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Autore: edoardo811    14/11/2021    3 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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IV

Attacco nella Via Principalis 


 

Daniel non avrebbe mai immaginato che i suoi occhi potessero bruciare per aver passato troppo tempo a fissare dei foglietti, eppure accadde proprio quello. Quando anche l’ultimo post-it fu al suo posto, il ragazzo giurò a sé stesso che non avrebbe mai più guardato un pezzo di carta per più di cinque secondi per almeno un'altra manciata di anni.

Anche se, per quanto si sforzasse, quei versi che aveva letto continuavano a balenare di fronte a lui. Soprattutto quello dell’Abisso e la Notte.

Perché era così… familiare?

«Bene, questo era l’ultimo» concluse Dante con vocetta allegra, facendolo ritornare alla realtà.

Daniel sbatté le palpebre un paio di volte, poi si massaggiò la tempia con un grugnito e cercò di scacciare via la sensazione di vertigini che l’aveva appena assalito. «Posso andare ora?»

«Certo, e grazie per l’aiuto!»

«Come se avessi avuto scelta…»

«Come?»

«Niente.»

Daniel si affrettò ad allontanarsi dall’augure prima che quello si girasse e pensasse a qualche altra follia da fargli fare. E soprattutto prima che si ricordasse che cosa voleva davvero da lui. Non era più in vena di parlarci.

Lasciò il tempio di Giove Massimo con passo lento ed esausto. Non dovevano essere passata più di un’ora da quando era entrato, eppure gli sembrava di averci trascorso un’eternità. Si sentiva provato come durante le esercitazioni sotto il sole cocente di luglio.

Non sapeva cosa fare. Doveva parlare con qualcuno dei suoi incubi, questo era chiaro, ma aveva paura delle reazioni che avrebbe potuto suscitare, soprattutto se c’era pure una profezia di mezzo. Ripensò a quella voce che lo chiamava, dal fondo di quel baratro buio. L’Abisso. Un brivido gli percorse la schiena. Chiuse gli occhi e scacciò quei pensieri. Torturarcisi sopra non sarebbe servito a niente, la risposta non gli sarebbe caduta dal cielo.

Fu proprio con questo pensiero che andò a sbattere contro qualcuno. Anzi, più che qualcuno, parve qualcosa. Tipo un muro di cemento armato. Daniel barcollò all’indietro e sbatté le palpebre stordito, accorgendosi della figura che torreggiava su di lui, così alta da oscurare il sole.

Rimase in silenzio, pietrificato per lo stupore, mentre Elias lo scrutava dall’alto con quegli occhi che parevano monete d’oro scintillante. La sua espressione era più dura e fredda del metallo.

«Ehm… scusa, ero distratto…» borbottò Daniel, sentendosi in soggezione. Una strana sensazione gli percorse il corpo, simile a quella provata di fronte alla statua di Giove: ostilità, rabbia, pericolo.

Una volta, un fauno di nome Gus gli aveva detto che il suo odore era simile a quello di Elias, ma molto più intenso. E poi era scappato via quando Daniel gli aveva ringhiato di non avere monetine da dargli. Quella volta si era chiesto se Plutone non fosse anche suo padre. Ne dubitava, perché sentiva di non avere niente in comune con Elias.

Il pretore grugnì e gli passò accanto senza dire una parola, sbattendogli contro la spalla. Daniel indietreggiò e lo seguì con lo sguardo mentre proseguiva per la via. Una volta che fu abbastanza lontano fece schioccare la lingua, infastidito. «Stronzo.»

Non gli era mai piaciuto quel gigante. Se ne stava sempre in silenzio, a fissare tutti dall’alto con quello sguardo a metà tra il critico e il disgustato. Si credeva tanto meglio degli altri, proprio come la sua collega, ma almeno lui non si nascondeva dietro a un sorriso fasullo.

Stava per andarsene per la sua strada, ma qualcosa lo frenò. Ripensò all’andatura di Elias, e al suo sguardo adirato, e controllò di nuovo la strada alle sue spalle. Da quella parte c’era solo il Tempio di Giove Ottimo Massimo.

