I
Esplose di colpo, scuotendo le pareti. Nel torpore del crepuscolo, Vincenzo Bernardi si alzò di scatto dal divano dov’era sprofondato mezz’ora prima e si affacciò precipitosamente alla finestra, ancora stordito e confuso. Appena però la lucidità tornò a permeare il suo cervello, comprese che lo scatolone che si trovava sul selciato, probabilmente caduto dal carretto che si trovava al suo fianco, era stato la causa del fragore precedente. Imprecando, tornò sui suoi passi, intenzionato a riprendere la lettura che aveva interrotto bruscamente e ripiombare nella sonnolenza. Ormai però la magia era stata infranta, e dopo dieci minuti Vincenzo seppe che non sarebbe più stato possibile per lui sonnecchiare come prima. Contemplò il vuoto per qualche secondo, assorto nella riflessione; poi si alzò, s’infilò una maglietta, un paio di pantaloncini e le scarpe, e decise di affrontare l’afa di una serata di metà luglio.
Varcata la soglia, Vincenzo iniziò a dirigersi automaticamente verso la propria meta, ignorando completamente la parete esterna della propria abitazione, la quale generalmente si attirava almeno un attento sguardo, se non un fischio di ammirazione, da parte di una gran quantità di passanti. Vincenzo aveva la fortuna di abitare in un alto palazzo, dirimpetto a un canale: due massicci portoni verniciati di verde e due file successive di finestre ad arco veneziano indicavano l’esclusività della dimora, mentre la sua locazione indicava la sua antichità.
Qualunque turista, o semplicemente chiunque non abbia un buon senso dell’orientamento, ha serie difficoltà ad addentrarsi nel dedalo di calli che costituisce Venezia, e ormai questo è un postulato riconosciuto. Tuttavia Vincenzo, ragazzo di vent’anni di cui diciotto abbondanti vissuti nella città di cui sopra, poteva permettersi il lusso di abbandonare la mente ai propri pensieri lasciando che le gambe lo portassero dove voleva. Studiando Filosofia all’università, era inevitabile che il suo carattere fosse portato alla riflessione su ogni branca dello scibile.
I passi di Vincenzo lo portarono a raggiungere un bel campiello, il cui pozzo centrale era stato decorato con graziosi cestini di fiori multicolori. Le pareti delle case e le loro finestre si affacciavano sul campiello, ma Vincenzo non vi prestò attenzione, sostando soprapensiero di fianco a un portone. Suonò a un campanello e la risposta non tardò ad arrivare via citofono.
“Chi è?”
“Vincenzo. Vuoi fare due passi?”
“Non chiedo di meglio. Aspetta un minuto”.
Dopo un buon quarto d’ora, si aprì il portone e Vincenzo accolse chi ne usciva con un ampio sbadiglio.
“Stavi forse cercando la …bellezza perduta sotto al letto? E’ tempo sprecato”
“Buonasera anche a Lei, galantuomo”, rispose Nadia.
Nadia era coetanea di Vincenzo, ma studiava Chimica e abitava in un luogo decisamente più modesto. Osservandoli camminare, si sarebbe potuto scambiarli per fratelli, o almeno parenti stretti: stessa altezza, stessa magrezza, stesso passo scattante e una spiccata attitudine per l’ironia e il sarcasmo. Erano al contrario due amici, ma non di vecchia data, essendosi conosciuti all’università da appena un anno. Si erano ritrovati immediatamente in sintonia, e ormai era come se si conoscessero da sempre.
“Che mi racconti?”, chiese Nadia, riavviandosi la coda di cavallo castana.
“Ti racconto che ho sonnecchiato fino alle otto e mezzo, finché un dannato scatolone caduto lì nella fondamenta non ha deciso di cadere riscuotendomi dalla mia meditazione”
“Un’attività proficua e stimolante, direi. Almeno io ho studiato Nomenclatura Organica”
“Dio mio, allucinante. Mi chiedo come tu faccia”
“
Presero un gelato, passeggiarono ancora un po’, e infine si congedarono di fronte al portone di Nadia. Vincenzo tornò a casa propria, e notò immediatamente che sulla propria entrata si stagliava l’alta figura di Claudio, il suo patrigno.
“Vincenzo, ma dove diavolo eri finito?”
“Gironzolavo, Claudio, ma perché ti preoccupi tanto?”
“Serviva il tuo aiuto di sopra”
Vincenzo sbuffò accigliato. Non aveva cattivi rapporti col suo patrigno, ma non poteva fare a meno di sentirsi, in quell’abitazione che apparteneva a Claudio, come un’ospite fisso da sfruttare. Una sorta di maggiordomo senza salario.
Sapeva che con la locuzione ‘di sopra’ Claudio si riferiva al piano superiore, costituito da un altro appartamento esteso quanto quello inferiore, dove abitavano. L’intenzione era quella di affittarlo, pertanto si stava procedendo a un’opera di ristrutturazione che, laddove era possibile, era eseguita direttamente dalla famiglia. Cioè da Vincenzo.
“Cosa bisogna fare, alle dieci di sera?”
“Alle dieci di sera nulla, ma se ci fossi stato prima sarebbe stato ancora possibile. Comunque, bisognerebbe verificare come sono state dipinte le pareti, e se mancano ancora delle porzioni da imbiancare”
“D’accordo, sarà fatto, signor padrone”, rispose Vincenzo con stanchezza, avviandosi in camera sua e preparandosi a una notte molto afosa e spossante.
II
Vincenzo era ancora in pigiama quando si diresse al piano superiore, con tutta l’intenzione di sbrigare la faccenda in pochi minuti, quando una voce piuttosto penetrante gli trapassò i timpani come una scarica elettrica.
“…Bisognerebbe fare anche qualcos’altro!”
La voce di sua madre era sempre stata sonora e, spesso, molto irritante.
“Cosa di preciso?”, chiese Vincenzo, avvertendo un presagio di sventura. Ma la voce di sua madre bofonchiò qualcosa di intenzionalmente non udibile, il che significava che lo voleva avere di fronte agli occhi.
Vincenzo strascicò i piedi fino alla cucina, dove sua madre e Claudio stavano facendo colazione, e ripeté la domanda. Per tutta risposta, sua madre Veronica indicò uno spazzolone con relativo secchio posato lì accanto.
“Cosa diavolo…”
“E’ il caos lì sopra. I pittori hanno lasciato il pavimento in uno stato pietoso, nonostante i teli di copertura. Prima che arrivi la sarta per i divani, sarà bene dare una pulita”
Detto così sembrava un lavoretto di non troppa fatica, ma lucidare dalla vernice trecento metri quadri di appartamento era decisamente gravoso. Vincenzo, schiumante di rabbia, volò in camera sua, si lavò, indossò la maglietta e i pantaloncini più logori che possedeva e, dopo aver afferrato in fretta e furia il secchio e lo spazzolone, si avviò verso le scale prima di cominciare a litigare con tutti.
Una volta che Vincenzo ebbe schiuso le tende delle finestre dell’appartamento al piano superiore, esso si rivelò coperto di polvere opaca. Se non fosse stato per le impalcature e per il forte odore di vernice, trovarcisi dentro sarebbe stato un vero e proprio tuffo nel passato. La mobilia risaliva agli ultimi anni dell’Ottocento, così come le porte e le sontuose maniglie di rame che le decoravano, le quali costituivano il passaggio tra una quantità tale di stanze e corridoi da sembrare un labirinto. Vincenzo sapeva che alla sera quello diveniva un luogo pur suggestivo, ma inquietante. Ad ogni modo, ora era troppo impegnato a ripulire i pavimenti per rimuginare a questo proposito.
Come aveva previsto, il caldo e la vastità della superficie di lavoro lo fecero sfiancare da subito. Era giunto a metà della grande sala che fungeva da salotto, quando, per la sesta volta, urtò accidentalmente un tavolino a tre gambe. Ebbe il terrore di aver rotto il soprammobile in pietra che raffigurava Piazza San Marco che stava lì sopra, ma un inarticolato grugnito di irritazione gli sfuggì dalle labbra quando udì il tintinnio di una vite che si era staccata dal mobiletto.
