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Autore: My Pride    01/09/2009    14 recensioni
Non avrei mai pensato che una mattina simile a tante altre potesse rivelarsi quella più pericolosa di tutta la mia vita, e non era poco, dato il mestiere che svolgevo. Da poliziotto a tempo pieno, mi ero ritrovato catapultato in un mondo del tutto estraneo a quello che ero solito definire mio: il mondo dei vampiri. Esatto, vampiri.
Mi considerate pazzo? Allora ascoltate la mia storia, vedremo chi lo è di più. Voi che non mi credete, o io che la racconto.

[ Roy Evander Point Of View ]
[ Quinta classificata al contest «In the world of Vampires» indetto da Marie Cullen ]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Na doir sìon dhomh_1
[ Quinta classificata al contest «In the world of Vampires» indetto da Marie Cullen ]

Autore: My Pride
Titolo: Na doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal [Non darmi niente, mio bellissimo angelo]
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: One-shot
Genere: Generale, Drammatico, Thriller, Sovrannaturale
Avvertimenti: Parzialmente Slash, Non per stomaci delicati
Rating: Arancione
Nota: Questa storia è uno spin off di Under a bloody sky e fa parte della serie St. Louis ~ Bloody Nights


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



    Non avrei mai pensato che una mattina simile a tante altre potesse rivelarsi quella più pericolosa di tutta la mia vita. E non era poco, dato il mestiere che svolgevo.
    Da poliziotto a tempo pieno, mi ero ritrovato catapultato in un mondo del tutto estraneo a quello che ero solito definire mio: il mondo dei vampiri. Esatto, vampiri. Mi considerate pazzo? Allora ascoltate la mia storia, vedremo chi lo è di più. Voi che non mi credete, o io che la racconto.


    La debole brezza estiva si avvertiva per le strade di St. Louis, dove la gente passeggiava allegra e immersa nei propri discorsi, bagnata come i marciapiedi dagli ultimi raggi del sole calante.
    Poggiato alla carrozzeria della mia buick, osservavo quella palla di fuoco con occhi svogliati, consumando lento una sigaretta mentre aspettavo il mio compagno. Era entrato nel Fast Food che si trovava proprio dietro l’angolo per comprare qualcosa da mangiare per la serata che ci si prospettava dinnanzi. Da più di una settimana, ormai, l’intero dipartimento era impegnato con un caso... stranissimo, avrei osato aggiungere. Erano misteriosamente scomparse una ventina di persone, e solo poche di loro avevano fatto ritorno. La cosa bizzarra, però, erano stati evidenti segni d’ematomi su tutto il corpo, più due piccoli fori poco più grandi d’una puntura d’insetto alla base del collo o, di rado, profondi solchi d’un cerchio perfetto. In giro si vociferava di Creature del Male, di Figli delle Tenebre che solo nei romanzi horror o gotici scritti da qualche autore con una fantasia un po’ troppo sfrenata potevano esistere. E persino al commissariato ci credevano. Dicevano tutti, soprattutto durante la pausa caffè, che ci trovavamo a che fare con dei vampiri. Vampiri! Si era mai sentita un’idiozia più grande di questa? Uomini belli e fatti che credevano ad una favola per bambini. Naturalmente ero molto scettico, dato che nulla poteva darmi la certezza che tali creature vivessero realmente fra noi. Il caso, quindi, proprio per tale motivo, era stato affidato specialmente a me e ad alcuni uomini direttamente per ordine del Capo, che mi aveva minacciato con il ritiro del distintivo se non avessi accettato. Come avrei potuto ribattere contro tale schiacciante logica?
    Sbuffai, creando un anello di fumo che si disperse nell’aria circostante. Gettata un’occhiata verso il Fast Food, vidi finalmente quel bontempone del mio compare attraversare la strada e dirigersi verso di me, con così tanti sacchi di carta contenenti hamburger che avrebbe fatto invidia a chiunque.
    «Ehi, Roy! Gradirei una mano, se non ti scoccia», mi chiamò ironico, rovinandomi del tutto quel momento di tranquillità con me stesso.
    Alzai gli occhi al cielo, scostandomi qualche ciocca di capelli biondi dal viso. Li avevo sempre portati lunghi, e soprattutto in quel periodo estivo, in cui il caldo si faceva sentire, ero costretto a legarli in un’alta coda che mi arrivava a metà schiena. Scossi la testa, spegnendo la sigaretta sulla suola della scarpa con un sorrisino divertito dipinto sulle labbra. Mi erano tornate in mente le ramanzine del Capo per quella mia acconciatura. «Arrivo, Jack, arrivo», rimbeccai, aggirando il muso dell’auto per andare ad aprirgli la portiera. «Entri pure, signorina, l’accompagno al ballo di Gala». Accompagnai le mie parole nel muovere la mano con fare cadenzato, rendendo il tono derisorio giusto per prenderlo in giro.
    Jack borbottò qualcosa fra sé e sé, fulminandomi con un’occhiataccia dei suoi occhi nocciola. «Divertente come al solito», replicò nell'entrare, abbandonando sulle cosce ogni busta senza fregarsene dell’olio che avrebbe sicuramente macchiato i pantaloni dell’uniforme.
    Ritornai al posto di guida sghignazzando, inserendo le chiavi nel cruscotto. Una veloce occhiata alla sua aria fintamente indispettita, mi fece capire che ci stava ridendo anche lui per quella mia comica stupidità. I capelli, dal taglio sbarazzino come quelli d’un adolescente, si muovevano al tiepido venticello che entrava, conferendogli un’aria bizzarramente infantile con quel broncio. Non potei evitare di ridere, guadagnandoci un suo rapido sguardo.
    «Che ti prende, adesso?» mi domandò sbattendo le ciglia, alquanto lunghe per un uomo. Aveva sempre avuto il volto dal tratto delicato, per quel che ricordavo. L’avevo conosciuto sette anni prima, durante le indagini sul caso d’uno stupratore. Era da poco entrato a far parte della mia squadra, e fare i conti con la sua indole allegra e piena di vita era stato difficilissimo, al principio. Ma lavorando a stretto contatto, e cominciando poi a frequentarci come amici, eravamo diventati inseparabili, quasi fossimo sempre stati compagni di vecchia data.
    Liquidai la faccenda agitando una mano, mettendo in moto la buick che partì dopo un piccolo accesso di tosse. «Niente, stavo pensando che è da un po’ che non ti vedo uscire con la tua ragazza», buttai lì, giusto per rompere il silenzio e la solita monotonia. «Dovresti chiedere al Capo un paio di giorni di ferie pagate. Io lo farei e ci passerei una notte di fuoco, con quel gran pezzo di figa che ti ritrovi». Mora e occhi azzurri, dai lineamenti orientali. Era una gioia per gli occhi, quella donna. E lui sprecava il suo tempo così! Fossi stato in lui avrei subito... uno scappellotto mi centrò dietro la testa riuscendo a diradare le mie fantasie erotiche, e mi lasciai sfuggire un lamento offeso. «Mi hai fatto male, idiota!» mi lagnai, e stavolta fu lui ad agitare una mano.