E nel tempio c’era ancora Dante.

Daniel rimase immobile, pensieroso. Era chiaro che Elias volesse qualcosa dall’augure, e sembrava perfino di umore peggiore del solito. Che fosse arrabbiato con lui per qualche motivo?

Era mattino inoltrato, il che significava che in quel momento gli altri della Quinta Coorte stavano svolgendo i loro classici lavoretti. E quindi, Daniel poteva arrivare giusto in tempo per dare una mano.

«Sì, come no» borbottò a sé stesso, voltandosi e cominciando a seguire Elias.

Rimase concentrato sul suo mantello nero e sbrindellato, tenendosi a debita distanza. Avrebbe potuto pedinarlo di nascosto, sgattaiolando tra i templi, ma decise di non farlo: se l’avesse scoperto, spiegare cosa stava cercando di fare sarebbe stato molto più difficile. Se lo avesse visto camminare sulla strada principale, invece, avrebbe potuto dirgli che aveva dimenticato qualcosa al tempio Giove, o che aveva una domanda per Dante.

Non ebbe nemmeno bisogno di pensare a qualche scusa preventiva: Elias non si voltò neanche una volta. Entrò nel tempio e svanì tra i pilastri. La luce del mattino gli permise di scorgere la sua figura avvicinarsi a quella di Dante, rimasto girato di spalle, chino sui suoi foglietti pieni di scarabocchi.

Daniel pensò che dovesse parlargli, invece lo vide afferrare la spalla dell’augure e farlo voltare verso di lui con un gesto secco. Gli diede uno spintone, facendolo sbattere contro l’altare. Dante sollevò le mani, con aria spaventata, e Daniel schiuse le labbra per lo stupore.

Il figlio di Apollo cominciò a parlare e a gesticolare nervoso, ma Elias lo zittì puntandogli un indice al petto. Daniel affrettò il passo e andò a nascondersi dietro le colonne sull’ingresso, appena in tempo per sentire la voce di Dante, tremolante di paura: «… non lo so che cosa significa! Ci sto provando! Ci sto provando con tutto me stesso, ma non ci capisco niente! Mi serve altro… agh

Vi fu un grido, seguito da un tonfo secco. Daniel sussultò e si sporse leggermente, in tempo per vedere Elias afferrare Dante dietro al collo per fargli sbattere la fronte sopra l’altare. L’augure gridò, ma il pretore gli sferrò un pugno al fianco, mozzandogli il fiato prima che potesse fare troppo rumore. Lo immobilizzò, stringendogli le braccia dietro la schiena con l’ausilio di una mano sola, e lo fece sbattere di nuovo con lo stomaco sopra l’altare.

Daniel non credette ai suoi occhi. Dante cercava di dimenarsi, ma era una battaglia impossibile per lui. Fisicamente non reggeva il confronto con Elias, e poi c’aveva appena parlato, quel tizio non sarebbe stato in grado di fare del male nemmeno a una mosca.

Elias si chinò sull’augure per sussurrargli qualcosa all’orecchio, in quella scena che sembrava uscita da un film action di serie B. Peccato solo che quello non era un film e Dante sembrava davvero terrorizzato.

«L-Lo so che non c’è più tempo!» gemette. «Ma devi dire ad Ashley che…»

Elias gli tappò la bocca. Un campanello di allarme esplose nella mente di Daniel, che si ritirò dietro la colonna un secondo prima di udire il fruscio della testa del pretore che si voltava verso di lui. Rimase immobile, appiattito contro la colonna, gocce di sudore freddo che colavano lungo la fronte e il cuore che rischiava di esplodergli nel petto. Trattenne perfino il fiato.

Sentì il suono di alcuni passi e si paralizzò. Non poteva scappare, o lo avrebbe visto. Ma non poteva nemmeno rimanere lì.

Era in trappola.