Si gettò carponi sul pavimento per cercarla, e si rese conto per l’ennesima volta dell’ambiguità dei pavimenti alla veneziana: da un lato, la loro bellezza era inequivocabile; dall’altro, la fitta trama di zollette di vetro colorato che li costituiva li rendeva dannatamente odiosi quando fosse necessario ricercare piccoli oggetti su di essi. Strisciando come un militare e osservando controluce, Vincenzo impiegò più di un quarto d’ora prima di rinvenire la vite sotto le tozze gambe di un’enorme libreria.
La vite era infatti rimbalzata e rotolata fino alla stanza che Vincenzo preferiva in entrambi gli appartamenti: lo studio. Rialzandosi trionfante, la vite stretta fra il pollice e l’indice, la sua attenzione fu attirata ancora una volta da quel locale. Era una stanza alta sette metri, le cui pareti erano nascoste da enormi, antichi scaffali altrettanto alti, colmi di libri ingialliti dal tempo. Un’ala della libreria conteneva volumi liberi dallo strato di polvere che ricopriva gli altri, e questi erano quelli che non erano sopravvissuti alla divorante passione per la lettura di Vincenzo.
disse fra sé che, già che c’era, nulla gli sarebbe costato mettere da parte il nuovo volume che avrebbe letto. Frugò tra gli scaffali, riempiendosi le mani di polvere.
‘ “L’arte
dell’orticoltura”…no, non ci siamo. “Manuale di meccanica idraulica”: nemmeno
per sogno. Hmm… “De vita operisque Andreae Palladii”, questo fa per
me!’
Vincenzo amava la lingua Latina, appresa ai tempi del liceo, alla quale dedicava spesso il proprio tempo libero riservato alla lettura, così come si appassionava di arte. Estrasse il tomo e se ne sarebbe tornato subito al lavoro, se non fosse stato per il dorso del libro, che si staccò di netto e rimase lì sulla libreria. Vincenzo fece per afferrarlo, ma quello opponeva resistenza.
‘E’ incollato alla
parete’.
Vincenzo sfrecciò nel salone, e afferrò una cazzuola abbandonata lì dagli operai. Con quella, lentamente, scrostò la colla che fissava il dorso del libro al muro retrostante, che non era stato ridipinto. Una volta rimosso l’oggetto, lo sguardo di Vincenzo si posò sulla parete.
In verticale, con grafia sghemba, sottile e minuta, era scritta una frase. Poche parole, illeggibili da quella distanza. Vincenzo avvicinò il viso, incuriosito, ma non riuscì a leggere tutto. Notò solo che in alcuni punti la scritta era più sbiadita o nitida che in altri. Volò al piano di sotto, dal quale riemerse cinque minuti dopo con un bloc notes, una penna e una grossa lente d’ingrandimento, grazie alla quale copiò la frase, la lingua fuori dai denti per lo sforzo di concentrazione.
Bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani.
Il cervello di Vincenzo ebbe un guizzo di memoria, e per un istante avrebbe potuto giurare di sapere per certo che quella era una citazione e da dove provenisse, ma nell’istante successivo l’impressione, pur rimanendo chiara, aveva affievolito il suo contenuto, e a Vincenzo sfuggì il ricordo. Era sicuro che fosse una citazione tratta da un’opera letteraria, ma quale? Aveva un fortissimo sentore di saperlo.
Vincenzo abbandonò completamente il suo lavoro di lucidatura, tolse la copertura impolverata da una delle quattro poltrone del salone, e vi si sedette, con il bloc notes in mano, la mente concentrata sul foglietto. Voleva scoprire con certezza qual’era l’opera citata. Aspettò l’ispirazione per qualche minuto, finché questa lo colse improvvisamente, illuminandolo.
‘E’ un’opera
letteraria di sicuro, ma in prosa o in poesia?’
Trovò la risposta abbastanza semplicemente. La cadenza musicale del passo lo indusse a pensare a che fosse effettivamente derivato da un componimento poetico. Afferrata la penna, e scribacchiato qualcosa nel foglietto, Vincenzo ne uscì poco dopo con aria trionfante.
Bolle l’inverno la tenace pece
A rimpalmare i legni lor non sani.
Scritta in questo modo, la frase appariva costituita da due
endecasillabi, il verso classico della poesia italiana. Non
solo: le cognizioni, limitate ma precise, che Vincenzo possedeva in campo
letterario gli permisero di osservare che il primo verso possedeva un accento
tonico sulla quarta sillaba, corrispondente alla e di ‘inverno’: in letteratura, viene definito endecasillabo a minore. Il secondo lo possedeva
invece sulla sesta sillaba, sulla e di
‘legni’, e viene detto a maiore.
Vincenzo si grattò il mento con la penna, pensoso. Il componimento era in rima o no? Non poteva saperlo. Essendo i versi unicamente due, non aveva elementi sufficienti a sostegno dell’ipotesi. Ma il linguaggio, il linguaggio di quello scritto gli solleticava il cervello; lo conosceva già. Era una situazione davvero irritante. Forse Petrarca…?
Bussarono alla porta dell’appartamento, e Vincenzo si scosse di colpo. Andò ad aprire, e Claudio si presentò sulla soglia.
“A che punto sei?”, chiese in modo neutro.
“Beh…Metà del salone è fatta”, rispose Vincenzo, colto di sorpresa. Claudio sbuffò di impazienza.
“Non prendertela troppo comoda. Sono le undici. A mezzogiorno, io e tua madre usciamo, pranziamo con dei colleghi”
“E Davide?”
“Viene con noi”.
Davide era il figlioletto che Claudio aveva avuto con la precedente moglie. Aveva poco più di sei anni, e Vincenzo non poche volte doveva badare a lui in assenza del padre e della matrigna.
“Ottimo, allora non preoccupatevi per me: sopravvivrò da solo per qualche ora”
“Veramente dovrai sopravvivere per tutto il giorno”, rispose Claudio, acido. “Io e tua madre staremo fuori fino a domattina. Siamo stati ospitati dai Morasco, stanotte, e torneremo domani pomeriggio”
“Ancora meglio! Almeno vi levate dai piedi. Niente paura, signor generale, entro domani qui sopra sarà tutto lucido come uno specchio”
Claudio si voltò, spazientito dal pungente sarcasmo di Vincenzo, borbottando qualcosa. Il ragazzo chiuse la porta, e si rimise al lavoro fino a dieci minuti dopo mezzogiorno, dimenticando completamente il suo cruccio precedente. Tornando in casa, dedusse dal silenzio che vi regnava che ormai se n’erano tutti andati. Quindi, corse al telefono e compose un numero che ormai aveva imparato a memoria.
“…Pronto?”
“La ditta Bernardi le offre in data odierna vitto, alloggio ed eventuale pernottamento. Accetta?”
“Oh, bene. Mi dia venti minuti”
Così si presentava la grande maggioranza delle conversazioni telefoniche fra Vincenzo e Nadia: chiara, concisa, ironica. Il campanello squillò diciotto minuti dopo, confermando il fatto che la ragazza detestava arrivare in ritardo agli appuntamenti.
“Allora, chef, qual è la specialità della casa?”, chiese Nadia sorridendo, appena ebbe varcata la soglia.
“Quel che il frigorifero permette”, rispose Vincenzo. “Magicamente, quando sono solo scompaiono i viveri. Ma della pasta c’è sempre, anche per i reietti”
Pochi minuti dopo, mentre in una pentola bollivano borbottando degli spaghetti, Nadia spiegava a un Vincenzo non troppo interessato il risultato dei suoi ultimi studi.
“…Insomma, se non fosse per carbonio e idrogeno, tu e io non saremmo qui a parlare di Chimica”
“Il che non sarebbe nemmeno una grande disgrazia”, commentò il ragazzo.
