dal suo colossale gli faceva visita ogni notte…
Spesso anche quando il sole era alto nel cielo…
Un’immagine improvvisa che lo coglieva, in qualunque momento, impreparato.
Non sapeva cosa stesse per ghermirlo adesso, se essere umano o gigante, non sapeva cosa gli avrebbero fatto subire e non gli importava.
Per questo, quando una mano si posò sulla sua spalla, non provò a ritrarsi e rimase totalmente passivo.
Ma quella era una mano amica, un tocco gentile.
“Eren…” il nome si formò con naturalezza sulle sue labbra.
“Sono io, Armin”.
Non era la voce di Eren.
Era una voce che non seppe nascondere del tutto il proprio dolore.
Quella sfumatura di sofferenza riportò Armin indietro, alla realtà contingente.
Si voltò appena e, nella penombra della luce soffusa della lampada che era stata appena accesa, davanti alla sua vista che era sempre più labile, si disegnarono, tratto dopo tratto, i lineamenti di Jean.
Le palpebre si strinsero, le labbra tremarono nel pronunciare una sola parola, incrinata dal pianto.
“Scusami…”.
Jean scosse il capo.
“Non devi scusarti di niente”.
La mano, dalla spalla, si spostò sulla guancia e lì si posò, rimase ferma.
“Sei bollente. Devi avere la febbre alta… di nuovo…”.
“Non… non sto male…”.
Sembrava una litania ripetuta a memoria, che Jean era rassegnato a sentire, ma alla quale, naturalmente, non credeva e Armin lo sapeva benissimo.
Eppure, insisteva nel mentirgli… e nel respingere le sue attenzioni.
Solo in quel momento vide il piatto che Jean teneva nell’altra mano e la sua espressione si incupì.
“Non guardare quello che ho qui come se avessi visto uno strumento di tortura, ti prego Armin. È solo una zuppa leggera, mi basterà che ne assaggi un po’…”.
Armin distolse lo sguardo, mentre si metteva seduto.
“Sei…”.
“Sono un rompiscatole, lo so”.
Non poté impedirsi di essere grato per il tono più leggero, più sbarazzino, che aveva assunto Jean, un tono che gli strappò, dopo non sapeva neanche quanto, un sorriso. Appena accennato, forzato e teso, ma almeno era un sorriso.
E fu con quell’espressione che si decise a guardarlo, vide il volto dell’altro illuminarsi, sentì il suo sussurro:
“Sai ancora farlo… ogni tanto… per fortuna”.
Bastò quel movimento dalla posizione sdraiata a quella seduta perché il capogiro tornasse, violento e Armin si portò una mano alla fronte dolorante, con un gemito.
“Aspetta”.
Jean posò il piatto e sollevò il cuscino, poi ve ne appoggiò un altro e spinse delicatamente Armin contro di essi. Infine glieli posizionò meglio dietro la testa.
“Sei abbastanza comodo?”.
“Jean… ti prego… non esagerare…”.
Avrebbe riso se fosse stato abbastanza in forze, ma uscì solo il lieve cenno di un risolino un po’ distorto.
Tuttavia, quelle attenzioni gli incendiavano il viso di un bizzarro calore…
O forse era la febbre…
Ormai non distingueva più il proprio fisico e le proprie emozioni. Si era trasformato, dal mostro spaventoso che era stato prima che le azioni di Eren annullassero la maledizione dei titani, ad un altro tipo di mostro, una sorta di creatura patetica e debole.
Jean, intanto, si era seduto sul bordo del letto, aveva ripreso il piatto e stava soffiando sulla porzione di zuppa che aveva raccolto con il cucchiaio.
Armin lo scrutò di sottecchi e a Jean non sfuggì la sua espressione diffidente.
“Non sto cercando di avvelenarti, Armin. Le tue labbra si sono così disabituate a lasciar entrare del cibo che ormai ne hanno paura?”.
Armin rispose con un sospiro:
“Temo che sia il mio stomaco ad averne paura…”.
Lo stava ammettendo.
Aveva Jean lì davanti, che si era preoccupato per lui, per il suo prolungato digiuno e gli aveva portato qualcosa in camera. Semplicemente, Armin non se la sentiva di fare il prezioso con lui, non era giusto, gliela doveva un po’ di complicità, quella che avevano sempre avuto, un briciolo di sincerità.
“Solo un poco” insisté Jean, con una tenerezza, un tono di supplica tale che ad Armin venne quasi da piangere. “Non ti forzerò a fartelo ingoiare tutto se non te la sentirai… ma almeno…”.
“E va bene!” sbuffò Armin. “Immagino che se non ti dirò di sì, non mi libererò più di te”.
Jean sorrise, comprese perfettamente gli intenti scherzosi dell’amico e gli strizzò un occhio. Quindi gli sfiorò le labbra con il cucchiaio.
Armin non poté fare a meno di sussultare un po’, il cuore prese a battergli forte e un groviglio gli ostruì la gola.
Gli succedeva ogni volta che il nervosismo gli rendeva difficoltoso persino mangiare… pressoché sempre ormai.
Ma Jean aveva ragione: una volta riusciva a mangiare, quanto meno perché sapeva che era necessario per sopravvivere in un mondo ostile e perché il suo corpo già così debole, se non mangiava, non sarebbe stato in grado neanche di allenarsi.