Daniel strinse i denti fino a sentire male alla bocca, arrovellandosi su che razza di scusa inventarsi. Avrebbe potuto dire che stava tornando da Dante, ma si era spaventato accorgendosi di come Elias lo avesse aggredito. Magari Dante gli avrebbe dato manforte. Dopotutto, era Elias quello nel torto, non lui. Lui era solo uno spettatore innocente, e aveva assistito a un’aggressione.

Non era lui ad essere colpevole. Riaprì gli occhi, sentendosi incoraggiato da quei pensieri, ma la sensazione sfumò non appena Elias sbucò da oltre le colonne per piazzare lo sguardo su di lui. A quel punto, Daniel sentì il proprio corpo diventare di gelatina. Schiuse le labbra, ricambiando il suo sguardo, la mente azzerata e il cuore che ora pareva un tamburo da guerra che rimbombava.

Elias corrugò la fronte, guardandolo intensamente, poi si voltò verso l’altra colonna. Avanzò di qualche passo, facendo vagare gli occhi attorno a sé con aria confusa. Si posò le mani sui fianchi, dando la schiena a Daniel, e imboccò la stradina della via dei templi.

Daniel non mosse un muscolo per l’incredulità. Elias si grattò la tempia, poi scosse la testa e fece schioccare la lingua in segno di disappunto. Ritornò nel tempio passando di nuovo accanto al ragazzo appoggiato alla colonna, senza più guardarlo.

Ci vollero diversi istanti prima che Daniel si rendesse conto che non l’aveva visto. Il sole fece capolino da dietro le nuvole che l’avevano coperto, inondandogli la faccia con i suoi raggi accecanti e costringendolo a socchiudere gli occhi, infastidito. Quello fu l’attimo in cui si riscosse.

Sentì di nuovo la voce di Dante, che sembrò più un eco distante, ovattato, e intuì che Elias aveva ripreso a tartassarlo. Senza perdere un solo altro istante, Daniel si allontanò a passo felpato, lanciando occhiatine rapide alle sue spalle per tenere sotto controllo l’ingresso del tempio, ma nessuno uscì di nuovo.

Accelerò il passo finché, pure nella sua mastodontica figura, il Tempio di Giove Ottimo Massimo non rimase nient’altro che un puntino alle sue spalle.

 

***

 

Trascorse il resto della mattina per i fatti suoi, cercando di non dare nell’occhio. Era piuttosto bravo in quello, ormai. E soprattutto fece attenzione a non incrociare Marianne, o altrimenti lei avrebbe potuto spedirlo a lavorare; dopo quello che aveva visto, non credeva proprio di avere le facoltà mentali per farlo.

Di sicuro non aveva quelle fisiche, visto che il sole batteva su di lui e si sentiva morire di caldo nonostante fosse quasi inverno. Trovò riparo all’ombra, dietro i dormitori della Quinta Coorte, e sentì il respiro calmarsi e il cuore diminuire i suoi battiti affannati. Il corpo sembrò ringraziarlo in silenzio.

Non riusciva a togliersi dalla testa quello che era successo. A partire da Elias che picchiava Dante, il tono di voce spaventato di quel poveraccio di un augure, e poi il modo in cui il pretore non si fosse accorto di lui nonostante l’avesse visto in faccia. Aveva solo finto di non vederlo? Forse aveva cercato di comprare il suo silenzio in quel modo, ma perché avrebbe dovuto? Lasciare andare un testimone del genere, senza nemmeno dirgli di farsi i fatti suoi, sembrava davvero eccessivo, pure se si era il pretore.

Daniel si massaggiò tra i capelli con un sospiro esausto, l’ennesimo di quella mattinata maledetta. Pensarci non serviva a niente, tanto non avrebbe…

Si fermò prima di ripetere lo stesso errore di prima e di tirarsi un’altra gufata clamorosa addosso. Ne aveva avuto abbastanza per quel giorno.

Purtroppo per lui, la situazione stava per peggiorare ancora di più.