“Ma dai! Però è interessante sapere che è probabile che le prime molecole organiche del nostro pianeta potrebbero essersi formate in seguito all’impatto di meteoriti contenenti carbonio”
“Già, entusiasmante. Per quanto ne so, l’astronomia potrebbe tornare al modello aristotelico-tolemaico senza che il moto della Luna ne risent…”
Vincenzo si bloccò, e Nadia lo osservò mentre spalancava la bocca e alzava l’indice come folgorato da una rivelazione divina.
“Controlla la pentola, arrivo subito!”
Vincenzo sfrecciò nello studio dell’appartamento dove abitava. Il suo cervello aveva connesso le informazioni provocando una sorta di cortocircuito mentale: il modello cosmologico di Aristotele, c’era chi lo aveva usato per i propri scopi letterari!
Il ragazzo tornò in cucina di corsa, dove Nadia aveva già scolato la pasta e messo i piatti in tavola. Si sedette, e posò il libro che aveva estratto dallo scaffale sul tavolo.
“Tu detesti la letteratura. Però voglio raccontarti una curiosità che mi è capitata un’ora e mezzo fa”.
E raccontò quanto era accaduto al piano superiore, mentre Nadia lo seguiva passo passo, preparando al problema la sua mente scientifica e analitica.
“Quindi, non hai scoperto l’opera da cui è tratta la citazione, no?”
“L’ho scoperto cinque minuti fa”, rispose Vincenzo, indicando il libro. “Dopo che mi hai fatto ricordare il modello cosmologico di Aristotele. Ti ricordi com’è stato immaginato da lui lo spazio?”
“Vagamente. Mi ricordo che non concepisce il vuoto, e che tutto è immaginato come una specie di matriosca…”
“Esattamente. Secondo Aristotele, lo spazio è geocentrico;
vale a dire che al centro di tutto si trova
Il silenzio di Nadia lo esasperò. Com’era possibile che non ricordasse una delle più grandi opere della letteratura mondiale, studiata, per giunta, appena un anno prima?
“Davvero non ricordi di quel tale che si è preso la briga di visitare questo apparato cosmologico inesistente?”
“…Dante!”
“Dante, certo! Quella frase è stata copiata dalla Commedia, ne sono certo, lo stile è quello! L’unico problema, sarà capire da dove l’ha tratta”. Vincenzo ingoiò in fretta tre enormi forchettate di pasta. “Dunque, qui si parla di pece”.
“La pece è una miscela di idrocarburi allo stato liquido”
“Certamente”, rispose Vincenzo ridendo. “Ma se non ricordo male, la pece compare solo nell’ Inferno, e non nelle altre due cantiche, il Purgatorio e il Paradiso”
“Dici in quella serie di canti dove i peccatori sono lessati nel fiume infuocato?”
“Precisamente. Vediamo un po’…”
Mentre Nadia mangiava, Vincenzo sfogliò l’opera con occhi attenti, a ricercare qualche indizio che riportasse al passo che aveva copiato. Nadia lo osservò costernata quando proruppe in un grido di gioia ai limiti della decenza.
“L’ho trovato! È il ventunesimo canto dell’Inferno. E, guarda guarda, in un certo senso ci siamo invischiati anche noi, in quella pece. Senti”
Vincenzo lesse:
“Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -:
tal, non per foco ma per divin'arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.”
“Capisci, Nadia? Dante fa un paragone tra la pece del fiume infuocato – il Flegetonte – e la pece che vide ribollire nei cantieri…dell’Arsenale di Venezia, per l’impermeabilizzazione delle navi!”
Nadia era concentrata, ma perplessa. “E’ chiaro, ma non riesco a capire il motivo della citazione, lì sulla parete. Dal tuo entusiasmo deduco che tu pensi che vi sia un senso, una logica, e che forse questi versi siano il primo anello di una catena di cui non conosciamo la fine. E se invece fossero stati scritti solo per vezzo?”
“Cosa vuoi dire?”
“La tua casa risale perlomeno al Quattrocento, all’apice della fortuna di Venezia. I suoi inquilini furono, e sono sempre stati, di nobile stirpe. E a rimarcare sia lo splendore della città, sia il rango delle famiglie, non è raro trovare nelle abitazioni opere d’arte visiva o letteraria”
Vincenzo si rabbuiò un poco, e per qualche secondo la sua fronte si aggrottò, mentre il suo sguardo cadde a terra. Poi rialzò le sue iridi castane sul viso di Nadia.
“E’ possibile e, anzi, probabile. Ma non ci costa oggettivamente nulla battere un sentiero altrettanto probabile, no? Non abbiamo prove a favore dell’una o dell’altra ipotesi: non ci resta che trovarle”
“Quindi, signor Holmes, cosa propone di fare?”
Vincenzo s’immedesimò nella parte che Nadia gli aveva dato, così si alzò, prese una delle pipe del suo padrino e iniziò a camminare per la stanza con fare pomposo e professionale.
“Direi di cominciare le nostre indagini a partire dall’unico fatto concreto che possediamo”, disse con voce profonda e parodica, “e cioè l’indicazione di un luogo. La nostra prima mossa sarà quella di recarci alla porta dell’Arsenale, mio caro Watson”.
Nadia applaudì divertita a quella manifestazione di spirito artistico di Vincenzo. Poi tornò seria.
“Vuoi veramente andarci?”
“Ma sì, Nadia. Ascolta: se si rivelerà una baggianata, potrai sempre considerare la nostra uscita quale una passeggiata a puro scopo ludico”
Il volto della ragazza assunse un’espressione alquanto rassegnata.
Dieci minuti dopo, i due proseguivano facendo lo slalom tra la massa di turisti estivi. Finalmente, nell’ampio Campo SS. Giovanni e Paolo, sede dell’Ospedale della città, trovarono una situazione più quieta, e poterono accelerare l’andatura.
Il portale dell’antico Arsenale si trova all’interno dell’omonima zona della città, posto parallelamente al largo canale che conduceva le navi all’interno del suo bacino. La particolarità di quel portale è quella di essere non molto imponente, ma circondato da una grande quantità di statue, risalenti a diversi periodi storici. Colpivano in modo particolare le massicce rappresentazioni di due leoni, poste esattamente ai lati del portale, eppure asimmetriche, poiché una era posta seduta con lo sguardo rivolto frontalmente, mentre l’altra, sdraiata, osservava di lato.
“Quelle due statue di leoni risalgono al periodo ellenistico”, esordì Vincenzo, scordando la nulla sensibilità artistica che contraddistingueva Nadia, che da parte sua annuì piattamente. “Dovrebbe esserci qualcosa che ci riporti al testo di Dante…”
Osservarono le statue per dei lunghi minuti, constatando che né leoni, né Nettuno, né gli altri dei pagani rappresentati erano stati citati dal Sommo Poeta.
Nadia infine proruppe in un’esclamazione di sorpresa, che scosse Vincenzo.
“Guarda lì!”
L’occhio di Vincenzo non pervenne alla vista di una statua, ma di un rilievo in marmo posto sulle mura, a sinistra del portale. All’apparenza piuttosto insignificante – non era né grande né vistoso – riempì invece l’animo di Vincenzo di euforia, poiché in esso erano citati gli stessi versi che avevano letto pochi minuti prima, scolpiti nel marmo.
“Nadia, c’è un collegamento, allora!”
La ragazza continuava ad essere scettica.
“Non lo so, Vincenzo. A me pare ancora nulla di sensazionale. Un poeta come Dante, anzi, il poeta, ha avuto un influsso tale nella nostra cultura da essere citato a destra e a manca, a maggior ragione nei luoghi menzionati nel Poema Sacro. Inoltre la targa potrebbe essere successiva alla citazione di casa tua. E poi, adesso siamo davvero in un vicolo cieco: non abbiamo nessun altro indizio che ci indichi un’ipotetica pista da seguire”.
Vincenzo dovette convenire che aveva ragione lei.