Alcune volte faceva fatica, perché centellinare il cibo era sempre stato essenziale, ne avevano poco a disposizione quando era piccolo e il suo organismo si era abituato ad assimilarne il minimo, rischiando persino di stare male se assumeva anche un solo briciolo in più.
Capitava che i compagni lo paragonassero a un uccellino per le minime razioni che consumava.
Così, il suo rapporto con il cibo aveva assunto connotati alquanto malsani e si era fatto sempre più complesso, tanto che ora il suo stesso corpo lo rifiutava, quasi non ne avesse bisogno.
Era irrazionale, lo sapeva, tutti hanno bisogno di nutrirsi e lui non era mai stato una persona irrazionale, ma il suo organismo lo tradiva, perdeva il proprio controllo su di esso e finiva per sopraffarlo.
Lasciar entrare quel poco liquido profumato era un’autentica lotta contro se stesso, ma lo fece, per far piacere a Jean e perché sapeva che era giusto così.
Aprì la bocca e il sapore intenso gli esplose sulla lingua, piacevole, gli ricordò quanta fame avesse.
Eppure, era così faticoso tenerlo dentro, provare ad ingoiarlo, era come se le vie del suo corpo fossero ostruite e che, attraverso esse, il cibo si trasformasse in schegge di pietra che gli ferivano le viscere. Con uno sforzo spinse il liquido nella gola, lo sentì scendere e gli parve un’eternità.
Faceva male.
Ingoiare il cibo gli procurava dolore fisico e rendersene conto lo spaventò.
Aprì le labbra per trovare respiro, ma il cucchiaio era di nuovo lì e non fece in tempo a dire a Jean di aspettare: un’altra porzione entrò e lo colse talmente impreparato che fu sul punto di sputarla fuori.
Si portò una mano alla bocca, per evitare a se stesso e a Jean quell’imbarazzo.
Il primo boccone era sceso a fatica e sembrava aver chiuso ancora di più la strada a nuove intrusioni: il secondo non voleva saperne di scendere.
Gli sfuggì un gemito, mentre lo cacciava a forza nella gola, ma dentro di lui scoppiò il finimondo, un dolore fortissimo, un’ondata di nausea e il bisogno di rigettare fuori ogni cosa.
Si ripiegò su se stesso, la mano ancora sulla bocca, le palpebre serrate e quasi non si rese conto delle braccia di Jean che lo avvolsero, chiamando il suo nome, la voce intrisa di ansia.
“Che cos’hai? Armin!”.
Armin si divincolò, senza che Jean potesse fare nulla per trattenerlo. Il suo intento era quello di correre verso il bagno, ma non fece in tempo. Appena mise i piedi a terra, cadde in ginocchio, in preda ai conati.
Vomitò il poco che aveva ingoiato e anche quello che non c’era.
Da un universo lontano lo raggiunsero le rassicurazioni del compagno:
“Buono… tranquillo Armin… sono qui…”.
Quando non ebbe più niente da riversare fuori dallo stomaco, esausto e senza più la forza di muoversi, si accasciò tra le braccia di Jean.
Questa volta accettò quell’accoglienza, non poteva evitarlo e, all’improvviso, fu consapevole di averne un estremo bisogno: per la prima volta si rese conto di avere paura, ciò che gli stava accadendo gli faceva paura, perché non lo capiva e non sapeva come controllarlo.
Perdere il controllo su di sé, sul proprio corpo, sulle proprie reazioni, lo riportava indietro a quel bambino spaventato e tremante che non era in grado di cavarsela da solo.
“Mi dispiace…” cominciò a dire, la voce ridotta a un sibilo sofferente. “Mi dispiace… mi dispiace…”.
Lo ripeté a oltranza, come un mantra che non aveva fine. Si sentiva così in colpa, così ingrato…
Jean era venuto per farlo stare meglio, gli aveva portato da mangiare per farlo stare meglio e lui non riusciva neanche ad accettare e godere della sua gentilezza senza stare male.
Le braccia dell’amico lo strinsero, venne accolto dal suo petto ampio, il suo respiro gli riscaldò il viso:
“Shhh… non fa niente, Armin… non è successo niente, sei stanco… sei solo molto stanco”.
Era vero.
Doveva accettarlo.
Era stanco, era debole, aveva bisogno di aiuto.
Reclinò il viso e la sua guancia si posò sulla spalla di Jean, bagnandola con nuove lacrime silenziose.
“Jean…” riuscì a mormorare, dopo qualche istante.
“Dimmi…”.
“Ti andrebbe… di dormire con me, stanotte?”.
L’abbraccio si fece ancora più intenso, quasi disperato, il volto di Jean si fece più vicino al suo, le loro fronti si toccarono:
“Certo…”.
“Domani… domani starò meglio… te lo prometto…”.
“Certo che starai meglio… starai bene… ti farò stare bene”.
Armin riuscì a sorridere.
Un sorriso triste, mentre gli occhi si chiudevano.
Non sapeva, in realtà, se sarebbe stato meglio, ma adesso voleva solo addormentarsi tra le braccia di Jean.
“Se solo… potessi restare così per sempre… e non svegliarmi più”.
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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