Quando all’appello incrociò Camille e Kiana, insieme come al solito, si ricordò di essere arrabbiato con quelle due. Dopo tutto quello che era successo, però, non era pure in vena di tenere il muso a loro. Sicuramente Camille avrebbe provato ad avvicinarlo in ogni caso, per scusarsi, quindi tanto valeva fare il primo passo e magari salvare quel poco di faccia che gli era rimasto.

Chiese scusa per quello che era successo e fece un complimento a Cam, giusto per mostrare che non c’erano rancori. Avrebbe voluto che tutto si concludesse lì, invece lei continuò a cercare di parlare con lui durante il pranzo. Da un lato fu contento di avere una distrazione, dall’altro però continuava a pensare a quello che era successo con Elias. Era certo di apparire molto più distratto di quanto avrebbe voluto di fronte a Camille, ma se lei aveva notato qualcosa di strano in lui non lo diede a vedere. Meglio così, perché non voleva raccontare a nessuno quello che aveva visto; nemmeno lui ci credeva davvero.

Osservandola meglio, Daniel si rese conto che in effetti il taglio di capelli nuovo le stava bene per davvero, anche se il modo in cui era stata costretta a farselo lo lasciava tanto sbigottito quanto cinicamente divertito. Soltanto lei avrebbe potuto lasciarsi avvicinare in quel modo da quel lunatico di Maxwell. Quel tizio era una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento, nessuno aveva idea di che cosa avrebbe potuto fare, probabilmente nemmeno lo stesso Maxwell lo sapeva.

La sua attenzione fu catturata dall’arrivo di Ashley. Si alzò in piedi insieme a tutti gli altri, dimenticandosi per un istante persino dell’astio che nutriva verso di lei.

«Elias non è ancora arrivato…» sussurrò stupito. Stava ancora maltrattando Dante? Daniel provò un moto di pena per lui, seguito da uno di rabbia nei confronti di Elias.

Più tardi sarebbe tornato a controllare l’augure, magari anche per cercare di carpire qualche informazione in più, ma senza far intendere che aveva assistito alla scena.

Anche Ashley era stata menzionata, ora che ci pensava. Elias doveva dirle qualcosa. Quel dettaglio lo portò a domandarsi se Ashley fosse estranea a quella faccenda, oppure se fosse coinvolta anche lei. Forse il suo collega pretore stava tramando alle sue spalle. O forse era stata lei a mandarlo lì.

Entrambe le opzioni non l’avrebbero sorpreso. Quei due puzzavano di marcio da lontano un chilometro.

Smise di pensarci quando Camille riprese a parlare con lui, dopo che si erano seduti. Nonostante cercasse di prestare attenzione a lei, continuò a osservare di nascosto il tavolo di Ashley, dove lei stava mangiando in solitudine e in apparente tranquillità.

Questo, almeno, finché Allen e Travis non fecero irruzione nella mensa, il secondo coperto di sangue dalla testa ai piedi. A quel punto perfino Ashley era stata travolta da un’onda di sconforto che aveva sporcato la sua espressione sempre rilassata.

Daniel non poté concentrarsi a lungo su di lei, però. Tutta la mensa andò nel panico, vi furono grida e schiamazzi. Accanto a lui Camille e David cominciarono a gridare disperati il nome di Travis, mentre Marianne non perse tempo e corse in direzione dei due feriti. Aiutò Allen a mettersi in ginocchio, poi andò da Travis e chiamò un medico a pieni polmoni.

«Andiamo, zombie!» sbottò Kiana, arrogante come sempre, anche se aveva la voce tesa.

Una piccola folla circondò i due feriti.

«Fatemi passare!» gridò Ashley, facendosi largo tra i legionari.

«Allora, questo medico?!» sbraitò Marianne, un istante prima che Ashley si chinasse di fronte a loro.

«Fatemi vedere» ordinò. Tentò di sfilare l’elmetto a Travis, ma quello emise un grido di dolore straziante. «Un medico, veloci!» ripeté, e in quello stesso istante Kyle Greenwood sbucò dalla folla.

«Eccomi.»