    «La prossima volta impari a fare pensieri sulla mia fidanzata», mi ammonì, in tono severo ma divertito, indicandomi con un dito. «E comunque, dato il casino in cui ci ritroviamo, dubito che il Grande Capo mi concederà delle ferie».
    Dovetti convenire con lui, tornando serio. Era un periodo di merda, quello. Non c’era tempo per bisbocce o vacanze. «Hai ragione», dissi, più rivolto a me stesso che a lui. «Prima catturiamo questo killer psicopatico, prima potranno stare tutti più tranquilli qui a St. Louis».
    Nemmeno il tempo di dirlo, che a distrarci fu il crepitio della radio. Vidi Jack sporgersi per afferrarla, rispondendo svelto. «Qui volante 12», fece tranquillo, quasi trattenendo uno sbadiglio.
    Un altro crepitio prima della risposta. “Jack, Roy, sono io”.
    Entrambi inarcammo un sopracciglio, gettandoci una veloce occhiata prima che tornassi ad occuparmi della strada poco affollata. «Strano che chiami direttamente lei, Capo», esordì Jack, con una nota d’inconfutabile perplessità.
    Ancora una volta, quella vecchia radio che avevo installato nella mia Buick per utilizzarla come auto volante crepitò, quasi facendoci pensare che fosse completamente andata. Ma la voce si fece sentire ancora, seppur disturbata.  “Non l’avrei fatto, se non servisse il vostro aiuto”.
    «Arrivi al sodo, Capo».
    “Un ennesimo omicidio. Sulla statale 21, a Main Street”.
    Un altro sguardo che poteva significare tutto intercettò i miei occhi quando mi voltai. Addio serata tranquilla relegati nell’ufficio con quegli hamburger che scorgevo appena. «Va bene, Capo, ci pensiamo noi». Prima che potesse aggiungere altro, la chiamata fu interrotta e, sbuffando sonoramente e con fare afflitto, Jack riattaccò, gettando poi le buste con la nostra cena sui sedili dietro. «Che scopa torta», borbottò, adagiandosi allo schienale del sediolino. «Adesso ci toccano quarantacinque minuti verso l’altro capo della città».
    Sbuffai anch’io, incassando la testa nelle spalle. In ufficio, almeno, avrei potuto sonnecchiare un po’. Era da quasi quattro giorni, che non mi facevo una dormita come si deve. «Purtroppo dobbiamo. Jackie», feci sarcastico, ingranando la terza. «Metti sul tettuccio quel catorcio di sirena, almeno non ci fermeranno quando comincerò a guidare come un pazzo».
    Scuotendo la testa, lui eseguì, scavando un po’ sotto al suo sedile. «Spero di non diventare anch’io un cadavere a cui fare l’autopsia», ironizzò a sua volta, sporgendosi poi oltre il finestrino per posizionare la sirena una volta recuperata. «Sappi che il mio spirito ti perseguiterà per l’eternità».
    «Non credo a certe cose», esordii tranquillo. E non l’avessi mai detto.
    Dopo quasi mezz’ora a sfrecciare sulle strade, eravamo finalmente giunti sul luogo del delitto, dove altri poliziotti, il medico legale e persino due paramedici, erano già al lavoro. La scena che si presentò dinnanzi ai nostri occhi fu alquanto sconcertante. I primi morti era distesi a pancia in giù, con i vestiti strappati e macchiati di sangue in più punti, come se fossero stati semplicemente spruzzati da vernice rossa. Gli arti inferiori e superiori erano piegati ad un’angolazione impossibile, e ben si riusciva a scorgere l’osso insanguinato che fuoriusciva dal gomito del braccio d’un di loro. Ad una distanza abbastanza considerevole, non era difficile scorgere i profondi solchi che squarciavano le loro gole imbrattandole di vermiglio. L’altro, invece, era tutt’altro discorso. Non c’era nulla di strano, se non si teneva conto del presunto cadavere. Era un uomo abbastanza giovane, sui ventidue anni o poco più. La schiena era poggiata contro il tronco d’un albero dal quale cadeva densa come miele la linfa, come se fosse stato vittima anch’egli d’una colluttazione. I capelli, d’uno strano colore tendente all’argenteo, erano lunghi e quasi ondulati, e gli ricadevano scompostamente sulle spalle e sul viso, nascondendogli parzialmente gli occhi.
    Mi avvicinai di più, mostrando il distintivo. Da quella distanza, ora, sembrava stesse piacevolmente dormendo. Il colorito della sua pelle però, rendeva quell’ipotesi assurda. Era pallida, quasi d’alabastro, chiara come una falce di luna. Si accostò a me uno degli altri poliziotti, esaminando il collo come ormai erano soliti fare in molti, anche nel dipartimento in cui lavoravo.
    Scosse poi la testa, lanciando uno sguardo ai compagni. «Questo non ha segni», disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
    Controllai anch’io. Il collo era praticamente perfetto, marmoreo. Qualcosa, però, attirò la mia attenzione. Avvicinai di più il viso, incredulo. E un lieve sospiro simile ad un venticello mi avvolse, diffondendo in me una sgradevole sensazione e anche un pizzico di paura, tanto che indietreggiai, sbattendo il sedere sull’erba. «Respira!» esclamai incredulo, facendo voltare tutti nella mia direzione prima che scoppiassero a ridere all’unisono. Persino Jack.
    Un poliziotto, che quando mi voltai appena riconobbi come Harry del nostro distretto, mi si avvicinò, dandomi una bella pacca sulla spalla. «Forse ti converrebbe riposare, ragazzo», mi disse in tono paterno. «Il medico ha stabilito l’ora del decesso parecchio tempo fa, è impossibile che respiri».
    «Ma... sono sicuro che...», provai a biascicare. Mi voltai in direzione dell’uomo d’argento. Era immobile come prima. Eppure c’era qualcosa che stonava, in quella scena. Qualcosa.. sgranai gli occhi quando me ne accorsi. Le labbra non era dispiegate in un sorriso prima, o mi stavo sbagliando? Forse quella storia mi stava facendo diventare paranoico. Vedevo cose dove non c’erano. Proprio io poi, quello che non credeva in dicerie e leggende. Quando anche lui si fece abbastanza vicino, Jack mi aiutò ad alzarmi in piedi, passandomi un braccio dietro la schiena per sostenere il mio peso. Gettò a sua volta uno sguardo al cadavere, scuotendo incredulo la testa.
