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Autore: Redferne    24/12/2021    3 recensioni
"...Lo sai anche tu. Se vivi o ti fermi tanto e a lungo a vivere in un posto, se hai la fortuna o la disgrazia di riuscire a viverci o a fermarti tanto e abbastanza a lungo...succede che tu alla fine finisci col diventarlo.
Finisci col DIVENTARE QUEL POSTO."
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Joe Yabuki, Tooru Rikishi, Yoko Shiraki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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JOE YABUKI SI E' FERMATO A NAMIDABASHI

 

 

By Redferne

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La notte era ormai calata sul quartiere nella sua interezza, come ogni sera.

Come al termine di ogni pessima quanto brutta sera in cui doveva per forza culminare ogni squallida, arida, grigia e triste giornata.

Come da norma, consuetudine e tradizione.

Era la regola, da quelle parti. Soprattutto, da quelle parti.

La sera. E poi la notte. E con esse era venuta la nebbia. Ed era perfettamente normale anche quello, visto il periodo.

Una nebbia particolarmente densa, spessa ed appiccicosa come colla. Come carta moschicida. Che si attaccava letteralmente alle case, agli edifici e alle cadenti e malmesse baracche. Nonché alle persone. Se mai ve ne fossero state.

Già. Era solo un peccato che che non vi fosse in giro nessuno. Nemmeno un'anima. Non viva, per lo meno.

Oppure una fortuna, vista e considerata la temperatura.

Persino gli agenti del più vicino distretto di polizia dovevano aver deciso di rinuciare al solito ed usuale giro di ronda di mezzanotte. Con grande ed immenso scorno da parte di chi, tra gli straccioni a zonzo, sperava tanto ma proprio tanto di farsi beccare per poi finire sbattuto dentro per vagabondaggio o magari per ubriachezza molesta. Con l'interessante ed allettante prospettiva da ritrovarsi almeno per una volta, almeno per quella volta all'asciutto e ad al calduccio.

Di una cella, certo. Ma era sempre meglio, mille e mille ed ancora mille volte meglio e preferibile quello piuttosto che la certezza di essere costretti a passare un'altra, ennesima brandata fuori all'addiaccio.

Ok, le quattro mura della guardina non erano certo una reggia. E neanche il Grand Hotel, se era per questo.

Non ci stava mica il riscaldamento centralizzato, anche se era un esericizio statale. Persino i piedipiatti il più delle volte non avevano che un misero scaldino, con cui doversi arrangiare ed arrabattare.

I tagli al budget avevano colpito duro pure lì. Ma se uno dev'essere costretto tra lo scegliere tra un frigorifero ed una ghiacciaia, beh...meglio il primo, senza alcun dubbio.

Ma per quella notte barboni, pezzenti, vagabondi e perdigiorno vari senza alcun genere o tipo di dimora o di alloggio di stampo fisso avrebbero dovuto ripiegare e rivolgersi altrove. E su altre palpabili soluzioni.

Case, locande, alberghi ad ore e dormitori poco più che improvvisati...tutti spariti.

Era tutto sparito. Tutto quanto. E forse quella nebbiaccia fitta gli aveva fatto persino un favore a farli scomparire inghiottendoli, tali erano lo squallore ed il deprimente senso di disordine e di sporcizia che emanavano e trasudavano. Ad ogni ora del giorno e ad ogni giorno dell'anno.

A tempo pieno ed orario continuato, proprio.

A volerle considerare abitazioni si utilizzava un puro ed autentico eufemismo. E persino il voler dar loro delle catapecchie equivaleva a considerarle ben oltre i loro effettivi meriti, dato che ci si ostinava a dar loro una valutazione fin troppo generosa e magnanima.

Erano da considerarsi piuttosto un ammasso, una catasta di legname, di lamiere, di onduline, di tegole. Anche di mattoni e laterizi, nei casi più fortunosi o fortunati.

Tutta roba, o meglio robaccia di quart'ordine raccattata, rimediata e sgraffignata da qualche deposito, magazzeno o discarica. E paragonabile, almeno dal punto di vista prettamente e strettamente organico, ad un mucchio di letame o giù di lì.

Ad una pila ben odorosa di escrementi fumanti. O di stronzi dopo un'abbondante quanto copiosa cagata. Di quelle dove a momenti non si deve nemmeno spingere. E va detto che in molti consideravano allo stesso modo e maniera anche chiunque avesse il fegato ed il coraggio di abitarvi e viverci dentro.

Beh, pare proprio che questo rappresenti in pieno l'atteggiamento tipico che la cosiddetta gente comune tiene davanti alle brutture.

Le si mette in un angolo, nel tentativo di occultarle e di nasconderle alla vista. E poi le si ignora e si fa finta di niente, come se nemmeno esistessero.

Proprio come si fa coi rifiuti. Per l'appunto. In modo che non possano in alcun modo urtare la sensibilità di chi guarda o si ritrova a fissarle suo malgrado, o tediarli col loro vle quanto miserevole aspetto.

Proprio come facevano, stando alle cronache e alle narrazioni di stampo storico, i signori e i nobili dell'antica Cina. Quelli della dinastia dei Ming. O forse erano i Qing? O perché non i Kong, allora?

Aah, meglio astenersi dalle battute cretine e stupide. E poi, comunque, ci si osava lo stesso lamentare del fatto che in posti come quelli la gente per via della fame, della povertà e della miseria più nere e anche per causa della rabbia e dell'invidia si incazzavano come bestie. Al punto da piantare in piedi delle rivolte, delle sommosse o delle rivoluzioni da fare spavento.

Ma erano altri luoghi, ed altri tempi. E persino tutt'altro genere di persone.

Lì erano la nobiltà ed i cortigiani ad essere pigri, indolenti ed improduttivi.

La ricchezza, in quell'epoca, la stibilivano il rango, il titolo. La dinastia a cui si apparteneva o si discendeva.

Il sangue, insomma.

Ma al giorno d'oggi, in tempi di consumismo e di capitalismo sfrenati ed imperanti, la decreta il denaro. Il vile denaro che gli aristocratici di natura odiavano, vituperavano e disprezzavano così tanto. Ma che adesso non lasciava freddi né indifferenti nemmeno loro.

Intendiamoci...non che sia cambiato poi molto, sotto ad un certo punto di vista.

I ricchi restano e rimangono tali con tutto quanto il loro stuolo e manipolo di figli, nipoti e parenti vari. E idem per i poveri.

Sì, vale anche per loro. Nel senso che rimangono sempre poveri, insieme a tutte quante le loro famiglie.

Esistono ancora le divisioni in caste e classi sociali.

Come prima, più di prima, come faceva una nota canzone melodica straniera.

Esistono ancora. Ed ora più che mai. Ma i ruoli si sono decisamente ribaltati.

Adesso conta la grana. Il grano. La pecunia.

Contano i soldi. Che si hanno in tasca, che si possono guadagnare e di cui si può disporre. E che si é disposti a spendere ma soprattutto a poter spendere. E quindi, la classe inutile é diventata quella che non produce. E che non può produrre.

I ricchi, gli imprenditori, i proprietari ed i padroni si danno da fare per diventare sempre più facoltosi ed agiati.

Ricavano sempre di più. E ne vogliono ancora di più, come se non bastasse. Mentre chi é tagliato fuori dal meccanismo e dal sistema produttivo resta dov'é.

Tagliato fuori, per l'appunto. Ai margini. Al massimo avanza ed arranca con passo lento, stanco e claudicante. Di porta in porta, di metro in metro. Cercando di rimediare e di mettere insieme il pranzo con la cena. O almeno qualcosa di forte e di robusto da bere, almeno un sorso. Che gli scaldasse lo stomaco e gli facesse dimenticare, almeno per un singolo istante e forse anche qualcosina in più dal punto di vista del lasso temporale, lo stato miserevole delle cose e in cui versava tramite quel leggero stato di ottundimento misto a falso benessere che sanno regalare le bevande di genere alcolico. Fossero anche di bassa, scadente ed infima qualità.

Mettere insieme qualcosa da mettere poi sotto ai denti. E qualcosa su cui dormire e poggiare le stanche membra distrutte almeno per qualche ora. Anche se il più delle volte consisteva nello stare e rimanersene lì sfiniti. Ma pur sempre comunque svegli e desti. E quindi, non riposare affatto. E svegliarsi ed alzarsi più stanchi di quando si era arrivati e ci si er coricati e sdraiati.

Due pugni di riso ed un giaciglio di paglia. O analoghi equivalenti. E cercando al contempo di arrivare integri alla fine della giornata.

Giornata dopo giornata. Giornata dopo stradannatissima, stramaledettissima e stramerdosissima giornata.

E così via, fino all'inevitabile. Fino all'inevitabile fine delle loro miserande e miserevoli vite. Che spesso accade ed arriva prima del previsto, e prima di quanto si possa immaginare o pensare. Loro malgrado, e senza che i malcapitati in questione ed interessati lo vogliano particolarmente.

Anche se, sotto sotto...forse é davvero quel che desiderano nel profondo. Nel profondo del loro cuore, anche se in realtà non lo ammetrebbero mai, nemmeno in punto di dipartita o di morte.

Non ammetterebbero nemmeno a sé stessi che, in fin dei conti, non la vogliono davvero questa vita.

Se ne vanno prima del tempo perché non la vogliono, questa vita.

E grazie al cazzo. Nessuno la vuole, una vita così. Nessuno potrebbe mai volerla davvero, una vita simile. Pertanto...inconsciamente cercano di andarsene via da essa.

Ed il prima che sia possibile, anche.

Per fame. Per malattia. Per denutrizione. O chi viene ucciso per mano o arma di un altro senzatetto, vagabondo e altrettanto disperato come lui. Almeno tanto quanto lui.

Per debolezza. Per debilitazione ed indebolimento progressivi ed inesorabili. O per le schifezze e porcherie che trangugiano ad ogni pié sospinto, dato che chi sverna lì ha la preoccupante tendenza a portarsi alla bocca qualunque ma proprio qualsiasi cosa che abbia soltanto la parvenza o l'impressione di essere o quantomeno apparire commestibile.

Spesso buttata. Spesso raccattata da terra dove viene gettata dopo essere stata mezza mangiucchiata e masticata da qualchedun'altro. O raccolta dal cestino dell'immondizia e dei rifiuti. Con l'unico risultato che a furia di mangiare quello schifo putrido le interiora prima o poi finiscono col cedere e collassare di schianto, dando così origine ad un bel prolasso di quelli rettali. E letali.

Idem e stessa quanto medesima sorte per chi ha la bellissima pensata di mettersi a bere acqua putrida di pozzanghera, di fognatura o di torrente o canale collettore o di scarico oppure scolmatore. Talmente luride, zozze ed infette da avere al loro interno vibrioni del colera talmente grossi e lunghi da schizzarci dentro allegri e vispi come anguille, murene o capitoni.

Per alcolismo. A furia di rovinarsi il fegato, i reni ed il pancreas ingurgitando intrugli metilici e mefitici che tra petrolio ed inchiostro tutto contengono tranne che l'alcol.

Nemmeno una sola e misera goccia. E che schiantavano stomaci, esofagi ed intestini che era una bellezza, tanto che alle volte si finiva per cacarseli fuori dal buco del culo durante l'ultima seduta alla latrina o al cesso, insieme alla stessa merda che essi producono nel tratto terminale e finale dell'apparato che li contiene.

E giusto per rimanersene nello stesso campo e lunghezza d'onda, dato che si parlava sempre di mandar giù porcherie...per una bella gastroenterite fulminante o generica intossicazione alimentare. O per attacchi di dissenteria improvvisi ed altrettanto fulminei, sempore da esse causati. Che ti succhiavano i fluidi corporei a furia di ripetute scariche, fino a prosciugarti ed asciugarti come e peggio di una foglia secca.

Per un morbo o per una qualche infezione di tipo virale trasmessa da pulci, zecche, pidocchi, cimici, ragni, topi e persino scorpioni e scolopendre, che lì abbondavano e prosperavano. O qualsivoglia altro genere di insetto o aracnide velenoso.

Non vi era che l'imbarazzo della scelta, dentro a quel cesso di posto.

Per i più esigenti vi erano persino le vespe mandarine, che pure loro si trovavano da quelle parti.

Non erano poi così comuni, e quando i ragazzini avevano la fortuna o la disgrazia di imbattersi e di beccarne una, non se la lasciavano certo sfuggire. Così come non si lasciavano sfuggire la rischiosa opportunità di farsi un gran male. Al punto che si piazzavano sotto al nido o al favo dell'alveare e accendevano un bel falò nel tentativo di affumicarla ben bene.

Se funzionava e andava tutto bene, con tutto quel fumo nero e grigio alla vespa finiva per mancare l'aria e cadeva giù addormentata. Ma se andava male...c'era forse bisogno di spiegarlo?

Si crede e si ritiene di no, ma un consiglio lo si può sempre dare. Visto che, come afferma un ben noto e famoso detto...il saggio ascolta una parola e ne comprende due.

Solo una cosa. Importante. Se vedi che la vespa é ancora sveglia e inizia a fare un triplice giro in tondo mentre ronza...scappa. Ma a gambe levate, proprio.

Ti conviene mettere le ali ai piedacci e volare più veloce e forte che puoi, perché significa che é il segnale che si sta preparando ad attaccare.

Il più delle volte i ragazzini ce la facevano. Ma qualche volta...no. Oppure capitava che ce la facevano, ma la bestiaccia era talmente inferocita ed incazzata che finiva col predersela col primo povero cristo di passaggio. Che ovviamente non c'entrava e non sapeva un beneamato cazzo di quanto stava accadendo e succedendo. Putroppo per lui.

Dicevano che quando il suo pungiglione ti colpiva inesorabile era come sentire le proprie carni trafitte ed oltrepassate da un grosso chiodo o da un pezzo di ferro acuminati e roventi.

Il bruciore doveva essere qualcosa di indescrivibile. Ma quello non era che l'inizio. Se si sopravviveva a quello...il veleno faceva il resto.

Nessuno lì aveva antistaminici o cortisone a portata di mano. Neppure il medicastro di zona, che disponeva unicamente di bende e cerotti più o meno sterili e di un boccione di alcol etilico. Quando non se lo tracannava per sbronzarsi a buon mercato, naturalmente. E l'ospedale, manco a dirlo, era troppo lontano. E cose come quelle erano accidenti in cui bisognava intervenire tempestivamente, prima di andare in crisi o in choc anafilattici.

Ne aveva visto qualcuno pure crepare a quella maniera. E non era certo un bel modo di schiattare.

Ve n'erano di certo di migliori per andarsene al creatore, se uno lo desiderava e lo voleva per davvero. Vivere sarà anche un dono, ma non é certo un obbligo.

C'erano tanti modi ben meno traumatici, ma una cosa non era sicura. Di certo...non avevano dimora lì. Tantomeno diritto di residenza.

Dunque, da come e da quel che si può vedere le possibilità di morire e di andarsene da questo mondo, precisamente da QUEL mondo...erano molteplici.

Se uno poi era messo alla brutta ma proprio alla brutta non vi rimaneva che il suicidio. Ma non certo quello suggerito dal Seppuku o dall'Harakiri che se non altro garantivano una via di uscita proba, corretta ed onorevole per quanto raccapriccianti che fossero. Ma quella squallida come fase culminante di un più o meno lungo periodo di depressione.

Ogni tanto c'era qualcuno che d'imporvviso stabiliva di non farcela più a resistere. Ma proprio più. E allora si incideva in profondità il polso o i polsi con un coccio appuntito di vetro o di mattoni, squarciandosi ben bene le vene. Che se non ci pensava l'emorragia a finirti, arrivava il tetano.

Oppure si impiccava ad un albero. I più timidi e discreti lo facevano sotto ad un ponte, per dare meno nell'occhio.

Se ne andavano proprio come avevano vissuto. In punta di piedi, cercando di dare meno fastidio e disturbo possibile. E non facendo rumore.

Tsk. Una vera stronzata.

Che colossale stronzata, che era. Se uno é rimasto morto per milioni di anni senza esistere e si becca la libera uscita non é forse meglio ma mille volte meglio agitarsi e fare un gran baccano, subbuglio e casino prima di ritornare nel nulla? Prima di risprofondare nel sonno eterno, riprendendo a dormire per sempre?

Forse sognando, ogni tanto...

Che dite? Non ne varrebbe la pena, anche se rispetto e a messo a debito paragone e confronto con la storia del mondo e dell'universo non dura che qualche misera decina di anni, arrivando in rari casi al centinaio?

Altri preferivano e prediligevano gettarsi e buttarsi nel vicino fiume o canale.

Un balzo o una spintarella ben assestata ed il gioco era fatto. Che tanto ben in pochi sapevano nuotare o anche solo stare a galla, da quelle parti.

I sorci se la cavavano decisamente meglio in quel campo, rispetto agli umani con cui condividevano il territorio che l'acqua.

Un tuffo e si finiva ad annegare facendo compagnia a tutta quanta la monnezza che vi galleggiava dentro, e che veniva pigramente trasportata e cullata dai flutti.

Come i cadaveri, verrebbe da aggiungere.

Almeno stando vicino a i rifiuti risolvevano il problema della solitudine, prima di andarsene da questo pianeta e di lasciare per sempre questa valle di lacrime.

In quanti lo facevano, ogni giorno. E quante ne capitavano, di cose così.

Ad ogni pié sospinto, proprio.

Per certi versi e sotto certi aspetti decisioni così estreme rappresentavano delle soluzioni tutto sommato accettabili. Persino auspicabili. Tanto...che senso aveva, andare avanti così?

Quale senso poteva avere l'andare avanti con una vita così infame? Quale cazzo di senso avrebbe potuto mai avere ostinarsi a voler andare avanti così, a tutti quanti i costi? Per quale cazzo di motivo?

Per il DOMANI, forse?

E' ridicolo. Semplicemente ridicolo. L'indomani, ad attenderci e ad aspettarci, non vi sarà altro che la stessa merda con cui facciamo i conti oggi. Lo stesso gran mucchio di merdaccia nera e puzzolente in cui nuotiamo e ci sbracciamo come tanti forsennati. E sperando che mai a nessuno venga in mente di fare l'onda.

Per loro, e per tutti quanti quelli come loro, non sarebbe cambiato mai nulla.

Un povero e un pezzente non potevano diventare ricchi. Al massimo un riccastro avrebbe potuto finirsene in miseria e nel bel mezzo di una strada, in seguito ad un fallimento o ad una bancarotta.

Ma era meglio, era sempre meglio non illudersi troppo. Loro...loro trovavano sempre il modo di cavarsela, di risollevarsi e di rimanere a galla, in una maniera o nell'altra. E tra di loro si aiutano sempre. E non si pestano di certo i piedi a vicenda.

Qui nessuno ti aiuta, invece. Perché nessuno dispone dei mezzi o delle possibilità di per farlo, anche se vorrebbe. Senza voler contare che il più delle volte ha già il suo bel nugolo di grane e di rogne tutte sue, a cui dover badare. E allora, stando così le cose...

Allora tanto valeva lasciarsi andare fino ad incorrere in una qualsiasi tra quelle tristi quanto miserevoli fini che si era appena terminato di elencare.

Ma sì. Almeno ci si dava un taglio netto. Definitivo. Radicale. Dopotutto era per quello, che la gente veniva fino a lì.

Per morire. Dopo aver perso tutto, o magari perché erano poveracci sin dal principio. E la vita amara e crudele spesso li aveva privati anche di quei quattro stracci, cose e carabattole che gli era riuscito di mettere d'avanzo e da parte.

Venivano lì solo per morire. Non giungevano lì che per quello. E per essere lasciati in santa, sacrosanta e santissima pace mentre morivano e schiattavano.

Sì, era infinitamente meglio concludere le proprie squallide esistenze in uno qualunque di quegli altrettanto squallidi modi. E senza starsene nemmeno a doversi prendere il lusso o la briga di scegliere, che tanto...erano loro, a scegliere te.

E tutto sommato...a conti fatti era sempre meglio che doversene continuare a rimanere lì, a spegnersi lentamente d'inerzia come facevano già in tanti.

Quasi tutti, a voler essere onesti quanto sinceri.

D'altra parte non sempre si aveva il coraggio di vivere bruciando tutto senza riserve né risparmio, come un sole ardente, per poi lasciare solo una montagnetta di cenere. Di cenere bianca...

Bianche ceneri destinate a venire spazzate via dal vento turbinoso, vorticoso ed impetuoso.

Qui di vento, però, non ce n'era. Non stanotte.

Non quella notte. E le foglie secche, o almeno quelle poche che erano ancora rimaste, se ne rimanevano ben piantate al suolo. Immobili ed immote sul terreno ove si trovavano.

Ma una tra loro, temeraria, aveva deciso invece di farlo. Di farlo lo stesso.

Di muoversi. Per conto proprio senza star lì ad aspettare il dannato vento, che tanto era già passato. E da un pezzo, anche. Da un bel pezzo. E sino all'anno prossimo e successivo non avrebbe fatto ritorno se non insieme ed in compagnia della sua stagione, quella a cui faceva e doveva assolutamente far riferimento.

Il vento secco, terso e gelido di fine autunno aveva già fatto e compiuto il suo lavoro ed il suo dovere, portandosi via con sé tutto il tepore del sole col calore dei suoi raggi e la canicola, l'afa e la calura estive preparando così l'entrata in scena e l'arrivo del freddo e rigido inverno.

Il generale, il generalissimo Inverno col suo carico di pioggia. E di neve. E di ghiaccio.

E di nebbia.

Una vecchia filastrocca diceva e sosteneva che dalle città scomparse, dopo che erano state inghiottite dalla nebbia, ne sarebbero sorte e ne avrebbero costruite altre. Di nuove, di belle e piene di parchi giochi e di giardini. Per tutti i grandi, i piccini e i bambini.

Davvero puerile. Eppure...

Eppure qualcuno, che un giorno era giunto fino a lì, si era messo in testa di volerlo fare.

Per davvero. E non solo quello.

Avrebbe voluto tanto costruire anche case ed abitazioni grandi, calde e confortevoli per tutti. E poi una scuola. E delle fabbriche dove i padri di famiglia sarebbero andati tutti quanti a lavorare, mentre i loro figli e figlie studiavano. In cambio di un ottimo quanto congruo stipendio con cui avrebbero avuto finalmente di che vivere dignitosamente insieme ai prorpi cari. E non quell'elemosina da fame che veniva elargita ai cottimanti, e che avevano il coraggio ed il feagto di chiamare e definire paga.

Per poter vivere una volta tanto come fanno i veri signori. E potersi così comperare auto sportive e lussuose, bei vestiti e tante cose buone da mangiare. E poi, a proposito di queste ultime...

Non poteva mancare un bel supermercato con dentro ogni ben di Dio. E poi tanti negozi con ogni genere di merce assortita.

Anzi, di più. Un grande magazzino, addirittura. Come quelli che si trovano nel centro della capitale, nel distretto commerciale.

E poi un bell'ospedale con tanti medici ed infermieri specializzati in ogni genere di malanno e di disturbo. E volenterosi, che avrebbero curato e guarito a titolo completamente gratuito chiunque ne avesse avuto di bisogno. E...

Ah, si. Anche un bel Luna Park con tutte quante le giostre esistenti al mondo, e con tanto di montagne russe e di giostra panoramica. Le più alte e grandi in circolazione, di tutto quanto il globo, che a lui gli erano sempre piaciute un sacco anche se a bordo non vi era mai salito nemmeno una volta in vita sua. Ma sentiva che gli sarebbe piaciuto senz'altro un casino, anche se non aveva mai provato.

Ma un giorno lo avrebbe senz'altro fatto, quando le avrebbero realizzate e costruite.

Avrebbe potuto davvero farlo, e lo avrebbe certamente fatto. Perché lui poteva tutto. Aveva sempre potuto tutto.

O almeno in quel tempo in cui avrebbe potuto fare veramente tutto. Un periodo in cui si sentiva di poter fare qualunque e qualsiasi cosa, tutto quello che voleva e che gli passava per la sua testa. Per quella sua testaccia matta e sghemba.

C'era stato un tempo in cui aveva ottenuto fama, gloria, successo, onore e denaro. Tanti, tantissimi soldi. Anche se in realtà non é che se ne fosse mai fatto poi molto di quelle cose, dato che le aveva sempre giudicate di scarsa importanza. Al punto che spendeva ed elargiva a piene mani ogni volta che ne aveva e che gli si presentava l'occasione.

A palate. A milioni. E tutto per gli altri. E non certo per spirito di beneficenza. Ma perché nel suo mondo, il mondo da cui proveniva e che lo aveva partorito anche se forse sarebbe stato molto più consono dire che lo aveva vomitato o cagato fuori...i soldi non avevano mai contato poi questo gran che.