«Che cos’è successo?» domandò Ashley ad Allen, mentre Kyle si faceva aiutare da alcuni ragazzi per sollevare Travis e spostarlo sopra un tavolo. Grazie agli dei, la rivalità tra coorti non esisteva più in casi come quello.

«Hanno varcato il confine» gemette Allen, sfilandosi l’elmetto e rivelando un brutto taglio sulla fronte, sotto i cortissimi capelli castani. «Hanno colpito Travis… non sono riuscito a fermarli.»

L’espressione di Ashley era dura come il marmo. «Quanti nemici?»

Il centurione esitò. «Tanti. E un Gigante.»

Daniel non si era reso conto del silenzio gelato che era sceso nella mensa finché non sentì un centinaio di ragazzi sussultare di sorpresa, seguiti da mormorii confusi.

«Un Gigante?!» sussurrò Camille, sconvolta, imitata da moltissimi altri.

«Ci hanno attaccati mentre eravamo più vulnerabili» meditò Marianne, l’unica rimasta inflessibile. Incrociò lo sguardo di Ashley. «Bisogna lanciare l’allarme.»

«Sì, lo so.» La risposta del pretore parve seccata, non accondiscendente. Si alzò in piedi e fece vagare lo sguardo lungo i legionari, prima di urlare tonante e autoritaria: «Lanciate l’allarme e preparatevi a combattere! Respingiamo gli invasori!»

 

***

 

Le frecce infuocate stavano piovendo da prima ancora che i legionari si riversassero fuori dalla mensa, schiantandosi contro gli edifici. Un susseguirsi di sibili, che si concludevano con forti esplosioni di fiamme.

Il cielo era occupato da una trentina di grifoni, che cominciarono a scendere in picchiata non appena notarono i legionari ammucchiati nella Via Principalis, stretti come topi in trappola.

I corni dell’allarme suonavano all’impazzata, così forte da far sanguinare i timpani. Un grifone sfrecciò sopra la testa di Daniel, mancandolo per un soffio; qualcun altro non fu altrettanto fortunato. Con la coda dell’occhio, il ragazzo vide una di quelle bestie alate con stretto tra le zampe un legionario che tentava di dimenarsi inutilmente. Quando il grifone arrivò abbastanza in alto lasciò andare la sua vittima. Daniel distolse lo sguardo, mentre l’urlo di quel poveraccio che precipitava si disperdeva in mezzo alle decine, centinaia di altre grida.

La terra cominciò a tremare. Centauri e lupi attraversarono di corsa la Via Principalis, aggredendo qualsiasi cosa capitasse a tiro, il tutto sotto il fuoco costante delle frecce. Non erano i centauri amici dei greci, o i lupi di Lupa, però. Erano selvatici, bestie violente e assetate di sangue. E soprattutto non avrebbero dovuto trovarsi lì. Il campo era circondato dai confini magici, era impossibile per i mostri attraversarli. Eppure quelli c’erano riusciti. Diversi legionari vennero assaliti da branchi interi di lupi e trascinati a terra emettendo grida disperate che si spegnevano ben presto.

Lari e fauni fuggivano in ogni direzione, urlando disperati. Vitellio, invece, volava in mezzo ai semidei urlando di riscuotersi e di rispondere all’attacco, sventolando una spada fantasma. L’odore del sangue e del fumo impregnò l’aria. Ovunque si voltasse, Daniel scorgeva volti terrorizzati, occhi fuori dalle orbite, visi sanguinanti o persone a terra che giacevano immobili.

Le aquile giganti della legione arrivarono in quel momento, avvinghiandosi con i grifoni in aria in un turbinio di piume, strilla lancinanti e artigli. Chi era armato cominciò a difendersi dagli attacchi via terra. I semidei formarono delle cortine difensive, formazioni a testuggine di fortuna, in modo da spostarsi proteggendo chi non poteva difendersi da solo, nel tentativo disperato di arrivare fino all’armeria, o ai dormitori, o a qualsiasi altro luogo utile.