“Però…”, pensò la ragazza ad alta voce, “E’ anche possibile che la pista da seguire sia la stessa fonte che ci ha fornito gli indizi”
“Non afferro”
Nadia sfoderò le sue doti di logica senza che Vincenzo fosse preparato. “Prima ho detto che tutto potrebbe essere una coincidenza, ma la teoria della probabilità mi obbliga a considerare anche altre ipotesi. Quindi, ammettendo che non sia un caso che la citazione provenga dalla Commedia, è perfettamente plausibile che noi dobbiamo ricercare degli indizi che ci riportino a essa. In questo caso, qui dovremmo averne uno”.
Vincenzo rimase affascinato dall’ipotesi di Nadia. Il problema consisteva ora nel convalidarla o confutarla. I due quindi si rivoltarono verso il portale aguzzando la vista. Dopo poco, Vincenzo esordì nel parlare.
“Ce ne sono perlomeno due, almeno che io riesca a trovare”
“Quali?”
“I due leoni potrebbero riferirsi alla seconda delle tre fiere che Dante ritrova all’inizio del poema. Ricordi?”
“La lonza, il leone appunto, e la lupa, ricordo. È possibile. E l’altro?”
“L’altro è Nettuno. È citato nel Poema, ma solo alla fine, nell’ultimo dei canti del Paradiso”.
“Beh, mi pare che qualcosa effettivamente ci sia. D’altra
parte,
“Sì, è qui con me”
“Prova a leggere le parti dove sono menzionati il leone e Nettuno”.
Vincenzo estrasse il volume dallo zaino, lo sfogliò, e lesse:
“Ma non sì che paura non mi desse
La vista che m’apparve d’un leone!
Questi parea che contra me venisse,
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse”
Poi sfogliò ancora, arrivando al termine del volume, e lesse:
“Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno a mirar l’ombra d’Argo”
Caddero in silenzio per qualche secondo, ma entrambi sapevano che la testa dell’altro era occupata da un brusio di sottofondo, che significava carenza di idee. Poi Nadia ridiede sfoggio della propria lucidità razionale.
“Dev’esserci, se esiste, un nesso tra i due passi che hai letto. È ovvio, altrimenti l’ipotetica pista che stiamo seguendo non sarebbe più univoca, ma ambigua, e quindi impossibile da percorrere. Ma se chi l’ha ideata ha voluto che noi la calcassimo, allora dev’essere rintracciabile”
Vincenzo si rincuorò, e ritornò a ragionare.
“Già, dev’essere così”, convenne, “E deve portarci a qualcosa che conosciamo qui in città, no?”
“Con tutta probabilità, sì”
Vincenzo rilesse i versi, e poi una terza e una quarta volta. Infine, Nadia cominciò a parlare, un po’ stentatamente.
“Può darsi che…ma è assurdo…non c’è nessuna certezza che…”
“Che cosa? Certezza di cosa?”
Nadia esitò, ma infine cedette, sbuffando d’impazienza.
“E’ quanto di meno scientifico abbia mai dedotto, ma è una possibilità. Argo era la nave degli Argonauti, giusto?”
“Mi pare tautologico”, rispose Vincenzo, “Argo…nauta in Latino significa navigatore”
“Scusa, ma il Latino mi ha sempre detestata. Comunque, a Venezia parlare di navi è indubbiamente a proposito. Ma dov’è il luogo per eccellenza dove, nel Quattrocento, giungevano le navi dopo lunghi viaggi come quello degli argonauti?”
“Direi San Marco”
“Esatto. Inoltre, gli Argonauti ricercavano il vello d’oro – sbaglio? – che possiamo un po’ forzatamente intendere come metafora delle ricchezze portate dai mercanti. Mio dio, quello che sto facendo è adattare i fatti alle teorie, non viceversa! Sto impazzendo”
“D’accordo matta, sentiamo il resto”
“Il resto è ben poco. Nella Piazzetta San Marco, cosa si trova di tanto vistoso?”
“Il campanile e
“…Che sono nella Piazza, e non nella Piazzetta prospiciente la laguna. Quindi non vanno bene”
“Ma allora restano solo le colonne”, osservò Vincenzo un po’ stupito. Ma qualche secondo dopo gli si illuminò lo sguardo, sotto quello ironico di Nadia.
“La colonna con il leone, ma certo!”
“Non adagiarti sugli allori, credo che avremmo potuto scegliere un milione di nessi fra i due passi del Poema. Questo è però, forse, il più plausibile”
Erano le due e un quarto del pomeriggio quando i due ragazzi invertirono la loro rotta per dirigersi verso Piazza San Marco, per la quale ogni descrizione sarebbe trita e ritrita, tanto è nota nel mondo. Tuttavia, l’ammirazione, lo stupore, lo sbalordimento per la grandiosità di quest’opera d’ingegno umano sono propri di chiunque la visiti per la prima volta. Nadia e Vincenzo invece l’attraversarono con l’unico pensiero del disagio provocato dalla folla che ivi sostava, senza curarsi minimamente del monumentale campanile e della splendida basilica.
Le due colonne della Piazzetta San Marco sono in sostanza due obelischi, costruiti con marmo e granito, ognuna delle quali è sormontata da una statua rappresentante i due santi patroni della città. Erroneamente si crede che il santo che uccide il drago in una delle colonne sia S. Giorgio, come tipico nelle sue rappresentazioni, ma in realtà egli è San Teodoro, il primo patrono di Venezia. L’altra colonna reca sulla sua sommità il leone alato simbolo di San Marco.
“Le colonne sono senz’altro più antiche della scritta in casa mia”, iniziò Vincenzo. “Risalgono alla fine del 1100. Lo sapevi che la statua del leone è in realtà una chimera cui aggiunsero le ali?”
“Potrebbe tornarci utile”, rispose Nadia, sempre concentrata e lucida. “Esaminiamo i fatti. Abbiamo un leone, piuttosto bruttino, e San Teodoro con un drago esanime. Nella Commedia San Teodoro, che tu sappia…?
“San Teodoro no”, spiegò Vincenzo, “Ma un drago sì. Alla fine del Purgatorio è citato un drago”
“Davvero? Non avrei mai creduto. Non è Gerione, vero?”
“Gerione non è un drago. Aspetta, ora ti leggo…mi pare siano solo due terzine…aspetta…ecco:
Poi parve a me che la terra s’aprisse
Tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
Che per lo carro su la coda fisse;
e come vespa che ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.”
“Perdonami”, tentennò Nadia, “Ma puoi parafrasare?”
“Certo, figurati. Dunque, Dante vede che la terra si spacca tra le ruote di un carro apparso in precedenza, simbolo dell’istituzione della Chiesa, drago questo che pianta la sua coda in mezzo al carro e ne stacca un pezzo. Poi se ne va via strisciando”
“Mi pare un comportamento decisamente logico e motivato”
“Divertente, ma è simbolico, considerando che il drago
rappresenta Satana che attacca
“Ora è decisamente più chiaro. E adesso, però?”
“Cerchiamo qualche nesso con la città, è ovvio”
“Allora, gli oggetti citati nelle due terzine sono: la terra. Beh, Venezia sta sull’acqua, non credo potremmo metterci a scavare. Abbiamo poi le ruote, che in tutta franchezza non mi dicono nulla. E la coda, e la vespa? Abbiamo anche un ago, e un ‘fondo’”
“Non credo sia questo il punto. chiunque
ha citato
“Non stai divagando? Mi sembra un po’ campata in aria”
“Applicandolo alla nostra ricerca, lo è certamente, ma non abbiamo altro. Ci serve una Bibbia, e dobbiamo leggere il momento della tentazione a Eva”
III
Nadia e Vincenzo ritornarono sui loro passi, diretti alla casa del ragazzo. Giuntivi, ricercarono fra i volumi dello studio una delle diverse Bibbie che Vincenzo possedeva.
“Ecco, questa è abbastanza antica, forse potrebbe esserci d’aiuto. Vediamo”
Il ragazzo sfogliò il tomo dalla copertina in pelle marrone scuro della Vulgata, e si fermò in una delle pagine iniziali. Poi lesse:
“Terzo capitolo della Genesi.
