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Autore: Quasar93    12/12/2021    0 recensioni
Gli mancavano.
I ragazzi gli mancavano terribilmente.
Ma non aveva senso no?
Erano lì, davanti a lui, dov’erano stati tutte le mattine da molto tempo a quella parte e dove sarebbero stati di nuovo il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Perché allora si sentiva così?
Perché provava una nostalgia così forte da fargli inumidire gli occhi?
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gintoki Sakata, Kagura, Shinpachi Shimura, Toushiro Hijikata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gintoki si svegliò faticosamente.
Le palpebre sembravano pesare una tonnellata e nella sua testa sembrava che fossero detonate un milione di bombe. Riacquistando consapevolezza si rese conto che stava dormendo scompostamente sul pavimento del suo ufficio. Probabilmente era rientrato ubriaco a un orario indecente ed era collassato lì. Strano che però Kagura non l’avesse trascinato di peso nel suo futon…
A proposito dei ragazzi, c’era fin troppo silenzio in quella casa. La luce del sole stava invadendo l’appartamento ed era strano che Shinpachi non fosse già andato a svegliarlo, sgridarlo e farlo rotolare fino alla propria stanza. Non necessariamente in quest’ordine.
Il samurai si alzò facendo molta più fatica del previsto, quasi come se il suo corpo facesse i capricci solo all’idea di doversi muovere, e si trascinò un po’ dolorante in cucina aprendo la porta che scivolò faticosamente nel suo alloggiamento.
Avrebbe davvero dovuto oliarla.
O sostituirla completamente, visto lo stato pietoso in cui si era accorto si trovasse.
Dimenticò la porta e alzò lo sguardo in cerca dei ragazzi. All’improvviso fu come se qualcuno avesse acceso il volume della televisione sparandolo al massimo. Kagura e Shinpachi erano seduti a tavola che bisticciavano animatamente tra loro su qualcosa che Gintoki non colse davvero. Shinpachi stava sgridando Kagura che, replicando con la bocca piena, stava spargendo riso e uovo ovunque.
E così l’avevano lasciato a morire per terra eh?
Mocciosi ingrati.
Nonostante tutto un sorriso caldo e sincero gli si disegnò sul volto anche se, in profondità, sentiva anche qualcos’altro. Una strana sensazione di nostalgia gli attanagliava il petto, lasciandolo perplesso.
Gli mancavano.
I ragazzi gli mancavano terribilmente.
Ma non aveva senso no?
Erano lì, davanti a lui, dov’erano stati tutte le mattine da molto tempo a quella parte e dove sarebbero stati di nuovo il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Perché allora si sentiva così?
Perché provava una nostalgia così forte da fargli inumidire gli occhi?
 
Allungò una mano per sfiorarli e improvvisamente si accorse che era solo in cucina, e che le loro voci insieme all’abbaiare forte di Sadaharu provenivano adesso dall’ufficio.
Quanto tempo era stato imbambolato a guardarli per non essersi reso conto che erano andati di là?
Si spostò sulla soglia per raggiungerli ma poi si fermò lì, appoggiandosi allo stipite, improvvisamente troppo stanco per fare qualsiasi altra cosa.
Kagura si era messa a pancia in su su uno dei divani, con le gambe a penzoloni sullo schienale e aveva acceso la tv su una delle solite telenovele che si sciroppava sempre. Aveva in bocca un’alga sottaceto presa chissà dove e dipinta in viso un’espressione che ricordava molto quella da pesce morto di Gintoki.
Shinpachi invece stava cercando di spazzolare un poco collaborativo Sadaharu, sbraitando prima contro il cane, poi contro i peli, poi contro Kagura che non stava muovendo un dito per aiutarlo, e poi di nuovo contro i peli. Ormai il ragazzo era sommerso dalla nube di pelo bianco che svolazzava attorno a lui, strappando una risata alla padrona del cane, alla quale non poteva importare di meno delle fatiche dell’amico.
Gintoki sorrise ancora e di nuovo quella strana sensazione di nostalgia spense subito la sua espressione allegra. I ragazzi erano lì, a portata di mano, eppure era come se fossero irraggiungibili. Gli sarebbe bastato fare qualche passo e avrebbe potuto accarezzare la testa di Kagura, spolverare le spalle di Shinpachi da tutti quei peli e dare un bocconcino a Sadaharu, ma qualcosa dentro di lui gli stava dicendo che era impossibile.
 