    «Mai visto un tipo più strano», disse semplicemente, rivolto forse a me come a se stesso. Mi accompagnò verso la macchina, seguito dalle risatine degli altri poliziotti, ma io ero sicuro di ciò che avevo visto. Il petto si era alzato e si era abbassato per una frazione di secondo, dando vita a quel sospiro che mi aveva investito come un vento gelido. Non potevo essermelo sognato. Prima che potessi rendermene conto, però, immerso com’ero nei miei pensieri, mi ritrovai seduto al posto del passeggero, con Jack al mio fianco che aveva già inserito la chiave nel cruscotto.
    Guardai indietro, dove poco distante c’erano ancora i movimenti affaccendati degli altri. Riportai la mia attenzione su di lui, chiedendogli appoggio con lo sguardo. «Tu mi credi, vero Jack?» domandai, cercando una risposta affermativa nell’occhiata che mi aveva appena rivolto.
    Scrollò le spalle, in un gesto che avrebbe potuto significare tutto o niente. «Chissà. Ma devi convenire che la cosa è strana, detta da te», buttò lì in tono leggero, pronto a mettere in moto.
    Provai a rispondergli per le rime, ma un urlo improvviso interruppe sia le mie parole che i suoi movimenti placidi. In simultanea ci voltammo, quasi sbiancando quando i nostri occhi si posarono sulla scena che ci mostravano adesso. Non c’erano più i poliziotti, lì. O, per essere più precisi, erano quasi tutti riversi in una pozza di sangue. Il medico si era salvato da quello scempio improvviso e cercava di scappare nella nostra direzione urlando parole senza senso, con gli occhi dilatati dal terrore. Non capimmo subito il perché. Fu solo quando quell’uomo cadde a terra, forse colpito, che un’altra terrificante immagine fece la sua comparsa sulle nostre retine.
    Quel ragazzo che avevano dato per morto era in piedi in tutta la sua spaventosa magnificenza, con i capelli che fluttuavano leggiadri intorno a lui, simili a lame d’argento. Una mano era imbrattata di sangue, e la stava leccando avido, dito per dito. D’un tratto, forse sentendosi osservato, si voltò verso di noi, stirando però le labbra in un sorriso. E fui più che sicuro che quelle che avessero fatto capolino fossero zanne. Altre figure poi, fulminee, raggiunsero la prima, quasi tutte vestite con un lungo abito bianco e lo stesso sorriso, rivolte anch’esse verso di noi. Sgranai gli occhi, allibito. Non potevo credere a ciò che vedevo.
    Riacquistai un barlume di lucidità, voltandomi svelto avanti. «Jack! A tavoletta!» esclamai quasi con una punta d’isteria, spingendo io stesso il piede sull’acceleratore quando riuscii a farmi spazio. L’auto sfrecciò immediatamente lasciando basito il mio compagno, che si affrettò poi a portare le mani sul volante, ingranando le marce e sgommando così tanto che temetti ci ribaltassimo, ma questo non bastò a tenere le distanze. Anzi, quasi non servì a nulla. Quegli esseri ci raggiunsero in un lampo, correndo affiancati alla nostra auto come se fossimo noi, quelli a piedi. Sembravano dardi scoccati da un arco. Veloci e aggraziati, tenevano testa alla mia buick. Uno di loro voltò il viso verso il finestrino dal lato di Jack, mostrandomi le zanne acuminate e abbaglianti, sulle quali svettava, così come sulle labbra, il colore scarlatto del sangue. Era una donna di grande bellezza, dai lunghi e fluenti capelli rossi. E sarebbe apparsa ancor più splendida, se non avesse avuto quell’espressione terrificante e la gola che le vibrava per il basso ringhio che stava emettendo.
    «Spara, cazzo! Spara!» esclamò Jack senza guardare, con le mani sul volante.
    Non me lo feci ripetere due volte, prendendo la pistola anche se con mani insicure. Tremavano, e per togliere la sicura ci misi un po’ troppo tempo. Quando presi la mira, però, la vampira era già sparita, ricomparsa poco distante con quel solito ghigno sul viso diafano. Ad un suo cenno, un lampo d’argento serpeggiò dinnanzi a noi, e prima ancora che potessimo rendercene conto qualcosa più duro dell’acciaio sfondò il parabrezza, costringendo Jack ad una sterzata e poi ad una sgommata, che ci catapultò al ciglio della strada, contro un palo. Entrambi andammo quasi a sbattere la testa violentemente, storditi. Voltai debolmente il viso verso Jack, trovandolo riverso sul volante, immobile. Sembrava respirare a mala pena, e aveva gli occhi chiusi.
    «Jack! Jack!» esclamai scuotendolo, ma nel far questo una fitta acuta mi attraversò il capo, quasi lacerandolo. Mi portai una mano al viso, dove una lunga scia di sangue sgorgava da un punto difficile da definire, in quel momento di terrore. Uno stridio acuto si levò dalle nostre spalle, facendo tremare la terra e scuotendomi il corpo in un brivido selvaggio. Venimmo accerchiati in un batter d’occhio, i visi immoti di quelle creature non esprimevano nulla, se non una sconfinata sete di sangue.
    Con le poche forze che avevo mi chinai verso Jack, facendogli scudo con il mio corpo. Non l’avrebbero mai avuto. Non avrei mai permesso loro di averlo. Sfoderai la mia arma, puntandola verso quello più vicino. «Fate un solo passo e vi sfondo il cranio!» gridai, cercando di non dare alla mia voce nessun tremito di paura, nonostante l’avvertissi fin dentro alle ossa.
    I vampiri parvero osservarsi fra loro, parlarsi con mute parole che io non potevo sentire. Gli occhi d’ognuno di loro erano rubini vacui e inespressivi. Piano, quasi con leggiadria e delicatezza, la vampira scarlatta fece un cenno agli altri, che si allontanarono da lei e dall’auto. Lei invece si avvicinò, la lunga veste bianca s’agitò appena, creando un suono simile al vento che frusciava lieve fra le fronde degli alberi. Mi regalò un sorriso, mostrandomi appena le candide zanne.
    «Non temere ciò che non comprendi, sciocco umano», si rivolse a me con voce dolce, quasi ammaliante e sensuale. Una sua mano si alzò lenta verso di me, come a spronarmi ad afferrarla. Ma la mia completa attenzione era concentrata solo su Jack, il cui respiro diveniva sempre più lieve e irregolare, quasi silenzioso. La vampira parve accorgersene, perché mi sorrise maggiormente. «C’è solo una cosa che può salvarlo», mi disse, facendo un altro passo verso il parabrezza ormai in frantumi. «Donargli il mio sangue e renderlo mio schiavo».
