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Autore: Ciuscream    09/12/2021    3 recensioni
Solo quei due scudi scuri, infatti, le rimandavano la confortante sensazione di poter essere sincera, di poter trascinare sulla punta della lingua qualsiasi pensiero si fosse levato dalle tempie, le avesse premute e avesse pregato per uscire. Solo a lui avrebbe potuto snocciolare quelle parole.
«Ho paura»

[La storia è un missing moment di "Huracàn"]
Genere: Fantasy, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa all’iniziativa “Regali d’inchiostro tra i tavoli del Pub” indetta dal gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta” ed è un missing moment prequel della long Huracàn.


 
A Vanessa, che ci crede sempre (più di me).
 
Ovunque proteggi
 
L’alba arrossava i campi con i suoi raggi tiepidi, insonnoliti, morbidi. Izar stava rannicchiata sul pagliericcio pungente e osservava il profilo dei cugini, ancora crogiolati, dipinti nelle forme sgraziate del sonno. La più piccola era Agueda, che dormiva testa-piedi con il fratello, Josef, di pochi mesi più grande. È difficile risparmiarsi dal far nascere figli, quando le distrazioni sono poche ed è peccato rinnegare protetti agli Dèi. Per questo, sua zia si trascinava di anno in anno un nuovo pancione, una nuova vita, una nuova bocca da sfamare, due nuove future mani per i campi.
Izar, invece, era figlia unica: il Santero ha diritto a crescere un figlio solo, le ribadiva sempre suo padre. A questo tramanderà le sue conoscenze, a lui insegnerà tutto ciò che sa.
Ad Izar, nella sua ingenuità, era sempre sembrata una scusa un po’ traballante – il sapere non è il pane che diminuisce spezzandolo a metà. Per questo, la mancanza di un fratello le aveva sempre pesato un po’ sulle spalle – le aveva sempre un po’ bucato lo stomaco – non potendo condividere con un altro dal sangue uguale i piccoli drammi di bambina che la vita le aveva messo di fronte.
Gabre per lei era stato quello: compagno, culla, riparo. Il fratello che il sangue le aveva negato e la vita, invece, le aveva offerto in dono – senza chiedere nulla in cambio. Per questo, già da quando aveva stropicciato gli occhi nella mattina del giorno più importante delle loro vite, il pensiero era volato a lui. Si era soffermata ad immaginare che cosa stesse pensando, qualche vicoletto poco più lontano. Se anche lui sentiva aggrapparsi nel petto una forza, allo stesso tempo, sconosciuta e ordinaria – la paura – per quella scelta che di lì a poche ore si sarebbe compiuta.
Le sovvenne alla mente anche qualche stralcio di sogno: Marlia le accarezzava la fronte, con aria gentile e vagamente preoccupata, tingendole i capelli del colore del sole, sfumando – fino a gocciolare – il nero delle sue trecce. Nel suo sogno, la Dea generosa era una donna dall’aspetto materno e gli zigomi nascosti sotto guance morbide – quelle che ad ognuno, lì a Nerva, mancavano. Le aveva sussurrato di essere forte, di vivere in modo degno. Solo così la morte sarà dolce, solo così non se ne avrà paura.
Izar si era svegliata, poi, di soprassalto, ma senza il cuore impazzito dal timore come quando nei sogni si cade da una grande altezza o si corre senza sapersi muovere. Si era svegliata come se il sonno si fosse semplicemente esaurito e per lei fosse arrivato il momento di tornare a Pentidad, per quel giorno speciale, irripetibile. Se l’era chiesto se allora sarebbe stata Marlia a diventare la sua seconda madre – la madre del cielo – e non qualche Dio indegno, di quelli che a suo padre facevano arricciare la poca pelle del viso, nominandoli. Se poteva essere salva, se poteva essere degna.
Quel pensiero la mangiava da giorni, grattandole le pareti dello stomaco molto più della fame e della stanchezza, dopo una giornata a rassettare, cucire, strofinare. Il pensiero di suo padre, della smorfia della delusione che era così abituata a riconoscere, le lampeggiava nella mente ogni volta che abbassava la guardia ai pensieri cattivi, ogni volta che si perdeva nei rivoli dei pensieri e si dimenticava di preoccuparsi.
 