1 sed et serpens erat
callidior cunctis animantibus terrae quae fecerat Dominus Deus qui dixit ad
mulierem cur praecepit vobis Deus ut non comederetis de omni ligno paradisi
2 cui respondit mulier de fructu
lignorum quae sunt in paradiso vescemur
3 de fructu vero ligni quod est in
medio paradisi praecepit nobis Deus ne comederemus et ne tangeremus illud ne
forte moriamur
4 dixit autem serpens ad mulierem
nequaquam morte moriemini
5 scit enim Deus quod in quocumque
die comederitis ex eo aperientur oculi vestri et eritis sicut dii scientes
bonum et malum
6 vidit igitur mulier quod bonum
esset lignum ad vescendum et pulchrum oculis aspectuque delectabile et tulit de
fructu illius et comedit deditque viro suo qui comedit”
“Grazie,
decisamente comprensibile”, rispose Nadia in tono acido. “Ricorda che non tutti
parlano correntemente il latino, attualmente”
“Ma certo”,
ribatté Vincenzo ghignando, “Adesso tenterò di renderlo più comprensibile. Dice
in sostanza che nel Paradiso Terrestre era presente anche un serpente, più
furbo di tutte le altre creature. Questo chiede alla donna (non si chiama
ancora Eva) se per caso Dio ha proibito a lei e ad Adamo di mangiare i frutti
del Paradiso Terrestre ed ella risponde che no, possono farlo, ma c’è un albero
al centro del campo che non possono proprio toccare. Il serpente spiega che
mangiare quel frutto comporta il possedere la conoscenza, così ella viene
tentata e lo mangia, dandone anche ad Adamo”
“La storia è
quella che si conosce fin dai primi anni di catechismo, no? Però c’è una cosa
che non mi convince. Qui si parla di un serpente, ma in effetti sulla colonna
di San Teodoro c’è un drago. Puoi trovare tutti i nessi che vuoi, ma entriamo
nell’ambito della pura speculazione”
“Qui stai
sbagliando”, spiegò il ragazzo. “Il termine latino serpens, in realtà non nasce come sostantivo, ma come participio
presente del verbo serpeo, che
significa strisciare. Quindi non indicava in particolare il serpente ma, più in
generale, i rettili striscianti, tra i quali è annoverato anche il drago”
Nadia ci pensò un
po’ su.
“D’accordo,
allora questo è sicuro. D’altro canto, questa volta siamo davvero arrivati a un
punto morto”
“Più che un
vicolo cieco, mi pare che siamo a un incrocio con infinite vie. Nel Paradiso
Terrestre ci va anche Dante, alla fine del Purgatorio.
In uno dei primi canti di questa cantica, un angelo uccide un serpente con una
spada. Nel Purgatorio sono presenti due importanti alberi. Adamo ed Eva si
trovano nel Paradiso.
“Consideriamo che
però deve avere per forza qualcosa a che fare con la città, altrimenti non ha
senso continuare”
“Ed è probabile
che sia anche collegato alla cantica del Purgatorio, data la molteplicità dei
rimandi a esso”
Nadia e Vincenzo
rimasero lì a pensare in silenzio per qualche tempo. Poi la ragazza parlò.
“Senti, sono le
cinque. Io me ne torno a casa. Ci aggiorniamo domani? Il proverbio dice che la
notte porta consiglio”
“Va bene”, disse
lui, “Ci risentiamo domani mattina. Vieni direttamente qui tu, verso le nove,
mi troverai di sopra coinvolto nei lavori forzati”
“Perfetto. Allora
a domani”
Nadia uscì, e
Vincenzo si risedette, riflettendo tanto intensamente da ricordarsi solo alle
nove e mezzo che doveva prepararsi la cena da solo. Trangugiò le uova che si
cosse, e poi si tuffò a letto.
Alle sette e un
quarto del giorno successivo, il telefono di casa Rosario squillò
rumorosamente, svegliando uno dei suoi occupanti che, vestendo una maglietta
rosa troppo larga e piena di strappi a mo’ di pigiama, s’avviò a rispondere con
gli occhi cisposi e la voce roca di chi ha dormito poco e male.
“Pronto?”
“Ehi, la
glaciazione è finita, esci dal letargo! Nuovi interessanti sviluppi, muoviti
subito, faremo colazione qui”
Nadia ci mise
qualche secondo per assimilare l’informazione, dato che la sua mente era ancora
per metà immersa in quello strano sogno che la stava facendo appagare qualche
minuto prima.
“Va bene, però la
prossima volta prova a chie – e – e - dermi per favore”
Mezz’ora dopo
Nadia raggiunse Vincenzo, che aveva imbandito la tavola della cucina con una
degna colazione inglese: Miele, marmellata, cacao, latte, succo d’arancia, té,
biscotti di vario genere riempivano la superficie disponibile. Nadia sgranò gli
occhi.
“Devi nutrire un
plotone di fanti digiuni?”
“No, ho preparato
la colazione per cinque. Tu e io mangiamo adesso; alle dieci arriveranno i
miei. Comunque, ora mangiamo e poi vieni su con me: mentre lavoriamo ti racconterò
i miei nuovi sviluppi”
“Sapevo che c’era
un trucco”, sospirò Nadia.
“Dunque, ora ti
spiego”, riprese poco dopo il ragazzo, mentre scrostava della vernice dal bordo
della finestra. Nadia, cui Vincenzo aveva prestato una brutta maglietta viola
per lavorare, era intenta alla pulizia del pavimento.
“Ho trovato due
personaggi che potrebbero calzare a pennello per la nostra teoria”
“Attento, è la
teoria che deve basarsi sui fatti. Comunque dimmi”
“Il primo che mi
è venuto in mente è stato Ulisse. Infatti, nella Commedia, anch’egli, come Eva, sfida i limiti della conoscenza
imposti da Dio e ne viene punito. Inoltre era un gran navigatore, il che si
associa a Venezia. Infine, vede la montagna del Purgatorio”
“Ok, Ulisse
sembra rientrarci. E l’altro?”
“L’altro mi
sembra ancora migliore. È l’angelo che ti avevo accennato ieri; si trova
nell’ottavo canto del Purgatorio. Adesso ti leggo”
Vincenzo si
sciacquò le mani nel secchio lì vicino, e afferrò il solito volume del Poema
Sacro.
“Tra l’erba e ‘l fior venia
la mala striscia,
Volgendo ad ora ad or la
testa, e ‘l dosso
Leccando, come bestia che si
liscia.
Io non vidi, e però dicer
non posso,
Come mosser li astor
celestiali;
Ma vidi bene e l’uno e
l’altro mosso.
Sentendo fender l’aere a le
verdi ali,
Fuggì ‘l serpente, e li
angeli dier volta,
Suso a le poste rivolando
iguali”
“Come vedi”,
ricominciò il ragazzo chiudendo il libro, “Ieri mi ero sbagliato: gli angeli
non uccidono il serpente, ma lo mettono in fuga e basta. Dicevo che questi mi
paiono più plausibili di Ulisse, perché...”
“...Si avvicinano
di più all’immagine di San Teodoro che uccide il drago”, completò Nadia.
“Esattamente. Ma
qui ogni possibile speculazione si ferma”
“E per quale
motivo?”
“Ma perché
Venezia è un ricettacolo di angeli. Pensa solo alla quantità delle chiese che
la affollano. No, non è assolutamente possibile rintracciarne uno di preciso,
supponendo che la nostra pista sia giusta. E poi non abbiamo ancora avuto
alcuna conferma”
Nadia percepì una
nota di sconforto nella voce dell’amico, e s’adattò subito per controcolpirla.
“Le conferme
dovranno uscire allo scoperto di qui a poco, perché finora è stato tutto
coerente, anche se abbiamo dovuto...forzare
un po’ i fatti a nostro vantaggio”.