    Quel suo tono, semplice e senza giri di parole, mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. L’aveva detto come fosse una sciocchezza, una cosa normale. Ma come poteva anche solo pensarlo, quell’abominio?  Con impeto scossi la testa, incurante del giramento che mi colse subito dopo. «Non lo toccherai!» gridai contro di lei, alzando di più la canna della pistola. «Non metterai le tue sudice mani su di lui, affatto!»
    Le provocai una sonora risata, a quelle mie parole. Una risata cristallina, che serpeggiò fra le strade dove il flebile venticello estivo faceva vibrare piano l’aria intorno a noi, ora carica d’elettricità statica. Mosse qualche altro passo, poggiando con maestria un piede scalzo sula carrozzeria anteriore della mia auto, senza abbandonare quel suo dolce, quanto falso, sorriso. «Per quanti secoli possano passare, voi umani non cambierete mai», mormorò con voce suadente, avanzando delicata, senza il minimo rumore. «Ma non preoccuparti, mio piccolo e patetico uomo, tu e il tuo amico avrete un destino diverso da quello di quei poliziotti di cui ci siamo cibati». Pronunciò tali frasi con una tale e glaciale calma, che mi sentii rabbrividire anche io.
    Provai a scuotere ancora Jack, mentre lei continuava ad avanzare. Si chinò dinnanzi al vetro rotto, scansando alcuni frammenti prima di allungare il viso verso di me. Con una forza sovraumana mi afferrò il mento, costringendomi a guardarla. Il suo sguardo, contrariamente a quanto mi aspettassi, non mi incantò, ma bastò a raggelarmi ancor più di quanto non avessero fatto le mie parole.
    «E’ uno spreco ammazzarvi», sussurrò ancora, mielosa. «Siete entrambi dotati di grande bellezza... e io colleziono le cose belle, non le distruggo». Avvicinò maggiormente il viso, sfiorandomi poi il collo con le sue candide zanne. Serrai gli occhi con il terrore che mi mordesse, ma non successe nulla di tutto ciò, anzi. Le sue labbra accarezzarono la mia pelle per una frazione di secondo, prima che si allontanasse e alzasse entrambe le braccia al cielo ormai scuro, puntando gli occhi all’astro notturno che irradiava il paesaggio. «Il momento è arrivato, figli miei», disse ancora, pacata. «Da questa notte, il rito comincia».
    Non capii le sue parole, ma con la coda dell’occhio vidi quelli che ormai capii essere suoi seguaci muoversi, per avvicinarsi a loro volta all’auto. Sgranai gli occhi, allibito, contraendo il viso in una smorfia. Continuai a proteggere Jack, che non aveva ancora schiuso le palpebre. Il ragazzo dai capelli d’argento era in testa al gruppo, e continuava a sorridermi. Passi sicuri, passi ammalianti e rapidi. Nemmeno riuscii a rendermene pienamente conto, ma si erano avvicinati tutti abbastanza da poterli squadrare bene negli occhi. E prima che potessi anche solo pensare di premere il grilletto dell’arma che ancora stringevo, qualcosa di duro come il ferro mi colpì il capo. Poi, ci fu solo un enorme vuoto.



    Riaprii gli occhi solo parecchio tempo dopo. Avevo la vista sfocata, e in quella semioscurità in cui mi trovavo, scorgevo troppo poco per rendermi pienamente conto di dove mi trovassi.
    Provai a muovermi, ma non ci riuscii. Qualcosa sembrava bloccare il mio intero corpo. Spaventato mi guardai intorno, non vedendo nulla oltre il mio naso. Un braccio però andò a sbattere contro una parete, probabilmente di legno dato il rumore che aveva provocato nell’impatto.E agitando ancora un po’ le braccia e le gambe, incontrando la morbida consistenza del velluto, capii il luogo in cui ero stato chiuso. Ero in una bara, porca puttana!
    Cominciai ad urlare a pieni polmoni come un ossesso, tempestando il coperchio in probabile legno d’ebano con entrambi i pugni, strepitando e scalciando. Sapevo che era una cosa stupida, quella che stavo facendo. Avrei solo consumato ossigeno. Ma ciò che non sopportavo, era trovarmi in un luogo stretto e buio. Non soffrivo di claustrofobia, ma era più forte di me.
    «C’è qualcuno?! Fatemi uscire!» presi a gridare, ormai in preda all’isteria. Non ricevetti, com’era prevedibile, nessuna risposta. E la paura cominciò ad impossessarsi pienamente di me. Continuai ad urlare e ad urlare per chissà quanto tempo, incurante della gola che ormai mi bruciava e chiedeva solo riposo.
    Andai avanti per quelle che, per me, valsero ore.
Finché, finalmente, un debole spiraglio di luce non trafisse le tenebre in cui mi trovavo. Mi schermai gli occhi semi accecato, cercando nel frattempo di focalizzare la figura che mi si parava dinnanzi e che mi stava offrendo una mano. La presi senza nemmeno pensarci, riconoscendo in quel nuovo arrivato il mio salvatore. E l’avrei anche ringraziato, se non avessi finalmente messo a fuoco la sua figura. La prima cosa che notai, furono i suoi lunghi capelli d’argento. Poi il suo sorriso. Lo stesso che gli avevo visto dipinto in volto accanto all’albero.
    «Ci hai messo un po’ per riprenderti», esordì con voce pacata quella creatura, rendendo il tono quasi gorgogliante e ammorbidendo il suono delle vocali. Forse era straniero.
    Gli lasciai immediatamente la mano provvedendo da solo ad uscire da quel feretro, allontanandomi il più possibile da lui mentre cercavo nel frattempo di non inciampare. Mi sentivo le gambe deboli, forse a causa della posizione che avevo dovuto sopportare fin’ora. Il suo sguardo, d’uno strano colore che tendeva fra l’ambra e il rubino, mi seguì per tutto quel mio breve percorso, mentre le labbra, carnose e piene nonostante il velo livido, non abbandonavano il sorriso che mi aveva rivolto.
    «Devo supporre che tu abbia paura di me», constatò con velato divertimento, rimettendo il coperchio al cataletto in modo da potersi sedere sopra, a gambe accavallate. Indossava adesso un abito di foggia antica, come quelli che si usava portare solo nel sedicesimo o diciassettesimo secolo. Un morbido solino gli cingeva con delicata maestria il collo, mentre calzoni di un bel velluto nero, forse seta, gli fasciavano con perfezione le gambe lunghe e forti, dai polpacci ben definiti. Stivali di cuoio calzati ai piedi per completare il tutto, con un piccolo tacco.