Perché ad uno come lui era sempre interessato più quel che riusciva a sentire e a provare di quel che gli riusciva di avere, con ciò che faceva.

Aveva sempre ritenuto e giudicato più stimolante quel che poteva ottenere in termini di emozioni che di guadagni, con il suo mestiere e la sua professione. Perché il suo lavoro lo entusiasmava.

E quindi ne fu oltremodo felice quado poté scoprire con sua enorme meraviglia e sorpresa che la gente, o meglio la gentaglia che popolava quel lugo similmente a quanto fanno le blatte che riempiono il buio di una fogna o di una cloaca, quelli di cui ormai ne era diventato a tutti quanti gli effetti compaesano anche se il suddetto paese in cui vivevano non lo si poteva certo definire e ritenere tale...per tutti quelli che ormai considerava come suoi amici, suoi compagni, suoi fratelli, tutti membri di un'unica e grande congrega e famiglia, era lo stesso.

Per tutti i suoi comprari e gregari di schifo la cosa era di fatto reciproca.

Anche loro non se ne facevano nulla di ricchezze, di fama, di gloria o di soldi. A loro, a tutti loro, bastava avere un portavoce. Un rappresentante. Un paladino che agisse in loro vece. Per loro bocca e mano.

Avere vicino, al loro fianco un amico, un compagno, un fratello che ce l'aveva fatta, a differenza di loro. Uno sulle cui spalle avrebbero potuto riporre a riposare tutto il loro carico, peso e fardello delle loro aspettative, speranze, sogni ed illusioni. Confidando sul fatto che quelle spelle avrebbero potuto rivelarsi abbastanza e sufficientemente forti, resistenti e tenaci. O perlomeno che non fossero troppo fragili da crollare, piegarsi e così collassare su sé stesse sotto ed a seguito di una pressione così grossa quanto enorme e gravosa.

A loro bastava quello. Non sarebbe bastato nient'altro che quello, e nulla più.

Non bastava che quello per sentirsi rinfrancati e risollevati da tutte quante le proprie pene e miserie, in modo da avere così una rivalsa.

La giusta rivalsa su tutti. Specie sui riccastri strapieni di tintinnanti soldoni e di mazzi di fruscianti banconote. E su tutto quanto il resto dell'intero mondo, che gli aveva sempre cagato dritto sulla testa sin dal primo momento. Sin da quando erano venuti su di esso ed alla luce. Piangendo, gridando ed agitandosi convulsamente. E visto che già c'erano, forse persino maledicendo l'infima troiaccia di quart'ordine che aveva avuto la tanto disgraziata ed insieme malaugurata idea di partorirli sputandoli fuori dalla sua fica, slabbrata a furia di pigliar cazzi su cazzi. Oppure espellendoli direttamente fuori dal suo buco del culo, che tanto era uguale.

Era gente che si accontentava di poco, tutto sommato. Più o meno come lui. Perché un perdente, un fallito ed un miserabile rimane e rimarrà sempre tale. In qualunque ambiente, contesto, tempo o luogo. Ed in ogni posto in cui possa o decida di andare o voler andare, o che si possa venire mai a trovare.

Non c'era nulla da fare. Proprio nulla, che si potesse fare, a tal riguardo.

Così, erano le cose. Era proprio così, che stavano.

In giro, ieri, oggi e nel domani solo e soltanto merda, per loro. Sempre e solo merda, ad attenderli e ad aspettarli. Nient'altro che merda. Ma lui...

Lui ce l'aveva fatta, però.

Per qualche tempo lui sembrava essere diventato la loro carta igienica. E l'antidoto, l'unico antidoto possibile a quelle vita di diarrea. In tutti i sensi.

E ce la fece anche questa volta.

Una porzione della nebbia d'improvviso aveva preso a muoversi, distaccandosi dal resto dello spesso quanto fitto banco. E prendendo a guadagnare progressivamente forma, spessore, colori e contorni. Sempre di più.

Un'immagine che via via da confusa che era al principio si fece e divenne sempre più definita col passare dei minuti. O erano secondi, forse?

Aah, cosa gli importava. Cosa mai gli sarebbe potuto importare?

Non gliene fregava un emerito cazzo. Non gliene poteva fottere proprio di meno di certe cose, ormai.

Da un bel po', da un arco di tempo che ormai gli pareva essergli e sembrargli infinito ed indefinito, il tempo gli sembrava che avesse preso a scorrere in maniera piuttosto strana.

Aveva iniziato a prendere una piega alquanto singolare, davvero. Tutta sua. Inspiegabile.

Certe volte aveva persino come l'impressione che la differenza tra le ore, i minuti ed i secondi si fosse misteriosamente ridotta ed assottigliata ad un punto tale da diventare praticamente impercettibile.

Gli erano divenuti così simili...uguali. Indistinguibili l'uno dall'altro. E lo stesso valeva anche per i giorni, le settimane, i mesi e gli anni.

Una vita intera ormai era paragonabile al giro intero di un quadrante di orologio, dal suo modesto e strambo punto di vista. O giù di lì.

Non se ne curava. Da tempo non badava più al tempo. Da tempo non badava più a quello così come ad un mucchio di tante altre cose.

Gli parevano così vuote, insignificanti, così prive di valore e così immeritevoli di qualsivoglia attenzione...

Intanto la figura si era completamente e definitivamente formata, fuoriuscendo dalle viscere della foschia che doveva averla fagocitata e tenuta imprigionata nel suo ventre umido e pallido almeno fino ad adesso.

O magari doveva essere stata lei stessa a generarlo, come minimo.

Difficile, era assai difficile riuscire a dirlo o a stabilirlo con estrema chiarezza.

Quel che era certo, più che certo, era la sua attuale quando indiscussa ed indiscutibile presenza.

Prima, fino ad un attimo fa...non c'era. Mentre adesso...invece c'era.

Un ragazzo. Dalla corporatura apparentemente esile, gracile e magrolina. Ma che sembrava lo stesso dotato di una gran forza. Di una considerevole forza.

Lo dimostrava il passo sicuro e deciso, condotto senza la benché minima fatica apparente.

Forse a farlo apparire così minuto e mingherlino alla vista era piuttosto il grosso giaccone a vento che lo intabarrava per intero. Ed in cui si stava stringendo, ben riparato dentro alle sue ampie quanto enormi falde e maglie. Probabilmente nel tentativo di proteggersi, e di resistere così meglio ed ancora per un poco agli inflessibili rigori del freddoe del gelo.

In realtà era solo la forza dell'abitudine. Certi vizi e difetti di comportamento, una volta appresi ed introiettati, ce li si porta e si trascinano dietro per il rimanente resto delle proprie vite. Ed alle volte pure oltre.

Non lo sentiva, il freddo. Non lo sentiva più. E poi il clima di quei posti, grazie alla lunga permanenza presso di essi, aveva imparato ad identificarlo e a riconoscerlo. Alla perfezione.

Ci era divenuto avvezzo, ed aveva finito col farci comodamente il callo.

E quando una cosa la si riconosce, e ci si abitua ad essa...non dà più così tanto fastidio, in fondo. Così come non causa più nemmeno così tanta paura e timore.

E comunque, non c'entrava. Non c'entrava nulla.

La verità e la ragione della sua apparente eppure evidente quanto vistosa magrezza erano da ricercarsi e scovare altrove.

Il motivo era un altro. Anche se il grosso quanto voluminoso abito che era solito portare, di svariate taglie più grande, il suo vistoso contributo lo dava senz'altro. E faceva pure la sua porca figura, senza alcuna ombra di dubbio.

No, grazie e per colpa di quello non passava mai inosservato. No di certo.

E glielo avevano fatto sempre notare. Non mancavano mai, invariabilmente. Tutte le sacrosante cazzo di volte.

Pure la prima i cui era giunto fino a lì. Attraversando il famoso, anzi il famigerato Ponte delle Lacrime.

La prima volta...e chi se la scordava.

Namidabashi.

Il posto dove di norma arrivano tutti quelli a cui non é rimasto altro che piangere.

Glielo avevano pur e ben detto, quella volta. Che a girare con quella roba indosso avrebbe senz'altro avuto più grane e rogne, che benefici. Perché equivaleva a mostrare a tutti un bel biglietto da visita, di quelli inequivocabili. Come girare con un bel cartello appeso e penzolante dal collo con su scritta una parola in stampatello e a lettere cubitali.

LADRO.

Una parola che diceva a tutti che quel giaccone non affatto suo, non poteva assolutamente essere suo. E che doveva averlo rubato e grattato chissà dove, e chissà a chi. E che soprattutto, com'era stato capace di farlo già una oppure addirittura più volte...era ben pronto a rifarlo di nuovo, non appena gli si fosse presentata e resa bella disponibile la prima e prossima occasione.

Ed era proprio per via di un tale segnale che nessun gerente, gestore o proprietario di nessuna locanda, albergo a ore o meno o dormitorio e di nessun alloggio in generale era stato dispsoto o aveva voluto prenderselo oppure ospitarlo.

Gratis, ovviamente. Perché il pavimento dell'ingresso e dell'uscio d'entrata era l'unica cosa che si poteva e che si sarebbe potuto permettere, non avendo praticamente in tasca manco un soldo bucato.

Nemmeno per una sola notte. Neanche una che fosse una soltanto.

Nemmeno accondiscendendo ad arrangiarsi a dormire sul pavimento. Neanche a voler supplicare in ginocchio, o a piangere in cinese.

Non vi era stato niente da fare. Perché a prendersi in casa e sotto le proprie mura un individuo del genere, fosse anche per poche ore, c'era il serio quanto concreto rischio che quelle poche ore in questione gli sarebbero state più che sufficienti per riempire a dovere lo spazio vuoto presente nelle sue bisacce e saccocce. Alleggerendo però quelle di tutti gli altri inquilini, ospiti e clienti, in cambio. Padrone e sorvegliante compresi. Che spesso erano costituiti dalla medesima persona, che nessuno si poteva permettere di assumere qualcuno a salario fisso e mensile.

Era inutile. Con quell'abito così fuori misura e fuori posto era come se andasse in giro a dire e a spiattellare a tutti quanti ciò che era veramente. E cioé...

Un mariuolo. Un poco di buono. Un lestofante. Un delinquente. Un avanzo di galera. O più che altro di riformatorio. Il che era l'ipotesi più probabile, vista la giovane età.

Tutt'al più qualche anima pia in vena di particolare generosità oppure di buoni consigli, o magari per poterci lucrare a dovere sopra, visto che per come stavano malmessi la disgrazia di taluni poteva finir per diventare la fortuna per talaltri...gli aveva suggerito di impegnare o di vendere il giaccone in questione prima che il proprietario potesse accorgersi dell'avvenuto furto e casomai farsi vivo. Che lì tutti lavoravano sodo e dovevano pagare per avere un posto dove poter dormire. E se non avevano un lavoro o di che pagare se lo dovvevano rimediare, in qualche modo. E toccava a loro di ingegnarsi per capire, scoprire e trovare come ed in che modo farlo.

A completare degnamente il tutto vi erano una lunga sciarpa a righe ,lisa, lacera e consunta in più punti. E una berretta anzi, un cappellaccio altrattanto grosso, sgarziato e sghembo in pari misura di quanto lo era il giaccone, almeno. Messo lì a tentar malamente di celare e di coprire un ciuffo ribelle di capelli nero corvino.

Tutto questo oltre a pantaloni e scarpe, s'intende. Ed almeno quelli nella norma, per fortuna.

A voler essere sinceri la sua magrezza dipendeva dal fatto che quelli del suo mestiere e del suo campo, per poter esercitare alla perfezione e dare il meglio in quel che fanno, non devono avere addosso un solo chilo in eccesso.

Non un grammo di peso in più. Neppure una singola oncia di grasso o di liquidi superflui. O di troppo.

I pugili non possono e non devono essere come la media e la stragrande maggioranza di tutti gli altri esseri umani.

Grassi, rubicondi, floridi, molli e flaccidi. E rammolliti. A furia di intossicarsi ed intorpidirsi con cibi, bevande ed ogni genere e sorta di stravizi, sino all'eccesso. E col corpo che via via si appesantisce sempre più, per via dell'enorme sforzo che deve e che viene chiamato a fare per smaltire e liberarsi di tutta quella sozzura e di tutti quei veleni con cui lo hanno riempito ed intasato.

I pugili devono essere sempre tirati a lucido, puliti fin dentro alle ossa ed al loro midollo. Come macchinari e meccanismi di alta, altissima precisione e tecnologia.

Come orologi e cronometri svizzeri, in grado di spaccare il secondo. Il millimetro.

I loro muscoli, tendini e nervi devono essere tesi ma anche armoniosi. Sviluppato e scattanti almeno quanto chi lo gestisce e governa deve essere pronto, concentrato ed attento. Per poter passare nel giro di un solo istante dalla rilassatezza più totale e completa all'azione più sfrenata.

E lui lo era. Lui lo era, un pugile. Per davvero.

Lo era stato. Era stato il mestiere che aveva scelto per guadagnarsi di che vivere. Per uscirsene dall'anonimato e da un'esistenza grigia, piatta ed oltremodo squallida. E per levarsi e scrollarsi definitivamente di dosso fame, povertà, brutture e miseria.

Era, era stato il mestiere con cui ce l'aveva fatta. Il mestiere con cui aveva ottenuto fama, ricchezza, considerazione e gloria. Anche se di quelle cose non gliene fregava e non gliene era mai fregato un fico secco.

Forse perché, a conti fatti, era stato il mestiere a scegliere lui e non il contrario. Non viceversa.

Ormai non combatteva più da tempo, ma aveva notato con sommo piacere che il suo ricordo era ancora bello vivo, presso la gente.

Si, il suo ricordo ancora perdurava. Si ostinava a perdurare nonostante fosse uscito di scena ed avesse abbandonato il ring e le sue quattro corde già da parecchi anni orsono.

Il suo nome aveva travalicato ben presto i confini nazionali e si era spinto oltreoceano. E non solamente in Asia.

Adesso lo conoscevano anche negli Stati Uniti e nel resto dell'America, nel Sud di quello stesso continente, in Europa, in Africa e persino in Australia e nell'Oceania. E piccola nota curiosa, a lui sembravano essersi particolarmente affezionati gli abitanti di un piccolo paese piazzato proprio al centro e nel bel mezzo del golfo del Mar Mediterraneo.

Uno strambo paese a forma di scarpa, di stivale. Dalla stramba popolazione e certe volte dalle ancor più strambe tradizioni, abitudini e leggi che lo governavano.

Si diceva che non avessero nemmeno promulgato una legge sui danni. Ancora adesso!

Bah.

Davvero strani, si diceva. Ma che in guerra pare fossero stati persino alleati del suo Giappone, con cui avevano e nutrivano in comune una grande, grandissima e spiccata considerazione e predilezione per gli eroi. E per i pugili coraggiosi, ardimentosi, gagliardi, fieri e sprezzanti del pericolo. E pure pazzi, in una certa qual misura.

Pare che pure dalle loro parti vi fosse un tizio che era solito combattere senza guardia, con le braccia abbassate.

Lo chiamavano EL RANIN. Il girino, anche a quello per via della magrezza. E secondo la loro lingua o meglio, la versione di un loro dialetto autoctono che sembrava discendere in parte dai germanici, in parte dagli austro – ungarici, ed in parte dai longobardi e forse persino più indietro.

Sembrerebbe dai celti, addirittura.

Curioso, visto che a lui qualcuno lo aveva soprannominato persino RONIN. Ed infatti lo ricordava, per via del continuo vagabondare e per il non voler mai dipendere da niente e da nessuno, in ogni caso.

Ma anche per lui, in quel luogo, avevano inventato un nomignolo apposito per l'occasione.

Per lui lui, eh. Non per quell'altro tizio.

Un soprannome. Tu pensa. In un posto che non l'avevano mai visto né conosciuto, se non di fama.

I casi e le stranezze della vita.

ROCKY.

ROCKY JOE.

“ROCKY” JOE YABUKI.

Pensa te.

Joe il roccioso. Joe Yabuki detto “Il roccioso”.

Non il moccioso, intendiamoci. Il Roccioso.

Pare che avessero preso spunto da un altro celeberrimo pugile yankee, anche lui molto amato. Forse perché anche lui di origini italiane.

Stando alle cronache la sua famiglia o i suoi antenati provenivano proprio da quelle terre.

Difatti a Philadelphia e dintorni, dove combatteve agli inizia della sua grande e sfolgorante carriera, inizialmente veniva ribattezzato anche THE ITALIAN STALLION.

Proprio così. LO STALLONE ITALIANO.

Ma quello militava nei pezzi grossi, nei pesi massimi, a differenza sua che stava nei Bantamweight, nei pesi gallo.

Di cognome doveva fare BALBOA, mentre di nome BOB. Oppure ROBERT. Che a voler ben pensarci il primo altro non era che il diminutivo, il diretto abbreviativo del secondo.

In comune dicevano che avessero l'abnegazione, lo spirito di sacrificio, l'estrema resistenza e la capacità innata di sopportare una montagna ed una marea di colpi subiti e ricevuti.

Ma un'autentica gragnuola e caterva, proprio. Da rasentare fin quasi l'inumano, il soprannaturale.

Ma non certo perché fossero davvero indistruttibili od immortali come spesso si fociverava, o dotati di chissà quale inscalfibile ed indistruttibile strutura o costituzione fisica. Quanto piuttosto per una disperata ed ostinata volontà che li obbligava e li costringeva a rimanere sempre in piedi, e a non voler mai andare né finire giù a baciare il tappeto.

A restare sempre su a dispetto di tutti i pugni presi, nonostante i danni fossero sin troppo ben evidenti e visibili.

Paravano tutto con la faccia, a costo di farsela spaccare.

Il cuore li accomunava e rendeva simili. E poi la grinta. E la passione. E l'ossessione.

E c'era anche un altro particolare. Questa volta a differenziarli, però.

Uno dei due il suo tempo lo aveva già fatto. Per l'altro, invece...il suo tempo doveva ancora venire.

Uno, per quanto lo riguardava, con la sua scalata ai vertici del suo sport aveva già concluso.

Aveva già dato. L'altro, dal canto suo, aveva ancora tutto da dare. E tanto, anche. Ed aveva appena cominciato.

Anzi...neanche, a volerla dir tutta.

Era pazzesco. Incredibile. Per un punto, per un dettaglio che li separava subito sembrava che ne venisse un altro a riavvicinarli e riaccostarli completamente. E come se non bastasse, la loro leggenda era nata con una sconfitta. Una sconfitta per poco.

Per un soffio, praticamente sul filo di lana.

Joe sorrise tra sé, a quel pensiero.

Sarebbe stato bello.

Sarebbe stato bello se la sua carriera avesse potuto percorrere la stessa strada, i medesimi binari della sua controparte a stelle e strisce.

Ma lì non si era, non si stava in America, purtroppo. Anche se gli occidentali li avevano invasi sin da subito dopo aver battuto il loro paese in guerra, e trattandolo come autentica terra di conquista buona solo per arraffare e spartirsi il bottino.

Li avevano assoggettati, certo. Ma non piegati, però.

Loro, i giapponesi, a differenza di molte altre nazioni non avevano voluto prendere nulla del modo e dello stile di vita di quelli. E men che meno pensavano di avere a che fare o a che spartire qualcosa con la loro filosofia.

Capitalismo sfrenato a parte, i giapponesi non credevano e non avevano mai creduto nei miti e nelle tradizioni provenienti dalle terre del lontano Ovest, importate dagli invasori Gaijin.

Non avevano mai creduto né preso per buone le loro storie e favolette sui grandi uomini che si erano fatti e costruiti da soli, sul sogno dell'opportunità per chiunque e alla portata di tutti, sulla grande occasione, sulla seconda possibilità o dell'araba fenice che risorge dalle proprie ceneri dopo ogni morte.

No. I giapponesi non avevano mai creduto a niente di tutto questo. I giapponesi non credevano che in un'unica cosa.

I giapponesi credevano solamente nel destino. Ed il suo era nato sotto ad una cattiva stella. Ed era sempre e solo stato illuminato da quella, sin dall'inizio.

La vita non aveva fatto altro che dargli in mano sempre carte fasulle, o balorde.

Si era sempre sentito vita natural durante fuori posto, inadeguato, sbagliato. Sempre ed ovunque, da ogni parte.

Quell'altro, lo stallone italo – americano o qualcosa del genere, sarebbe stato destinato a grandi cose.

Dopo la prima non avrebbe mai più perso. E se e casomai qualcuno lo avesse potuto sconfiggere, lui si sarebbe rifatto con gli interessi nella rivincita, recuperando tutto quanto gli era stato sottratto e tutto quel che gli avevano tolto. Divenendo così ancora più grande e leggendario. E, come tradizione del suo paese comanda, la sua avventura sarebbe stata una stata bella diritta dall'inizio alla fine.

Magari con qualche salita ripida qua e là, ma pur sempre diritta. E non era certo poco.

Una strada che un giorno, presto o tardi, lo avrebbe portato al tanto agognato titolo. E a difenderlo per ben dieci volte di fila senza mai venire battuto.

La sua di strada, invece, per contro era stata sempre contorta ed estremamente tortuosa, senza che mai gli avesse potuto indicare una direzione ed una meta che fossero e che risultassero chiare e ben precise. E gli aveva sempre dato e fornito l'impressione di andare e proseguire verso il basso, piuttosto che verso l'alto. Fino a sprofondare. Sempre di più.

Ancor oggi non avrebbe saputo dire con esattezza fino a dove lo avrebbe portato.

Ad uno la boxe avrebbe dato tutto, ad un altro gli aveva levato tutto.

Nella fattispecie...a lui, aveva levato tutto. Ogni cosa.

Non era giusto.

No, non era proprio giusto, così. Ma d'altronde, da quando in qua le cose dellla vita si potevano definire giuste? Quando mai le cose e i casi della vita erano state mai giuste, per uno come lui? Per uno della sua specie, razza e risma? Ma quando cazzo mai?

Da quando in qua esisteva la giustizia, per un lupo selvatico?

Aveva affrontato sempre avversari durissimi e fortissimi, e qualcuno persino molto più forte di quanto non fosse lui. Eppure, per un'amara quanto bizzarra ironia della sorte...niente gli aveva dato fama e notorietà come le sue sconfitte.

I due unici incontri che aveva perso. Uno per knock – out e l'altro ai punti, per decisione messa in mano ai giudici di gara. E col resoconto dei cartellini nient'affatto e tutt'altro che unanime.

A questo punto un individuo che si potrebbe ritenere e vantare di essere un ottimo quanto attento osservatore, lettore oppure ascoltatore giunti a questo punto potrebbe ritrovarsi a sollevare una piccolissima questione. Tutt'altro che banale, tra l'altro.

Potrebbe aver da ridire sul fatto che da questa storia stanno già iniziando ad emergere dei risvolti piuttosto strani, bizzarri. Per non dire inquietanti, giusto un filo.

Come fa una persona a sapere di fatti che devono ancora accadere? Soprattutto quelli relativi ad un atleta dall'altra parte del globo e a momenti pure dell'emisfero che la sua carriera professionistica se la deve ancora sudare e guadagnare, visto che al momento non é altro che un ragazzo? E che in più lo attendono ancora tanti anni come misero dilettante, prima di poter giungere a ciò?

Beh...si può solo dire che dopo essere finiti in un certo posto, d'improvviso, si sa e si conosce tutto.

Passato, presente e anche futuro. Quel che é successo, quel che sta accadendo sia vicino che lontano e quel che ancora dovrà succedere. Ma si sappia che non costituisce poi questa gran cosa.

Sì, si tratta di un vantaggio ben da poco, considerando il prezzo che si deve pagare per riuscire ad ottenerlo.

E comunque, se può consolare in qualche modo e maniera...non sarà l'unica cosa strana ad accadere, quella notte.

Altre cose avverranno. E ben più strane di questa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intanto quasi senza che se ne fosse accorto, forse per il semplice fatto di essere completamente immerso ed assorbito nei propri pensieri, si era ritrovato a percorre la strada a ritroso rispetto al solito. Al contrario rispetto a quello che era il suo tragitto abituale e consueto.

Ma guarda un po'. Preso com'era non se n'era minimamente accorto. Ma nemmeno questo gli interessava poi molto, in fondo.

In genere chiunque vi metteva o vi mettesse piede lo faceva passando dall'altra parte. Per la direzione esattamente contraria ed opposta a questa. E attraversando un ponte che dava su di un rigagnolo lurido e strapieno di immondizia sin quasi a traboccare. Ed una volta che ci era passato sopra, a quel ponte, difficilmente tornava indietro. Difficilmente usciva o se ne andava via da quel quartiere.