Fu allora con un ultimo, finale, sbadiglio e un pensiero alla sera, che decise di trascinarsi giù dal letto, sfiorando terra con un piccolo tonfetto sordo. Il gradone che le fungeva da letto sovrastava praticamente tutti gli altri nella stanza; per questo doveva stare attenta a non calpestare nessuno, scivolando via dall’antro caldo del suo corpo impresso nella paglia.
Gli uomini e le donne del villaggio, come sempre a quell’ora del mattino, già trafficavano per le strade e i rumori dei carri e dei muli sovrastava sospiri e voci ancora biascicanti di sonno. Per quell’unico giorno all’anno, però, nessuno era diretto ai campi o alle botteghe. Ognuno era intento a sistemare la piazza, agghindarla alla bell’e meglio per la festa dell’Iniziazione che si sarebbe tenuta quella stessa sera. Ad Izar, si contorse lo stomaco pensando che – proprio quella stessa sera – sarebbe stata immersa tra quegli occhi, scrutata, sezionata, spogliata di ogni intenzione, in attesa che un Dio qualsiasi le arrivasse a poggiare una mano in testa e la dichiarasse sua protetta.
Scrollò leggera le spalle di un brivido che sapeva di paura e non di freddo, scivolando nella cucina adiacente. Non vi erano porte a separare i due spazi, solo tende pesanti e sdrucite, bucate dalle ripetute mani che vi erano rimaste aggrappate o strappate all’orlo da quel continuo andirivieni. Sua madre era in piedi vicino al piccolo fuoco e scaldava una ciotola con poco latte e ad ancor meno pane ad ammollarsi all’interno. Il suo sorriso, però, la scaldava di più di quel biancore denso e pastoso, infondendole un coraggio di cui, adesso, si sentiva priva – del tutto.
«Buongiorno, bambina»
Le sorrise leggera, avvicinandosi alla figlia e carezzandole il viso come nel sogno aveva fatto Marlia – con lo stesso materno trasporto, lo stesso caloroso affetto – e poi le porse la tazza. Izar mangiava e lei le studiava a fondo il viso, alla ricerca di un traballio delle palpebre che potesse far emergere, ad occhio nudo, la paura che sapeva avvilupparla e che sapeva, oggi, non avrebbe confessato. Non davanti a lei, non davanti al padre – forse solo davanti ad una persona.
«Hai dormito bene?»
Izar le posò gli occhi addosso, spostandoli dai pezzi di pane che si erano fatti morbidi, sprofondati per larga parte dentro il latte, a perdersi e fondersi con lo stesso. Sua madre si stupì come ogni volta – dodici anni non le erano bastati per abituarsi – di quel colore cangiante delle sue iridi, quel nocciola che sfumava verso il turchese, qualcosa di inedito a chiunque, lì intorno. L’alba ne accentuava la chiarezza e vi faceva penetrare all’interno sfumature rossastre, venature che risalivano l’azzurro e si tuffavano nella pupilla, scomparendo in quel pozzo nero.
«Abbastanza» confessò con uno biascichio, con la voce impastata dal sonno e dal cibo. Sua madre le lanciò una brevissima occhiataccia di rimprovero, per quelle parole sporcate di briciole e liquido. Izar le sorrise appena, quasi a scusarsi, e lasciò salire la tazza oltre il viso, a svuotare l’intero contenuto dentro la sua gola e il suo stomaco, ad allagarli di un calore che sapeva di speranza – quella che scivolassero via i minuti che si trascinano in avanti sempre con troppa lentezza quando desideri, invece, che volino.
«Dov’è papà?»
Sua madre le indicò l’esterno con un piccolo cenno del capo mentre rassettava le poche stoviglie necessarie alla colazione parca che aveva riservato alla figlia. Il viso le si era indurito appena a quella domanda, come se a calpestarla nelle poche rughe del viso vi fosse il risentimento, arrivato a piegarle di tratti più spigolosi e austeri.
Solo prima di pronunciare le parole successive il viso le si addolcì a stento e gli occhi guizzarono di un bagliore morbido, accomodante.
«Ti ha cercata Gabre, comunque. È già sveglio, credo sia con suo padre a sistemare la Pignatta»
Sua madre rise appena, nascondendosi e volgendo il viso al piccolo fuoco, dell’impercettibile sussulto che mosse Izar a quelle poche sillabe. La ragazzina si sporse di poco, allungando il collo dietro la figura di sua madre, a sbirciare se, oltre la finestra che dava sulla piazza, la figura dell’amico comparisse in qualche angolo. Lasciò la tazza e, ringraziandola brevemente, corse in camera ad acchiappare una tunica, logora quanto la loro vita e vissuta quanto la stessa.