    Respirai a fatica, osservando la sua immagine. Era di una bellezza incomparabile. Nonostante fosse un uomo, aveva in sé una nota fanciullesca che sminuiva tale immagine, rendendolo femmineo e aggraziato come non mai. Deglutii di riflesso quando ancora una volta mi rivolse un sorriso. Sembrava pacatamente divertito.
    «Puoi tranquillamente accomodarti», esordì con cortesia. «Non ti mangio mica». Quell’ultima frase la fece risuonare con sarcasmo, o almeno quella fu l’impressione che ebbi quando la pronunciò. Aveva anche senso dell’umorismo, il vampiro. Davvero perfetto.
    Indietreggiai maggiormente quando lui si mosse un po’ sul feretro, accostandomi al muro come se potesse in qualche modo proteggermi dalla creatura che mi squadrava o da possibili attacchi alle spalle. Mi era stato insegnato di tenere sempre gli occhi aperti, in polizia. Qualsiasi situazione si fosse presentata. «Dov’è il mio compagno», feci invece senza dar peso alle sue parole, cercando di rendere la mia domanda un’affermazione imperativa che esigeva risposta.
    Il vampiro d’argento incurvò maggiormente le labbra in un sorriso cortese, e facendo un semplice gesto con la mano destra mi indicò un punto della stanza, dove una porta in legno d’ebano, che sulle prime non avevo notato, era appena socchiusa. «In buona compagnia», rispose semplicemente, omettendo altri dettagli, ma essere a conoscenza di quello non mi bastava né mi tranquillizzava. Sapere che Jack era nelle mani di quei mostri succhia sangue, e che per giunta era ferito, non faceva altro che farmi piombare un peso nel cuore.
    Sentii d’improvviso la gola secca, deglutendo ancora più che potei. «Cosa volete da noi?» chiesi ancora come un ordine, vedendo quella giovane creatura accigliarsi, forse per il tono che avevo usato. Freddo e distante, lo stesso tono che ero solito utilizzare quando mi trovavo ad interrogare un presunto sospettato.
    Mi squadrò a lungo con quei suoi occhi attenti, senza dire una parola. Sembrava voler scrutare nella mia anima con quello sguardo imperturbabile. E più cercavo di distogliere il mio, più mi incatenava non permettendomelo. La testa poco a poco mi sembrò più leggera, così come il mio intero corpo. Avevo quasi la sensazione che stessi fluttuando nell’aria, come una nuvola che veniva lentamente trasportata via dagli zefiri. Caddi a terra in ginocchio, credo, o almeno mi sembrò di farlo, poiché vidi il vampiro chinarsi verso di me per alzarmi il mento. Aveva abbandonato la sua postazione in modo d’avvicinarsi. Il suo tocco era ancor più di ghiaccio, e mi ritrassi d’istinto quando fui sicuro d’aver riacquistato il controllo, seppur parziale, dei miei arti. Strinsi gli occhi per non guardare nuovamente i suoi, sentendo fluttuare nell’aria intorno a me l’ombra leggera d’una risata.
    «Son tante le nostre intenzioni, sciocco umano», mi rispose infine, ad una spanna dal mio viso, con voce soave e sottile sussurrata appena al mio orecchio. «Ma presumo tu convenga con me che se te ne parlassi dovrei ucciderti, nevvero?» Ad ogni sua parola sentivo il cuore battere all’impazzata contro le pareti del mio petto, come mai era successo in tutta la mia vita. Nemmeno due anni prima, durante una sparatoria, avevo avuto così paura di morire. Me l’ero fortunatamente cavata con una profonda ferita al fianco - la cicatrice era ben in vista nel suo pallore e nella sua ruvida superficie - e con un colpo di striscio al braccio destro. Quella volta credetti d’aver vissuto il peggior momento della mia vita. Ritrovandomi però dinnanzi a quella creatura, dovetti ricredermi. Io, Roy Evander, avrei finito lì i miei giorni.
    Fui alzato bruscamente da terra e richiamato alla realtà, scorgendo attraverso le palpebre semi-abbassate il volto pallido e perfetto del vampiro che mi squadrava, quasi con rinnovata curiosità. Forse avrei potuto fare qualcosa, fuggire. Avevo ancora la fondina ascellare, in fondo, la sentivo. Ma non ero sicuro che anche la mia 9mm fosse lì riposta. Provai ad adocchiarla appena chinando lo sguardo, ma prima che potessi riuscirci venni maggiormente issato per il colletto, con una sola mano, dalla sua forza sovraumana. Sembrava che stesse tranquillamente alzando una piuma, dato il suo volto ancora perfetto dove non si vedevano i segni di un qualche sforzo fisico.
    «Hai ben sentito la mia Nobile Madre, però», riprese lui, con quella mielosa cadenza. «Lei non distrugge le cose belle... or dunque, come posso disubbidirle senza cader vittima della sua collera?» Lo disse come se stesse cercando un qualunque aiuto da parte mia. Aiuto che non gli avrei assolutamente dato, visto che era la mia vita quella in gioco. In quel momento, mi diede quasi la stupida impressione del gatto che giocava con il topo. Lo stancava bloccandogli di continuo la coda prima di finirlo una volta per tutte. Forse stava facendo proprio quello con me, quel vampiro. Si stava prendendo gioco di me prima di chiudere lì la partita, anche a costo di andare contro il volere di quella maestosa vampira che sembrava aver con lui stretti legami di parentela.
    Un nuovo e radioso sorriso incurvò quelle labbra sottili, che giusto qualche attimo dopo si avvicinarono pericolosamente al mio viso. Potei sentire il suo fiato sul collo, il lieve spostamento d’aria che creò fu abbastanza potente dal farmi correre un ennesimo brivido lungo la schiena. Odorava insolitamente di fiori selvatici - Iris, forse - quasi un leggero profumo di brughiera che qui a St. Louis era impossibile da percepire. Era scandalosamente quanto pericolosamente eccitante, quell’odore. Quasi mi vergognai dei miei stessi pensieri quando sentii il vampiro ridere piano, con garbo. Un suono proveniente proprio dal fondo della sua gola, come il basso latrato d’un cane. Anche quello parve uno scampanellio, un assonanza di colori e forme. Incredibile a dirsi, certo. Ma fu quello che provai nel sentirlo.
    «Perché non farti restare in vita, invero?» continuò la creatura, carezzandomi con distratta dolcezza una guancia e il collo. «Potrebbe essere divertente... ne convieni?»
    Provai a muovere le labbra per replicare, ma da esse non uscì alcun suono anche quando lo feci. Stordito come se fossi stato colpito violentemente alla bocca dello stomaco sgranai gli occhi, tentando più e più volte d’emettere anche una sola parola. Fu inutile, poiché sentii appena un flebile lamento. Ero stato io? Mi terrorizzai, divincolandomi in fretta per scansarmi da lui e cercare di farmi il più lontano possibile da quei suoi poteri sovrannaturali. Ancora una volta mi guardò e sorrise, decidendo però di non seguirmi, stavolta. Forse aveva giocato abbastanza.