Era proprio l'equivalente sul suolo nipponico di un autentico girone dantesco. O di un carcere. Oppure di un riformatorio. Anche se adesso preferiscono chiamarli istituti di correzione o di rieducazione, che oggi come oggi fa più fino e di tendenza e almeno non si scandalizza nessuno.

Ma a certi, fetenti luoghi puoi al massimo cambiargli il nome. Tutt'al più quello, e basta. Ma non di certo la sostanza.

Quella non cambia. Figurarsi l'essenza.

Da posti come quelli non si esce più. Non esci nemmeno quando te ne esci, o ti buttano fuori. E poi te ne vai.

Si é condannati all'ergastolo, una volta che ci si finisce. In una prigione senza le sbarre, ma non perché siano troppo distanti. Oppure invisibili. Ma perché ti dovresti poter afferrare le costole e cominciare a tirare forte verso l'esterno fino a strapparti per intero il torace.

Per aprirtelo e guardarti dentro. Perché lì sono. Dentro al petto. Ti ingabbiano il cuore come se te lo rinchiudessero in una grossa e pesante palla di ferro, per poi saldarla. E mai più sarai libero.

Ti cambiano nell'intimo, e direttamente all'interno. Ma anche di quello non gliene fregava più un cazzo.

Però non poté fare a meno di ritornare con la mente e con la memoria alla prima volta che vi aveva messo piede, in quel posto.

Quella volta l'aveva portato il vento. Sembrava averlo portato il vento. Ed infatti lo aveva ben cantato mentre si era messo a fischiettare, tra un'allegra zufolata e l'altra.

Lo stesso vento che aveva da poco provveduto a scacciare il caldo ormai residuo e residuato.

Quel che rimaneva ancora dell'estate. Persino in autunno inoltrato, alle volte. E che aveva definitivamente lasciato, mediante le sue ampie e lunghe quanto ripetute soffiate campo, spazio e gioco libero a tutta quanta la nebbia che adesso lo circondava. E da cui sembrava essere direttamente scaturito e fuoriuscito. Come se la nebbiaccia stessa lo avesse prima fagocitato, e poi rivomitato.

Ora come ora, pure a volerci ripensare, quel motivetto che adorava e che amava al punto di canticchiarlo in continuazione e senza sosta alcuna non gli veniva nemmeno più.

Ma non gli fregava un cazzo. Tanto per cambiare.

Non gli fregava un'emerita ceppa neppure di quello. Né di quello né del punto di accesso per cui aveva deciso e stabilito di optare, anche se forse la scelta era stata del tutto casuale.

Completamente. O quasi.

Ok. Era entrato dalla parte opposta. E allora? Era proprio quel che voleva fare, dopotutto.

Ripensò alle volte scorse e passate. Non poté proprio fare a meno di ripensarci.

Ora la sua, questa, era già la seconda volta. Anzi, la terza.

Lui il Ponte delle Lacrime era riuscito, ad attraversarlo al contrario. Ad uscirsene da quel posto dimenticato da Dio, e solo grazie alla boxe. E adesso andava e veniva come e quando voleva, e tutte quante le volte che gli pareva. Tanto che non vi era più nemmeno gusto a farlo, certe volte. E poi...

E poi vi era una certa cosa a cui avrebbe tenuto tanto dare un'occhiata. Ma proprio tanto.

Una certa qual cosa che aveva già cominciato a notere sin dallo scorso anno, e guarda caso proprio in occasione della sua ultima e più recente visita.

Si mise ad ondeggiare con il collo e con la testa, volgendo il proprio sguardo ora a destra, ora a sinistra. Un po' di qua, ed un po' di là.

C'erano. C'erano ancora. E sembravano persino di più.

Gli sembrava che fossero persino aumentate, rispetto alla passata visita e allo scorso anno.

Gru, ruspe, bulldozers, schiacciasassi. E poi ponteggi, piloni ed impalcature. E poi ancora martelli pneumatici, compressori ed attrezzi vari e tra i più svariati sia da lavoro che da carpenteria.

E poi scale, betoniere e carriole. E funi, e caschi. Ed in ultimo ma non meno importante, operai.

Tutti al lavoro. A pieno regime, anche durante le ore piccole.

Anche nel corso della notte. Persino durante la notte più scura e fonda, senza alcuna pausa o interruzioni di sorta.

Ci stavano dando dentro e sotto davvero di brutto, niente da dire. Straordinari su straordinari e supplementari, come se piovesse. Ma sul serio.

Joe fu quasi sul punto di provare e di nutrire per loro un sentimento di sincero ed autentico rispetto unito ad una genuina ammirazione, per tutto quell'intenso quanto animato da fare da parte loro.

Tutta l'ammirazione di questo mondo, se non fosse per il fatto che quel che stavano facendo e compiendo non gli faceva certo piacere.

No. Tutto ciò non gli piaceva e non gli aggradava per nulla. Anche se andava detto ed ammesso che il loro impegno era senz'alcuna ombra di dubbio davvero impressionante, da vedere ed osservare.

Stavano davvero lavorando sodo e senza risparmiarsi, quei poveri diavoli e cristi. Pur sapendo ed essendo ben consci che si stavano spaccando la schiena, facendo il mazzo e rompendo il sedere per un ben magro stipendio.

Tutto in cambio di una paga assolutamente da fame che equivaleva ad un schiaffo ed un sputo tirati in piena faccia, un calcio in pieno ventre e nelle palle, due dita dritte dritte negli occhi ed un terzo...beh, sempre infilato dritto su per il culo. Ma chissà, magari a qualcuno sarebbe potuto persino andar bene o piacere.

Si dice che a furia di prenderlo laggiù tutti i giorni prima o poi ci si fa l'abitudine. E che si finisca col non provare più così tanto schifo, in fondo. E che magari sotto sotto non sia la cosa peggiore che possa capitare nell'arco della giornata, a conti fatti. Specie se già pessima e brutta di suo.

Ad arricchirsi veramente lì, erano solo e soltato i padroni. Come al solito.

I promotori degli appalti, e chi li aveva vinti e se li era aggiudicati.

E se per forza gli andava riconosciuto un merito, sicuramente era quello di aver convinto tutta quella gran marmarglia ed accozzaglia di poveracci, tutta quella canaglia pezzente che doveva valer la pena di farsi fottere per guadagnare quei quattro miseri e miserabili spicci.

Giusto le monetine e l'elemosina, del gran giro di soldi che avevano messo in piedi.

Giusto le briciole, della gran torta che avevano imbandito sull'immensa tavolata dell'ultima e gigantesca speculazione finanziaria di turno.

Fino a qualche anno fa di cantieri come questo ve n'erano a iosa, tutt'intorno alla capitale.

Assediavano Tokyo come un nugolo ed un branco di avvoltoi che volteggiavano sopra ad una carcassa mezza marcia e mezza cotta ed abbrustolita dal sole cocente, in attesa di poter secendere a spolparla con tutto comodo e con gran gusto. O come un esercito di formiche messe in parata ed attorno ad una bella zolletta di zucchero ancora intonsa nelle forme e nelle dimensioni, e rese mezze intontite ed infoiate da tutto quel ben di Dio sotto forma di saccarosio in forma solida. E dunque perfettamente trasportabile per intero.

Oppure, tanto per volere utilizzar almeno per una volta un termine ed un metro di paragone che risultasse più colto, raffinato, fine e gentile...uno sciame od uno stormo di api operaie che svolazzavano, volteggiavano e danzavano senza sosta alcuna, impegnate ed irretite com'erano nella loro sfrenata danza di corteggiamento nei confronti di un fiore dalla corolla variopinta e profumatissima, aspettando di poter finalmente suggere un poco soltanto, una sola stilla del suo prezioso, saporito e così prelibato nettare. Quel nettare che prometteva sempre e che non dava mai.

La grande città oltre la baraccopoli era così. Uguale.

Lasciava giusto intravedere, ma non cedeva né donava mai.

Non era posto per api, ma piuttosto per vespe e calabroni. Per predoni. Che assaltavano, distruggevano e derubavano lasciando dietro di sé solo morte, lutti, macerie e rovine. Oppure per sciacalli, iene e squali, giusto per scomodare le loro versioni più grandi e mammifere, sia di stampo ittico che terricolo.

Già solo lo scorso anno ne erano spariti circa la metà, di quartieri poveri come questo. Il suo.

Così simili, fratelli e colleghi nella povertà. E quest'anno, ormai, non era rimasto che questo.

Sempre il suo.

Il governo e le prefetture avevano preso a picchiare duro, su quel fronte. Il boom economico e la ricostruzione di cui si erano fatti ferventi artefici, sostenitori e promotori erano da considerarsi una realtà ormai conclamata, nonché un affare con in mezzo cifre iperboliche e da capogiro.

Se ne parlava nell'ordine di miliardi di yen, tra spesa e ricavato. Nel senso di impiegarne tanti all'inizio per poi farne fruttare ancora di più.

Un'occasione, l'ennesima, di certo irripetibile quanto irrinunciabile per politici, uomini d'affari, palazzinari e speculatori vari ed assortiti di mettere le mani ed affondare i denti su di almeno un pezzetto per uno, di tutto quel banchetto così faraonico, monumentale e succulento.

Gli sgomberi e gli sfollamenti erano all'ordine del giorno. Poteva capitare a chiunque.

Ben presto tutti, nelle periferie, avrebbero avuto il loro bell'appartamentino o monolocale composto da un niente di metri quadri di ampiezza all'interno di un bel quartiere o di città dormitorio, realizzati con cura e con tutti i dovuti e sacrosanti crismi. Con una bella stazionicina degli autobus o dei treni a pochi, pochissimi metri di distanza. Nel migliore dei casi costituiti giusto dalla porzione di tempo e di spazio necessari ad attraversare la serie di strisce zebrate e pedonali che univano e che collegavano due marciapiedi messi in paralleli. Ed un volta lì...prendere ognuno il suo bel convoglio ciuf – ciuf che li avrebbe condotti al proprio e rispettivo ufficio per un'altra bella giornatina da colletto bianco ed impiegato.

Beninteso...chiunque lavorasse. Chiunque potesse produrre e potersi così permettere di pagare un mutuo oppure un affitto, le tasse e le spese fisse mensili. Oltre che a comprare ed acquistare in continuazione generi di prima e di seconda necessità in modo da far girare l'economia. E quindi la finanza, s'intende. Alta o bassa che fosse.

Pertanto, i suoi compaesani ed amici erano di fatto da considerarsi esclusi dal conto e dalla cerchia. Sin dall'inizio.

Dopotutto, a cosa sarebbe mai potuta servire per il prodotto interno lordo dell'intero paese un'intera manica di perdigiorno senza fissa dimora né introiti come loro? Di gente fannullona e buona a nulla che vive e che tira a campare praticamente alla giornata?

Ad un cazzo, ecco a cosa. Punto.

Però erano uomini anche loro. Erano anche loro esseri umani come tutti gli altri, porca troia. Non bestie. E nemmeno bestiame da soma. O da macello, peggio ancora.

Gli stavano tutti quanti addosso da ogni parte, col fiato sulla schiena e sula collo. Quella fetta di territorio così tanto a lungo disprezzato, dimenticato ed ignorato, di colpo e all'improvviso aveva preso a far gola a molti. A tutti.

Il terreno edificabile attorno alla metropoli cominciava a scarseggiare, perciò si andava e ci si precipitava dove ancora ce n'era.

Quel mucchio di baracche aveva i mesi, le settimane, i gironi contati. Forse era questione addirittura di ore, considerando l'estrema velocità ed il passo vertiginoso a cui andavano e con cui procedevano i lavori.

La perfetta organizzazione, la rapidità e l'efficienza certosine delle istituzioni giapponesi, così come di chi vi lavora dentro e sotto di esse oppure alla loro dipendenze, sono a dir poco micidiali. Assolutamente implacabili.

Certo, gli occupanti si sarebbero difesi. Non avrebbero mollato o ceduto senza prima combattere.

Avrebbero creato e dato vita senz'altro ad un gruppo, o ad un consorzio. Organizzato ogni genere e sorta di proteste, blocchi, serrate, manifestazioni. Anche violente, se necessario.

Avrebbero cercato di coinvolgere pure i giornalisti della stampa, della radio e della televisione nella loro lotta, pur di far sentire la loro voce e non tacere. E quelli si sarebbero gettati e buttati a pesce, ghiotti a sempre a caccia di novità com'erano. Di notizie clamorose con cui riempire adeguatamente palinsesti, notiziari, emittenti, quotidiani e rotocalchi.

Magari qualche pezzo grosso, anche se puramente in cerca di notorietà e di visibilità e non certo animato da spirito disinteressato di carità o pietà, si sarebbe deciso a muovere il culo e avrebbe davvero preso a cuore e a carico la questione, e i loro problemi. Salvo poi mollarli, scaricarli ed abbandonarli a loro stessi dopo aver raggiunto il suo scopo. Il suo vero ed autentico scopo, che per quelli come lui in genere si traduce in una manciata di voti oppure in un articolo su qualche rivista a tiratura nazionale con tanto di foto dal sorriso ipocrita. Tutta roba utile a far carriera.

Li avrebbe spremuti e sfruttati a dovere, per poi lasciarli nella merda. Nella loro stessa merda di prima. Come prima e più di prima.

Ma d'altronde la loro era una battaglia persa, sin dal principio. Erano destinati a perdere, a venire e ad uscirne sconfitti. Un po' come era capitato a lui.

Era sempre stata una battaglia senza speranza, sin già dal punto di partenza. Come certi suoi duelli che aveva affrontato in passato, tutti all'ultimo sangue e all'ultimo pugno sul viso. Solo che, a differenza sua, in questo caso non ci sarebbero stati miracoli o ribaltamenti di fronte all'ultimo istante e proprio quando tutto sembrava definitivamente perduto.

Tra di loro, tra quelli non c'era nessuno che avesse la forza di fare come aveva fatto lui. E cioé di rendere possibile l'impossibile, anche arrivando ad attaccare briga senza motivo. E Joe lo sapeva. Lo sapeva bene.

Quella capacità così particolare quanto unica era prerogativa sì e non di un individuo su un milione, o quasi. E tra di essi un tizio con quelle caratteristiche c'era già stato, prima di allora. Pertanto...la statistica non stava dalla loro parte.

C'era già stato lui. E lui aveva già dato, in quel senso. Già dato tutto quel che aveva da dare. Ed un altro sarebbe stato di troppo.

Il destino é come Paganini. Non ripete, purtroppo.

Avrebbero potuto andare avanti a protestare e a stepitare fino a farsi saltare la gola e a farsi strappare le corde vocali. Le loro urla, grida e voci sarebbero finite tutte quante ad infrangersi contro ad un muro di gomma. Una parete alta, grigia ed inespugnabile. Ed insuperabile. Fatta di omertà, torpore, cinismo, burocrazia ed indifferenza.

Gli avrebbero rimbalzato contro per poi tornare indietro, finendo e precipitando così nel vuoto.

Avrebbero insistito finché potevano, ma alla fine erano destinati a capitolare.

Avrebbero dovuto arrendersi. Agli affari e all'evidenza.

Male che fosse andata e nel migliore dei casi avrebbero ricevuto un'indennizzo con cui non avrebbero potuto combinare grossomodo alcunché.

E glielo avrebbero fatto passare come una vera fortuna. Come un favore visto che, alla fine, erano tutti abusivi e quindi lo stato in teoria non gli doveva nulla in quanto avevano occupato in modo illegale ed inappropriato del suolo pubblico. E senza alcun tipo di autorizzazione.

Forse qualcosa gli avrebbero riconosciuto o sganciato, per farli star buoni.

Sì, giusto un risarcimento. Un'elemosina scacata che avrebbero scialacquato ben presto, per intero ed in meno di quanto non si dicesse in colossali sbronze e bevute nelle mille e mille e poi ancora mille tavernacce, chioscacci e baracchini fetenti da quattro soldi che sorgevano nei dintorni come e peggio della muffa, del muschio e dei funghi.

Li avrebbero senz'altro dilapidati nel bere, come il gran branco di falliti e derelitti che erano tutti. Fino ad intontirsi. Fino all'ottundimento. Per dimenticare di aver perso per sempre la propria casa, le proprie origini e forse persino le proprie radici, la propria identità. Che non era poi molto, ma era comunque e pur sempre qualcosa. Meglio di niente, di sicuro.

Quello era ciò che sarebbe accaduto nella migliore e più benevola ed ottimistica tra tutte le eventuali ipotesi e previsioni. Perché in quella peggiore e maggiormente pessisimistica, e quindi la più realistica...

Nel caso si fosse avverata quella li avrebbero sfrattati tutti quanti. In blocco, e senza tante cerimonie o complimenti. Che poi neanche di sfratto si sarebbe potuto parlare, visto che era noto che nessuno aveva il permesso di stare lì.

E ti credo. Nessuno aveva mai pagato un solo yen di mutuo o di affitto, oppure per mettersi in regola col catasto, col fisco o col demanio.

Non avevano mai pagato nulla per le catapecchie che abitavano, occupavano e riempivano. E che spesso ed il più delle volte si erano costruiti da soli e completamente con le loro forze, partendo da zero su di un suolo pubblico. Senza mai rivendicare, mostrare o esibire un solo scontrino o ricevuta che potessero comprovare o giustificare in qualsivolgia modo e maniera la loro sgradita quanto scomoda ed imprevista presenza.

Il governo, il comune e quindi pure la prefettura si stavano soltanto riprendendo ciò che era loro.

Altro non era che una riappropriazione perfettamente legale, dovuta e legittima, agli occhi e nell'ottica di chi l'aveva ordinata e promulgata. E di conseguenza di chi la stava mettendo in atto ed eseguendo. Ed in barba al detto che la terra, così come l'acqua, non ha confini e che pertanto dovrebbe essere un bene di tutti. Che non andrebbe mai diviso, frazionato, venduto, comprato o razionato. In nessun caso e per nessuna ragione.

Almeno tu, o viandante e vagabondo, ringrazia e sii grato al cielo di non aver mai avuto nel corso della tua vita una casa o una terra tutta tua. Perché non avendo niente, niente ti potrà mai esser rubato o portato via.

Quella terra su cui stavano ormai da così tanti anni adesso gliela stavano letteralmente togliendo e sottraendo da sotto ai piedi. E senza nemmeno chiedere permesso, dato che in realtà non dovevano affatto chiederlo. Visto e considerato il fatto che, come già detto poc'anzi, se la stavano recuperando tutt'altro che indebitamente o in modo illecito. Perché erano loro, ad essere illeciti.

Erano loro, tutti loro, i fuorilegge lì. Erano loro ad essere fuori e contro di essa. Anche se erano i metodi usati ed impiegati per farla valere, risettare ed applicarla ad essere decisamente criminali.

Essere dalla parte del giusto non ti autorizza in automatico a fare quel che vuoi.

Ma quelli volevano, dovevano riottenerne assolutamente il possesso. In ogni modo, ad ogni costo ed a qualunque e a qualsiasi prezzo. Che vi era bisogno, fame, necessità di terreni. Erano un bene prezioso, una risorsa irrinunciabile.

Terreni e spazi che fossero rigorosamente nuovi, incolti ed edificabili, pronti per costruirci sopra dopo una breve e necessaria bonifica. Ed al più presto, anche. Per placare la fretta, la febbre e la frenesia dei futuri nuovi arrivati.

Occorreva spremere e cavar fuori sangue e forza lavoro freschi. E tutto quel che era o che sapeva di vecchio, di stantio e di decrepito semplicemente doveva morire.

Doveva scomparire. Seduta stante, e senza possibilità di revoca o di appello alcuno. Che tanto nessuno avrebbe pianto, rimpianto o versato lacrime per la sua dipartita e sparizione, tutt'altro che premature. Nemmeno una.

Meglio non seguitare a mantenere in piedi ciò che era vecchio o pericolante. Quel che non sta in piedi va abbattuto.

Il vecchio doveva decidersi ad andarsene e farsi da parte per fare e lasciare posto al nuovo. Con le buone o con le cattive. Tutto stava a come gli sarebbe girata a chi stava organizzando e piantando in piedi tutta quanta l'operazione. E al suo umore.

Non gli avrebbero dato nemmeno la possibilità e l'opportunità di scegliere tra l'essere cacciati via solo a spintoni oppure drirettamente a calci in culo.

Li avrebbero fatti sfollare a suon e a colpi di sgomberi ripetuti e forzati. Ed una volta rimasti di nuovo in mezzo a una strada...non gli sarebbe rimasto altro da fare che constatarlo dolorosamente. Per poi alzare i tacchi, fare fagotto, prendere baracca e buratttini e alfine levare le tende. E pur con una certa qual sollecitudine, il più in fretta che fosse possibile. E rimettersi quindi in cammino riprendendo così un alunga, lunghissima marcia interrotta tanto, tantissimo tempo fa. Molti, moltissimi anni addietro.

Ripartire, alla ricerca di un posto dove rifondare un nuovo quartiere. Un nuovo covo e rione di miserabili.

Una nuova Corte dei Miracoli. Una nuova Ogre Street. Una nuona Whitechapel Road. Una nuova Rue Morgue.

Con tanto di nuovo Ponte delle Lacrime dove transitare ancora una volta, per poi fermarsi dopo averlo superato ed esserselo lasciato alle spalle.

Un'altra volta. Un'altra volta ancora, per poi ricominciare tutto da capo in un'altra Namidabashi nuova di zecca.

A stare, patire, sguazzare e svernare nel freddo, nella sporcizia, nella polvere, nel fango, nella sozzura, nella povertà, nell'ignoranza, nell'indigenza, nel semi oppure più completo analfabetismo e nella miseria più profonde e nere. Ma continuando nonostante tutto a sognare, sperare e desiderare di poter fare una vita da ricchi e da signori, un giorno.

Di continuare a fantasticare e ad illudersi di poter davvero diventare come loro, un domani. E solo per il fatto di viverci accanto e a fianco, ad un autentico tiro di sputo.

La cosa incredibile, davvero incredibile era come la gente, tutta la gente di quel posto ma non solo visto che sembrava esser un problema congenito di altre mille e mille rioni sparsi per tutta la capitale ma anche in ogni altra città e grosso centro o capoluogo del Giappone, ma già che ci si era pure di ogni altro paese e nazione di questo cazzo di fottuto mondo...

La cosa veramente incredibile era di come si potesse riuscire a sognare con un autentico niente, e guarda caso ovunque e dovunque vi fossero delle luride stamberghe.

Con un nulla a disposizione, proprio.

Era questo, il bello ed il brutto insieme della faccenda. Perché, a volerci ben pensare, era una cosa a di poco orribile. Che era in grado di arrivare a friggerti il cervello un giorno o l'altro, a furia di pensarci e di fissarsi.

Giornate, mattine, pomeriggi, serate e nottate insonni buttate letteralmente via. A palate. A milionate.

Buttate via ad immaginare cosa faresti e a tutto quel che potresti fare se soltanto non fossi e non ti trovassi lì, rinchiuso ed imprigionato in quel dannato buco.

Però resta e rimane il fatto che intanto ci sei dentro, a quel buco fetente e merdoso. Perfettamente rinchiuso ed imprigionato, com'é ovvio e come da copione. E probabilmente per la maggior parte o per il resto della tua squallida vita. A tentare di cavartela, di smazzartela e di arrangiarti con quel poco che hai, e che ti resta. E forse su quel poco in questione che hai dovresti imparare una piccola ma alquanto significativa cosuccia.

Forse sarebbe l'ora che tu cominciassi a rispettarlo, e a tenertelo ben stretto e da conto.

Dovresti provare a giocartela così, magari. E a farti bastare i tuoi mezzi. E magari chissà...

Magari un bel giorno potresti scoprire che quel poco che possiedi ti basta, contrariamente a quanto pensavi.

Forse potresti pure arrivare ad accontentarti, per una grama volta. E rassegnarti, finalmente. Ed essere felice, in qualche modo. A modo tuo.

E invece no. Macché. Manco a morire.

Merda, proprio.

Continui a tirare a campare, sbarcare il lunario e sopravvivere inseguendo e coltivando il miraggio di chissà che. E a covare un'invidia terribile nei confronti di chi sta sopra di te, di chiunque stia sopra di te. E continui a prenderti la seconda, la terza, la quarta e così via fino all'ultima scelta di un universo inarrivabile, vivendo dei loro scarti e della loro luce riflessa.

Oltre che a pigliartelo nel culo, immancabilmente. Ma questo ormai é da considerarsi scontato, come il non colpire alle spalle o in clinch o sotto alla cintura durante un match regolamentare, giusto per voler ritirare in ballo il pugilato.

Una vita da zerbini e da posacenere di qualcun altro, questa. Non certo da uomini.

Aveva fatto bene, a venire. Questa poteva essere una delle ultime volte in cui poteva vedere, assistere e fare da testimone a tutto questo. Forse addirittura l'ultima.