All’improvviso qualcuno bussò alla porta.
Gintoki istintivamente si diresse nel corridoio per aprire, ma poi un capogiro lo fece desistere. Si guardò intorno e ormai era quasi sera. Quanto aveva bevuto la sera prima per stare così male e non rendersi conto del passare del tempo?
I ragazzi dovevano essere usciti con il cane nel frattempo, l’ufficio era di nuovo silenzioso e vuoto.
Chiunque avesse bussato prima bussò di nuovo e poi, stanco di aspettare, si decise a entrare.
Gintoki rimase ad osservare dallo stipite della porta della cucina a cui ormai si sorreggeva in pieno e vide Hijikata togliersi le scarpe e avanzare tranquillamente nel suo appartamento.
Avevano appuntamento quella sera?
Si era scordato?
In preda al panico si nascose dietro l’ingresso della cucina e il vicecapo demoniaco non parve accorgersene poiché si sedette tranquillamente su uno dei divani, quello di spalle alla porta della cucina, e si accese una sigaretta. Gintoki rimase lì dietro a osservarlo, guardando le sue dita sottili che stringevano la sigaretta e le sue labbra morbide che soffiavano fuori il fumo.
Era così giovane e bello.
Giovane?
 
Il rumore della porta d’ingresso seguito da delle grida lo distrasse. Erano tornati i ragazzi.
Kagura si lanciò in braccio a Toshiro, più per infastidirlo che per altro, e si mise a fargli i dispetti. Shinpachi accese tutte le luci e brontolò qualcosa sul preparare la cena, salvo poi essere trascinato da Kagura a sua volta sul divano, mentre un esasperato Hijikata cercava di stare a sedere dritto e di spegnere la sua sigaretta non su uno dei presenti che lo stavano travolgendo.
La nostalgia che Gintoki provava si fece più forte.
Quella gabbia di matti era la sua famiglia, voleva soltanto andare lì e abbracciarli tutti. Stringere a sé i suoi figli, spettinare Kagura e farle i dispetti, incoraggiare Shinpachi, prendere per mano il suo partener e scappare in un posto in cui potessero fare l’amore.
Ma dentro di lui sapeva, sapeva, che non poteva semplicemente unirsi a loro.
Solo ora lo capiva davvero.
 
Allungò una mano verso di loro e quel quadretto che tanto agognava svanì nel nulla.
Le luci si spensero e l’appartamento si rivelò per quello che era: un vecchio ufficio dismesso da anni.
 