“Forzare un po’
troppo, Nadia. Forse avevi ragione tu, ieri. Questa ricerca non ha
fondamento...è stata una bambinata”
Detto questo,
Vincenzo si voltò e iniziò a lucidare i vetri dei finestroni languidamente.
Nadia rimase per qualche secondo lì, piantata e sbalordita, ma poco dopo
riprese la coscienza di se stessa e andò diritta all’attacco. Afferrò il
volumone, lo aprì, vi ficcò gli occhi dentro e cominciò a misurare la stanza a
grandi passi, con decisione impetuosa.
“Allora”, esclamò
in tono autoritario, “Possiamo scartare ogni possibile riferimento ai serpenti,
perché sono quelli che ci hanno permesso di arrivare a questo indizio”
“Nadia, smettila,
non ne vale...”
“Ma”, proseguì la
ragazza intestardita, “Non possiamo ignorare quello sugli angeli, che pare
invece il punto di arrivo. Vediamo di restringere il cerchio delle nostre
possibilità. In primo luogo, essi sono due: il che riduce drasticamente la
fatica delle nostre ricerche, perché dovranno per forza essere in coppia, o
quantomeno collegati tra di loro. Inoltre, la loro prerogativa fondamentale è
quella di muoversi: ‘come mosser gli astor...’ eccetera”
“Se è per questo,
gli angeli del Paradiso di Dante
fanno anche un sacco di bei balletti e coreografie”
“Certamente, ma
non le statue delle nostre chiese! È dannatamente difficile trovarne una
semovente, a meno che non sia un golem ebraico. Questa prerogativa stringe
ancor di più il nostro cerchio”
“E quale sarebbe
il centro di questo cerchio, Sherlock?”
“Il centro, mio
caro Watson, è proprio quanto ho detto. Dobbiamo trovare le statue di due
angeli che abbiano la facoltà di muoversi, ma che sia difficile veder muovere”
Vincenzo
s’inalberò indignato.
“Ma chi ti dice
che debbano per forza essere delle statue! Abbiamo quintali e quintali di
quadri che rappresentano angeli, non solo statue!”
“Me lo dice”,
rispose pacatamente Nadia, “Il fatto che esse fuggano il serpente Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
il che implica che debbano trovarsi esposte al vento”
Vincenzo
ammutolì.
“Aggiungerei
anche che, dato l’ultimo verso, che quel rivolando
iguali indichi un movimento sincrono e che quel suso a le poste indichi una posizione sopraelevata. Dottor Watson,
credo di avere la soluzione”
“Ah sì? E quale
sarebbe, di grazia?”
“Finiamo di
lavorare, e poi ti ci porterò di persona”
IV.
Vincenzo lanciò
occhiate oblique ma incuriosite verso Nadia per tutto il tempo impiegato a
tirare a lucido l’appartamento. Ma la ragazza, lo sguardo semicoperto da un
ciuffo castano svolazzante, sorrideva in modo misterioso ed impertinente.
Vincenzo pensò che si sarebbe volentieri dato all’accattonaggio pur di
penetrare in quella che considerava una mente tanto formidabile quanto ignota.
E s’incantò.
Alle undici
spaccate, la voce della ragazza risuonò come uno squillo di trombe.
“Vincenzo, che ne
dici di scoprire qual’è stata la mia deduzione?”
Il ragazzo mugunò
un “sì”, e insieme si avviarono. Nadia guidava, e Vincenzo, benché preferisse
la tortura all’ammissione, era bramoso di sapere quale fosse quella deduzione,
cioé quale fosse la loro meta. Il passo svelto di Nadia divenne ancor più
veloce di quanto lo era normalmente, e Vincenzo faticò a tenerle dietro,
caracollando come un cane al guinzaglio trascinato dal padrone. Vide che
oltrepassarono la riva delle Fondamente Nove, di fronte alle quali si osserva il
cimitero della città, l’isola di San Michele; vide che oltrepassarono anche il
campo dei santi Giovanni e Paolo; vide che attraversarono anche il campo di
Santa Maria Formosa, dedicato alla soavità del corpo della Vergine. Infine, si
ritrovarono in campo San Zaccaria, di fronte alla famosa e omonima chiesa.
“E’ qui?”, chiese
Vincenzo, ansante.
“No”, rispose
Nadia. “Ho voluto allungare un po’ la strada. Sai...la suspance”
Vincenzo imprecò
in Latino.
Imboccarono la
grande Riva degli Schiavoni che, come ogni buon veneziano sa, e anche ogni buon
turista, porta alla famosa Piazza San Marco che già prima avevamo visto.
Vincenzo ebbe la stessa impressione di reiterazione.
“Nadia, qui ci
siamo già stati”
“Vero”, ribatté
lei sfrecciando nella piazzetta, “Ma avevamo gli occhi foderati di prosciutto,
mortadella e insaccati vari. Guarda!”
Il ragazzo posò
lo sguardo verso l’indice della ragazza, che puntava in avanti. Lo seguì, e
arrivò con la vista all’isola di San Giorgio, di fronte alla piazza.
“E guarda ancora”
Nadia ripuntò
l’indice verso l’alto, e Vincenzo potè osservare per la milionesima volta in
vita sua la cuspide del paron de casa,
cioè del campanile di San Marco.
“Non capisco”
“Guarda meglio e
più in alto!”
Vincenzo stava
irritandosi. Spazientito, osservò la piramide allungata che costituiva la punta
del campanile, i rilievi che ivi si trovavano e, proprio in cima...
“Un angelo. Beh,
d’accordo, ma l’avevo scartato in partenza. È troppo ovvio e senza alcun
riferimento al testo”
“Ah no?”, esclamò
Nadia, tra il sarcastico e l’intollerante. “A San Giorgio, qui di fronte, c’è
un altro campanile, e sulla sua cima un altro angelo. Ne abbiamo due. Sai a
cosa servono?”
“A niente, sono
solo decorativi”
“No, ignorante! Quei
due angeli sono segnavento! Sono, in pratica, delle grandi banderuole. Il che
significa che si muovono e, il che è
più importante, si muovono all’unisono.
Le loro postazioni sono sopraelevate. E sono logicamente sferzati dal vento. In
più, quello è l’angelo dlel’isola di San Giorgio, santo che uccise un serpens, il drago, con una spada”
Vincenzo non
sapeva che cosa dire, e non sapeva nemmeno se dire qualcosa. La teoria di Nadia
era assolutamente inattaccabile, pulita e semplice come tutte le grandi teorie
scientifiche. Calzava a pennello con quanto gli aveva appena mostrato, e si
sarebbe davvero stupito se non fossero riusciti a trovare un altro indizio. Il
punto, ora, era proprio trovarlo. Eppure...eppure il dubbio ancora lo
attanagliava. Non c’era nulla di certo, ancora.
Nadia, al contrario,
pareva determinatissima. Il suo sguardo da falco pellegrino scrutava i
dintorni, ben diverso da quello assorto e incantato di un visitatore
d’oltreoceano. Vincenzo la osservò muovere la testa in ogni direzione, lo
sguardo dapprima verso l’alto, poi sempre più in basso, per immagazzinare ogni
dettaglio. Infine, dopo questo attento esame, si voltò verso il palazzo ducale,
gli occhi bassi e pensosi, il pensiero remoto. Era concentrata, ed era una
visione davvero affascinante.
“Dannazione”,
imprecò Nadia sottovoce, “Siamo a un tiro di schioppo dalla soluzione, e non ci
sono dati a sufficienza! Non è possibile, deve
esserci qualcosa che non abbiamo preso in esame!”
“Nadia, io ti
avevo detto che...”
“No, lascia
perdere. Possiamo tornare da te? Vorrei vedere di persona quella scritta sul
muro che hai trovato ieri mattina”
“Oh, d’accordo,
volentieri, ma non ci sarà d’alcun aiuto”
Venti minuti dopo, i due ragazzi salivano le
scale per il secondo appartamento del palazzo di Claudio. Nadia era
agitatissima, e Vincenzo ricordò di averla vista in quello stato solo in
occasione di problemi di Stechiometria davvero complessi.