    Non ci pensai dunque due volte e portai una mano alla fondina, pronto più che mai ad estrarre la pistola se era ancora lì riposta.
Dovetti però ricredermi quando sentii un altro fruscio e un veloce movimento al mio fianco, come se una lama di vento mi fosse passata accanto nella sua invisibilità.
    «Volevi usufruire di questa?» mi sentii chiedere, e quando finalmente riportai l’attenzione dei miei occhi su quel volto snello e scialbo potei notare cosa reggeva in una mano. Porca puttana, anche la 9mm era fottuta! Barcollando mi alzai in piedi più che potei, anche se mi tenni un po’ curvo. Non volevo altre sorprese, se potevo evitare almeno quelle.
    Il vampiro non smise di sorridere un attimo, maneggiando ben presto la pistola come se non fosse la prima volta che la impugnava. Tolse la sicura e caricò un colpo, puntandolo con mia sorpresa contro il palmo della mano libera.
I suoi strani occhi mi guardarono, anch’essi ammiccanti. «Averla o meno non ti sarebbe servito a nulla», parve quasi volermi informare, con tono di chi sta tenendo una lunga lezione di filosofia. «Avresti ottenuto solo quest’effetto».
    Non ebbi nemmeno il tempo di capire bene la situazione. Con un movimento fluido e felino trasferì un dito sul grilletto, sistemando l’angolazione della canna in modo che prendesse di mira proprio il centro del suo palmo. Poi un suono cupo e sordo riempì la stanza in cui ci trovavamo, facendomi dolere le orecchie. Immediati susseguirono altri dodici colpi finché non si sentì solo un click e poi un altro click, simbolo che la mia Browning era scarica o si era inceppata prima della munizione extra. Rimasi scioccato però quando vidi il vampiro sorridere soddisfatto. Non osservava me, bensì la sua mano aperta e fumante.
    Accorgendosi del mio sguardo sconvolto, si girò nella mia direzione, lasciando cadere la pistola ormai inutilizzabile sul pavimento prima di mostrarmi la mano sulla quale si era sparato. Seppur lo stessi vedendo con i miei occhi, non riuscivo a crederci. I bossoli delle pallottole erano esplosi e schiacciati, come se avessero colpito qualcosa d’estremamente duro. Un muro di mattoni o di cemento. L’unico segno ben visibile era il tracciato nero della polvere da sparo che spiccava sinistramente contro il colorito pallido della pelle di quella creatura. Quei colpi non gli avevano fatto nulla. Non avevano nemmeno scalfito una mano, come avrebbero potuto trapassargli il petto? Semplice: non ci sarebbero mai riusciti anche se la pistola fosse stata in mano mia.
    «Come puoi vedere non siete attrezzati per affrontarci», mi prese in giro lui, rendendo il tono mieloso denso come non mai. «E io non sono poi così anziano, come vampiro».
    Mi ritrovai ancora una volta a deglutire, nonostante non avessi voluto darglielo a vedere. Mai mostrarsi intimidito di fronte al malvivente che ti trovavi ad affrontare. Lui, però, non rientrava in quella categoria. E aveva maledettamente ragione. Per i vampiri nessuno di noi era attrezzato, giù al dipartimento. I capoccioni non l’avevano mai ritenuto necessario. O, almeno, non fino a quel momento.
    Sotto il mio sguardo, lasciò cadere a terra i bossoli che risuonarono con un tintinnio metallico contro il pavimento di marmo. Boccheggiai, addossandomi al muro più che potei. Quel sorriso che dardeggiava sempre più su quelle labbra così sottili mi faceva sentire a disagio. Sentivo brividi scorrermi lungo la schiena, simili a piccoli tremiti che scuotevano il mio corpo.
    Una sua mano mi sfiorò parzialmente il viso quando si avvicinò abbastanza, e quasi d’istinto strinsi gli occhi per costringermi a non vedere quelle candide zanne che avevano appena fatto capolino dalla sua bocca. Il suo respiro freddo mi sfiorò il collo, il suo profumo mi invase le narici. Stavo cominciando a prepararmi al peggio quando s’udì appena il lieve cigolio d’una porta, poi la presenza di qualcun altro aleggiare per la stanza.
    La creatura allontanò il viso dal mio e, attraverso le palpebre semi dischiuse, potei notare che la sua attenzione si era concentrata sulla soglia della camera. Lì, immobile e con la schiena ben dritta, si trovava un altro vampiro che osservava entrambi con blanda curiosità e distacco. Appuntò appena la curiosità dei suoi occhi color smeraldo sul mio viso prima che lo vedessi distogliere lo sguardo, come se per lui la mia presenza non lo sfiorasse neppure. E se dovevo essere sincero, a me andava bene così. Meglio essere preso di mira da un solo succhia sangue che da due.
    «Nobile Dante, la vostra Somma Madre attende voi e il sacrificio», avvertì quel nuovo arrivato richiamando la mia attenzione e quella del vampiro d’argento. «Si è raccomanda che non la facciate attendere oltre per l’iniziazione». Fece un piccolo inchino, come a volersi prostrare ai suoi piedi.
    Vidi il vampiro chiamato Dante agitare distratto una mano, forse per indicare che la questione per lui era di ben poca importanza. «Vai pure, Sebastian», quasi sembrò accordare in tono saccente. «Comunicale che raggiungeremo lei e il Consiglio a breve».
    «Come desidera, signorino», fece in risposta, ancora con il capo chinato.
    In silenzio come era arrivato se ne andò, lasciandoci nuovamente soli. Lo sguardo del vampiro si concentrò solo e unicamente su di me, riaccendendo la fiamma di paura che si era insinuata nel mio animo quando i miei occhi incontrarono i suoi. Erano inespressivi, certo. Ma nelle loro profondità sembravano imperversare lacrime e tormenti. Ancora una volta quelle labbra si incurvarono in un perfetto sorriso, prima che il vampiro mi facesse cenno di seguirlo con un semplice movimento del capo. Non mi alzai e non gli diedi a vedere che avevo capito del tutto, o quasi, le sue intenzioni, limitandomi a restare rannicchiato in quell’angolo come una bestia in gabbia. Gli provocai però una sonora risata, vedendolo scuotere il capo. Quasi sembrava che la situazione lo divertisse.
    «Non sarò costretto a farti del male se decidi di seguirmi di tua volontà», mi disse infine in tono canzonatorio, sebbene sembrasse volermi spronare a credergli «Ma se così non fosse non mi costa nulla portarti dalla mia Nobile Madre di peso».