Dei figli di Cerere e di Bacco fecero spuntare delle radici da terra, che andarono a rallentare l’assalto delle creature terrene, ma nemmeno quello servì a molto. Alcuni figli di Apollo armati d’arco incoccarono freccia dopo freccia, abbattendo i grifoni, ma non sembrava mai abbastanza.

Daniel avanzò assieme a Camille, Kiana, David e i gemelli Vega. Erano tutti armati, tranne lui. Nessuno però glielo fece pesare: avevano cose più importanti a cui pensare. Rimase dietro di loro, impotente, mentre respingevano un lupo dietro l’altro e si difendevano come potevano dai violenti attacchi dei centauri. Una freccia esplose poco distante da loro, strappando un grido a Camille.

Un lupo saltò mirando proprio alla gola della figlia di Trivia e Daniel sgranò gli occhi. Stava per urlare il suo nome, ma Kiana fu più rapida di lui: con un colpo della lancia trafisse il lupo come uno spiedino, strappandogli un guaito straziato. Per fortuna non erano lupi mannari, forse erano un branco che aveva rifiutato l’autorità di Lupa, o le armi d’Oro Imperiale sarebbero state inutili. Questo però non li rendeva meno pericolosi.

«Vete a morir!» ululò Thia, dimenando il gladio e azzoppando un centauro.

«Questo è per Travis!» sbraitò anche David, infilzando un altro lupo.

Un grifone scese in picchiata su Minho, ma lui si scansò e lo decapitò con un colpo secco di spada.

Dopo un attimo di disordine iniziale, i semidei cominciarono a riprendere il controllo della Via Principalis. Daniel sapeva, però, che quei nemici non erano la vera minaccia: il vero esercito stava ancora marciando verso il campo.

Un lupo balenò a un soffio dal suo volto, facendolo ridestare. Urlò di sorpresa, credendo di essere spacciato, ma qualcuno lo salvò trafiggendo l’animale al collo con un colpo ben assestato di pugio. 

«Guardia alta, García!» lo rimproverò Marianne, apparsa accanto a lui come un’ombra. Passò oltre senza dire altro e andò in soccorso di altri legionari in difficoltà, armata giusto di quel pugnale.

«Che vuoi fare con quell’ago da cucito?!» le urlò Kiana, alle prese con un centauro.

«Numquam periclum sine periclo vincitur!» ribatté Marianne, abbattendo un altro lupo. 

«Tiratela di meno!»

«Attenti!» gridò Camille, abbassandosi dopo il passaggio di un altro grifone, che la mancò per un soffio. Quello emise uno stridulo infastidito e riprese quota. Volteggiò nell’aria e sfoderò gli artigli, voltandosi di nuovo verso il loro gruppetto. Prima che potesse tentare un altro attacco qualcosa squarciò l’aria, più veloce del grifone, più veloce di una freccia. Un raggio di luce, seguito dal boato del pennuto che si disintegrava in mille pezzi, seguito infine da un’orrenda puzza di pollo alla griglia carbonizzato.

Daniel si voltò e si accorse di Ashley che correva in mezzo alla via con lancia e scudo alla mano, gli occhi che brillavano di accecante luce azzurra. Si era levata il mantello e ora correva con indosso soltanto la cotta di maglia, falcidiando tutti i mostri che le capitavano a tiro a colpi di lancia. 

«Non vi fermate!» gridò quando passò accanto al gruppetto di Daniel. 

Sollevò lo scudo: un fulmine cadde al cielo, rimbalzandoci sopra e attraversando il corpo della ragazza per poi esplodere dalla lancia come un proiettile, polverizzando un centauro prima che finisse un legionario inciampato a terra. 

«IUPPITER OPTIMO MAXIMO!»  

I romani gridarono in risposta al pretore, ognuno inneggiando al proprio dio. La presenza di Ashley aveva rincuorato tutti quanti. La Legione intera si animò. Attorno a lui, Daniel vide i suoi compagni combattere con maggiore ferocia e coraggio. Si accorse che anche Marianne stava gridando qualcosa, ma a causa del rumore non riuscì a sentire le sue parole. Eppure gli bastò solo guardarla per sentire un brivido lungo la schiena: il desiderio irrefrenabile di combattere con tutta la forza che aveva in corpo, perfino se disarmato, si fece largo dentro di lui. E la stessa sensazione sembrarono provarla anche Kiana, Camille e il resto del loro gruppetto, perché nessuna creatura riuscì più ad avvicinarsi senza essere disintegrata all’istante.