Anzi, no. Era l'ultima.

Poteva scorgere come sarebbe stato quello stesso luogo tra un anno preciso ed esatto,a partire da adesso. Anche se non ci teneva per niente, a curiosare nell'avvenire. Perché quel che aveva sbirciato non gli era piaciuto affatto. Ma proprio per niente.

Non c'era più nessun ponte. E nessun quartiere.

C'era solo il deserto, nel futuro. E poi in seguito case, villette singole e a schiera, palazzi, palazzine, condomini e persino qualche grattacielo, anche se non troppo alto. Ognuno con tanto di giardinetti e parchi ben tenuti e curati e strapieni sino a scoppiare di alberi, pinate, cespugli, siepi e verde.

Tanto verde. Ben tagliato, potato ed irrigato.

Vantaggi di chi arriva da un posto come quello da cui era appena giunto lui. Se non il medesimo, addirittura.

D'improvviso sai e conosci ogni cosa, lo si é già detto.

Tutto quel che succede e quel che ancora non é successo. E che deve e che dovrà succedere. Anche se si tratta di una ben magra e misera consolazione, se si considera il prezzo da dover pagare e quel che si deve dare in cambio per ottenere tale facoltà.

Anche questo lo si é già evidenziato.

Quel che non si é ancora detto é che spesso ti tocca e sei costretto a vedere tutto, indistintamente. Anche e compreso quel che non vorresti vedere, e di cui avresti fatto volentieri a meno.

L'ignoranza costituisce un male, ed é sicuramente un peccato. Il peggior torto che un essere umano possa fare a sé stesso. Ma in alcuni casi la si arriva davvero a desiderare, perché sarebbe un'autentica benedizione.

Il non sapere nulla é la salvezza, certe volte. Ed é bello, come era solito sostenere un tizio di sua conoscenza.

Certe volte Joe si chiedeva tra sé se ne valesse la pena, e se il gioco valesse la candela.

Come se avesse ancora qualche senso chiederselo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aveva quasi completato il suo solito e consueto giro. Anche stavolta.

Aveva da prima cominciato con colui che che era stato il suo principale compagno di scorribande, di peripezie e di disavventure per lungo tempo.

Praticamente da sempre. Nonché il suo migliore amico. Quasi un fratello, per non voler dire direttamente quello. Sin dai tempi dell'arresto con successiva detenzione e villeggiatura forzata presso il riformatorio.

Il TOKO, per l'esattezza. Quello di sicurezza massima. Quello per le occasioni speciali, per gli ospiti di un certo ragguardevole livello e per i casi più unici che rari. O disperati, e sempre per non volere dire direttamente quello. E per i delinquenti stagionati, navigati ed incalliti senza più alcuna possibilità o speranza di recupero e di riabilitazione, fossero anche solo parziali.

In realtà c'erano degli esseri umani anche lì. Anche lì dentro, sotto gli abiti che separavano le due uniche categorie a disposizione, ed in cui potevano venire raggruppati e divisi. Sotto le divise inappuntabili da sbirri da una parte e gli abiti laceri e sporchi da detenuti dall'altra. E sotto a tutta quella grinta e scorza indurite dalla vitaccia passata e trascorsa sia da dentro che da fuori alle sbarre, e questa considerzione valeva ed andava applicata per entrambe le categorie sopracitate.

Vi era ancora dell'umanità. Anche se era davvero difficile poterla vedere, o trovare.

Erano persone, uomini e ragazzi anche loro. Ognuno coi loro problemi, col loro carattere più o meno difficile, anche se per lo meno sincero. E con le loro peculiarità e i loro molteplici difetti.

Ed anche i pregi, se pur davvero pochi. Pochissimi.

Ma per scovarli bisognava mettersi a grattare ben bene tutta quella superficie così dura e spessa e scavare. Scavare a fondo. Come faceva lui nei campi di patate dolci e di rape, durante le ore dedicate al lavoro e alle mansioni di stampo agricolo.

Il tutto a mani pressoché nude, senza alcun ausilio di attrezzi di sorta. Anche a costo di farle sanguinare o di arrivare a strapparsi le unghie. Una ad una ed una dietro all'altra.

Per rinforzare così le falangi, le palme, le ossa, i muscoli, i tendini ed i nervi.

E quindi la presa. E la stretta. E la morsa. E di conseguenza i pugni, ma solo e soltanto alla fine.

Proprio come gli aveva detto e suggerito di fare il vecchio. O meglio che stava per dirgli di fare visto che a quelle conclusione ci era arrivato praticamente da solo, per proprio conto. Per pura intuizione personale.

Quante ne avevano passate. E da quante ne erano usciti, loro due.

Sempre insieme, lui e KANICHI. Praticamente inseparabili.

Era logico dunque che il tour di quest'anno dovesse iniziare e cominciare da lui. Come sempre.

Dal suo migliore amico, per non dire fratello. Che poi, a conti fatti...erano due, in realtà.

Eh, già. Perché andare a fargli visita ormai equivaleva ad andare a trovare anche un'altra persona.

Perché se Kanichi era da considerare come suo fratello, un fratello maggiore anche se spesso era pauroso e piagnone e piagnucolone e doveva esser lui stesso a doverlo spronare per darsi una mossa e farsi valere, anche a suon di cazzotti se necessario...

Se Kanichi lo si poteva ritenere tale, allora lei andava considerata a tutti gli effetti come una sorella.

Una sorellina minore. Anche se per qulache tempo la sorellina in questione aveva tanto sperato, pregato ed auspicato di poter essere qualcosina di più di questo, almeno nei confronti di un certo ragazzo. E che il ragazzo in questione, che occupava sempre i suoi pensieri la cui gamma poteva andare dal più casto e sognante in stile cotta adolescenziale tra scolaretti ai più peccaminosi ed indecenti mano a mano che era cresciuta e si era fatta donna, un bel giorno la potesse considerare in maniera ben diversa. O almeno, un po' differente dal solito.

Vana speranza. Quanto effimera, purtroppo. Purtroppo per quella fanciulla, almeno. E alla fine lei lo aveva capito e si era dovuta assegnare, accettando a malincuore il fatto che per colui che amava non sarebbe stata nient'altro che un'amica. Speciale finché si vuole, ma non e mai più di questo.

Null'altro che una cara, carissima amica a cui era oltremodo affezionato. Ma di cui non ricambiava e non corrispondeva i sentimenti, le emozioni e i desideri amorosi.

Lo aveva dimenticato, quindi. Non aveva e non le era rimasta altra scelta che fare così.

Lo aveva messo definitivamente da parte, riampiazzandolo con qualcuno che invece non chiedeva altro. Che non chiedeva che quello.

Nient'altro che un'occasione. Un'opportunità. Una possibilità, per dimostrare le sue buone intenzioni e quanto valeva. Ma soprattutto quel che valeva davvero.

E non se l'era lasciata sfuggire, a differenza sua. Né se l'era fatto chiedere due volte, cogliendola al volo quando gli si era presentata.

Lo aveva rimosso. Cancellato. Al volo. Dalla sua mente e dal suo cuore. Anche se non avrebbe mai potuto scordarlo, in fondo. Perché quel suo tacito rifiuto le era costato un mucchio ed un sacco di lacrime, e tutti quanti i suoi sogni rosa di adolescente che si affaccia alla vita.

Ma certe ferite, per quanto non si rimargineranno praticamente mai, possono servire. Possono essere comunque utili a qualcosa.

D'altra parte...questo é CRESCERE, gente. E' proprio questo, che significa crescere.

Noriko

La cara, dolce e povera Nori.

Aveva fatto bene Kanichi a proporsi, ad un certo punto. Così come aveva fatto ancora più che bene, bnissimo lei ad accettare la sua corte.

Non avrebbe potuto beccarsi partito migliore, davvero.

Lui costituiva senz'altro un ottimo sostituto e rimpiazzo. Il più valido che vi fosse e che si potesse trovare in circolazione.

Kanichi avrebbe potuto soddisfarla, accontentarla e darle tutto ciò che desiderava. E niente battutacce sconce, per favore. Che non é proprio il caso di mettersi ad usare ed insinuare doppi sensi, razza di malfidenti e maliziosi che altro non siete.

Non in quel senso lì. Non nel senso che intendete.

Kanichi le avrebbe dato solidità, stabilità, benessere, sicurezza e compagnia. Da lì negli anni a venire, perché almeno lui ne aveva avuto abbastanza.

Ad un certo qual punto ne doveva avere avuto davvero le scatole e le palle piene di continuare a fare lo scavezzacollo.

Doveva averne avuto a sufficienza di seguitare a vagare e a bighellonare in giro senza alcuno scopo e senza fissa dimora, e a vivere come un perdigiorno.

Da garzone che l'avevano preso era diventato adesso un gran lavoratore ed un bravo negoziante, abile e capace sia nella vendita che nel commercio.

Toh. Sembrava proprio che a furia di sbattersi e farsi il mazzo avesse ottenuto finalmente il tanto sospirato pallino degli affari. Capacità imprescindibile, per un proprietario o esercente di bottega.

Quasi quanto l'istinto omicida lo é per un pugile, grossomodo.

Da teppa e capobanda si stava pian piano tramutando in un trafficone ed un maneggione di prima categoria. E questa era senz'altro una buona, buonissima cosa. Pressoché fondamentale.

Far fruttare e rendere il posto che si occupa spesso é il modo migliore per riuscirselo a tenere.

Forse non l'unico. Forse uno fra tanti. Ma senza dubbio e di sicuro uno dei più validi.

Avrebbero avuto bisogno di un emporio anche nel nuovissimo quartiere residenziale che sarebbe sorto da lì a prestissimo.

Forse almeno Kanichi ce l'avrebbe fatta, a rimanersene lì. Dopotutto si era sistemato, ed aveva saputo sistemarsi ed adattarsi a quella sua nuova vita.

Era stato in grado di civilizzarsi. E soprattutto, avrebbe saputo come renderla felice. Allo stesso modo in cui si rendono in genere felici tutte quante le donne di questo dannatissimo mondo.

Alla fine sono uguali più o meno dappertutto. A Tokyo come a Parigi, a Londra, a New York, a Roma oppure a Milano.

Non vogliono tutte che la stessa, medesima cosa. E basta con le allusioni indecenti, una buona volta.

Vogliono qualcuno che sappia badare, che si occupi e che abbia cura di loro. Di loro e di tutti i figli che vorranno e che sapranno dare all'uomo con cui decideranno di accasarsi.

Vogliono sentirsi apprezzate. Uniche. Speciali. Insostituibili. Almeno per chiunque vorrà stare e rimanere al loro fianco per il resto dei loro giorni e vite. Sino all'inevitabile fine e conclusione.

Cercano qualcuno che le tenga in considerazione, e che voglia loro bene. Incondizionatamente. Ed infine vogliono diventare la sua principale fonte di felicità. La sua felicità.

Vogliono essere loro, la sua felicità. Ed in una certa qual misura andrebbero esaudite, queste richieste.

Sì. Bisognerebbe almeno far avverare i loro desideri vista la vita già enormemente travagliata, ardua e difficile che già fanno e che da sempre le attende, in quanto donne.

Dovrebbe essere tassativo, per un vero uomo degno di questo nome.

Kanichi era la persona giusta. Le avrebbe dato e donato tutto questo, ed anche di più. Tutte cose che Joe non avrebbe mai potuto dargli, e proprio per via della sua natura più intima e recondita. Con cui lui stesso, ancora adesso, talvolta faticava a trovar da fare a patti.

E andiamo. Chi mai vorrebbe sposarsi, metter su prole e famiglia, fidanzarsi, volere o cercare l'affetto o la compagnia o anche solo mettersi a fare comunella con un autentico lupo selvatico? Qual persona sana di mente lo farebbe mai?

Perché quello, era. Un lupo. Nient'altro che un lupo. Nient'altro che quello.

Un lupo che non appena si fosse stufato avrebbe azzannato alla gola, e piantato ed affondato i denti e le fauci nel collo di chi aveva vicino per poi darsi subito alla macchia e alla fuga, alla spasmodica ricerca del branco. Anche se era ormai rimasto da solo, ed il branco in questione non c'era più.

Anzi non c'era mai stato sin dall'inizio, se non come pura e mera illusione nella sua testa, mente e cervello bacati.

Se loro due si fossero messi insieme per davvero...se lui e Nori si fossero messi per davvero insieme, un giorno o l'altro avrebbe finito col sbranarla.

Avrebbe finito col masticarla per poi sputarla come una chewing – gum.

Non sarebbe durata. Era davvero troppo, troppo buona, dolce e gentile per uno stronzo come lui.

Era meglio così. Molto, molto meglio così. Mille volte meglio così.

Ogni tanto, però, doveva esser costretto ad ammettere di averci ripetutamente fantasticato sopra.

Più e più volte. Ed ogni tanto si ritrovava a farlo ancora adesso, per puro quanto semplice diletto.

A pensare a come sarebbe potuto essere condurre una vita normale. La vita normale di una persona qualunque.

Ma ormai quel futuro non esisteva più. Non era più buono neanche come idea, o come fantasticheria.

Non era mia esistito. Perché lui era ed era stato tutto tranne che normale.

Aveva sempre preferito bruciare tutto in un'unica, intensa e gloriosa fiammata simile a quella emessa da un sole o da una supernova, piuttosto che aspettare di affievolirsi finoa spegnersi completamente. Proprio come avrebbe fatto la tremula e flebile luce emessa dalla fiamma di una candela, giorno dopo giorno, fino ad esaurirsi del tutto.

Non era il suo stile. E non aveva mai fatto parte del suo essere. E non lo avrebbe fatto mai.

Mai e poi mai.

Eccolì lì, intanto.

Kanichi e Noriko stavano ancora lì. Li aveva ritrovati nello stesso e medesimo posto dove si erano sistemati, subio dopo essere convolati a giuste quanto liete nozze. Ovvero a fianco della dimora dei cari suoceri.

Dei genitori di lei, per la precisione.

I coniugi Hayashi. Ancora per adesso gli attuali titolari ed esercenti dell'emporio di alimentari che Kanichi aveva in affidamento e gestione, insieme a quella che era a tutti gli effetti da considerarsi la sua mogliettina. E che riforniva tutta la gente di namidabashi e dintorni. O almeno quella che al termine della giornata guadagnava e metteva insieme qualcosa per comprarsi ed acquistarsi qualcosa d'altro da potersi mettere sotto ai denti, invece di lustrarseli e di nettarseli come chi, di solito, alla fine di una favola o di una fiaba si ritrova senza pasto mentre quelli di cui legge sono tutti quanti belli felici e contenti.

Chi poteva ed aveva di che pagare, comprava. Per tutti quanti gli altri...si faceva credito. Con dilazioni molto lunghe.

Erano brave persone. E nessuno tra loro aveva dimenticato il fango da cui provenivano, e da cui ne erano usciti soltanto grazie alla classica botta di fortuna. Unita anche ad una certa dose di discreta quanto sapiente lungimiranza imprenditoriale, certo.

Del resto si parla di quelli che sono gli ingredienti basilari per fare un buon affare, da sempre.

Ma nessuno di loro due aveva dimenticato. Mai. Nemmeno per un singolo istante.

Fortuna e lungimiranza, ecco le doti essenziali. E a loro, agli Hayashi e quindi anche a Kanichi, era andata a dir poco a meraviglia. Ben oltre le loro più rosee ed ottimistiche previsioni.

Ritenevano quindi giusto, corretto e sacrosanto dover dividere almeno un poco di quella fortuna che gli era capitata con chi non lo era stato altrettanto. E con quelli che la buona sorte aveva deciso che non era proprio il caso di doverli stare a baciare dritti sulla fronte.

Grazie a loro non vi era nessuno, tra la gente di lì, che se ne andava a dormire con lo stomaco vuoto o con la pancia che protestava, brontolando e manifestando tutte le sue accese rimostranze per il forzato e obbligato quanto prolungato digiuno a cui veniva sottoposta suo malgrado.

Avevano sempre lavorato sodo, i genitori di Noriko. Anche se ultimamente sia in negozio che alla bancarella si presentavano e si facevano vedere sempre più di rado.

Stavano diventando vecchi, ecco tutto.

La moglie preferiva starsene in casa a sbrigare le faccende e le incombenze domestiche e a tenere in ordine, mentre il marito gironzolava a zonzo per il quartiere. E talvolta faceva ancora un salto in bottega, ma giusto per assicurarsi e sincerarsi che tutto fosse a posto e che filasse dritto e liscio.

Quando non stava a rimirare i antieri e i lavori in corso, naturalmente. Come ogni pensionato degno di questo mondo che si rispetti. E che si degno e che faccia onore sia al suo nome che al titolo che porta.

Dopotutto...non ne avevano il bisogno.

Non avevano più bisogno di stare a sbattersi oltremisura e di spaccarsi ulteriormente le schiene.

La loro attività era fiorente ed andava a gonfie vele come non mai, da quando avevano lasciato quasi tutto in mano al loro genero.

Tutto merito del buon Kanichi, dunque. Tutto merito suo, almeno in gran e buona parte.

Era in gamba e gli volevano bene come gliene avrebbero potuto volere ad un figlio. E come tale lo trattavano.

Sin da prima. E adesso...ancor di più.

Negli ultimi tempi si stavano espandendo, ed avevano ingrandito ed allargato l'attività.

Avevano assunto parecchi garzoni e lavoranti. Alcuni ad ore, ma la maggior parte tra essi con tanto di stipendio regolare e fisso. Di recente, poi, avevano comperato persino un altro paio di furgoni per le consegne a domicilio. Lo stesso Kanichi aveva sostenuto l'apposito esame per ottenere la patente con cui potersi mettere al volante, e poterne così guidare uno.

Di sicuro gli doveva essere andata meglio con quest'esame che con quello che aveva sostenuto per diventare pugile professionista, ai tempi. Anche se lui, a differenza sua, ce l'aveva fatta ed era passato al primissimo tentativo.

Era soprattutto grazie a quel gigante d'un bonaccione, così grande grosso e frescone ma dal cuore d'oro se pur con la testa di legno se l'impresa si era sviluppata così tanto, da striminzita e stiracchiata quale era in principio. E così, di rimando, anche la stanzetta attigua alla casa originaria dove si erano stabiliti e vivevano i due sposini novelli, dopo averla eletta a loro pepertuo nido d'amore.

Gli avevano costruito tutt'attorno ed intorno tutto quel che dovrebbe avere una casa, ogni casa che si rispetti, pur senza scialare.

Si era aggiunto un piccolo cucinino con tanto di angolo cottura, un minuscolo ma funzionale soggiorno e lo stanzino adesso si era tramutato nella camera da letto.

E poi, beh...ovviamente non andavano dimenticati i servizi.

Per quanto invece riguardava e concerneva la cantina, il solaio ed il ripostiglio nonché la lavanderia...alla bisogna si rivolgevano ancora ai suoceri. Che nel frattempo erano diventati pure NONNI, tra l'altro.

Esatto. NONNI. Ma si vada e si proceda con ordine. Una cosa per volta e alla volta.

Papà Kanichi e mamma Noriko stavano davvero dormendo della grossa, quando era arrivato.

Tranquilli, sereni e beati. Con la coscienza a posto e l'animo sgombro, nonostante un'altra giornata di duro e pesante lavoro. Il tutto alla conveniente quanto modica tariffa di un corpo sfatto, stanco, sfinito e semi – distrutto in cambio.

Un baratto ed uno scambio equo, verrebbe da dire. Ma si trattava di una cifra che erano entrambi ben lieti di pagare.

Specie adesso che erano GENITORI, visto lo splendido e meraviglioso risultato che stava loro accanto.

Quindi riuscivano a riposarsela tranquilli, pur tra mille e mille incombenze e preoccupazioni, quotidiane e notturne.

E così stava facendo Ayako, nella culla piazzata vicino al loro giaciglio matrimoniale.

E lei invece senza uno straccio di pensieri al mondo, data e considerata la tenera quanto giovanissima età.

Dormivano comunque tutti e tre il sonno dei giusti, a giudicare dal ritmo del respiro uniforme e regolare. Anche se nel caso dei due coniugi vi doveva essere anche quello della fatica, a fare da opportuno coadiuvante.

Kanichi, Noriko e la piccola Ayako. La loro primogenita di pochi mesi.

Che spettacolo. Una vera meraviglia. E bravo il nostro Kanichi.

Però adesso era giunta l'ora ed era proprio il caso che si mettesse in cantiere anche un bel maschietto, ce un maschio rappresenta sempre un bene prezioso. E l'orgoglio per qualsiasi padre che si rispetti al mondo. Anche se poi, in genere, con le figlie femmine finiscono sempre per perdere la testa davanti a tutte quante le loro smancerie e moine.

In ogni caso, qualunque fossa stata la strada che avesse scelto Kanichi junior o come diavolo avrebbero deciso di chiamarlo i suoi un giorno, e qualunque fossero state le mosse ed i passi che avrebbe deciso di muovere e di fare lungo il suo sentiero...sarebbe stato oltremodo saggio quanto avveduto tenerlo ben lontano ed alla larga dal pugilato.

Qualunque sport sarebbe andato bene e a meraviglia, al suo posto.

Calcio, pallacanestro, pallavolo, Judo, Karate, lotta o qualunque altra cavolo di arte marziale o di combattimento o di sport agonistico...tranne la boxe.

Per carità. Meglio lasciarla perdere, a quella. E definitivamente.

Non vi era affatto di bisogno di altro nuovo Mammuth, in famiglia ed in circolazione. Quello vecchio che già c'era bastava ed avanzava ancora.

Ad un certo punto, poi, aveva visto il suo amico girarsi e ruotare di lato con la sua enorme mole verso la propria gentile quanto minuta consorte, per poi abbracciarla. E lei aveva deciso di ricambiare in pieno, ricopiando a carta carbone il medesimo gesto d'affetto.

Di fronte a quello, Joe aveva capito che non era affatto il caso di rimanersene lì e di starsene ancora tra i piedi più del necessario e più di quanto non fosse obbligato.

Non gli restava altro da fare che alzare i tacchi e levare prontamente le tende. Ed il disturbo.

Doveva proprio andarsene, ed in fretta. E così aveva fatto, giusto quell'attimo prima che i due piccioncini iniziassero a sbaciucchiarsi per far salire gli ormoni, la temperatura, l'eccitazione...e anche qualcos'altro, già che c'erano.

Meglio lasciarli di nuovo soli. Evidentemente lo dovevano aver preso in parola ed alla lettera. Anche se non c'era mica motivo né bisogno di avere tutta questa gran premura e fretta, e che diamine.

Che cazzo. Non gli aveva certo detto di farlo ora, un bambino.

L'unica cosa che gli rimaneva ancora da fare era di sperare almeno che, vista la differenza di peso e di stazza tra loro, che Kanichi avesse almeno l'accortezza, la gentilezza ed il buon senso di lasciare che fosse Noriko, a starsene di sopra.

Inutile trattenersi ulteriormente là dentro, comunque.

Non era e non era mai stato un guardone, in vita sua. Né di natura, né tantomeno di indole o di temperamento. Men che meno un maniaco.

Anche se d'improvviso si era ricordato, forse complice la situazione, che era stata proprio Noriko ad appellarlo e ad apostrofarlo a quel modo così assai poco carino e garbato, molti anni addietro.

Era accaduto molto tempo fa. E per la precisione poche settimane dopo che avevano finalmente provveduto a scarcerarlo, essendo finita sia la pena che il periodo di detenzione previsti. E di solito le due cose hanno la tendenza ad andare a braccetto.

Stesso discorso per quanto riguardava i mesi aggiuntivi che gli avevano appioppato per quel malriuscito quanto maldestro e fallito tentativo di evasione. Che poi in realtà stava per andare perfettamente in porto, se solo il destino sotto forma di qualcuno non ci avesse messo lo zampino. E proprio nel momento meno opportuno. E Joe sapeva anche chi avrebbe dovuto tanto ringraziare per quella fuga naufragata e finita alla malora sul più bello.

Chissà se almeno gli stavano fischiando le orecchie, in quel momento.

Sapeva benissimo di chi era stata, la colpa, quella volta. Ma ora come ora non gli andava di pensarci o anche solo di nominarlo, visto che per una ragione o per l'altra ci aveva praticamente a che fare ogni giorno. Tutto il santo giorno, volente o nolente che fosse.

Meglio lasciarlo stare dov'era e dove si trovava. E lasciarlo fuori, almeno da lì.

Meglio ritornare a quel famoso incidente con quella che adesso era diventata l'attuale signora Nishi.