Si diresse fuori, ai bacili che raccoglievano la poca acqua piovana e che erano destinati alla pulizia di persone ed indumenti. Vi immerse le mani dentro e riconobbe la consistenza fresca che quell’acqua aveva solo nelle prime ore del mattino, quando ancora il sole non colpiva con forza l’Isola, arrivando a farla bollire. Se ne lanciò un po’ sul viso, arruffando le piccole ciocche di capelli ora adese alle tempie, quelle che sfuggivano alla trappola della matassa di treccine che le cadeva sulla schiena, seguendo l’ondeggiare morbido di ogni suo movimento.
Non si asciugò l’acqua in eccesso: la lasciò traboccare dalle sopracciglia, dalla punta del naso, da sotto il mento, a macchiarle la tunica di qualche ombra più scura e il terreno ai suoi piedi di una pioggerellina momentanea e localizzata. Poi corse nella piazza, con gli occhi ridotti a fessure per individuare la figura dell’amico fra le tante che già brulicavano sul battuto polveroso e alzavano, trascinando assi e tavoli, lievi nubi rossastre.
La sua voce le arrivò agli occhi ancora prima delle sue iridi nerissime; Gabre la chiamava dalla parte opposta a quella del suo viso, sbracciandosi. Con lui, un sacco che quasi lo superava in altezza, che trascinava a terra, avvolgendolo in quella nebbia che gli fece salire qualche piccolo colpo di tosse.
«Iz… S-sono qui!» Tossì ancora, mentre il sacco strusciava e si portava dietro polvere e sabbia, creando quella che ad entrambi parve – senza dirselo – un’improvvisata pista per le biglie, di quelle che spesso erano state bucate con il corpo di Izar o di Soledad, la sorella minore di Gabre, e che adesso sorgeva naturalmente da quella sua piccola fatica.
Izar gli corse incontro zampettando allegra, dimentica quasi della paura che fino a quel momento le aveva incastrato latte e parole in gola.
«Ehi! Ti serve una mano?»
Glielo chiese con il viso piegato di lato, le treccine a ricadere oltre la sua guancia e a frusciare nel venticello appena accennato di quella mattina. Se ne sorprese appena, mentre le carezzava gli zigomi – a Nerva il vento non soffiava mai. Gabre aveva il viso già imperlato di un neonato sudore, goccioline a tamburellare lungo la fronte e le tempie, mentre i tratti già induriti da quegli anni di lavoro sembravano ancora più stanchi, sfiniti.
«Non hai una bella cera» lo rimbeccò con un sorriso, l’indice puntato contro i suoi lineamenti da giovane uomo rilucenti sotto il sole appena sorto. Gabre la fissò con un sopraccigliato alzato, in un cipiglio che voleva forse dirle quanto stesse snocciolando l’ovvio.
«Io sono due ore che trascino sacchi e travi avanti ed indietro. Tu cosa stavi facendo, principessina?»
Il tono era volutamente canzonatorio e volutamente giocoso, leggermente più flebile del normale, più acuto. Anche il suo indice svettò ad indicarla, in un moto identico a quello messo su da lei pochi istanti prima. Izar sbuffò una lieve risatina dal naso e poi aprì un sorriso a tutti denti – così forzato da essere derisorio a sua volta, alzando anche i palmi al cielo, in segno di giustificazione.
«A riposarmi, così da poterti dare una mano!»
Si allungò a puntargli un piccolo pugno sul braccio, con un’altra risatina leggera. Mosse qualche passo incerto, osservando il sacco, quasi a soppesarne dimensione e peso. Poi aggrappò entrambe le mani all’estremità libera, quella che si trascinava sulla sabbia bucandola della scia del suo passaggio. Fece per tirarsi e tirarlo su, decisa a portarsi dietro quel peso, ma le braccia le rimasero ferme sul posto, le dita aggrappate alla stoffa ruvida, senza che i suoi muscoli riuscissero a muoverlo di un solo, minuscolo, millimetro.
«Ma quanto caspita pesa?!»
Gabre scoppiò in una risatina divertita; le fece un leggero cenno del capo, a mimarle di allontanarsi dal sacco.
«Lascia st-»
Le parole del ragazzino vennero interrotte da altre identiche, che le sovrastarono per tono ed intensità, mentre l’ombra di un uomo alto e robusto, dalle fattezze sfregiate dal lavoro e dalla fatica, comparve ai loro occhi, oscurandogli per un attimo il sole.
«Lascia stare, Izar! Lo aiuto io questo fannullone»
Il padre di Gabre si parò innanzi ad entrambi, con un sacco di farina sulla spalla destra; si chinò a caricare anche quello che trascinava il figlio, posandoselo – come senza sforzo – sulla spalla opposta. Le sorrise di un sorriso stanco e genuino, quello che solo le persone oneste sanno metter su con così poco sforzo e con così tanta credibilità. Izar gliene rimandò indietro uno identico, raggiante, mentre Gabre si adombrava di un’espressione che poteva dirsi cupa.
«Fannullone, mpf. Sgobbo da ore!»
«Vorrà dire che Fukh ti vedrà e ti proteggerà. Ora, avanti, qua finisco io. Andate a riposarvi, oggi è il vostro giorno»
 