I mostri cominciarono a ritirarsi, schiacciati dai semidei che poco a poco stavano riacquistando il controllo della situazione, spronati da Ashley che guidava la marcia con la forza di una tempesta vera e propria. Aveva distrutto da sola chissà quanti mostri, e non sembrava affatto intenzionata a fermarsi.

Daniel approfittò della situazione per districarsi dai suoi compagni e correre verso l’armeria, dove trovò un’altra ventina di ragazzi che cercavano di armarsi e di indossare almeno qualche pezzo d’armatura in fretta e furia. Si fermò di fronte a una rastrelliera, alla ricerca dell’arma giusta per lui.

«Levati tu!» gridò qualcuno, scansandolo di peso. Daniel barcollò, accorgendosi di Maxwell che gli sfrecciava accanto per poi svanire nei meandri dell’armeria. Gli bastò un solo istante per capire che quello non sarebbe mai uscito da laggiù, se non a battaglia finita. Con suo stupore, la stessa idea gli attraversò la mente come uno dei fulmini di Ashley, scacciando via la determinazione che l’aveva assuefatto poco prima. Se si fosse nascosto, chi se ne sarebbe accorto?

«Daniel…» lo chiamò una voce all’improvviso. Il ragazzo sussultò e cominciò a guardarsi attorno, ma non vide altro che il caos generato dalla battaglia: il via vai di gente dall’armeria, alcuni ragazzi feriti che cercavano rifugio, altri che si trascinavano dietro dei corpi macchiati di rosso, alcuni in lacrime, altri invece con sguardo spiritato per la paura e l’adrenalina. Tutto quanto si sgranò: le grida si ovattarono, la vista gli si appannò, i legionari che correvano accanto a lui diventarono macchie sfocate.

«Daniel» ripeté la voce. Una voce di donna, gentile e soave, che risuonava come una dolce melodia. Come quella dei suoi incubi.

«Forza, Daniel, che cosa aspetti? Uccidili.»

Il ragazzo sentì il proprio respiro mozzarsi. Non sapeva come, non ne aveva idea, ma era certo che soltanto lui potesse sentire quella voce. E sapeva anche che non gli stava affatto ordinando di uccidere i mostri: gli stava ordinando di uccidere i semidei stipati nell’armeria assieme a lui. 

«Non sei uno di loro, Daniel. Non lo sei mai stato. Uccidili. Aiutaci a distruggere questo posto.»

Una fitta di dolore atroce gli colpì la tempia, facendolo gridare. Crollò in ginocchio e si premette le mani sulla testa. Gli sembrò di avere il cervello crivellato da pugnali roventi e ghiacciati in contemporanea. Cominciò a sudare e a tremare allo stesso tempo, assalito da un forte senso di nausea. 

I volti dei legionari che correvano attorno a lui si trasformarono in maschere di oscurità, con occhi di sclera bianca, vitrei. Le loro forme scomparvero, lasciando solo spazio a corpi umanoidi privi di dettagli, impossibile capire che cosa fossero. Daniel sussultò, la mente che rischiava di spaccarsi a metà. Un’ombra fittissima ricoprì l’armeria, mentre la voce della donna cresceva d’intensità: «Sei tu il mio campione, Daniel. Hai già ucciso centinaia, migliaia di volte. Puoi farlo di nuovo.»

Daniel rimase pietrificato. Le immagini dei suoi compagni sfarfallavano. A tratti erano le persone che conosceva, a tratti erano quegli ammassi informi di buio con gli occhi vacui. Nessuno badò a lui, erano tutti troppo presi da quello che stava accadendo per strada. 

«Daniel!»