In quel periodo aveva fatto da poco ritorno al quartiere. Viveva, dormiva e si allenava nella baracca situata al di sotto del ponte. Che qualcuno dotato di vasta quanto fervida immaginazione nonché di uno spiccato senso dell'umorismo di stampo tragicomico, e senza contare che era guercio per via di un'occhio di meno aveva avuto il coraggio, il fegato e lo stomaco di chiamarla e di definirla come in realtà non era affatto. E cioé palestra.

Chissà, forse faceva quelle squallide quanto pessime battute per compensare la grave mancanza fisica.

Stava lì, comunque. Era la sua casa ed il suo centro. Il suo tutto. E quando non stava lì, se non aveva occasione di rimediare qualcuno con cui fare combriccola per andare a strusa e a struscio se ne filava controvoglia e mesto mesto a lavorare nel negozietto dei suoi due vecchi.

Di Noriko, s'intende.

Ma era durata poco. Non aveva voglia di lavorare. Non ne aveva mai avuto voglia, a differenza di Kanichi. Ed aveva testa soltanto per la boxe.

Non aveva che in mente solo e soltanto quella, a tempo pieno e ad orario continuato. Vita natural durante.

E adesso si voglia spendere nient'altro che un misero minuto nel facile tentativo di indovinare a chi andasse attribuito il merito di tutto ciò, vi prego.

Dai, che é un vero gioco da ragazzi. Come bere un bicchier d'acqua, o anche meno.

Forse di chi gli aveva fatto per oltre un anno e mezzo una testa e due gran coglioni così con quel cavolo di sport?

Fatto stava che dietro al bancone teneva sempre un atteggiamento arrogante, indisponente e spocchioso. Ed inoltre matrattava e rispondeva a tono e più spesso sgarbatamente sia ai clienti che alle massaie. Dandogli di volta in volta dei tirchi, dei taccagni, degli spilorci e dei pidocchiosi. E solo perché quasi tutti gli aquirenti, a parer suo, si mettevano sempre a voler tirare sul prezzo e non spendevano mai abbastanza.

Ma magari era perché davvero non ne avevano abbastanza di che spendere.

Ci aveva mai pensato, a questo? Ad una simile eventualità e possibilità? Ed in fin dei conti neanche così remota, ad occhio e croce?

Probabilmente no. Ma certo che no.

Certo che no, perché lui era stato sempre uno che pensava e ragionava in fretta. Ed agiva ancora più in fretta.

Troppo in fretta, talvolta. E spesso a sproposito.

Quando poi lo avevano dirottato in magazzeno, peggio che peggio. Da non parlarne proprio.

Si imboscava e rintanava nel retrobottega a guardarsene la televisione, per scovare i programmi sportivi. In cerca di notizie che riguardassero i pugili suoi futuri colleghi. Nonché futuri contendenti ed avversari.

A distrarlo bastava un niente. Era sufficiente soltanto un articolo che fosse anche solo alla larga e alla lunga inerente all'argomento che tanto lo appassionava. E nemmeno sul quotidiano del giorno, per giunta, visto che i giornali lì li utilizzavano per incartare ed impacchettare i prodotti appena venduti.

Il più delle volte erano trafiletti e ritagli di pagine già vecchie di qualche settimana. Se non addirittura ancora più vecchie. Prese dalle cataste di riviste impilate e conservate al solo scopo di avvolgere adeguatamente gli alimenti, giusto un attimo prima di consegnarli a chi li aveva comperati.

La sua fantasia non si accontentava che di quello come miccia, per scatenarsi e prendere così a volare a briglie sciolte.

Ma di questo passo sarebbe occorso anche meno, per perdere di volata tutti quanti gli affezionati avventori. E sarebbe stata la rovina, per l'intera attività.

Comunque com'é, come non é...fu proprio durante e nel corso di una di quelle sue oramai abituali, abitudinarie e consuete sortite nel didietro del locale che si era imbattuto in Noriko. Mentre questa rientrava e faceva ritorno dalla scuola, nel primo pomeriggio. E l'aveva beccata proprio mentre si stava levando e togliendo la parte superiore della divisa studentesca e d'istituto. E rimanendosene così seminuda davanti ai suoi acchi strabuzzati ed esterrefatti.

In reggiseno. Bianco. Di pizzo.

Così. Bella bella.

E naturalmente dopo un breve, brevissimo quanto legittimo e giustificato attimo di silenzioso imbarazzo, la cara fanciulla aveva reagito. Com'era giusto, del resto. Ed aveva quindi iniziato e cominciato a strepitare e ad andare in escandesecenze, tirandogli addosso ed in pieno muso la propria cartella di scuola seguita a ruota e rispettivamente nell'ordine dall'astuccio, dai quaderni, dalle penne e dalle matite. Senza ovviamente dimenticare i libri di testo ed infine pure il diario. E gridandogli dietro un paio di coloriti epiteti che ancora ben si ricordava.

Eh, no. Su di lui e sul suo conto se ne potevano dire di ogni, e tutte pienamente condivisibili.

Che era uno scavezzacollo. Un brigante. Un violento. Un rissoso di natura. Un attaccabrighe. Persino un delinquente ed un avanzo di galera, di riformatorio e di gattabuia. Ed un truffatore, un ladro ed un taccheggiatore. Ed un ricattatore e taglieggiatore, anche. E un ricattatore. Ed un approfittatore. E pure un ingrato, un mangiapane a tradimento. Ed un irriconoscente, già che ci si era. E uno che tirava a campare di espedienti, non volendo fare pressoché nulla ed inventandosene perciò mille. E un vagabondo, un randagio. Un cane senza collare.

Ma anche un pazzo masochista, a gudicare da come lo consideravano alcuni tra quelli che erano soliti seguire le sue gesta sul ring. Gli spettatori abitudinari che non se lo perdevano mai, ogni volta che si ritrovava per amore o per forza costretto a muoversi, danzare, combattere, colpire e subire tra le quattro corde. Soprattutto per quella sua tendenza e vocazione congenita ed innata a doverne e volerne pigliare sempre una valanga, un sacco ed una sporta prima di iniziare, come sarebbe dovuto essere lecito quanto dovuto per uno che si trovava e che versava nella sua situazione e nelle sue disperate condizioni, a restituire pan per focaccia all'avversario e a ripagarlo con la stessa e medesima moneta cominciando a ridargliene indietro anche lui qualcuno.

Secondo alcuni pareri lo faceva per il semplice fatto che amava e gli piaceva patire e soffrire, come se intimamente sentisse di avere qualche colpa da dover espiare.

E forse era davvero così...anche se non del tutto.

Secondo altri si comportava così, a quel modo, perché era uno a carburazione lenta. Come certi treni provinciali e regionali circolanti nelle tratte di estrema periferia. Ed alimentati e funzionanti a gasolio in quanto residuati provvisti e dotati ancora di vecchi quanto vetusti e consunti motori a diesel.

Alla pari di un anziano e vegliardo trattore smarmittato. Ci metteva una vita e mezza e forse ancor di più ad ingranare, ma quando metteva ed infilava finalmente la quarta non ce n'era più per nessuno.

Non c'era più verso di bloccarlo o arrestarlo. Non lo fermavano più.

Avanzava lento ed inesorabile, e nella sua marcia spianava e stirava tutto come e meglio di un rullo compressore. Di uno schiacciasassi. O peggio. E guarda caso ed ironia della sorte, pure quei mezzi erano a diesel. E consumavano e sbevazzavano gasolio che era un piacere ed insieme una bellezza.

Secondo una terza cerchia e fetta di estimatori, cultori e di pubblico si ostinava a fare così perché era il suo stile. Per una quarta era per via del suo carattere. E per una quinta era fatto fatto così, era la sua natura e non ci si poteva fare niente. Ed infine...

Ed infine per una sesta era solo una gran testaccia di cazzo e basta. Ma talmente dura che non gliel'avrebbero mangiata manco i cani. O i muli. O i cavalli. E la cosa davvero incredibile era che pure questi erano suoi fans.

Gli volevano bene e gli erano affezionati al punto di arrivare a idolatrarlo proprio per quello.

Perché indipendentemente dalla ragione che lo poteva spronare a farlo...tutto ciò era e costituiva un suo lato e tratto unico quanto distintivo.

Era pazzo. Non gliene fotteva di niente e di nessuno. Neanche di farsi rompere le ossa o spaccare la faccia. Nemmeno di farsi ammazzare.

Nemmeno di morire.

Non ci poteva fare nulla. Era il suo modo di concentrare, accumulare ed incanalare la rabbia per arrivare poi alla vittoria. L'ira e la furia per arrivare così alla gloria. L'unico sistema per raggiungerla ed ottenerla, dal suo punto di vista. Il punto di vista di chi non aveva mai avuto niente, dalla vita. E a cui il mondo aveva sempre sputato, pisciato e cagato in testa sin dal primo, primissimo momento.

Tutti i pugni, le botte, le mazzate, i papagni, le busse e gli sganassoni presi e ricevuti ottenevano l'effetto contrario. Parevano rinvigorirlo e rafforzarlo invece di piegarlo, afflosciarlo ed indebolirlo.

“Rocky” Joe Yabuki era questo. E', era e sarebbe sempre stato così. Vita natural durante ed in eterno.

Lui era fatto così. Senza compromessi o vie di mezzo di sorta.

Poteva essere una qualsiasi a scelta tra le cose appena elencate, anche decidendo di tirare a sorte.

Ognuna, tra quelle. E persino tutte insieme.

E giusto per ritirare in ballo un discorso che si era appena terminato di intavolare...

Nei casi più estremi qualcuno, in passato, gli aveva anche dato del poco di buono. O dell'avanzo di galera e di riformatorio. Dello scavezzacollo. Del perdigiorno. Del buono a nulla e a niente. Persino del bastardo, dello stronzo e del pezzo di merda.

Ma anche del campione. E del fallito, certo. Già che c'erano. Che poi, in fin dei conti e a conti fatti e a voler ben guardare, le due cose sono e rappresentano da sempre due lati della stessa e medesima moneta e medaglia in quanto dalla vittoria alla sconfitta e vice – versa il passo é relativamente breve. Ed il confine sottile. Ma molto più di quanto si possa immaginare.

E poi, in passato, gli avevano dato anche del troglodita. Del cavernicolo, del violento, del cafone, del villanzone e del rincivilito. E del lupo feroce, aggressivo, selvatico e selvaggio. E del cane rabbioso, ramingo, randagio ed inselvatichito. Ma talvolta anche stanco, malato ed infetto.

E per qualche tempo anche del killer e dell'assassino. Specie dopo una certa vicenda e faccenda che aveva sconvolto lui in primis, non bisogna certo scordarlo e dimenticarlo. E al seguito tutta quanta la federazione puglistica con le alte, altissime sfere e i capoccia in toto ed al gran completo.

Tsk. Sfere, Come i coglioni che gli facevano sempre girare, proprio. Ed infatti viaggiavano e stavano sempre tutti in gruppo, ed erano in numero ben superiore ad una coppia. Come una sorta di malformazione naturale. Congenita e genetica. Di quelle il cui esponente andrebbe messo in un istituto di ricerca per venire sezionato e studiato. E tenuto dentro ad un vasone o ad una gigantesca ampolla di cloroformio, alcool o formalina per meglio conservarlo quando non si é impegnati a tenerlo sul tavolo di un anatomopatologo per tagliuzzarlo ed esaminarlo.

La fine che dovrebbero fare tutti i vecchi barbogi e bavosi come quelli.

Da lì in poi, comunque, il passo verso l'intera opinione pubblica in generale era stato breve. E subito dopo tutti giù a dargli dell'uccisore e del macellaio.

Peccato solo che nessuno si accorgesse di quanto quella cosa lo avesse devastato e distrutto, soprattutto dentro. Perché erano soliti dire che avesse un deserto sterile, al posto del cuore. Dove non sarebbe mai cresciuto nulla, nemmeno un fiore o uno stelo o filo d'erba. E che gli unici fiori che conosceva erano quelli fatti di sangue, che sbocciavano nel momento stesso in cui si tirava una centra sul naso a qualche idiota, mandandogli sia il setto che le narici in frantumi. E spedendoglieli fin dentro al cervello.

E poi lo avevano chiamato, appellato e nominato anche demone. Diavolo.

Un giovane demonio scappato, scampato, fuggito, sputato, rigurgitato e vomitato fuori per direttissima dagli inferi. Dal profondo degli inferni. Dal fondo e dall'abisso più profondo ed oscuro della Gehenna, dell'Ade.

Direttamente nato, creato e proveniente dal peggior luogo dell'oltretomba e del paese delle ombre e dei fantasmi.

Uno scarto e vomito di verme e di rifiuto umano, insomma. Ma che la gente aveva finito con l'eleggere quasi al rango di un Dio. Solo ch invece di offrirgli tributi e sacrifici in suo onore, nel suo caso era avvenuto l'esatto contrario.

Era piuttosto lui, a doversi sacrificare sempre in onore dei suoi adepti e sudditi. In cambio del loro sollazzo e divertimento.

Che Dio generoso e magnanimo, che era. Proprio come un certo tale.

Proprio come quel tale che erano solti venerare i Kirishitan, i cristiani.

Tra l'altro pareva, si diceva e si mormorava e spifferava in giro che il tipo in questione si trovasse sulla sua stessa terra natia. Che la condividesse. Perché stando a certe voci di corridoio ufficiose e non proprio ufficiali sembrava che il tipo provenisse proprio da lì.

Vi si era stabilito a crescere e a studiare sino a raggiungimento dell'età adulta prima di recarsi in pianta stabile da tutt'altra parte, e per la precisione nel suo paese di origine, per motivi ed esigenze di lavoro. E che lì un giorno avesse fatto ritorno, dopo che le cose laggiù per lui non si erano messe affatto bene. E dopo aver messo su e piantato in piedi uno show di quelli davvero memorabili. Di quelli che non si dimenticano, neanche dopo duemila anni e più.

Un po' come le baracconate che era solito architettare lui tra le quattro corde che componevano il ring, per certi versi o sotto certi quali aspetti.

Ne più né meno. E senza voler certo azzardare paragoni scomodi o fuori luogo.

E si diceva anche che la sua tomba si trovasse attualmente nei pressi di un piccolo villaggio di pescatori denominato Shingo. Nella regione di Tohoku, prefetttura di Aomori e distretto di Sannohe.

Queste ultime informazioni lesi voglia considerare ad esclusivo uso, consumo ed usufrutto di pignoli, perfettini, precisini e certosini vari ed in genere rompipalle che altro e niente hanno di meglio da fare se non stare a mettere sempre i puntini sulle i.

Che se li ficchino dentro al culo e ce lo si spazzino, una buona volta.

In quanto alla sottoprefettura, gente...beh, semplicemente non pervenuta in quanto non presente.

Tutto qui. Puro e semplice.

Ma tu guarda un po', però. Anche di lui sostenevano che provenisse e che fosse originario di Shingo.

Una coincidenza? Qualcuno direbbe di no. E comunque, in ogni caso ed in entrambi i casi, non erano e non rimanevano che illazioni. Chiacchiere e dicerie senza alcun fondamento né costrutto.

Fantasie. Di questo, si trattava. Senza nulla di concreto né dietro, né sotto. E riguardo al tizio di cui si era appena finito di accennare e di cui si parlava prima e poc'anzi...il diretto interessato, interpellato in proposito, non aveva lasciato trasparire ne trapelare pressoché niente, in merito. Alle domande si era sempre, solo e soltanto limitato a mantenere un dignitoso riserbo e silenzio, conditi giusto ed al massimo da qualche risposta sfuggente quanto evasiva. E se teneva l'acqua in bocca pure lui...

Ma almeno questo lo si poteva confermare. Perché c'era.

C'era stato., il famoso colloquio in questione. Anzi, era stato lui stesso a porgli tali quesiti e domande, in un'occasione. L'unica in cui si erano incontrati ed incrociati, per una volta.

Tzé. Almeno il figlio si era fatto vivo e lo aveva beccato. Suo padre, il principale, mai.

Incredibile a dirsi, Joe era stato anche questo. Ma come già detto e ripetuto sino alla nausea, non era un maniaco. E nemmeno un guardone.Tanto meno un pervertito.

Avea preferito quindi andarsene, avendo deciso così su due piedi che era meglio ma molto molto meglio levare il disturbo e lasciarli definitivamente da soli. A lasciarli fare ciò che la notte e l'istinto di entrambi stava consigliando e suggerendo loro.

Si dice che la notte é fatta per amare, olte che per dormire.

E l'istinto atavico di prosecuzione, procreazione, perpetuazione e conservazione della specie che é da sempre insito in ognuno di noi, in questo caso...ci mette il resto. Il sale ad insaporire e a rendere gustosa una pietanza.

E poi, visto che si stava parlando di natura...pur sempre quello era e di quello si trattava, no?

In fin dei conti non si trattava che di natura pure quello.

Pur sempre di natura. E di istinto. In molteplici versioni, varianti e sotto vari, diversi e differenti aspetti.

E pur sempre quello stesso istinto che fa nascere la scintilla dell'innamoramento in una coppia che ancora si deve unire e formare. Il medesimo che, in altro tempo ed in altro luogo, in un individuo solitario gli origina e gli fa scattare dentro l'impulso omicida.

Il bisogno intrinseco di uccidere presente in un guerriero o in un combattente. Oppure la scossa che genera l'attrazione tra un uomo ed una donna per poi portarli ad unirsi. Ad abbracciarsi. A baciarsi. E poi magari anche a chiavare, scopare e fottere.

E a fottersi, invariabilmente ed inevitabilmente. In tutti e due i casi.

Alla fine, no é che un continuare a fottere in attesa di venire fottuti. Aspettando di esserlo. Da colei che prima o poi...fotte tutti. Da sempre.

In fondo é sempre quello stesso interruttore, a venire schiacciato. Anche se gli effetti possono cambiare ad ogni attivazione, così come possono essere tra i più svariati, imprevedibili ed inaspettati. Tanti quanti sono gli esseri umani che esistono e che calcano col loro piede la terra, grossomodo e come minimo.

Ognuno é un caso a sé.

Forse Nori avrebbe voluto tanto che Joe premesse tutto un altro tipo di bottone, con lei. Insieme a lei. Peccato che lui ne avesse già premuto uno prima, facendo tutto per i cazzi suoi e senza chiedere un cazzo a nessuno. Come al solito.

See. Il pulsante dell'auto – distruzione, ecco cosa.

O forse era stato un altro a premerglielo, quel cazzo di pulsante...anche se Joe aveva sempre avute nutrito il sospetto che chi glielo aveva schiacciato non avesse fatto altro che avvicinarsi ad esso per poi scoprire che il dispositivo e il meccanismo erano già attivati.

La macchina era già entrata in funzione da tempo. E non restava altro da fare che metterla in moto. E sulla pista.

Beh, se non altro...ci aveva pensato Kanichi, per fortuna.

Ci aveva pensato il caro bestione, a lei. Al posto suo.

Meno male. Tutto é bene quel che finisce bene.

Almeno per loro.

Stabilito questo, adesso erano proprio giunti il momento e l'ora di smontare l'accampamento, ritirare le tende e rimettere lo zaino ed il borsone in spalla. E di sgomberare definitivamente sia il campo che il comando cedendoli ai due piccioncini e sposini, che avevano di certo, senz'altro e senza alcuna ombra di dubbio pieno e sacrosanto diritto ad un poco di meritata privacy e riservatezza.

Dopotutto...visti li aveva visti. Anzi, rivisti. E con grande quanto enorme piacere.

Erano ambedue in buona quanto ottima salute, e a giudicare da come stavano per darci dentro parevano anche piuttosto belli vispi ed arzilli. E già più che in procinto di sfornare e concepire un altro marmocchio bello sano e forte.

Moccioso in arrivo, gente. Se non addirittura una bella cucciolata. Una calda e fumante tazza bella ripiena di allegri frugoletti. Fate largo.

Lui, ormai, certe cose le sapeva. Se le sentiva in anticipo.

D'altronde, dopo che si é stati e si proviene da un certo posticino...si sa tutto. Si scopre e si conosce ogni cosa.

Quel che é stato, ciò che é e quel che sarà.

E a tal proposito...era proprio l'ora di sbrigarsi e di spicciarsi. Aveva ancora un bel mucchio di visite, da fare.

Gli restavano ancora un bel po' di volti, di figure e di persone da dover rivedere e reincontrare.

Così tanta gente gli rimaneva, ancora. E così poco, pochissimo tempo...

Doveva decisamente darsi una mossa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aveva fatto quindi visita ai ragazzi. A tutti i suoi ragazzi.

A quelli con cui era solito andare in giro a taglieggiare, borseggiare, turlupinare, truffare e rapinare la gente. Oppure a rivendere e a smerciare sottobanco e di contrabbando la roba che avevano appena rubato. O che si erano disonestamente guadagnati tramite la solita quanto consueta ed ormai desueta sequela e sfilza di trucchetti e raggiri da strapazzo.

E queste ultime partivano quando in genere si trovava di lena buona o particolarmente ispirato ed in vena di cattiverie e autentiche bastardate della peggior specie. Tipo rimuovere i vetri delle macchinette del pachinko, fare incetta di palline e sbancare così la sala da gioco mandando il titolare o l'esercente in bancarotta.

Era una prassi consolidata, per la loro allegra brigata. E fa pure rima, guarda un po'.

Era il loro modo il loro modo per riempire e far passare le le giornate. L'unico che avevano e che conoscevano, per superare giorni sempre uguali. Tristi e grigi, senza niente. Senza nient'altro che la loro compagnia reciproca.

Ed era il modo per colmare adeguatamente il vuoto sia di mezzi che esistenziale. E pure affettivo, mi sa tanto. Urlando al contempo in faccia ed in muso alla grande città, all'ancor più grande paese e nazione che li accoglieva ed ospitava e da lì al mondo, al mondo intero sul quale stavano e su cui poggiavano i loro luridi piedi intabarrati in scarpe mezze sfondate, fraciche e ciancicate, per chi aveva la fortuna di disporre e di possederne almeno un paio che non fossero troppo consunte e malridotte...

Per urlare in faccia a tutti e a tutto che non era giusto.

A tutto e a tutti quanti. Che non era affatto giusto. E che loro, almeno loro, a tutto questo non ci stavano. E che alle porche regole stabilite da quel mucchio di stronzi che avevano dato vita a quello che era un autentico gioco al massacro loro non avrebbero mai aderito. E se proprio si doveva e non si poteva fare a meno di iscriversi, loro non avrebbero mai partecipato come volevano quelli.

Non avrebbero mai gareggiato secondo le schifose regole messe a loro esclusivo uso e consumo, per legittimare tutte le loro porcherie e merdate varie.

Nossignore. Lui e la sua banda di scapestrati avrebbero sovvertito e ribaltato tutto.

Curioso. Davvero curioso. A ben guardare era la stessa filosofia d'accatto che un giorno avrebbe portato e che si sarebbe ritrovato ad applicare pienamente allo sport che avrebbe ben presto imparato ad amare così tanto. E con sincero quanto genuino entusiasmo, mentre lo faceva.

I suoi ragazzi. Che aveva conosciuto sin dal primo momento in cui aveva messo piede lì, in quel posto ed in quel luogo. E con cui aveva ben presto cominciato a far comunella ed imparato ad andare d'amore e d'accordo ben presto dopo gli iniziali screzi, conflitti e contrasti.

Sin dal primo giorno. Sin dalla prima volta.

Erano come destinati a fare gruppo. E a stare insieme, nonostante le reciproche quanto istintive divergenze e diffidenze, specie in principio.

Dapprima avevano nutrito e sviluppato un comprensibile, reverenziale timore nei suoi confronti. Lo stesso che si sarebbe potuto provare nei confronti di un boss di quartiere, di una famiglia mafiosa o di una gang. Una compagnia o una compagine di malavitosi.

Un sentimento che però, col tempo e col passare dei giorni, delle settimane e dei mesi in sua vicinanza si era ben presto tramutato in solida e sincera complicità ed amicizia, sorretta e coadiuvata dalla mutua e reciproca stima.

Anzi...era persino riduttivo, quel termine. Erano più, di quello. Più che amici.

Molto di più.

Erano come fratellli, tutti quanti. E non solo per impietosire ed ingannare i giornalisti e qualche frescone pieno di pecunia in vena ed in aria di beneficenza facile. Così, giusto per farsi bello e darsi visibilità.

Per tutti quanti loro Joe era come un fratello maggiore. Era il fratello maggiore che non avevano mai avuto. E che avrebbero tanto desiderato di poter avere, un giorno.

E così...voilà! Sim, sala...BIM!!

Eccolo qua, in carne ed ossa!!

Il fratello maggiore che tanto volevano. Ed il migliore che avrebbero mai potuto sperare di avere. E che sarebbe mai potuto capitare, ad un branco e torma di ragazzini che nononstante la giovine età erano già belli dritti, sgamati e prezzolati come e peggio di un adulto.