*

L’unica cosa che Izar riuscì a pensare mentre si inerpicavano per andare nel loro posto segreto, mentre affondava le mani nei buchi liberi che la pietra aveva lasciato erodendosi, era che tutto quello che avrebbe voluto era un padre esattamente come quello di Gabre. Un padre ordinario, lavoratore, capace di lasciarle carezze aspre con le mani callose e rimproveri non colmi di così sottile disprezzo. Essere figlia del Santero le era costato il prezzo di antipatie varie, di sussurri da orecchio ad orecchio, di mani meno tese di quelle rivolte ad altri ragazzini come lei.
Suo padre era stato sempre irremovibile, così con la comunità così con sua figlia. Le aveva insegnato tutto quello che si può insegnare ma non tutto quello che si può imparare. Non aveva mai indugiato in favole della buonanotte che non avessero per comparse le figure da sempre ignote e temute degli Dèi. A questo l’aveva sempre istruita, a questo indirizzata – non le aveva insegnato come si cammina nel mondo senza paura, come si risponde a tono ad una provocazione o come il pane debba essere prima seccato sul fuoco e poi lasciato cadere nel latte. Questi erano stati compiti affibbiati a sua madre, perché di second’ordine. Lui doveva insegnarle a leggere, a tramandare, a portare rispetto agli Dèi, ad imparare le strategie per ingraziarseli.
Lei avrebbe voluto, però, che l’avesse portata fra la terra brulla lì intorno, a raccogliere le poche erbe speziali che si incontravano nel terreno e che Gabre le aveva mostrato. Avrebbe voluto vederlo insieme al padre dell’amico a sollevare sacchi per creare la festa, i giochi, i piatti e non saperlo lontano, solo, a pregare quegli Dèi a cui nessuno dava più ascolto – che, di certo, non ne davano a loro.
«A che pensi?»
Gabre glielo chiese d’improvviso, mentre scavalcava l’ultimo muretto di quel casolare abbandonato, un rudere pericolante e pericoloso, in cui si nascondevano assieme quando la vita sembrava morderli alle caviglie, sembrava soffocarli come la polvere calda del battuto. Come in quella mattina che sbocciava sul giorno della loro Iniziazione, la mattina che li avrebbe resi finalmente degli adulti, strappandoli alla facoltà di tapparsi gli occhi davanti alle difficoltà e delegare.
Il sole aveva già preso forza e batteva sul viso del ragazzo screziato di piccole cicatrici, illuminandole di un chiarore che intervallava l’incarnato mulatto. Aveva su il solito sorrisetto, leggermente incrinato da una nota di preoccupazione che faceva anche in lui – seppur a malapena – capolino dentro il cuore, picchiettandolo di qualche puntura d’ansia e d’apprensione. Ne sembrava più immune di Izar, però, che invece quella preoccupazione l’aveva dipinta in viso, a sgomitare con tutti gli altri pensieri che si affollavano rapidi. Anche lei si issò oltre l’ultimo finale ostacolo e scivolò fra il pavimento sconnesso, arrivando fino al muro e accomodandosi accanto a lui.
Quella vecchia casa abbandonata aveva visto crollare il tetto di legno, sparpagliano le travi su quel secondo piano che adesso era vista cielo. Anche la parete che dava verso ovest era completamente crollata, mostrando ad entrambi la distesa di case e di campi che si allungava ben oltre il loro villaggio, perdendosi in altri accrocchi murari lontani da loro probabilmente poco più di un chilometro ma quasi del tutto sconosciuti. Quanto vi era da vedere del mondo, ancora, quanto poco – erano sicuri – ne avrebbero visto.
«Allora? A che pensi?»
Izar si strinse nelle spalle, accoccolandosi su se stessa e abbracciando le ginocchia tra le braccia esili. Affondò una guancia sopra una di queste e vi si sistemò sopra, quasi fosse un cuscino ispido. Il viso era rivolto verso Gabre, lontano dal sole; poteva così saggiare il profilo dei suoi occhi neri con la stessa, solita, curiosità, come se ogni giorno avessero potuto raccontarle una storia nuova, una storia di cui lei era sempre curiosa. Solo quei due scudi scuri, infatti, le rimandavano la confortante sensazione di poter essere sincera, di poter trascinare sulla punta della lingua qualsiasi pensiero si fosse levato dalle tempie, le avesse premute e avesse pregato per uscire. Solo a lui avrebbe potuto snocciolare quelle parole.
