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Autore: MarFu    02/10/2021    0 recensioni
Dylan torna nella casa di famiglia dove trascorreva le estati della sua infanzia. Molte cose sono come le ricordava, ma molte altre sembrano impercettibilmente cambiate. Altre cose ancora sono strane e inquietanti. Che il villaggio di Tullow non sia più lo stesso?
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Storia in 31 capitoli scritti nel mese di ottobre 2021, uno al giorno, come parte della challenge writober organizzata da fanwriter.it.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ascian
as·ci·an | \ ˈash(ē)ən \
Una cosa o una persona senza ombra

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La teiera fischiava ormai da un po’ ma né Dylan né il signor Doyle l’avevano notato. Il vecchio custode aveva appena finito di raccontargli della morte di Belle, della lunga malattia, dell’effetto devastante che il suo dolore aveva avuto non soltanto su di lei, ma anche su quelli che le stavano attorno e che la amavano. Di quanto sia stata dura, per lui, per sua moglie, vederla consumarsi a quel modo.
Erano entrati nella casa di Dylan e si erano sistemati in cucina dopo aver concordato sul fatto che entrambi avessero bisogno di una tazza di tè. Dopo quella storia, forse, Dylan avrebbe preferito qualcosa di più forte. Ricordava Belle come una ragazzina eternamente felice. Niente poteva toglierle il sorriso dal viso. L’aveva incontrata di nuovo, qualche volta. Quando avevano all’incirca vent’anni. E anche allora la prima cosa che l’aveva colpito di lei era il sorriso.
Pensare a quel sorriso consumato dalla malattia, a quelle labbra morbide screpolate dalla disidratazione, a quei denti splendenti ingialliti dalle medicine, gli faceva rivoltare lo stomaco.
«Mi dispiace davvero tanto» aveva detto a Doyle quando l’uomo aveva concluso il suo racconto. «Non riesco nemmeno a immaginare come dev’essere stato vivere un’esperienza simile.»
Doyle sollevò il volto e lo guardò per qualche secondo, in silenzio, prima di espirare leggermente dal naso, annuendo, i baffi sollevati in un lieve sorriso amaro.
«No, non è un’esperienza facile da vivere» disse. «Né da accettare» aggiunse, guardando Dylan fisso negli occhi.
Dylan, a disagio, si voltò verso la teiera che non aveva smesso di fischiare. «Che tè le preparo?» chiese.
Doyle si alzò immediatamente e prese la teiera prima che Dylan potesse soltanto avvicinarvisi. «Ci penso io, non ti preoccupare, ragazzo» disse, versando l’acqua bollente nelle tazze. «Siediti, e raccontami. Cosa… cosa ti porta da queste parti in bassa stagione?»
Dylan si sedette e rimase in silenzio per qualche secondo, rimuginando. Cosa lo portava in quel piccolo villaggio dove aveva trascorso le vacanze da bambino? Perché aveva fatto tutti quei chilometri?
«Non lo so» ammise. «Mi sento perso, suppongo. La mia vita…» Faticava a trovare le parole. «La mia vita è a un bivio, suppongo. La città cominciava a starmi stretta, e così…»
«Così sei venuto quassù» concluse Doyle, porgendogli la sua tazza di tè. «Sperando di trovare… delle risposte?»
«O forse a capire quali sono le domande» sorrise Dylan, sorseggiando un po’ di tè. «Ci voleva, fa piuttosto freddo, eh?»
«Freddo? Ragazzo, siamo in bassa stagione ma siamo alle porte dell’estate. Non direi che fa freddo.»
Eppure, da quando era arrivato a Tullow, Dylan aveva avuto freddo. Non un freddo rigido, invernale, che ti fa battere i denti. Ma un freddo leggero, che ti accarezza la pelle, che ti fa venire un brivido lungo la schiena ogni tanto.
«Dice?» disse, tirandosi le maniche del maglione bene giù sui polsi.
Doyle lo guardò, pensieroso. «Non sarà che…»
E poi, per un attimo, fu come se Dylan si trovasse sott’acqua. Le parole del custode arrivarono alle sue orecchie ovattate, incomprensibili.
«Come, scusi?»
Doyle sorrise. «Scusami, con l’età sto cominciando a mangiarmi le parole. Sai, la dentiera…» disse, sorridendo.
Dylan ricambiò timidamente il sorriso. No. Non si era mangiato le parole. Era successo qualcosa, ma Dylan non capiva cosa.
«Ho detto» riprese Doyle, «non sarà che stai covando qualcosa?»
Dylan annuì piano. «È probabile. Sa, forse ha ragione. Magari il tè mi aiuterà.»
«Magari» sorrise il custode.

Dylan, dando credito alla teoria del signor Doyle sul malanno, decise di salutare il custode, prendere qualche antipiretico, per sicurezza, e stendersi per qualche oretta. Il viaggio fino al villaggio l’aveva stancato parecchio e contava di riuscire a uscire nel pomeriggio, per godere del sole caldo e sgranchirsi le gambe.
Era andato nella vecchia camera dei suoi genitori, aveva tirato le tende e si era steso sul letto matrimoniale. Era rimasto lì, immobile, per qualche ora, guardando lo spiraglio di luce che penetrava dalle tende muoversi mentre il tempo passava. Prima aveva illuminato l’armadio, poi la toletta. Quando lo stomaco di Dylan aveva cominciato a brontolare per annunciargli che doveva essere l’ora di pranzo, il sole aveva colpito la porta della camera. Poi era passato a illuminare la cassapanca di velluto sulla quale da bambino si sedeva mentre guardava sua madre truccarsi alla toletta. Ora illuminava la ragazza, in piedi accanto al letto.
Dylan si tirò su di scatto.
Era ancora lì. Immobile. Sorridente. Una ragazza normale, una ragazza che in qualsiasi altro contesto non sarebbe stata per niente inquietante se non per il fatto che fosse in piedi nella sua stanza e per un altro piccolo particolare, che Dylan notò con un brivido lungo la schiena.
Nonostante fosse completamente illuminata dal sole, la ragazza non proiettava ombra.

   
 
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