Il migliore del circondario e sulla piazza. Dritto dritto nelle loro ancora piccole, giovani ed acerbe vite ancora ancora da gustare e da godere. Ed ovviamente, da vivere.

E per Joe era idem con patate. Li considerava tutti i quanti suoi fratellini.

I suoi fratellini minori. Con in più una sorellina.

Si amavano, loro della cumpa. E rubavano e truffavano proprio perché si amavano così tanto.

Se li era accattivati sin da subito. Persino ancor prima di quanto fosse ed avesse previsto.

Li aveva letteralmente incantati, affascinati, affabulati. E poi infine belli che conquistati.

Facile come bere un bicchiere d'acqua. Per loro era come tutto un gioco.

Nuovo ed insieme estremamente terribile, rischioso, pericoloso e spaventoso quanto sapeva essere anche incredibilmente divertente, appassionante, entusiasmante e stimolante. In egual misura.

Pendevano letteralmente dalle sue labbra e facevano senza fiatare qualunque cosa loro dicesse. E a lui gli si sciglieva il cuore, in loro compagnia e presenza. E cercava sempre di accontentarli, in ogni cosa.

Il suo gruppo. La sua cumpa. La sua banda. La sua truppa. La sua ghenga.

La sua torma, come già detto. La sua masnada.

Detto pure questo, almeno sembrerebbe.

Il suo branco, visto che si stava sempre parlando di lupi. Con loro a fare da lupetti e da lupacchiotti e lui a fare da capobranco.

Da maschio alfa. Da Akela. Anche se ai tempi era incapace persino di comandare, gestire e badare persino a sé stesso. Così come di darsi un contegno ed una sana regolata.

E forse lo era rimasto pure adesso.

Erano davvero dei teppisti, a volerci ripensare con un minimo di attenzione.

Una manica di disgraziati. Dei ragazzacci scatenati e scapestrati senza alcun limite o freno inibitore. Ma tra loro erano affezionati l'uno con l'altro.

Si amavano e si volevano bene, a modo loro. In un modo tutto loro e tutto speciale.

In un modo tutto loro e tutto particolare fatto di scherzi, di lazzi, di sberleffi e persino qualche insulto e coppino che ogni tanto volava sulla nuca.

Tutti uniti dal fregarsene e dal fottersene bellamente ed allegramente di ogni cosa. Dall'infischiarsene sempre, comunque, assolutamente ed inesorabilmente di ogni norma, legge e regola. Alle volte persino di quelle morali.

Sembravano davvero inarrestabile ed inacciuffabili, ai tempi. Praticamente invincibili.

Sentivano di poter fare tutto, e di poter ottenere facilmente ogni cosa. Tutto quel che desideravano o volevano semplicemente spalleggiandosi, fiancheggiandosi, sostenendosi e facendosi ripetutamente forza e coraggio a vicenda.

Un autentico plotone di belve e di furie in miniatura, animati e ravvivati da un sacro fuoco che gli bruciava negli occhi senza mai sosta o arresto di sorta. E dentro nel cuore. E pronti ad azzannare e a piantare ben bene fauci, zanne e dentini nelle reni e nelle terga del mondo degli adulti. E a farsene beffa.

Sì!

Di tutti quegli stronzi di grandi che li avevano sempre ignorati e abbandonati.

Sì! Sì! Sì!!

Quegli stronzi mal cagati di adulti. Tutti così belli tronfi, sapientoni, superbi, arroganti e supponenti.

Che credevano di esser sempre e soltanto tutto loro e di saper sempre tutto loro. E di saperla sempre più lunga e migliore degli altri. Specie di chiunque gli fosse più piccolo e più giovane.

Buoni sempre, solo e soltanto a sputare sentenze e a sparare giudizi. Unicamente quelli. E che si arrogavano pure tutti quanti i diritti di farlo come se fosse per loro naturale, doveroso e sacrosanto.

Sempre a dirti che, cosa e come devi dire, fare e rispettare. E quello a cui devi obbedire, altrimenti scatta la punizione.

Praticamente ti costringono e ti obbligano a fare tutto sotto ricatto.

Paer la maggior parte del tuo tempo di bambino vivi come un autentico ostaggio. Né più, né meno.

E poi gli davano a loro, dei criminali. Osavano definirli tali.

Fà questo, fa quello, sii sempre ubbidiente e rispettoso, sorridi, stà composto e bello ritto e diritto con la schiena, stà fermo, stà al tuo posto, stà zitto, non fare gesti, saluta, inchinati, rispondi alla domanda che ti hanno fatto...

E già che ci sei mettiti giù a quattro zampe e fatti mettere un collare. Perché giunti a quel punto non ti manca altro che metterti ad abbaiare e a scondinzolare. E non ti mancano che un guinzaglio da attaccare al collare e una ciotola. E un padrone che ti porta fuori una volta al giorno a fare i bisognini.

E che paio di palle, gente.

Ma che due gran paia di palle grosse e fumanti, proprio.

Sempre un ordine dietro l'altro. Non ne hanno mai abbastanza.

E vaffanculo, và. Non é vita.

Non é mica vita, questa. E poi non capiscono mai che là fuori, quando loro non si trovano lì a vigilare tutti i loro bei precetti, dettami, principi e comandamenti vari vengono sistematicamente e prontamente stracciati e buttati dentro al cesso.

Nel dimenticatoio e al macero. E pure in men che non si dica.

I suoi ragazzi.

Era passato tutti a trovarli, uno dopo l'altro. E senza tralasciare nessuno.

E come era ovvio e ben risaputo, almeno da parte sua...anche loro, tutti loro stavano dormendo saporitamente, profondamente e della grossa.

Aveva fatto prima tappa da Sachi. La piccola Sachi.

Com'era carina e tenera, tutta bella immersa e sprofondata negli abissi del sonno. Da cui non sarebbe risalita prima di domattina.

Graziosa e dolce come una gattina. Ed altrettanto sveglia e furba. E pronta a mordere e a graffiare, se occorreva.

Una piccola gattina scaltra e dispettosa.

Che poi, piccola...occorrerebbe parlarne.

Aveva già iniziato a notare che da un po' di tempo aveva iniziato ad arrotondarsi nei punti giusti, la pupattola.

Le stavano già comparendo le prime forme che ben presto l'avrebbero condotta verso la donna che un dì sarebbe certamente diventata.

Stava proprio per essere in procinto di sbocciare come un fiore, la ragazzina. Un bel fiore fresco, variopinto, carnoso e profumato. Che avrebbe ben presto attirato a sé api, fuchi e farfalloni, ben pronti a ronzargli intorno. Ma anche calabroni, vespe e mosconi, se non fosse stata abbastanza attenta.

Gli sarebbe dipeso da lei. E dalla sua coscienza. Ma per fortuna, come tutte le rose, era anche dotata di spine che al bisogno e all'occorrenza sapeva ed era ben in grado di usare per difendersi.

E questo non era certo un male. Anzi...non poteva che rappresentare sicuramente un bene visti i brutti, bruttissimi tempi che correvano.

Avrebbe saputo cavarsela senz'altro egregiamente, il fiorellino. Chissà chi lo avrebbe colto, un giorno.

Chissà se sarebe stato un ragazzotto del quartiere oppure un bel giovanotto di città.

Sachi era carina, dopotutto. O meglio, carina lo era sempre stata. E adesso lo stava diventando ancor di più. Anche se per far colpo su di una certa tipologia di maschietti avrebbe dovuto finalmente cominciare a fare amicizia e a prendere confidenza col sapone.

Decisamente.

Comunque...ciò che contava, che contava davvero, era che chiunque sarebbe stato fosse la persona giusta. Che il tizio in questione l'amasse, l'amasse veramente. E che non fosse soltanto alla ricerca di un'avventuretta facile o squallida o di semplice soddisfazione di stampo carnale.

Che la trattasse come meritava. Come una donna. Come la donna che era.

Come un angelo. Anche quando si sarebbe comportata da strega o da demonio, il più delle volte senza volerlo.

Perché le femmine sono fatte così. Basta saperlo. E capirlo.

Ed ogni uomo, ogni vero uomo che rispetti e che sia degno di tal nome, a questo mondo...DEVE saperlo. Per forza.

Così vanno trattate, le donne. Come angeli. E come fiori.

Così avrebbe dovuto trattarla, il suo futuro uomo. Non come una prostituta o una puttana, anche se veniva da zone e quartieri umili, squallidi, miseri e degradati. Anche se forse lui stesso sarebbe potuto venire da lì.

Sì é grandi uomini quando si riesce ad oltrepassare e a scardinare le regole e i limiti che lo spazio ed il tempo in cui siamo costretti a vivere, e che ci ritroviamo giocoforza ad occupare, ci impongono. Che lo si voglia o no. Che ci piaccia oppure no.

Se nasci e cresci in un posto di merda come questo e arrivi a diventare grande senza lasciare che ti condizioni, e senza lasciarti convincere che solo perché ti trovi qui sin dall'inizio allora hai il destino segnato dalla nascita...allora sei un grande.

In certe cose...é importante, molto molto importante che qualunque cosa si faccia o si decida di fare, la si faccia con e per amore. Non per desiderio, anche se magari all'inizio ci sta, é giusto e sacrosanto lasciarsi trasportare da esso.

Per amore. Perché solo quello può generare la stima ed il rispetto reciproco, anche quando il fuoco della passione si affievolisce e talvolta si può esaurire.

Ma con l'amore a fare da comburente e da carburante può sempre ravvivarsi. E quando meno ce lo si aspetta. Perché sotto la fredda cenere le braci ardenti ci sono sempre.

Per amore. Per amore, capito?

Mai solo per desiderio. O per passione, e basta. O per egoismo e disperazione, peggio ancora. O per vile denaro, addirittura.

Chissà se la non più tanto piccola Sachi aveva già perso la testa, la bussola e la trebisonda per qualche aitante maschietto che le fosse più o meno coetaneo.

Chissà de qualche parte già vi era o esisteva qualcuno che già le faceva palpitare e sussultare forte il tumultuoso cuoricino al solo pensiero.

Del resto, come già si stava dicendo...le ragazze sono fatte così.

Tutte uguali. Non cambiano mai. Vecchie o giovani, grandi o piccole che siano...a loro interessa ed importa soltanto una cosa. Non vogliono che quello.

E piantatela una buona volta con queste battute del cazzo, razza di bestie.

Appunto.

Vogliono soltanto trovare l'amore. Il vero amore. Il grande amore della loro vita.

Pare che solo così riescano a sentirsi complete, felici e realizzate.

Un tempo, quando si vedevano praticamente un giorno sì e l'altro pure, tra un allenamento in palestra ed una corsa con in debita aggiunta una bella seduta di allungamenti e di stretching al termine della suddetta qaunto faticosissima sessione...Joe aveva avuto modo di ritenere che quel ruolo, sotto sotto, fosse sempre appartenuto, spettato e riservato a lui.

Il posticino caldo e tutto speciale dentro nel cuore di quella bambina lo doveva aver tenuto occupato lui, almeno per un po'.

Per un bel po', aveva idea.

Joe, dentro di sé, aveva sempre sospettato che Sachi avrebbe voluto tanto, un giorno, volergli bene ed amarlo come avrebbe fatto un'adolescente o una vera donna, oltre che come una mocciosa o una ragazzina.

Ogni tanto ci giocavano pure, alla famiglia. Anche se gli altri preferivano giocare al torneo di Sumo o a baseball.

Avrebbe voluto tanto essere una moglie, per lui. Una fidanzata. Una compagna. O anche solo un'amante. Da una volta e via, che tanto era sempre meglio di niente.

Perché forse sarebbe riuscita a legarlo a lei, così facendo. Almeno per un poco.

Che non volesse solo rimanere un'amica o una conoscente, e basta. Morta lì.

Un po' come Noriko, alla fine. Né più, né meno.

E Sachi non ne era rimasta indifferente. Nemmneo lei.

Lo doveva sapere, per forza. Doveva sentirselo senz'altro dentro, quel sentimento, anche se ovviamente non era ancora in grado di interpretarlo o decifrarlo a dovere in quanto troppo acerbo.

E ci mancherebbe pure. Era ancora troppo giovane, per capire. E troppo piccola per poter amare, almeno in quel senso. Ma doveva averlo sicuramente provato.

O forse lo provava pressochè da sempre. Anche adesso. Ma lui non avrebbe mai potuto amarla come lei desiderava, e darle quel tipo di amore che tanto cercava e voleva.

Ma pazienza. Andava bene anche così. Poco importava.

C'era tempo. C'era il tempo.

Lui, ormai, non ne aveva più. Mentre lei aveva a disposizione tutto quello del mondo.

Lo avrebbe ben presto scordato, dimenticato e sostituito e rimpiazzato con un altro a fare da uomo dei suoi sogni, almeno sotto a quel punto di vista.

Non del tutto, però. Non su tutto il resto, almeno.

Ed il fatto che fosse stato lì con lei, anche se per poco, ne era e ne costituiva la prova.

Non sarebbe potuto arrivare fino a lì, altrimenti. Non sarebbe potuto giungere fino a lei anche per quella sera, se lei non lo avesse pensato. Fosse anche solo per un breve attimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo Sachi era andato a far visita a tutti gli altri.

Questione di priorità. E di cavalleria.

Prima le donne, d'altronde. E sembra giusto.

Non bisogna mai mettere da parte o in un angolo il galateo, la cortesia e le buone maniere.

E adesso era giunto il turno degli altri membri.

Dei ragazzi.

Di Taro. Di Kinoko. Di Gonbei. Di Tonkichi e di Chukichi.

In verità Joe aveva un po' di timore a presentarsi a quell'ora, mentre si trovavano sui loro giacigli improvvisati e sotto alle loro coperte di quart'ordine e da quattro soldi. Spesse, ruvide ed ispide come la cute di un pachiderma.

Con loro aveva avuto un po' di timore, a volerla dir tutta.

Aveva avuto una paura dannata di coglierli in flagrante e sul fatto. Di beccarli con le mani dentro alle mutande, tutti belli intenti a trastullarselo dandoci giù di manovella a più non posso.

Anche per loro l'ormone doveva aver cominciato a galoppare e a scalciare impazzito.

Soprattutto per loro. Ed attraverso i suoi rappresentanti più noti e rinomati, almeno per un uomo.

E Joe, da collega maschio quale era, e con qualche anno in più sulle proprie spalle da rasentare quasi la decina, ne sapeva ben qualcosa, in proposito.

Perché se le care fanciulle tendevano a pensare, ad agire e a ragionare col cuore i boys per contro prefrivano impiegare due anzi tre parti piuttosto significative poste parecchie spanne di distanza più sotto.

Il cazzo e le palle.

Ci era già passato, da più giovane. Quando la vita si faceva dura e i coglioni si riempivano sino all'orlo e fin quasi sul punto di stare per scoppiare, dal tanto che ti giravano...allora non ti rimaneva altro da fare che svuotarli, per calmarti. E dato che le tue coetanee spesso sono attratte da quelli più grandi di te, quelle anch'esse più grandi non ti si filano e non ti si cagano proprio di pezza mentre quelle più piccole, beh, sono troppo piccole...allora non ti rimane che provvedere, arrangiarti e soddisfarti da solo.

Il mito del playboy che esce e va in giro la sera a chiavare chi gli pare per tutta la notte fino alle prime luci dell'alba é già morto a diciotto primavere, e forse anche prima. Ed il bello é che continuano ad inseguirlo come se niente fosse. Come se ancora esistesse.

A quell'età sei e ti senti come un vulcano attivo. In colata lavica perenne. Sempre sul punto di straripare. E basta un niente per scatenare un'eruzione di quelle memorabili.

Potresti farlo diciotto volte al giorno senza lacune problema e poi andartene a giocare a pallone con gli amici, ed invece se ti riesce di farlo una volta in diciotto anni é già grasso che cola.

Grasso. E non sperma, dopo aver pistonato e stantuffato a dovere fino ad arrivare al punto di non ritorno dove si trabocca e si spurga, purtroppo per te.

Per fortuna che da ragazzino non c'é niente, assolutamente niente di male a farsele. Così come non c'é niente, assolutamente niente al mondo che non si possa risolvere e a cui non si possa porre rimedio con una bella sega.

Una buona, sana e bella sega tirata come si deve e a regola d'arte.

Ma gli era andata bene. Ed in un certo senso ci aveva sperato e confidato, che potesse andare così.

Niente pensieri o azioni impure, sconce o peccaminose. Almeno per quella notte.

Bisognava fare tutti i buoni ed esser belli e bravi bambini, perché quella era una notte assai particolare.

Era una notte magica. Una notte santa.

Era la notte di Natale.

Della vigilia, per la precisione.

Non era mai stato in vita sua chissà quale fervente praticante delle tipiche festività e delle ricorrenze religiose. Men che meno osservante. Ma almeno in quello ci si raccapezzava ancora, e poteva affermare senza paura e senza alcun timore di essere adeguatamente ferrato in materia.

Un poco. E poco é pur sempre meglio di niente, dopotutto.

La conosceva bene anche lui, quella tradizione.

Grossomodo la ricorrenza in questione doveva riferirsi nello specifico al compleanno di qualcuno.

Proprio il tipo sepolto a Shingo nominato giusto in precedenza, e che ci tenevano a spacciare per presunto messia. Anche se ormai vi era da dire che da tempo aveva perso gran parte della sua sacralità, come festa. Ed ormai la si aspettava principalmente per un altro motivo.

E ciò valeva in special modo per i bambini. Soprattutto per loro.

La si attendeva trepidi per via di un vecchio tutto vestito di rosso con un lungo berretto terminante in una grossa nappa pelosa, panciuto e dalla barba bianca che avrebbe fatto visita a notte fonda a tutte le case del circondario, portando un mucchio di tanti e ricchi doni.

Più o meno belli. Più o meno graditi. Più o mneo desiderati e voluti. Più o meno richiesti.

E...no. Sbagliato. Non si tratta del DEMONE PANCIONE ETCI'.

Fuochino. C'eravate quasi arrivati. Avete mancato e fatto acqua giusto per un soffio.

Difatti li aveva visti tutti con un bel sorriso a non ancora trentadue denti stampato sui loro faccini. Sachi compresa.

Sorridevano tutti da sotto ai baffi e da sotto le coperte, mentre dormivano es e la ronfavano di gusto della grossa tutti tranquilli, beati e alla gran più bella nonostante dovessero essere oltemodo eccitati. Da non stare più nella pelle, proprio.

Era naturale. Anche se non é che avrebbero ricevuto chissà quali regali, dato che da quelle parti non ci si poteva certo permettere di sprecare soldi in lussi.

Neanche un solo yen. E loro stessi erano i primi, ad esserne perfettamente consci e consapevoli.

E meno male. Almeno sarebbe servito loro a mitigare lo sconforto e la delusione.

Non te la prendi più di tanto, se sai quel che ti aspetta sin dall'inizio. Anche se quel che ti aspetta in genere é brutto. E squallido.

Alla fine, é tutta una questione di aspettative. Ognuno ha le sue. Basta solo non esagerare troppo.

Sarebbe bastato un giocattolo, un dolcetto, una manciata di caramelle, una macchinina mezza ammaccata o una bambola od un bambolotto di pezza mezzi rattoppati e ricuciti alla bell'e meglio.

Oppure alla meno peggio, che dir si voglia.

Sarebbe bastato loro quello, per renderli felici. Niente di più. Ed alle volte, anche molto di meno.

In fin dei conti ci si arrangiava e ci si accontetava di poco e con poco, nel quartiere. Da sempre.

Era così praticamente da sempre.

Bastava quanto poteva bastare. Non una sola oncia di troppo. E cose quelle erano più che bastanti e sufficienti per rendere a tutti quanti quei ragazzi l'indomani venturo un poco meno gramo ed amaro.

Di un poco, almeno.

Nel caso di Sachi, poi, giusto per tornarci sopra un istante...la piccola, per quest'anno, forse doveva già essere e considerarsi più che soddisfatta e a posto così, anche se per ragioni non proprio inerenti e riconducibili direttamente alle strenne ed ai regali natalizi.

Suo padre aveva iniziato a stare meglio, finalmente. E lo si poteva ormai considerare sulla via della più completa quanto definitiva guarigione. Del più pieno e totale recupero. E questo costituiva sicuramente il regalo più grande e più bello di questo Natale, per lei.

No, non avrebbe potuto chiedere o aspirare di più, per la fine di quest'anno.

Un caldo ed avvolgente lampo di orgoglio aveva pervaso il petto di Joe, in quel momento.

Lo aveva potuto sentire e percepire chiaramente. Ed era giusto che fosse così.

Dopotutto aveva provveduto lui a farlo curare pienamente a suo carico ed a sue spese, dentro al migliore e più rinomato tra gli ospedali.

In verità Joe aveva pensato, e pensava tuttora, che il regalo migliore e più bello di tutti era quello che gli stava facendo adesso. O meglio, quello che gli aveva fatto con quell'improvvisata.

No. Non avrebbe mai potuto fargliene altro di più meraviglioso, al di fuori di quella visita così inaspettata e fuori programma. Anche se nessuno tra loro, tra tutti loro ne avrebbe mai avuto né serbato o tenuto memoria.

Nessuno se ne sarebbe mai ricordato. Né dell'avvenimento, ne della sua breve quanto fugace presenza.

Era una cosa che sarebbe rimasta confinata nel mondo e nel regno dei sogni, dove l'avrebbero custodita e conservata gelosamente.

Per sempre. Per tutto il resto delle loro vite. E senza mai saperlo o redenrsene conto, questo era il bello.

Gli mancavano, i suoi ragazzi. Gli mancavano un sacco. E lui doveva mancare senz'altro a loro.

Mancava a tutti.

Si mancavano da morire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era giunta quindi la volta della palestra.

Della sua palestra. Del luogo dove era iniziato e cominciato tutto, un giorno.

Il TANGE BOXING CLUB.

La nuova struttura, venuta su e costruita a fianco e quasi in parallelo alla vecchia sede primigenia si era ulteriormente ingrandita, di recente.

Si era fatta ancora più grande. Così come il numero dei tesserati e degli iscritti. L'avevano ampliata in modo da ospitare ancora più gente.

La maggior parte degli acquisti e tra gli atleti più recenti veniva dritta dritta dalla capitale. E lì vi faceva rientro e ritorno alla sera. Una volta che avevano finito e terminato di sudare, picchiare e sbuffare.

Alle proprie case, alle proprie dimore e alle proprie famiglie, se ce ne avevano.

Joe aveva preso ad osservarli già da un po'. Naturalmente senza interferire, anche nel loro caso. Com'era più che ovvio. E tra i tanti, insospettabilmente, ne aveva scorto pure di assai talentuosi.

Sì, ve n'era decisamente qualcuno di estremamente promettente, che da lì a poco avrebbe potuto fare il suo definitivo e sordio e debutto.

Erano quasi pronti a puntino. Per gli juniores o tra i dilettanti, a seconda dell'età.

Con la nuova gestione avevano dunque deciso di seguire il suo consiglio e di fare le cose per bene, e per gradi. Senza accelerare troppo i tempi, oppure mettersi a forzare le cose e la mano più del previsto e più di quanto fosse necessario.

Ed in seguito, se le cose avessero preso la giusta e dovuta piega, ed avessero iniziato ad andare e a filare a gonfie vele e tutte secondo i piani...avrebbero esordito anche tra i professionisti.

Un giorno. Poi. Forse.

Era saggio fare a quel modo, comunque. E andava bene così.

Meglio procedere e proseguire per gradi e con estrema cautela, piuttosto che rischiare di bruciare le tappe come aveva fatto lui. Con tutte le conseguenze del caso.

Pure quelle tragiche, beninteso.

Del resto, dopo la sua vicenda...avevano imparato la lezione. E da quel momento in poi erano stati tassativi su di una cosa prima di tutto.

Patti chiari, se si aveva intenzione di continuare. Altrimenti, in caso contrario...non si andava avanti. E si bloccava tutto.

Solo su di una cosa erano diventati pressoché inamovibili.

Una soltanto, ma determinante. E cioé che non ci sarebbe mai stato un altro, un nuovo ed un secondo Joe Yabuki.

Mai e poi mai. In tutti i sensi, e non solo perché i campioni e i fuoriclase di razza come lui nascevano e venivano fuori una volta ogni cento anni, se andava bene.

Mai più, un altro come ed uguale a lui.

Mai più, nella vita.

Uno gli era bastato ed avanzato. Ed era stato più che sufficiente.

Per tutti quanti.

Ma la novità, la cosa veramente strana e singolare era che stavano aumentando sempre di più i pugili occasionali. Valeva a dire quelli che chiedevano di imparare e di praticare la boxe senza particolari velleità o finalità agonistiche.