«Ho paura»  
Gabre aggrottò appena le sopracciglia, come se il contesto e la frase fossero totalmente stridenti uno con l’altro, come se – più che preoccupazione – lo avesse colto una sorpresa ingenua, incomprensibile. Non le rispose, dapprima; allungò soltanto una mano e la strinse lieve contro il suo polso, come era solito fare quando se la trascinava dietro in quelle avventure che spesso li avevano messi nei guai.
Izar tremò appena: erano due bambini ancora; eppure, da un po’ di tempo, ogni tocco di Gabre era diventato una piccola fitta a metà strada tra il cuore e l’ombelico. Allo stesso modo, però, ogni tocco la scioglieva di qualcosa di così rassicurante che non avrebbe temuto nemmeno il peggiore degli Dèi, lì accanto a lui, in mezzo alle rovine di quella casa e delle loro giovani vite.
«Di cosa? Di quello che succederà stasera?»
Izar annuì lieve, strofinando la guancia contro la pelle nuda del ginocchio, facendo frizionare zigomo e rotula, in un contatto morbido e intimo – quasi a nascondersi.
«Se decidesse di proteggermi un Dio che mio padre detesta?»
Gabre assottigliò gli occhi, stringendo la pressione sulla sua pelle, quasi volesse trascinarla via da quel suo stesso pensiero, attirarla a sé, salvarla da quei mostri che sapevano perseguitarla sempre, molto più grandi e potenti degli Dèi.
Un attimo di silenzio lungo e fumoso si parò tra loro, a dividerli come una di quelle tende logore che separava le stanze delle loro case.
«Non succederà» Le scoccò lieve, sbuffandolo a mezza voce.
«E tu che ne sai?» La replica aveva lo stesso identico tono; non c’era rabbia e fastidio, nonostante la domanda fosse così schietta, così rimbalzante. Si intravedeva solo un po’ di terrore, una ricerca di rassicurazione talmente densa da impantanarla, da impantanare entrambi.
«Lo so e basta»
«E se succedesse?»
«Izar, ma che ti importa di quello che pensa tuo padre? O la gente di questo buco di posto in cui siamo capitati a vivere? Alla fine, l’importante nella vita sarà chi vuoi proteggere, non chi nel cielo protegge te»
Izar allargò appena gli occhi, come se quelle sue parole le avessero agganciato qualche parte del cuore e c’avessero piantato un seme, bucandole a forza il miocardio. Rialzò appena il viso, trascinandolo all’indietro, così da poter puntare gli occhi su di lui. Il rossore che quello strofinio contro il ginocchio le aveva provocato si intravedeva appena contro la pelle mulatta e tirata dalla fame. Soppesò un attimo le parole, mordendosi il labbro inferiore e facendo affogare gli occhi in quelli dell’amico che ancora, di fronte a lei, le rimandava uno sguardo identico. Era più preoccupata della risposta che della domanda.
«…e tu chi vuoi proteggere?»
Gabre alzò leggermente le spalle e ci si chiuse dentro, slacciando le iridi dalle sue e lanciandole sulla distesa brulla che si stagliava sotto il loro sguardo. Lasciò cadere in un lunghissimo sottofondo di silenzio quel loro spazio vitale, con le cicale che iniziavano a stridere e a circondarli da ogni lato; prese un piccolo respiro, prima di rispondere secco, fermo, sincero.
«Te»

 


 
Note: ormai la costante di questi miei pensierini di Natale è il delirio. Questo missing moment/prequel/cosa sia non lo so è dedicato a Vanessa, che, dall’inizio di questa storia, mi ha mostrato il suo entusiasmo e mi ha aperto al magico mondo dentro la sua testa, dove si muovono meccanismi che i miei due neuroni in croce riescono a comprendere poco ma che mi affascinano tanto.
Che dirti, Spark? Che sei bella dentro, fuori e intorno già lo sai. A me non resta che farti gli auguri di un serenissimo Natale e prometterti che il capitolo arriverà tra poco!
Un abbraccio grande 


 
   
 
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