“Dobbiamo
rivedere quella scritta, riseguire la pista e crearne una nuova, se necessario,
ma dev’essere coerente, c’è una logica di fondo!”
La ragazza
afferrò la lente d’ingrandimento rimasta nella sala dal giorno prima e si
precipitò nello studio.
“Ora sì che sembra davvero Sherlock Holmes”,
pensò Vincenzo ghignando.
“Dunque...”,
borbottò Nadia a se stessa, “Tu hai
copiato certamente la frase com’è scritta qui...ma, aspetta, abbiamo trascurato
qualcosa? Pare scritta con una punta molto sottile...una penna d’oca? Dettaglio
insignificante, senza dubbio. Ma l’inchiostro non è uniforme”
“Sarà sbiadito
per il tempo, Nadia, quella citazione avrà almeno quattrocento anni”
“No, non è
sbiadita”. La ragazza cominciava ad avere le mani sudate per l’eccitazione. “Se
fosse sbiadita, l’inchiostro sarebbe sfumato in modo uniforme, ossia tutta la frase sarebbe divenuta opaca.
Invece si sono opacizzate solo alcune lettere. Escluso che tu abbia una serie
di microinfiltrazioni di umidità che casualmente
colpiscono in pieno alcune di queste lettere, deduco che alcune sono più nitide
e altre più esili a causa della volontà di chi le scrisse”
“Beh, segnamole
allora”, rispose Vincenzo stancamente.
“Prendi il blocco
e scrivi...allora, le lettere in grassetto sono
Vincenzo allargò
il sorriso mano a mano che scriveva, e il cuore di Nadia ebbe un sussulto nel
vederlò così.
“Nadia, ci siamo.
VIII PG. Sai cosa significa?”
Sì, lo sapeva
già. “Ottavo canto della cantica del Purgatorio,
è dove siamo arrivati! Avremo potuto risparmiarci tutto il viaggio di ieri e
oggi, ma avevamo ragione!”
“Ciò significa”,
dichiarò Vincenzo in preda all’estasi, “Che quel canto è la chiave di tutta la
questione”. Riprese quindi in mano il volumone della Commedia. ‘Finalmente una conferma tangibile!”
“Sarà dura
decifrare tutto il canto, sono 139 versi”
“Ma tu dovresti
conoscerlo discretamente bene”
Vincenzo guardò
la ragazza senza capire cosa volesse dire.
“Insomma, se hai
almeno un’idea di quel che parla, ci sarà sufficiente trovare riscontri
plausibili. Proviamo. Cosa narra il canto? Non fare quella faccia: so che le
Lettere e
La lode
inaspettata, sapientemente utilizzata da Nadia, colpì Vincenzo come una freccia
di Eros. Arrossì, tossicchiò, e spiegò in sintesi il contenuto del canto.
“Dunque, Dante si
trova nell’Antipurgatorio, e infatti deve ancora scalare la montagna che
costituisce il Purgatorio vero e proprio. Si trova ancora nella Valle dei
Principi, che accoglie i sovrani che furono negligenti. Al tramonto, un’anima
si volta verso Est, e di seguito tutte le altre, e in quel momento giungono nel
luogo due angeli, vestiti dei tre colori delle virtù teologali: spade rosse di
fuoco per
Vincenzo si
bloccò, perché Nadia lo fissava e ascoltava come rapita.
“Continua”, lo
incitò con calma.
Il ragazzo
deglutì. “Sordello, il poeta latino che accompagna Dante e Virgilio, spiega che
sono inviati da Maria,
Nadia ritornò
alla sua tipica espressione riflessiva, mentre Vincenzo tuffava lo sguardo nel
testo poetico del canto.
“E’ emblematico
che in quel canto si parli di principi: posizione sociale elevata, con la quale
s’identificavano gli occupanti di questa casa. Tralasciamo angeli e serpenti;
ormai non ci servono più. Dimmi di più sui due dialoghi”
“Li sto leggendo
adesso”, disse Vincenzo con il naso fra le pagine, le spalle un po’ curve. “Ma
da quel che posso vedere, non mi pare vi siano elementi interessanti. O meglio,
potrebbero essercene un milione, ma da dove iniziare?”
“Aspetta”, lo
bloccò Nadia alzando un palmo. “Quand’è che l’anima si volge a Est?”
“Al tramonto”
“Leggimi i primi
versi del canto”. La ragazza sembrava ancor più fremente di prima.
Vincenzo si
schiarì la gola, e lesse:
“Era già l’ora che volge il
disio
Ai navicanti e ‘ntenerisce
il core
Lo dì c’han detto ai dolci
amici addio;
E lo novo peregrin d’amore
punge...”
“Sì, ma certo,
era ovvio!”
“Cosa diavolo
dovrebbe essere ovvio?”
“Un riferimento
come quello ai naviganti! Adesso sappiamo da cosa iniziare. Naviganti,
Vincenzo, naviganti veneziani del Cinquecento!”
“Ne sei certa?”
“Per nulla, ma è
molto probabile. Abbiamo un riferimento temporale, il tramonto, e uno spaziale,
l’Est. Potrebbe essere una traccia. Ci manca solo il punto di riferimento...da
cui osservare”
“Ehi, senti qui.
Sono i versi 19 – 21.
Aguzza qui, lettor, ben li
occhi al vero,
Che ‘l velo è ora ben tanto
sottile
Certo che ‘l trapassar
dentro è leggero.
Nel testo
significa che l’allegoria, secondo Dante, è di semplice interpretazione. Ma,
nel nostro caso...?”
“Può, anzi, deve
significare che la soluzione del mistero, secondo chi l’ha architettato, è
vicina...e forse è molto semplice. Mi pare, fuor di metafora, che è importante
il fatto che gli angeli siano rivolti a Est”
“E quindi che il
vento soffi da Ovest”
“Prova a immaginare
la piazza, Vincenzo. Se gli angeli hanno i volti rivolti verso Est, la linea
che li congiunge...dovrebbe passare in mezzo alle due colonne”
“E con questo?
Chi ha mai parlato di rette congiungenti?”
“Nessuno, ma se
gli angeli sono due, deve esservi un collegamento fra loro. E una congiungente
è la cosa più semplice e logica”
“Mi puzza un po’”
Ma Nadia era nel
suo elemento, e non prestava più di tanta attenzione ai commenti di Vincenzo,
concentrata com’era per sbrogliare quella matassa insolubile. Il ragazzo
rinunciò a commentare, e osservò estasiato l’amica.
“La
congiungente...ipotizziamo che possa essere corretta. Passerebbe fra le
colonne, e indicherebbe un punto dove, come ben sappiamo, non c’è assolutamente
nulla. Forse varrebbe la pena andare a controllare...Ma possibile che nessuno
si sia mai accorto che qualcosa stia in mezzo ai due pilastri, anche solo se
fosse una scritta o un rilievo?”
Vincenzo distolse
lo sguardo dall’amica per pensare, e s’incantò a mirare il cielo azzurro che
s’intravedeva tra le tende delle finestre dello studio. Mentre voltava lo
sguardo, però, una scarica elettrica lo percorse da capo a piedi.
“Vincenzo...? Sei
ammattito?”, chiese Nadia allarmata, osservando l’amico precipitarsi nella
stanza. Ma non ebbe il tempo di seguirlo: il ragazzo ritornò reggendo in mano
un massiccio e ingombrante soprammobile in pietra, che posò sul pavimento con
notevole sforzo. Nadia impallidì, ma si riprese subito.
“Potrebbe anche
essere molto recente”
“Non lo è”,
rispose Vincenzo, togliendo la polvere dal soprammobile raffigurante Piazza San
Marco. “Non vedi che è in pietra? Chi oggi fa souvenir in pietra? E poi guarda
il campanile. Non noti nulla?”