E questo era da considerarsi a dir poco incredibile, visto e considerato che il vecchio gli aveva sempre inculcato e messo in testa che il pugilato era e doveva essere sempre, invariabilmente una questione di vita o di morte oltre che di vincere oppure di perdere.

Questo nutrito stuolo di inediti quanto anomali cultori e fruitori sembrava farlo al solo scopo di restare in salute ed in forma.

Quello era e costituiva la loro unica aspirazione.

Per mantenersi sani e vigorosi. Oltre che per sfogarsi.

Per scaricare, buttare fuori e svuotarsi della rabbia, del nervoso, della frustrazione e dello stress accumulati. Magari dopo una dura, durissima giornata in ufficio o sul lavoro. Alle prese con pile di scartoffie e turni a dir poco massacranti in fabbrica o sui macchinari. E che avevano e si ritrovavano per colleghi, oppure per capi, superiori e responsabili degli autentici pezzi di stronzi e sacchi di merda che pensavano e ritenevano di essere chissà chi solo per il fatto di avere, portare ed indossare un bel vestito o un costoso completo. O qualunque cosa e genere di abito che avesse e che contenesse come componenti una giacca, una cravatta, una camicia ed un colletto. Bianco, in genere.

Peerò.

Praticarlo unicamente per diletto, piuttosto che per passione. Alla stregua di un hobby o di un passatempo.

Poteva essere e costituire una scoperta storica. Un'autentica rivoluzione. Lo sviluppo e l'apice di una nuova frontiera mai esplorati prima. Un territorio inedito. E non di meno un nuovo, nuovissimo quanto interessante modo di intendere questo sport. E lo sport in generale.

Renderlo amatoriale. Ovvero...che fosse e che diventasse alla portata di tutti e di chiunque, anziché di un'elite chiusa, esclusiva ed esclusivista con numeri, accessi e concessioni ridotte all'osso.

E lui ne sapeva giusto qualcosina, visti gli sforzi che aveva dovuto fare in buona compagnia di Kanichi e del vecchio, per farsi accettare da quel mucchio di bastardi coi portafogli belli gonfi e zeppi di soldi. Da fare schifo.

Si ricordava che il vecchio era andato addirittura ad implorarli in ginocchio nella sede utilizzata per i loro incontri privati, pur di convincerli a dare anche solo una possibilità a loro due. Per poi piantar su un mezzo casino a dir poco memorabile, quando si era accorto che lo stavano pigliando per il culo senza nemmeno starlo a sentire.

In quanto a lui...aveva utilizzato il suo tipico e vecchio metodo.

Buttarla in rissa, tradotto in soldoni ed in sintesi. Per poi agire proprio come aveva fatto in occasione della truffa coi finti trovatelli.

Era andato al torneo degli esordienti, aveva steso davanti a tutti ma soprattutto ai reporter, agli scribacchini e a giornalisti dei quotidiani sportivi e non uno dei pugili appartenenti ad una delle palestre che avevano dato addosso alla sua.

La più accanita. Per poi inventarsi la classica parabola dello sportivo moritficato.

In cosa consiste? E' molto semplice.

 

QUESTI NON MI VOGLIONO PERCHE' HANNO PAURA DI PERDERE.

 

E con la storia degli amatoriali era la stessa, medesima cosa.

Magari all'inizio, per uno abituato a gestire le cose in ambito prettamente ristretto e familiare una svolta così radicale avrebbe potuto costituire senz'altro una bella grana ed un bel problema.

Ma alla lunga avrebbe potuto rivelarsi una trovata davvero geniale, a dir poco. Ed un vero affare che avrebbe potuto fruttare un bel po' di tintinnante e di frusciante pecunia. Anche se, proprio come si era detto, nel breve sarebbe stata senz'altro solo una gran rottura di palle e di scroto. Specie per chi faceva da sempre le cose in piccolo, nel ristretto e nell'initmo. E non ci vedeva nessuna ragione per la quale tutto quello doveva cambiare.

Ma é una questione di sopravvivenza. Da quello sarebbe dipeso l'andare avanti dell'attivita stessa. La vita del club e della palestra.

Le cose cambiano. E bisogna sapersi adattare ed evolvere.

E' la legge della giungla. O ce la si fa, oppure si soccombe.

O cresci, o muori. Non esistono vie di mezzo.

Di sicuro non sarebbe stato facile gestire tutto quel nugolo multiforme di pugili della domenica, più o meno improvvisati.

E pensare che una volta un allenatore se ne sceglieva uno solo ed uno soltanto, e quello si teneva. Fino alla fine della sua carriera di allenatore. O di manager. O talvolta del pugile stesso.

Come un Guru con il suo Chelà. Come un maestro col suo discepolo, che allo stesso modo finiva a fargli da schiavo.

Lui gli insegnava ciò che sapeva, e l'altro lo accudiva. Gli dava da mangiare e gli teneva pulito sia il letto che la dimora, visto che l'allievo doveva ospitarlo in casa sua.

Come un autentico parassita. Anche se forse si trattava più di simbiosi.

Finivano per vivere assieme. E diventavano tutt'uno.

Lui ed il vecchio avevano fatto proprio così.

Il vecchio aveva fatto proprio così, con lui. Aveva sempre fatto così, con tutti i suoi pugili.

Ben pochi, beninteso. A detta dei suoi illustri ex – colleghi, soltanto un pazzo masochista o un teppista e delinquente incallito e avanzo di galera poteva essere disposto a farsi allenare e a sopportare le botte e gli insulti di un vecchio e pazzo ubriacone manesco quale era lui.

Ma ormai erano cambiati decisamente i tempi.

Quanto cambiano, accidenti. E con quale velocità, poi.

Pazienza.

I ragazzi avrebbero senz'altro trovato il modo di resistere e di superare anche questa. E di andare avanti, in qualche modo e maniera.

Avevano tempo, entusiasmo, idee. E pazienza.

La grinta e la voglia di fare non gli mancava di certo. Ed in passato lo avevano senz'altro ben dimostrato, continuando a rimanersene in piedi nonostante tutte le sberle prese, subite e ricevute in malaugurato dono dalla malasorte, che evidentemente doveva divertirsi e goderci di brutto a pigliarsela con loro e a pigliarli sempre di mira.

Ed anche in questo, Joe aveva saputo dare il suo preciso quanto corposo contributo.

In primis, per giunta. In quanto ne aveva costituito l'esempio più significativo, clamoroso ed eclatante. Tra i tanti che erano accaduti alla loro associazione.

In tutto questo, l'unica parte che ancora non avevano provveduto ad ampliare e che non era mai cambiata in tutto questo tempo era la sezione al piano superiore.

Quella preparata ed adibita a dormitorio comune. E tutto lasciava presagire e presupporre che non l'avrebbero mai fatto.

Che non l'avrebbero mai cambiata, nel tempo e nei periodi a venire. O almeno nel tempo che sarebbe rimasto.

Se poi si sarebbe trattato di mesi o di anni, beh...quello sarbbe dipeso né da loro, né da Joe.

Quest'ultimo era in grado di vedere un certo, possibile ed immediato futuro. Persino probabile.

Ma il futuro non é scritto. Non del tutto, per lo meno.

Non lo é mai, per intero. E vi é , vi può essere sempre un certo margine e spazio di manovra.

La sorte, per gran parte del quartiere, era da considerarsi praticamente segnata. Ma chissà se almeno a loro avrebbero concesso di restare e di rimanrsene in loco per via di opportuni meriti ed onoreficenze sportive. O magari avrebbero smantellato tutto anche lì, per poi ricostruire interamente da un'altra parte. Proprio come avevano in mente di voler fare i genitori di Noriko.

Sì. Pareva proprio che i coniugi Ayashi stessero da tempo soppesando e valutando l'ipotesi e l'eventualità di accettare ed intascarsi la buona uscita da parte delle autorità nei confronti di chiunque, da quelle parti, fosse titolare e proprietario di un esercizio economico ben avviato.

E poco importava che dopotutto fossero tutti quanti partiti più o meno alla pari, almeno all'inizio.

Come abusivi.

Non gli interessava. Così come avevano deciso di non tenere minimamente da conto il parere della loro unica figlia, che sulla faccenda in questione non é che fosse questo gran che d'accordo.

Anzi, a volerla dir tutta non era d'accordo e non le andava ben per niente.

Lei era nata e cresciuta lì. E lì aveva sempre vissuto.

Quel posto era la sua casa. La sua patria.

Ma i suoi ci avevano messo e ci mettevano ancora adesso i soldi. E quindi non é che lei avesse non é che avesse purtroppo questa gran voce in capitolo, nonostante lì dentro ci lavorasse.

E Kanichi? Che ne pensava il buon, grande e grosso Mammuth, in tutto questo?

Beh, la pensava uguale e si trovava perfettamente d'accordo con sua moglie. Ma anche lui non contava niente.

Idem come sopra con contorno di patate anche per il suo consorte, quindi.

Kanichi serviva giusto per far andare bene gli affari e tenere in ordine il negozio e i conti, anche se col suo impegno ed il suo gran daffare gli aveva fatto e gli faceva guadagnare tuttora fior di quattrini. Ad autentiche palate. Ma restava il fatto che il capitale iniziale ce l'avevano messo i suoceri, quindi...entrambi avevano e si ritrovavano con le braccia e le mani completamente legate, e non potevano farci pressoché nulla.

Senza contare che un giorno avrebbero preso in mano tutto quanto, e se le cose fossero continuate così si srebbero ritrovati tra le mani una vera fortuna.

Meglio stare zitti e lasciar perdere, dunque.

Forse avrebbero potuto lasciare da quelle parti un negozietto più piccolo o almeno una bancarella, visto che in fin dei conti ci tenevano. E molto, anche.

Coi loro prodotti a buon mercato davano da mangiare e sostentamento a parecchia gente del posto.

Ed anche a chi non se lo poteva permettere, facendogli opportuno credito.

Ma poco importava anche lì, dopotutto.

Possedevano tanti di quei soldi ed altrettanti ne avevano ricavati di recente che non avrebbero avuto alcun tipo di problema. Se non quello di perdere per sempre la loro identità. Insieme alle loro radici.

Ma alla fine...aveva mai avuto delle vere radici, la gente che abitava quel posto?

Non lì, di sicuro. Perché venivano ed erano venuti tutti da altrove.

Avrebbero potuto tranquillamente risollevarsi, dalle difficoltà. Come e quando volevano.

Ed ovunque avrebbero deciso di andarsene a svernare, in modo più o meno permanente che fosse.

Forse i ragazzi del club avrebbero potuto seguire il loro esempio.

Già. Avrebbero fatto molto meglio a fare la stessa e medesima cosa.

Abbattere, smantellare e demolire tutto quanto. Radere al suolo ogni cosa, per poi fare fagotto e partire. Ed una volta giunti a nuova destinazione...ricostruire e riavviare. E da lì così ripartire.

Ricominciare. Ovunque si trovassero ed ovunque si fossero andati a ritrovare. Ovunque fossero giunti.

Forse era la cosa migliore. La migliore da fare, nonché l'unica.

Naah. Erano troppo orgogliosi. Non lo avrebbero mai fatto. Non avrebbero mai potuto farlo per davvero.

La sua cerchia era troppo orgogliosamente e stupidamente testarda e cocciuta per voler davvero decidere di abbandonare la sua terra e la sua gente. Quelle che ormai erano diventate la sua terra e la sua gente, a tutti gli effetti. E ciò adesso iniziava a diventare valido anche per chi, lì, non ci era venuto al mondo e né ci era venuto su grande.

Sentivano di far parte di qualcosa, ormai. E come contraddirli, maledizione?

Non gli si poteva certo dar torto. Perché quando passi tanto tempo, tanto di quel tempo in uno specifico luogo e ci vivi a lungo ma tanto a lungo, forse pure troppo a lungo...alla fine finisci col DIVENTARE QUEL LUOGO.

Sul serio. Finisci per DIVENTARLO, quel luogo. Per davvero.

Diventi quel posto. Punto. Sei tu, quel posto. E lui é te.

E Joe ne sapeva qualcosa anche su quello. Tanto per cambiare.

O tutti o nessuno. Questa era la regola. Era sempre stata la regola.

La regola non scritta impartita a memoria tra tutti loro, e che tutti li teneva uniti.

La regola che era marchiata, stampata ed impressa a fuoco nei loro cervelli, nei loro spiriti e nei loro cuori.

Giù tu, giù noi. E viceversa.

Sarebbero rimasti fino all'ultimo. Fino a che glielo avrebbero consentito e permesso. E avrebbero lottato fino alla fine.

Non se ne sarebbero mai andati. Non se ne sarebbero mai potuti andar via, piantando in asso e con un palmo di naso gli altri. I loro amici. I loro fratelli.

Pazienza anche su quello. Quel che aveva visto e che continuava a vedere e a scorgere non erano che previsioni, ipotesi di realtà.

Erano scenari, versioni possibili.

Una sorta di visioni di profezie. Scorci e squarci di futuro.

Probabilmente quasi probabili, e si perdoni lo squallido gioco di parole. Ma non certi.

Mai da considerarsi assolutamente e matematicamente certi. Almeno fino all'ultimo.

Perché fino all'ultimo, decisivo attimo nulla era e nulla poteva essere ancora definitivamente stabilito, scritto oppure determinato, a riguardo.

Il futuro...non é siglato nero su bianco. O meglio lo é ma si cancella, scrive e riscrive in continuazione. Ad ogni attimo.

Ad ogni nuovo secondo ed istante si può morire come ci si può salvare e continuare a vivere.

Ognuno di essi, ognuno di quegli istanti può essere l'ultimo. Come il prossimo, o il primo.

Tutto é possibile. Nulla é perduto.

Pertanto, nell'attesa che la definitiva sorte di tutti loro gli si fosse rivelata davanti agli occhi...se ne rimanevano e restavano ed erano ancora lì. Ognuno al proprio posto.

Ognuno al proprio posto di combattimento. Compresi i tre dentro all'angusta saletta al primo piano, sopra ai rispettivi giacigli piazzati per la notte.

Kono, Chomei e Masato.

I primi tre allievi che aveva deciso di prendersi il vecchio guercio. Dopo di lui e di Kanichi, ovviamente.

I primi tre che erano stati attirati e richiamati dal riverbero e dall'eco delle sue mirabolanti e prodigiose imprese e gesta. Dopo che, di colpo e quasi senza volerlo o aspettarselo, si era ritrovato quasi per caso sulla ribalta e sulla scena mondiale ed internazionale. E senza neanche perdere del tempo a scalare la classifica nazionale giapponese, per giunta!

Davvero il colmo. Il colmo dei colmi.

Ed era stato tutto merito di quel formidabile quanto combattutissimo match all'ultimo sangue col grande Carlos Rivera, terminato con uno strettissimo pari e patta che aveva lasciato insoddisfatti entrambi.

Ma non vi fu mai un'ulteriore bella. Tanto meno una rivincita.

Tutti e due, finito l'incontro, avevano di meglio da fare. E li attendeva un mucchio di lavoro arretrato.

Uno avrebbe avuto da ricostruire e reinventare per intero una carriera sfolgorante che si era interrotta proprio sul più bello. E che adesso era assolutamente da far ripartire da capo. Dall'inizio e praticamente da zero. Mentre l'altro aveva avuto finalmente il benstare ed il beneplacito per il tanto atteso quanto agognato incontro valido per il titolo della categoria, contro l'attuale detentore e campione.

E ben si sa come andò a finire per entrambi, in seguito...

Col classico e scontato senno di poi, sarebbe stato meglio per entrambi continuare ad affrontarsi tra di loro. Per sempre.

Joe Yabuki contro Carlos Rivera. L'inizio delle loro inattese fortune e della loro simultanea rinascita. Ma per un certo verso e sotto ad un certo qual aspetto...anche di tutte le loro sfortune e disgrazie. Sino ad un reciproco e vicendevole epilogo che volere definire tragico era un autentico eufemismo. Per non dire un complimento.

Carlos...

Chissà come stava.

Chissà come se la stava passando in quel momento, poveretto.

Era da un bel pezzo che non lo vedeva. Che non voleva vederlo, in verità, anche se avrebbe potuto benissimo farlo. Quando e come voleva.

E Carlos se ne sarebbe accorto, visto che quelli come lui...dispongono di una sensibilità tutta particolare.

Quelli come Carlos si trovano su una linea di confine. Un bordo che permette di cogliere entrambi gli aspetti dei due mondi su cui stanno sospesi, in bilico perenne.

Ma Joe non se la sentiva, di fargli visita. Non ce la faceva.

Non reggeva, a vederlo ridotto a quel modo.

Ma chissà se in tutto questo passato e trascorso aveva recuperato almeno un minimo di lucidità, di raziocinio, di presenza mentale e di coscienza di sé.

Il dottorone che aveva deciso di prenderselo con sé in consegna, in custodia ed in cura come paziente privato e a titolo completamente gratuito nonostante le generose e cospique offerte da parte di chi a Carlos ancora ci teneva, Kinisky o come cavolo ed accidente si chiamava, aveva proprio tutta quanta l'aria di uno di quei geni e cervelloni assoluti.

Pare che fosse un autentico luminare e specialista assoluto ed unico, nel suo campo. Di quelli che a prima vista sembrano poter fare e realizzare tutto, persino l'impossibile.

La stessa cosa di cui dicevano sul suo conto, guarda caso. A parer di tanti anche lui faceva l'impossibile, una volta calcato il ring.

Beh...d'accordo compiere l'impossibile, ma a voler fare i bastian contrari ed usare un po' di sano pessimismo cosmico, qui più che di compiere l'impossibile si trattava di realizzare un miracolo divino.

A dir poco. E per quanto abili, esperti e capaci che siano...gli uomini, per i miracoli, sembra che debbano ancora attrezzarsi a dovere.

Tutti, nessuno escluso.

Non vi era e non restava da fare altro che da sperare bene, ed augurarsi che andasse tutto quanto per il meglio. O per lo meno...per il meno che fosse peggio.

Comunque, tornando a quei tre, erano ancora tutti lì. Sempre sistemati nell'angusto e stretto stanzino ricavato in un angolo del piano superiore, visto che al piano terreno dabbasso e sottostante ogni centimetro disponibile era dedicato ai sacchi, al ring e agli attrezzi vari.

Kono, Chomei e Masato.

Coloro a i quali aveva fatto da maestro e da fratello maggiore, nonché da esempio.

Forse da idolatrare, questo sì. Questo lo si ammetta pure. Ma non certo da seguire.

Men che meno da imitare, vista e considerata la fine che aveva fatto.

Erano venuti dal vecchio perché volevano diventare come lui.

Avrebbero voluto tanto essere come era lui. E ci avrebbero tanto sperato.

Con tutto il cuore e con tutta quanta l'anima. Peccato solo che con le speranze e basta non si costruiscono i sogni, e nemmeno si possono realizzare i desideri.

Erano tre gran bravi ragazzi, in gamba e volenterosi, anche se spesso e volentieri un po' pigri ed indolenti. Al punto che alla prima opportunità che gli si presentava sgattaiolavano via e si imboscavano per marcare visita. E saltare e scansare così ed in tal modo gli allenamenti.

Vi era però da dire, a loro parziale difesa e discolpa, che i metodi del vecchio erano davvero duri e pesanti. E che col passare del tempo non erano certo ed affatto migliorati.

E che nemmeno si erano alleggeriti. Tutt'altro, se mai.

E per forza. Non potevano altro che peggiorare. Alla stregua di tutte le cose che inesorabilmente invecchiano e che si ritrovano, ogni anno che passa e che DomineIddio decide di mandare in terra, con sempre più tempo sul groppone.

Come la salute, il fisico, l'umore ed il carattere.

Ben in pochi riuscivano a reggere un simile regime. I più scappavano. Ed il vecchio non ci pensava minimamente a mollare il colpo o ad allentare la presa e la morsa.

Ma neanche a pensarci, proprio. Nonostante sia lui che Kanichi lo avevano invitato ed avvertito a più riprese di darci un deciso taglio. Sia con gli improperi che con le bastonate. Ed anche le sberle e i coppini sulla nuca. E poi tutto quanto il resto del repertorio, che non valeva nemmeno la pena stare lì a nominare o ad elencare.

Si ricordava che quei tre erano stati gli unici a passare, tra quelli che si erano presentati alle selezioni iniziali.

I soli, a sopravvivere. E adesso erano gli unici ad occuparsi degli attuali atleti. Fatta eccezione per Kanichi, che però andava lì a dar loro una mano quando poteva. Se poteva.

Era chiaro. Ormai aveva gli affari e i cazzi suoi di cui occuparsi. E certamente altro di più importante a cui dover pensare, tra famiglia e lavoro.

Il vecchio non allenava. Si limitava a fare un giro ogni tanto dentro al locale, per sincerarsi che andasse tutto bene e che non gli danneggiassero o rovinassero nulla.

Per il resto e per la maggior parte della giornata se ne stava a zonzo. E aveva pure ripreso a bere.

Come prima, più di prima. Addirittura peggio di prima.

Alle volte lo dovevano andare a riprendere a braccia per riportarlo a casa, dopo che si piazzava a rimembrare i bei tempi andati mentre svuotava una bottiglia dopo l'altra, vicino alla...

Aah. Meglio lasciar perdere. In ogni caso, lui non allenava.

Non ci voleva un genio, per capirne ed intuirne la ragione. Lo sapevano pure i sassi che i suoi metodi non andavano bene, per il nuovo tipo di clientela che frequentava il club.

Se solo ci avesse provato, ad applicarli...si sarebbero ritrovati con la palestra bell'e vuota in men che non si dica.

E far rimanere la gente era di importanza vitale. Far rendere al massimo ed al meglio quel che si occupa é e resta da sempre uno dei metodi più validi ed efficaci per continuare a poterselo tenere. Specie se le cose prendono una brutta piega e si mettono male. E specie se si inizia dal fatto che si é abusivi già fin dalla partenza.

E comunque, non é che avessero dovuto faticare più di tanto, per riuscire a convincerlo.

Era il vecchio, a non voler più allenare. Gli era passata la voglia.

Non aveva allenato più nessuno, dopo di lui. Diceva che il suo sistema portava solo sfortune, e che era nato sotto ad una cattiva stella. E che era capace di lasciare solo e soltanto freddi cadaveri, alla fine di tutto.

Il solito megalomane. Come se dipendesse sempre tutto da lui.

Ma restava il fatto che, finché era andato avanti ad allenare, le critiche non gli avevano mai fatto né caldo né freddo.

Nossignore. Da quell'orecchio proprio non ci sentiva. O faceva finta di non sentire.

Non c'era niente da fare. Peggio di un cagnaccio randagio, infame e rabbioso.

Più cocciuto di un mulo. Anzi, più cocciuto di un mulo cocciuto, che già era cocciuto di per sé.

Era vecchio, alcolizzato ed ottuso. E sordo a qualunque consiglio, ormai.

Lo era sempre stato.

D'altra parte...solo quel metodo conosceva. E non ne aveva mai imparati o voluti imparare altri.

Era troppo vecchio per poter riucire ad impararne altri. E quindi...sempre quelli usava.

I suoi. Giusti o sbagliati che fossero. Il più delle volte sbagliati.

Ma quei tre erano rimasti. Avevano deciso di restare, nonostante tutto. Nonostante le maniere rudi, alla buona ed assai spartane. Ed avevano già cominciato a disputare qualche incontro da professionista, anche.

Parecchi incontri, a volerla dir tutta. Con risultati misti ed alterni.

Un po' ne avevano vinti e più o meno altrettanti ne avevano persi.

Grossomodo stavano a metà, bene o male.

Abituati a stare nel mezzo e nella media. E destinati a rimanerci e a galleggiarci.

E lo stesso sarebbe stato per il loro posto dentro alla classifica nazionale, sino al termine e alla fine della loro scialbe e scipite carriere di pugili qualunque, senza alti né bassi e nemmeno senza particolari guizzi. E fino a che quel momento non fosse giunto pure per loro, avrebbero passato ciò che ne restava e rimaneva a sguazzare nell'anonimato e nella mediocrità più assolute, e senza poi chissà quali stravolgimenti o sconvolgimenti di sorta.

Come tanti altri. Come quasi tutti quelli che osavano provare ad avventurarsi, ad addentrarsi in quel mondo, e a cimentarsi coi suoi meandri animati dall'assurda convinzione di poter fare un viaggetto tranquillo e senza scossoni o sussulti.

Tsk. Poveri illusi.

Chi non ha o non possiede di natura il coraggio di rischiare non porta a casa nulla. E lo stesso vale per coloro che hanno tutto da perdere, a differenza sua che non aveva mai avuto nulla a cui tenere particolarmente.

Chi non risica non rosica.

Anzi...chi si accontentava di risicare...si ritrovava poi a rosicare.

In eterno.

La boxe non é fatta per la gente tranquilla e per le persone placide e mansuete.