“Gin-chan! Gin-chan!”
Qualcuno lo chiamò da fuori, distraendolo.
La porta scorrevole dell’ingresso si aprì, questa volta davvero, ed entrò una ragazzina coi capelli arancioni raccolti ai lati della testa. Non poteva avere più di 13 anni.
“K-kagura-chan?” chiese ancora un po’ confuso Gintoki, la realtà e l’illusione che si mescolavano ancora un po’ nella sua mente.
“La nonna? È qui sotto che ti cerca insieme al vecchio patts- a Shinpachi-san. Tutti ti stiamo cercando Gin-chan! Si sono preoccupati molto. Cosa ci facevi qui su? La nonna dice che non vivete più qui da taaaanti anni”
“Io… Bhè, devo essermi perso, e inconsciamente sono tornato qui. Poi mi sarò addormentato” abbozzò, ravvivandosi i capelli ormai più grigi che argentati. Non era sicuro di essersi effettivamente perso, ma come fosse finito lì proprio non se lo ricordava.
“Bhè forza, dobbiamo andare giù. Ti stanno aspettando tutti. Vedrai vedrai, ti piacerà un sacco.”
“Perché siete tutti qui?” chiese il samurai, ancora un po’ confuso, mentre la piccola yato lo prendeva per mano trascinandolo all’ingresso.
“Ma come Gin-chan, non ricordi?” disse la ragazzina aprendo la vecchia porta e aiutando Gintoki a scendere le scale. Arrivarono di fronte al bar del piano di sotto dove lei bussò piano.
La porta si aprì, rivelando diverse persone e una grande torta panna e fragole con un 78 che campeggiava in cima.
Erano tutti lì.
La sua famiglia era lì.
Dove effettivamente abitava, da quando fare le scale tutti i giorni era diventato un problema.
E questa volta ciò che vedeva era reale, poteva allungare una mano e toccarli, se soltanto avesse voluto.
Nessuno di loro viveva più con lui, Kagura e Shinpachi si erano fatti la propria famiglia da diversi anni ormai e avevano i loro figli e i figli dei loro figli a cui badare.
Il suo cervello bacato doveva avergli tirato quel tiro mancino proprio in concomitanza con questa festa perché sapeva che avrebbe rivisto tutti quanti. Però quello stupido cervello non aveva tenuto conto di una cosa. Non vivevano più insieme, era vero. Ed era anche vero che quel periodo gli mancava terribilmente.
Ma la sua famiglia non se n’era andata.
Erano sempre lì gli uni per gli altri.
E anzi, dove prima c’erano solo un samurai triste e solo e due ragazzini senza un padre ora c’era una famiglia numerosa, almeno due generazioni di persone che non sarebbero state lì senza di lui e senza le quali lui non sarebbe stato lì.
Yorozuya… Per sempre.
 
“Buon compleanno Gintoki” gli sussurrò poi qualcuno al suo fianco, e il samurai si voltò solo per trovare il volto di Hijikata che gli sorrideva. Era invecchiato parecchio dalla sua visione di prima, ma era ugualmente bellissimo e, sorprendentemente, era perfino arrivato alla pensione.
“Va tutto bene? Non ti trovavamo” gli chiese poi ancora l’ex shinsengumi, passandogli dolcemente una mano sulla schiena.
“Già Gin-san, ci hai fatto preoccupare” aggiunse Shinpachi, sistemandosi gli occhiali e ravvivandosi i capelli, ormai brizzolati.
“Non andartene più via così, Gin-chan. Non rimarrai giovane e bello per sempre come me, tu devi fare attenzione!” ridacchiò Kagura, che non dimostrava assolutamente i suoi oltre 60 anni, i capelli ancora folti e arancioni e giusto qualche accenno di ruga.
 
Gintoki sentì gli occhi inumidirsi, dopo tutti quegli anni ancora non poteva credere che tutte quelle persone fossero lì solo per lui. Che si preoccupassero per lui in quel modo. Li stava fissando inebetito e vagamente sorpreso, finché a turno non ripresero a chiedergli se andasse tutto bene.
Il samurai coi capelli argentati li ringraziò e balbettò delle scuse, passandosi una mano tra i capelli.
 
“Dai andiamo, stiamo aspettando solo te per cominciare” trillò la Kagura, saltellando vivacemente senza nulla da invidiare alla sua nipotina di svariate decadi più giovane e tirandolo per una manica.
“Solo un attimo Kagura” le rispose Gintoki, poggiando una mano su quelle della ragazza invitandola a lasciare la presa.
Il samurai si voltò e si diresse verso l’entrata ancora aperta del bar, con una mano mimò un gesto di saluto rivolto al nulla, quasi come se stesse salutando qualcuno che guardava da fuori, e infine chiuse la porta davanti a lui, rendendo impossibile per chiunque vedere altro che il vecchio edificio sgangherato.
  
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