“Manca la loggia
del Sansovino”
“Esattamente, e
osserva la piazza: niente Procuratie Nuove, niente Zecca...questo soprammobile
risale al Quattrocento, prima che Sansovino ammodernasse la piazza secondo i
canoni rinascimentali. Quindi è antico! E aspetta, guarda il colore dello
sfondo, è rossastro...Questa è
Nadia impallidì
di nuovo, e il suo cuore cominciò a pulsare furiosamente contro le costole.
“Se gli angeli
sono rivolti a Est, si passa in mezzo alle colonne”, ripetè Vincenzo esaminando
l’oggetto. “E guarda un po’”
Nello spazio fra
i due pilastri c’era scritto qualcosa. Il ragazzo afferrò la lente
d’ingrandimento con le mani tremanti, e lesse:
“Aguzza qui, lettor, ben li
occhi al vero,
Che ‘l velo è ora ben tanto
sottile
Certo che ‘l trapassar
dentro è leggero.”
“Di nuovo?”, si
chiese Vincenzo, un po’ indignato.
“E’ magnifico!”,
esultò Nadia in preda all’estasi. “Un indizio concreto! Non ci resta che
interpretarlo. Aguzza...li occhi al vero.
Al vero. Cosa può significare?”
“Che Dante sapeva
che nel suo testo aveva introdotto un dogma”
“Grazie, ma qui
non parliamo di Dante, parliamo di una famiglia veneziana del Quattrocento
molto megalomane, e con molti più denari di quanti io potrò disporre per tutta
la vita”
“Scusa”
“Fa niente”,
rispose la ragazza, grattandosi la nuca. “Questo testo è dannatamente
allegorico”
“Lo è tutta
“Finora abbiamo
interpretato tutti gli indizi letteralmente, però. E se lo facessimo anche qui?
Cosa diavolo potrebbe significare aguzza...ben
li occhi al vero?”
Vincenzo sbuffò
sconsolato, e disse : “Ah, no so minga mi”.
In un baleno
Nadia s’illuminò.
“Ripeti quel che
hai detto!”
Il ragazzo era
sconcertato. Nadia si alzò di scatto dalla sedia.
“Ripetilo!”
Era raggiante.
“Ho detto... “No
so minga mi”. È dialetto...”
“Lo so che è
dialetto! Vincenzo, sei un genio!”
Il ragazzo
arrossì violentemente.
“Al vero, al vero! Quella parola, vero, non è in italiano, non significa verità!
E’ considerata in dialetto veneziano, e vuol, dire vetro!”
A Vincenzo balenò
nella mente l’immagine di Nadia con la pipa, un pastrano scozzese e un berretto
di stoffa coordinato in testa.
“Nello studio c’è
una vetrinetta”
I due entrarono
velocemente nella stanza. La vetrinetta era lì, tarlata e stracolma di libri.
Solo in quel momento Vincenzo si rese conto di quanto doveva essere antica. La
aprì con molta poca cura, e rovesciò in fretta il suo contenuto al di fuori.
Quando la svuotò, rimase deluso: era davvero vuota.
“Nadia, qui non
c’è nulla”
“Impossibile,
tutti gli indizi conducono a quella”
“Davvero,
sent...”. Vincenzo aveva mosso la mano all’interno della vetrinetta, e aveva
con enorme sorpresa scoperto che non c’era il fondo. O meglio, il fondo c’era,
ma era...
“Un velo! Il velo
della citazione!”
Il ragazzo
esplodeva dall’entusiasmo, e Nadia non era da meno. Il velo, di colore marrone
e a strie, poteva benissimo confondersi con il legno del mobile. Erano persino
stati dipinti i fori dei tarli. Dopo aver rimosso i pesetti che lo fissavano al
fondo, Vincenzo lo scostò, e infilò il braccio nella cavità. Percepì qualcosa
di ruvido e di estremamente pesante, e si stupì anche per aver trovato una conca
così profonda incavata nel muro. Doveva essere più lunga di un metro, e larga
anche il doppio.
“Nadia, aiutami
qui”
In due,
pazientemente, estrassero quanto era infilato nella cavità. Erano diversi pezzi
di pietra, in alcuni punti ben levigati, in altri come erosi, o segati. Erano
dei blocchi molto grossi e pesanti, ma che non lasciavano spazio a molti dubbi
sulla loro identità.
“Una statua...è
una statua”, disse Nadia in tono estatico. Vincenzo capì che per lei risolvere
un problema complesso, qualsiasi fosse la sua natura, era la più appagante
delle soddisfazioni.
“E che statua”.
Vincenzo aveva gli occhi spalancati e la voce gli tremava. “Non vedi cosa
rappresenta?”
“Ma è a pezzi!”
“Si capisce lo
stesso...guarda, quello è un muso. Un muso molto lungo, e dentato. Nadia,
questa statua rappresenta un coccodrillo”
“E con questo? È
antica, non importa più di tanto il soggetto”
“No, Nadia, per
niente. Una leggenda della città, ben nota in giro, narra che il giorno in cui
furono portate le due colonne della Piazza via nave, in realtà nella nave ve ne
fossero tre...scatenatosi però un violento fortunale, la terza colonna cadde in
acqua, e venne sepolta dalla melma. Recava sulla sua sommità la statua... di un
coccodrillo”
V.
Il giorno
successivo, l’abitazione di Vincenzo era invasa da funzionari del Comune, dal
sindaco e da altre autorità cittadine, mentre la statua ritrovata veniva
fotografata e documentata in ogni sua minuzia. Claudio, cui l’abitazione
apparteneva, era raggiante.
“quindi la statua
appartiene al Comune”, chiese Claudio al sindaco.
“Certamente,
signor Polato, verrà trasferita di qui a poco al Palazzo Ducale per i restauro
con una motobarca dell’Università. Chiaramente non lasceremo non premiato un
ritrovamento simile, figuratevi”
“La ringraziamo,
signor sindaco”
“Di nulla. Le
verrà consegnata la somma entro domani, tramite assegno. Ricordi che la metà
spetta di diritto al ragazzo”
Claudio
s’accigliò, mentre Vincenzo sorrideva.
VI.
Nadia era in
casa, e spolverava il tavolo per potervi posare i libri per studiare. Aveva
sperato che Vincenzo le telefonasse per congratularsi del ritrovamento, ma non
l’aveva fatto. Si sentiva un po’ tradita.
Sedette sulla
sedia dal cuscino logoro, e prese un mozzicone di matita temperata fino
all’ultimo per cominciare a bilanciare reazioni chimiche sul quaderno. In
quell’istante, suonò il campanello.
Nadia si alzò
pigramente, e andò ad aprire. Con sua sorpresa, non trovò nessuno. Stava per
richiudere, quando la cassetta della posta attirò la sua attenzione.
La ragazza afferò
la busta che vi aveva scorto dentro, e vide che era indirizzata a lei. Non
riceveva spesso posta, quindi rimase sorpresa. La scartò seduta stante, e vi
trovò un biglietto.
Hai fatto quasi tutto tu.
Questi sono tuoi.
Osservando ancora
la busta, Nadia quasi cadde a terra per lo shock quando vide l’assegno a suo
nome, e la cifra che segnatavi. Anche se la lettera non era firmata, Nadia capì
chi aveva preso a cuore i suoi interessi, e capì anche che non poteva essere
lontano.
Infilate le
scarpe, sfrecciò fuori di casa, e si precipitò correndo come una forsennata
nella direzione che aveva scelto; poche decine di metri ed eccolo lì, sui
gradini del ponte. Nadia li fece a tre a tre, e lo bloccò sul ponte stesso.
Senza dargli il tempo di parlare, lo baciò con gratitudine sulla fronte e sulle
guance. Poi gli sorrise, e se ne andò.
Il volto di
Vincenzo era in fiamme, così come la sua gabbia toracica. Osservò la ragazza
salutarlo con la mano, e continuò finché non scomparve. Poi sospirò, e se ne
andò a casa anche lui, sorridendo senza capire bene il perché.