    Ancora una volta deglutii, poggiando le mani contro il muro come per sostenermi in qualche modo. Sentivo le gambe terribilmente malferme. Quasi temetti che non mi sostenessero ma, per mia fortuna, non fu così. Sarebbe stato solo un ostacolo in più se non fossi riuscito a muovermi come si deve.
    A passi cadenzati, il vampiro s’avvicinò a me, afferrandomi il mento come a volermi costringere a guardarlo ben in viso.
Strinsi immediatamente gli occhi per evitare di incontrare i suoi, non volendo ripetere lo stesso errore in cui ero incappato poco prima. Parve ancor più divertito dal mio modo di fare, perché rise nuovamente. «Vedo che impari in fretta, poliziotto», mi derise ancora, carezzandomi lascivo una guancia. «Ma questo non basterà a farti restare vivo, se non collabori».
    «Ho affrontato situazioni ben peggiori», mi azzardai a ribattere immediatamente, sebbene io stesso sapessi di mentire in modo fin troppo palese. Nessuna delle situazioni in cui mi ero trovato, difatti, era lontanamente paragonabile a quella che stavo in quel momento vivendo. Dovevo trovare il modo per restare vivo e scappare, portando con me Jack una volta trovato. Mi rifiutavo di credere che per lui non ci fossero più speranze.
    Rise ancora, circondandomi il polso con una delle sue mani senza che potessi fare qualcosa per impedirglielo. «Dubito che questa sia una di quelle solite routine che voi poliziotti di St. Louis siete soliti affrontare, mo gòrach bàn», mi sussurrò all’orecchio, utilizzando nuovamente quella voce densa e mielosa seguita da quel lieve accento straniero.
    Non riuscii a capire la lingua che usò ma, ancor prima che provassi anche solo a formulare un pensiero mi strattonò malamente portandomi verso la porta con una forza sovraumana. Sembrava che fossi un bambino tirato via dal chiosco di caramelle dal genitore. «Lasciami andare, figlio di puttana!» provai a divincolarmi inutilmente, sempre tenendo gli occhi chiusi nonostante sapessi che quella non sarebbe stata la mossa migliore. Ma meglio inciampare in qualcosa che cader vittima del suo sguardo incantatore. Aveva solo le palpebre semi aperte, giusto per tener d’occhio i suoi movimenti lenti e calcolati. Lo vidi, attraverso il pizzo nero delle mie ciglia, voltarsi appena verso di me per afferrarmi per le spalle, mollandomi così il polso. Non appena fui libero tentati di colpirlo allo stomaco, ma lui fu più veloce di me scomparendo come un’ombra per riapparire alle mie spalle. Stavolta sgranai gli occhi voltandomi velocemente verso di lui, riuscendo appena a scorgere il lampo delle sue perle prima che venissi inesorabilmente issato di peso. Continuai a divincolarmi e a biascicargli insulti che rimbombarono nel grande corridoio pieno di quadri, non ottenendo null’altro che qualche risatina soffocata. Non riuscivo a credere a ciò che stava accadendo. Non poteva assolutamente essere vero.
    Per tutto il tragitto non provai a fare altro che tentare di scappare dalla sua presa, sentendomi sempre più come un topo in trappola che tentava di sfuggire al gatto in qualche modo. Ci ritrovammo ben presto in una vasta sala illuminata dalle candele e dalle fiaccole accese. In un quasi immenso spazio bianco erano disposti a cerchio una miriade di vampiri, e tutti osservavano in alto, dove una cupola in vetro dava la perfetta visione del cielo notturno. La luna e le stelle brillavano in quella volta celeste, riversando la loro morbida luce argentea in quella sala in cui ci trovavamo e rendendo spettrale la pelle candida di quelle creature. Concentrato com’ero ad osservare quella terrificante quanto splendida scena, mi accorsi solo in un secondo momento della presenza di qualcuno a me familiare accanto ad uno di loro. Al fianco della vampira dai capelli di fuoco, composto e vestito con un abito nero che gli fasciava perfettamente il corpo, si trovava nella sua fierezza Jack. Il mio Jack.
    Sentii il mio viso tramutarsi in una maschera di sofferenza, quando vidi la sua espressione vuota. «Jack!» esclamai, richiamando su di me l’attenzione di tutte le creature lì presenti. La mia bocca venne tappata dalla fredda mano del vampiro di nome Dante, che mi spinse poi più innanzi chinando a malapena il capo in direzione di quella calca senza badare minimamente a me che cercavo di liberarmi in qualche modo.  Guardavo ancora Jack, senza riuscire a capacitarmi di quello che era successo. Non parlava, non muoveva un dito nonostante stesse assistendo alla scena. Sembrava solo una marionetta nelle mani di quella vampira.
    «Perdoni la sua irruenza, Nobile Madre», esordì la creatura che mi teneva stretto a sé. «Lo terrò d’occhio io, cominci pure la cerimonia senza preoccuparsi».
    Provai a gettare uno sguardo al suo volto, trovandolo distante e senza alcuna sfumatura. Se avevano in mente qualcosa, ancora non riuscivo a capirlo. Cos’era questa cerimonia di cui parlavano?  Vidi con la coda dell’occhio la vampira dai capelli di fiamme sorridere al suo indirizzo con vaga indulgenza, come una premurosa madre che accontentava in un qualche capriccio il figlio. E fui quasi spaventato dallo sguardo che lei mi rivolse in seguito. Avvolse le braccia intorno alla vita di Jack con il fare di un’amante comprensiva, ottenendo da lui appena una veloce e vacua occhiata, come se non gliene importasse. Poggiò il mento sulla sua spalla sfiorandogli il collo con le labbra piene, passandogli la punta della lingua sulla pelle in un gesto ricco d’erotismo. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo quando vidi le sue zanne affondare nella sua vena, non potendo urlare nulla a causa della mano che ancora mi copriva la bocca.
    Dentro di me gridavo senza tregua. Volevo che ci lasciassero liberi, o che lasciassero andare almeno Jack. Sentii un suo gemito doloroso e il risucchio continuo della vampira, dovendo poi trattenere un conato di vomito a quel suono. Fui costretto ad assistere al resto dall’altra mano di Dante, che mi afferrò il mento per voltarmi la testa verso il mio amico e sua madre. Lo vedevo accasciato fra le sue braccia, con un’espressione così appagata dipinta in volto che sarebbe stata riconducibile al sesso. Ma il sangue che colava inesorabilmente dal suo collo non dava quest’impressione. Non si oppose né cercò di respingerla, lasciandosi solo andare maggiormente contro di lei, quasi affondando nel suo prosperoso seno.