Una mano si posò sulla sua spalla, facendolo rinsavire. L’oscurità svanì e il chiasso dei legionari e della battaglia tornò a farsi nitido tutt’attorno a lui. La voce tacque e i ragazzi riassunsero i loro aspetti normali. Vide Camille accanto a lui. Era intatta, e lo stava guardando angosciata. «Stai bene?» 

«Sì, sì…» riuscì a rispondere lui, rialzandosi in piedi. Si massaggiò la tempia e strizzò le palpebre, scacciando quella sensazione di disorientamento. Individuò la rastrelliera di fronte a lui e si ricordò perché era andato lì dentro. Afferrò un gladio e indossò anche una cotta di maglia, per avere un po’ di protezione in più. 

Camille lo imitò, recuperando una panoplia adatta alla sua corporatura. «Ci stiamo muovendo verso le colline» gli spiegò, mentre allacciava le protezioni. «I centauri e i lupi si sono ritirati, ma c’è ancora un intero esercito là fuori.»

«Non c’è altro tempo da perdere.» 

«Sei sicuro di stare bene? Sei pallido.»

Daniel ricacciò una smorfia. Nonostante la situazione, lei doveva comunque preoccuparsi del suo pallore. «Sto bene» ripeté, con tono duro. «Sbrighiamoci.»

Le labbra di Camille si ridussero a una riga sottile. Distolse lo sguardo da lui e annuì, senza dire altro. 

«Eccovi!» tuonò la voce di Kiana, che entrò facendosi largo a spintoni e ignorando le proteste che ricevette in cambio. Sembrava molto, molto arrabbiata, ma anche lei era illesa. Gettò via la lancia spezzata e si avviò verso una rastrelliera ormai mezza vuota. Ne prese un’altra, con la lunga lama d’Oro Imperiale seghettata e l’impugnatura bianca come l’avorio. La saggiò un paio di volte, poi annuì a sé stessa. «Questa può andare.»

Non si fermò lì. Afferrò anche il fodero di un gladio e due pugi, legandosi tutto alla cintura. Anche Marianne entrò in quel momento, arruffata ma altrettanto illesa. Affiancò Kiana e cominciò ad armarsi di tutto punto a sua volta. 

«Cos’è, hai capito che quel coltello da burro era inutile?» la provocò la figlia di Venere.

Marianne non batté ciglio. Si allungò verso un altro gladio rimasto incustodito, scansando Kiana. «Spostati, mi sei d’intralcio.»

«Sei tu che sei venuta qui!»

Il centurione finì di armarsi, indossò soltanto un elmetto e si allontanò rapida com’era entrata. 

«Che vuoi fare solo con quell’elmetto?!» le urlò Kiana, senza ottenere risposta. A quel puntò fece un verso irritato e finì di sistemarsi la sua panoplia. «Giuro che se quella si fa ammazzare...»

Seguì Marianne, passando accanto a Camille e Daniel. Sembrò ricordarsi di loro solamente quando li affiancò. «Beh, che fate lì impalati? Muovetevi, Ashley sta già marciando verso il Gigante!»

Daniel si riscosse. Il Gigante. I mostri creati per distruggere gli dei. Aveva sentito parlare di loro, ma non ne aveva mai visto uno: non aveva idea di cosa aspettarsi.

«Elias si è visto?» domandò, mentre seguiva Kiana e Camille fuori dall’armeria.

«Ma che ne so! È un delirio lì fuori!»

«Io non l’ho visto» si intromise Camille, con gli occhi spalancati. «Che… che si sia fatto del male?!»

«Ne dubito» mugugnò Daniel, ripensando a quello che aveva visto a proposito del loro secondo pretore.

«Lo so che non c’è più tempo!» aveva detto Dante e Elias. Che si fosse riferito a quello? All’attacco?

L’ennesimo grifone scese in picchiata su di lui, ma questa volta Daniel si fece trovare pronto. Urlò e dimenò il gladio, centrandolo in pieno e distruggendolo. A Elias e tutto il resto avrebbe potuto pensare dopo: adesso aveva un campo da difendere.

   
 
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