    Sgranai gli occhi, sempre più allibito. Non poteva essere l’uomo che con cui lavoravo, quello. Non poteva essere il caro amico che avevo conosciuto. Lui non avrebbe mai permesso che gli facessero ciò a cui stavo con così tanto orrore, ne ero sicuro. Ma quella sensuale quanto mortale danza continuò ancora e ancora, finché non vidi infine le guance di Jack tingersi del pallido colore della morte. Solo a quel punto la vampira smise di bere il suo sangue, prendendolo fra le braccia ed avanzando al centro di quella calca, dove la luce della luna illuminava maggiormente il pavimento immacolato.
    Cercai di gridare ancora qualcosa, sentendo quella mano dura come l’acciaio tapparmi completamente la bocca, quasi soffocandomi. Vidi la vampira adagiare con cautela il corpo di Jack al centro di quel cerchio, carezzandogli lievemente il viso e il collo macchiato di sangue. Il suo petto si alzava e si abbassava piano, con lentezza e irregolarità, quasi senza scandire realmente il ritmo del suo respiro. Ancora una volta provai a divincolarmi, vedendo quei vampiri avvicinarsi ancor di più al corpo del mio amico disteso in terra.
    Sempre più vicini, quasi ad una spanna da lui. Gli occhi mi si riempirono inesorabilmente di lacrime, quando fui conscio che non avrei potuto far nulla per impedir loro di fargli ciò che volevano. Gridai contro il palmo di quella mano parole biascicate e senza significato alcuno, tentando in qualche modo di distrarli e portare su di me la loro attenzione. Ma fu tutto vano. Uno di loro gli prese il polso mordendoglielo senza ritegno, un altro s’avventò vorace sul suo collo dove i fori provocati dalle zanne dell’anziana vampira ancora sanguinavano. Più di uno si concentrò nell’incavo del suo gomito e all’interno delle sue cosce, vicino ai genitali. E tutto questo stava accadendo sotto il mio sguardo. Ero miseramente inutile mentre li osservavo dissanguarlo, mentre sentivo le sue urla adesso che sembrava aver ripreso il controllo della sua mente. Lo vidi lottare, tentare di allontanarli. Ma erano in troppi.
    Le lacrime mi offuscarono l’orlo delle ciglia quando vidi un ultimo fremito scuotere il suo corpo prima che braccia e gambe si abbandonassero al suolo, immobili. Una mano di ghiaccio m’accarezzò il viso come a volermi dare conforto mentre vedevo il sangue di Jack sul pavimento, sulle labbra di quei vampiri che si voltavano verso di me per rivolgermi un sorriso e un lampeggiar di zanne. Il tocco leggero continuò, sfiorandomi anche il petto. «Non piangerlo mo chridhe, la sua vita è appena cominciata», quel sussurro fu lieve e accorato, denso e dolce al tempo stesso. «Nulla è stato lasciato al caso, lui vivrà». Come si poteva considerare vita, quell’Inferno in cui sembravano esser caduti tutti loro? Non volevo quel destino per Jack. E nemmeno per me. Avrei preferito morire.
    Quella mano m’accarezzò con ancor più lentezza mentre vedevo uno dei vampiri issar da terra il corpo ormai martoriato di Jack, la cui testa ciondolava appena dalle sue braccia. Gli occhi erano chiusi, come se stesse dormendo. Chinò appena il capo verso l’antica vampira la creatura che reggeva Jack, come a volerle prestare omaggio, prima di dirigersi a passo cadenzato verso di noi. Non ebbi il tempo di divincolarmi dalla presa e allungare verso di lui una mano che fu subito portato via, sparendo dalla porta da cui noi eravamo entrati. Ancora una lieve carezza, delle labbra che mi sfioravano il collo.
    «Il rito è cominciato», un ennesimo mormorio suadente. «Quegli stolti umani comprenderanno ben presto cosa significhi soffrire... il cielo si tingerà di sangue e solo voi, che portate i nostri marchi, vi salverete da quell’Inferno».

    Non compresi ciò che volesse intendere finché non fu lui stesso a mostrarmelo. Sentii due punte aguzze affondare nella mia carne, e sgranai gli occhi atterrito. Tremai, tentando di liberarmi in qualche modo. Ma ogni mio tentativo fu completamente vano. Il risucchio cominciò, facendomi girare la testa, i battiti del mio cuore aumentarono d’intensità. Quel che era accaduto a Jack stava inesorabilmente accadendo anche a me. E benché io avessi continuato a dire che era stato tutto un errore, che non avrei mai dovuto trovarmi lì, quel giorno, nulla fu più bello e doloroso di quel nostro drammatico inizio.






 


_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa che vi presento oggi, dopo il ritorno dalle vacanze, è la prima storia Originale che posto, scritta per il contest indetto da MarieCullen “In the world of vampires”, dove si è classificata quinta.
Ammetto di essere un po' delusa, non tanto per la posizione, ma per il fatto che la storia non abbia riscontrato i gusti della giudice perché troppo violenta. Non per dire, ma in una storia di vampiri che cosa ci si potrebbe aspettare se non un po' di sangue e violenza? Il genere alla Twilight non mi piace per niente, quelli son vampiri paciocconi che non dovrebbero nemmeno avere questo nome - Dracula sentitamente ringrazia e getta in aria secoli e secoli di vita passata a nascondersi fra le ombre a nutrirsi di sangue -, quindi non comprendo lo storcimento di naso per l'essermi attenuta al tema che avrebbe dovuto fare da perno del contest stesso.
Non mi dilungo troppo, mi son già espressa con la giudice stessa. Qui di seguito il suo commento, spero che almeno a voi sia piaciuta. Alla prossima.



Quinto Posto: Na doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal [Non darmi niente, mio bellissimo angelo]
Autore: My Pride
- Correttezza grammaticale e sintattica, ortografia: 8/10
- Stile, forma e lettura scorrevole: 8.5/10
- Originalità: 9/10
- Attinenza al tema e ai parametri posti: 7.8/10
- Sviluppo della trama e caratterizzazione dei personaggi: 8/10
- Giudizio personale: 7/10
Commento personale: Storia molto carina, probabilmente una di quelle che mi sono piaciute di più.
Nonostante non sia esattamente il mio genere - un po’ troppa violenza in effetti e un linguaggio alquanto colorito - l’ho trovata molto originale e ben scritta. I personaggi sono molto ben curati e la grammatica e quasi del tutto eccellente.
Purtroppo non ho potuto aumentare il punteggio del giudizio personale poiché, come spiegato prima, non rientra in ciò che mi appassiona. Non mi dilungo, rischio di diventare noiosa. Concludo dicendo che nel complesso è una storia che merita di essere letta.

Punteggio totale: 48.3/60 punti.





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