Assolutamente.

Tra l'altro, come si faceva notare poco fa, quei tre avevano preso pure ad allenare. Ed erano loro a sottoporre i nuovi iscritti, ogni nuovo iscritto, alla prova e ai test d'ammissione alla palestra.

Anche se, a dire il vero, per quanto riguardava gli esami d'ingresso loro si occupavano principalmente e prevalentemente degli amatori.

Agli atleti quelli veri, quando talvolta ne capitava uno che aveva deciso di cambiare spiaggia e provare con un altro allenatore e manager...almeno di quelli si occupava ancora il vecchio orbo.

Era lui in persona, a pretendere di occuparsene. E se superavano tutto quel che gli affibbiava e propinava...li affidava al terzetto già rinomato ed ampiamente nominato. Oppure a Kanichi, che talvolta veniva a dare ancora una mano. O per lo meno quando se lo poteva ancora permettere, visto che l'attività del negozio e la gestione della sua famigliola occupava e portava via tutto quanto il suo tempo. O comunque la maggior parte, compreso quello libero...

Già abbondantemente ribadito pure questo. E fino alla nausea.

Erano loro quattro gli insegnanti, adesso. Almeno di quelli che non menavano le tolle e non avevano ancora levato le tende seduta stante, senza partecipare nemmeno ad una sola ora della prima lezione gratuita.

E ci volevano davvero un gran fegato e coraggio, per sopprtare e resistere a quella sorta di torture antidiluviane incrociate con supplizi medievali della peggiore specie.

Didattica a parte, a quei tre li aspettava e li attendeva al varco una vita da pugile più o meno così. Più o meno come quella che Joe aveva appena finito di descrivere dentro alla sua mente ed ai suoi pensieri.

E non vi era molto margine di errore o di sbaglio, a tal proposito.

Purtroppo il talento non é alla portata di tutti, a differenza degli sport che lo richiedono. Anche se piacerebbe molto.

Ma...o lo si ha, oppure non lo si ha. Nessuna mezza misura o via di mezzo, purtroppo.

Ma non si tratta soltanto di una pura quanto mera questione di talento, fermo restando che non ne avevano mai avuto molto.

No, sotto a quell'aspetto nessuno tra quei tre aveva mai particolarmente brillato. E a voler fare un debito paragone, anche a costo di rischiare di risulatre e di essere oltremodo offensivi...loro tre messi assime non valevano e non avevano mai valso neppure la metà anzi, neppure un quarto di Joe da solo.

Roba che a combatterci contro in contemporanea sul quadrato avrebbe potuto stenderli tranquillamente uno dopo l'altro. O anche tutti insieme. E per giunta con una sola mano e con l'altra legata mediante una serie di robuste corde e nodi dietro alla schiena.

Stava esagerando, forse? Affatto.

Altro non era che la cruda quanto nuda realtà.

Era precisamente così, che stavano le cose. Che potesse piacere o meno. E che potesse far male, oppure no.

Crudele, senz'altro. Però giusto. Spietato, ma insieme corretto. Schietto, ma sincero. Cinico, ma realista. Freddo, ma obiettivo.

Tutti valori che si addicono a meraviglia al pugilato.

Era semplicemente dire pane al pane e vino al vino. Tutto qui.

Proprio come un cazzotto ben tirato.

Il talento, da solo, non basta. Non é sufficiente per tramutare un semplice ed onesto pugile che tira a campare e a sbarcare il lunario in un autentico campione in grado di sbaragliare ogni avversario che gli si pari davanti, mandare in visibilio ed in delirio le folle e arrivare a vincere praticamente tutto.

Occorre quel qualcosa in più. Che può essere il pugno assassino, l'istinto selvatico o l'impulso omicida. O la passione sfrenata al punto di diventare ossessione magnifica ed autentica.

Almeno uno o più tra essi, se non addirittura tutti e tre.

Non ci sono né storia né sugo, gente.

Senza e privi di quel bagliore, di quella luce, di quella scintilla che rappresentano la dote innata, é inutile.

O la si ha, o non la si ha. E non la si può ottenere.

Si possono ottenere la forza, la velocità, la potenza, la resistenza. O l'esperienza, con lo scorrere del tempo e l'accumularsi continuo della pratica.

Quelle si che sono caratteristiche che si possono ottenere con l'allenamento, la costanza e la profonda dedizione.

Ma quel che aveva o meglio, quel che aveva avuto lui, che aveva avuto Joe...ce lo si poteva avere solo dalla nascita. O forse da fino ancora prima di nascere, addirittura.

E' il destino, ad affibbiartelo. Così come é il destino, a scegliere. E non te ne accorgi fino a che non lo scopri, il più delle volte per conto tuo.

Chiunque ce l'ha dentro di sé, quel pulsante. Ma ben in pochi riescono a premerlo o anche solo a toccarlo, a sfiorarlo. E se non si é in grado di potero schiacciare o attivare, é meglio lasciar perdere e mantenere le cose così come stanno.

Molto meglio. Anche perché, una volta messo in funzione il meccanismo, risulta altrettanto difficile bloccarlo e spegnerlo. Se non di più.

Non si riesce più a fermare, o a fermarlo. Travolge e calpesta ogni cosa.

Proprio come aveva fatto sempre lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E dopo di loro era arrivato il momento tanto atteso.

Il momento tanto desiderato ed insieme tanto temuto.

Era andato dal vecchio, infine.

Dal suo manager. Dal suo allenatore. Da suo zio. Da suo padre.

Dall'unica e sola figura che più aveva rappresentato e che più si era avvicinata, a quelle due figure.

Figure che per un orfano abbandonato quale era lui dovevano equivalere a due miti, o giù di lì.

A due figure leggendarie quanto eteree ed evanescenti.

Fumose, oscure ed ombrose almeno in egual misura di quanto lo doveva essere la nebbia dalla quale era fuoriuscito. E che ancora lo stava avvolgendo senza sosta. E ad ogni passo che compiva.

Era andato a far visita al vecchio Danpei.

Gli era toccato. Era una tappa dolorosa quanto necessaria.

Lo aveva trovato al solito posto, quello di sempre.

Sdraiato, stravaccato, riverso e disteso supino sopra al suo consueto giaciglio ricavato nell'intercapedine tra il soffitto ed il sottotetto della vecchia baracca.

La baracca dove un giorno era cominciato tutto. Ogni cosa.

Dove si era dato il La ed il via alla loro grande avventura. Anche se purtroppo non si poteva dire che fosse stata altrettanto grande nel finale, accidenti...

Dormiva avvinghiato ed abbracciato ad una fiasca della sua marca preferite e prediletta di liquore di riso da quattro soldi e spicci.

Nulla di nuovo o di eclatante nemmeno lì. E talvolta facendo agitare, con qualche leggerissimo movimento e spostamento eseguito nel bel mezzo della più profonda fase REM, il paio di dita appena di liquido ancora contenuto dentro alla bottiglia di vetro.

L'unico, ad essere scampato alla sua sete senza fondo e senza alcun rimedio.

Doveva essersi addormentato giusto un attimo prima di finirlo, e di dargli il colpo di grazia.

Odorava del suo solito odore. Di sudore stantio, di resina di pino e di olio canforato. Ma anche di liquori e di torcibudella scadenti, di muffa umida e di frutta marcia.

Tipico effluvio di straccione, di pezzente e di vagabondo. Tanto per cambiare.

Tutto quell'insieme di odori costituiva da sempre la sua fragranza tipica. Il suo aroma personale e caratteristico che sia lui che tutti gli altri avevano col tempo imparato a riconoscere a memoria, a menadito ed alla lunga distanza.

Ormai, volente o nolente, si era abituato a conviverci e a sopportarlo. Sia la puzza che il suo diretto artefice nonché proprietario.

Ed anche lì non c'era praticamente niente di nuovo sotto al sole o sul fronte occidentale. Nulla che fosse o che risultasse fuori dalla norma o dall'ordinario. Oppure di cui doversi stupire o sorprendere. Od impiensierire e proccupare.

Eau de Danpei. Tange Parfum.

Te ne accorgevi subito, quando compariva sulla soglia, entrava o arrivava. O persino quando era sul punto di fare una scelta che fosse scaturita dal sorteggio tra le tre che si era appena finito e terminato di elencare.

Lo si poteva percepire addirittura quando era distante o se ne stava lontano a decine di metri di distanza.

Avrebbe potuto benissimo annunciare il suo piombare in scena con chilometri di anticipo, grazie al miasma di barbone che emanava.

Meglio di un attore consumato, proprio. Ma nel senso che era ridotto e conciato da sbattere e da buttare via, però. Come e alla pari di un rifiuto o di un rottame.

Perché alla ridda ed alla gamma di essenze ben note e conosciute ai più che emanava, se n'era aggiunta una tutta nuova.

Questa, però, solo Joe la poteva sentire. Ed oltre ad essere decisamente sgradevole, ed in misura di gran lunga maggiore rispetto alle altre...la sua presenza faceva decisamente molto ma molto meno piacere.

Certo. Non che le altre fossero di mughetto, verbena, lavanda oppure gelsomino, al confronto o paragone.

Ma l'ultimo anzi, i due ultimi arrivati ed invitati alla festa non promettevano né preannunciavano nulla ma proprio nulla di buono. Piuttosto il contrario, dato che facevano e costringevano ad optare e temere decisamente per il peggio.

Odore di piscio. Sul davanti. E nelle terga quello del corrispettivo che di norma fuoriusciva dalla presa d'aria posta nel bel mezzo del retrobottega.

Decisamente sciolta, a dover giudicare dall'odore pungente. E pure mista ad un bel po' di sangue.

Non un buon segno. Decisamente non un buon segno.

Per nulla. Per niente.

L'acre di entrambi prendeva e pigliava direttamente sia al naso che alla gola, azzannandoli. Ma anche alle viscere e alla bocca dello stomaco, stringendoli come in una morsa ferrea quanto spietata.

Roba che in un altro tempo ed in un altro luogo, e in tutt'altra circostanza, condizione e situazione, messi di fronte ad un simile scempio e strazio sarebbero senz'altro e senz'ombra di dubbio o di timore alcuno scesi in protesta ed in rivolta, all'unisono ed all'istante. Riversando all'esterno tutto quanto il loro disgusto ed il loro caldo contenuto sotto forma di brodo e zuppa intestinale belli fumanti.

Ma adesso come adesso, a Joe tutto questo non gli faceva più né caldo né freddo. Almeno nel suo singolo caso.

Si era ricordato che anche per lui c'era stato un periodo in cui aveva preso parecchia confidenza e dimestichezza con il vomito, al punto da considerarlo come un vecchio quanto inseparabile amico.

Anche se avrebbe tanto voluto farne volentieri a meno.

Roba come quella erano segnali. Segnali fin troppo chiari ed espliciti. Segnali inequivocabili.

Segnali che sia le vescica che il retto, e poi le budella e gli intestini non gli stavano reggendo più. E che avevano preso a trattenergli sempre meno.

E così anche gli sfinteri dell'uretra e del buco del culo.Il brutto, bruttissimo discorso valeva anche per loro, purtroppo.

Erano i segnali che stava diventando vecchio. Ma non solo.

Erano i segnali che l'ulcera, la cirrosi, e l'insufficienza renale ed epatica lo stavano letteralmente uccidendo. Lo stavano lentamente ma gradatamente ed inesorabilmente conducendo e portando alla morte.

Lo stavano sfasciando e demolendo da dentro, poco a poco.

Come un avversario implacabile ed irriducibile. E totalmente invisibile, ma che tuttavia faceva sentire ugualmente e lo stesso la sua diabolica e micidiale presenza.

La faceva sentire eccome. Menando sventole e fendenti feroci contro ai quali non si poteva praticamente nulla. Che non potevano essere bloccati, schivati o evitati. In alcun modo. E che finivano con l'andare sempre ed immancabilmente a segno, ogni volta.

Ma tutto questo non era che l'inizio.

Non era che la punta dell'iceberg. Di un pezzo di banchisa che se ne stava ancora sommerso all'incirca per tre quarti, con la parte più grossa e voluminosa che se ne rimane tranquilla e bella comoda sott'acqua e con la punta che invece fa capolino da appena sopra la superficie del mare e dell'oceano glaciali. In paziente ma spasmodica attesa dell'attimo e del momento giusti per poter affiorare ed emergere.

Sì. Vi era qualcosa di ancora più brutto, all'orizzonte e più a fondo. Come se non bastasse.

C'era decisamente qualcosa di ancora più serio e grave, che si annidava e che lo attendeva nel profondo del suo malandato quanto disastrato corpo ed organismo. Ma Joe aveva deciso di lasciar perdere, questa volta.

Quel che aveva visto ed intravisto gli doveva essere bastato ed avanzato, e aveva preferito non approfondire.

Lo aveva considerato più saggio ed avveduto.

Era meglio non indagare ulteriormente. Anche se a quel punto sarebbe stato meglio ma mille volte meglio dire NON INFIERIRE.

Danpei Tange. La tigre del ring. Anche se ormai era paragonabile ad un misero gattino.

Il vecchio guercio ubriacone era destinato a perdere, questa volta. Il suo rivale era troppo, troppo forte.

Troppo più forte, rispetto a lui.

Poteva solo perdere. Non poteva che venire ed uscirne sconfitto, da un confronto così palesemente impari.

Poteva solamente perdere. Anche questa volta.

Come ogni volta. Come sempre.

Non avrebbe mai potuto vincerla, questa battaglia. Neppure mettendosi d'impegno. Nemmeno sforzandosi. Nemmeno mettendo in campo e sfoderando il più grande, migliore ed intenso impegno di questo mondo.

Neanche così. Senza contare che forse non l'avrebbe nemmeno fatto. Perché...

Perché la verità era che forse non voleva vincerla, questa guerra.

Era lui a non volerlo, stavolta. Era lui, a non volerla vincere.

Joe si era chinato su di lui. Ed era stato allora, solo allora, che lo aveva notato e che lo aveva visto. Con chiarezza.

Estrema chiarezza.

Il vecchio Danpei stava piangendo. Nel sonno.

Stava versando lacrime dall'unico occhio che gli era rimasto ancora sano, buono, forte ma soprattutto ancora funzionante. E ne stava buttando un autentico fiume caldo.

A litri. Come una fontana o una cascata.

Joe aveva provato ad in tuire i suoi pensieri, per capire cos'é che lo stava tormentando così tanto. E poi aveva preso ad osservarli direttamente, ma giusto e solamente allo scopo di capire se ci aveva indovinato ed azzeccato. E aveva scoperto di averci preso in pieno.

Era proprio come aveva immaginato.

Non che fosse così difficile, dopotutto.

Col vecchio era sempre ed era sempre la stessa solita, dannata, maledetta storia.

Non pensava che a lui.

Non pensava ad altri che a lui. Al suo ragazzo. A suo figlio. O a quello che più di tutti gli era andato vicino a rassomigliargli, nel corso della sua esistenza.

Non pensava ad altri che a lui, ogni dannato secondo che gli era rimasto e che gli aveva lasciato quel poco, pochissimo di vita di cui ancora disponeva. E che gli era ancora rimasto.

Ci pensava mentre era sveglio. Ci pensava mentre dormiva.

La ferita che teneva dentro di sé con inciso sopra a chiare e cubitali lettere il suo nome, all'altezza e nei pressi e nelle vicinanze del cuore, era ancora aperta ed in piena emorragia. E gli faceva ancora male.

Tanto, tanto male. E non gli si sarebbe rimarginata mai più, fino a che fosse scampato.

E ad occhio e croce non é che gliene doveva rimanere poi molto da tirare avanti, visto che il taglio che gli sanguinava nel petto stava iniziando ad infettarsi, per poi andare in suppurazione. Sino a marcire del tutto.

Completamente.

Quel dolore, un giorno, gli avrebbe dato ed inflitto il colpo di grazia decisivo e definitivo. Insieme a tutto quello che aveva già. E che Joe, in quel dato e preciso momento, non aveva nemmeno il coraggio e la forza di mettersi a nominare.

In quelle condizioni il tempo non poteva certo aiutarlo, poiché non ne aveva più.

Non gli avrebbe mai tramutato quella ferita aperta e così lunga, grossa ed orrenda che teneva in una cicatrice. Che per quanto brutta a vedersi avrebbe potuto magari guarirlo, e salvarlo. E forse tenerlo quaggiù ancora per un poco.

Ed oltre a ciò...il brulicare dei pensieri brutti e tristi gli stavano martellando di continuo il cervello, senza sosta e senza alcuna pietà, impedendogli persino quel che avrebbe dovuto essere un giusto quanto doveroso riposo. Almeno durante la notte.

Avanti di questo passo, l'unico che gli sarebbe rimato a disposizione era quello eterno. Sempre che un giorno non avesse finito con l'impazzire ed ammattire prima, perdendo così anche la capacità di riflettere, di pensare e di ragionare, insieme alla salute. Per non rendersi più conto di nulla.

Sul volto di Joe aveva fatto capolino una leggera smorfia, dapprima appena appena triste, che però non ci aveva messo poi molto a tramutarsi in un'espressione di un evidente ed autentico quanto sincero e cocente sconforto.

Gli era dispiaciuto davvero da matti, a vederlo ridotto così. A vederlo conciato a quel modo. E non avrebbe nemmeno saputo dire quanto.

Aveva quindi allungato il braccio e gli aveva posato una mano sulla spalla, con estrema delicatezza.

Era stato un tocco leggerissimo, a dir poco. Come il sussurro formato dall'aria. Paragonabile a poco meno di una folata di un vento di brezza primaverile. Quando lo fendeva e lo tagliava lui a suon di pugni, a furia e a forza di sferrarli a ripetizione e a più non posso nel corso degli incessanti allenamenti.

Jabs su jabs. A ripetizione, sino a non poterne più. Sino a che non gli importava più, rinchiuso nella penombra se non addirittura nel buio e nella solitudine di un ring, di una stanza vuota o di una fredda cella.

Una delle tante, gelide gabbie in cui aveva soggiornato e pernottato. Ed alle quali, col tempo, aveva finito pure per farci l'abitudine ed il callo. Al punto di finire col perderne definitivamente il conto effettivo, un giorno.

Come il silenzioso crescere dell'erba. Che viene su lieta dove non osa passare e metterci sopra il suo piede l'uomo, che tutto rovina con sdegno.

Era stato un tocco quasi impecettibile. Anzi...del tutto impercettibile, almeno per chi non era come lui. Per chiunque non fosse come era lui.

Eppure...eppure gli era sembrato che il vecchio l'avesse sentita.

Sì. Doveva essere risucito a percepirla, incredibilmente.

Il suo corpaccione sfatto si era rilassato, diventando di colpo calmo e quieto. Ed all'angolo della sua boccaccia sguaiata gli era comparso un sorriso quasi dolce. Anche se pur sempre stampato su di un brutto muso da cagnaccio rognoso e mezzo spelacchiato qual era lui. E quindi somigliante più ad un ghigno beffardo, dato che doveva essere totalmente incapace di compiere un simile genere di azione...

No, decisamente sorridere non doveva rientrare nella sua già limitata e risicata lista e ridda di azioni che erano in grado di compiere i suoi flosci muscoli facciali.

“Joe...” aveva mormorato.

Non c'era affatto nulla di cui stupirsi, e niente di cui doversi sorprendere.

Oh, succede. Semplicemente succede. Alle volte accade.

E' assai raro, ma...può avvenire.

Quando due spiriti affini, nonostante appartengando da tempo a a due diverse e differenti dimensioni e piani esistenziali, riescono a mantenere inalterata la stessa lunghezza d'onda che li ha spinti e ritrovarsi e a condivedere la medesima porzione di spazio e di tempo, forse e fosse anche per il solo quanto semplice fatto di averne trascorse, fatte, passate e vissute insieme tante ma così tante, pure troppe...

Nel momento in cui si reincontrano, reincrociano, ri -scontrano o anche soltanto si ri – sfiorano per qualche motivo, qualunque motivo, indipendentemente dal motivo stesso...forse riescono a trasmettersi qualcosa.

E Joe ed il vecchio ne avevano attraversate di ogni, insieme.

Erano legati. L'uno all'altro, in modo indissolubile.

Si erano mischiati il sudore, la carne, le ossa ed il sangue. Vi era molto di più, tra loro, che un semplice pugno e nugolo di peripezie e di disavventure, ad accomunarli e ad unirli in modo da cementare in maniera pressoché permanente il loro legame.

Molto, molto di più.

Era riuscito a restituirgli un poco di quiete e di serenità, mentre si ritrovava privo di coscienza e di conoscenza.

Non aveva potuto fare di più, ma nemmeno avrebbe potuto chiedere di più di quello.

Un attimo di pace. E di silenzio. Anche per il vecchio.

Era una notte speciale, quella. Una notte santa.

Pertanto, anche il vecchio aveva diritto ad un dono.

Anche il vecchio Danpei aveva diritto ad un bel regalo. Al giusto regalo.

Se lo meritava. Per quel che aveva passato, per quel che stava passando e per quel che in futuro avrebbe dovuto ancora passare. E per quel che il suo miglior atleta, allievo e discepolo gli aveva sempre fatto passare.

Per tutte quelle che gli aveva combinato. Di cotte e pure di crude.

E per quel che da lì a poco avrebbe dovuto sopportare, che già era lì che lo aspettava e lo attendeva al varco.

Un futuro assai breve, purtroppo.

Anche Joe, alle volte, pensava a lui.

Spesso, in realtà. E si prefigurava mentalmente i possibili, tutti i possibili e relativi sviluppi sul suo conto e sul suo destino.

Ma tutte le volte non vedeva che una sola immagine.

Sempre, solo e soltanto quella. Nessun'altra. Tutte le sante volte.

Anche per il vecchio c'era stato un altro, possibile avvenire. Altre opportunità alternative.

Ma col passare e scorrere inesorabile del tempo si erano via via e progressivamente sempre più sfoltite, diradate ed affievolite. E sempre di un pezzetto in più alla volta e per volta, ad ogni successiva visualizzazione.

Già l'anno scorso non esistevano quasi più. E dopo un altr'anno erano sparite e scomparse del tutto.

E adesso...

Adeso, se Joe si metteva a pensare o veniva a guardare il posto in cui adesso si trovava, ed il punto esatto e spaccato sul quale se ne stava stravaccato a riposare il vecchio zio Danpei...

Se provava a spostarsi con il pensiero da lì ad ancora un anno in avanti e a venire, per vedere com'era, avrebbe visto solo e soltanto una cosa.

Sempre la stessa.

Anche lui fissato su di un'unica cosa, esattamente e proprio come il vecchio beone.

A volerci provare...non lo vedeva più.

Vedeva solo un giaciglio vuoto. Non vedeva che un giaciglio vuoto, e spoglio.

Per quanto si sforzava...il vecchio lì non ce lo vedeva più.

L'anno prossimo Danpei non c'era più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era quasi giunto alla fine della sua passeggiata.

Al termine della sua consueta escursione e gita fuori porta.

Quella di rito, anche perché era l'unica che gli era e che gli veniva concessa.

Come una libera uscita, proprio. Né più, né meno.

E come sempre ed immancabilmente in questi casi...quando meno se l'aspettava era giunto ed arrivato puntuale il momento del commiato e dei saluti.

Il momento della dissolvenza in nero seguita dallo scorrere dei titoli di coda.

No, in realtà stava provando a pigliarsi per il culo e ad ingannarsi da solo, per conto suo. Di illudersi e di mentire a sé stesso.

Così, giusto per riderci un po' su e smaltire la tristezza.

Se l'aspettava benissimo, invece. Perché tutte le volte andava e finiva sempre così.

Ogni volta era così. Ogni fottutissima volta.

Anche questo viaggio gli aveva spauto regalare gioie ed insieme dolori, ed in egual misura.

Speranza e disperazione.

Ma sentiva che quest'ultima visita aveva per lui un sapore del tutto particolare. Inedito.

O almeno era quel che gli pareva e sembrava.

Forse per il semplice fatto che era probabilmente destinata ad essere davvero l'ultima, e non solo nel senso di più recente. Ma in ogni senso possibile.

In tutti i sensi, nessuno escluso. E quindi se la sentiva ancora più aspra ed amara, in questa occasione. Più di tante, altre volte.

Era senz'altro bello rivedere i vecchi amici, ma era anche una fitta al cuore. Perché gli ricordava, non poteva fare a meno di fargli ricordare tutto quel che aveva perduto. Tutto quel che aveva lasciato indietro e che si era lasciato alle spalle andando avanti. E decidendo di proseguire fino in fondo, senza fermarsi né voltarsi mai.

Avanti, avanti. Sempre avanti, senza mai fermarsi. O girarsi. E non importa quel che accade, o chi o cosa cade.

Gli faceva pensare irrimediabilmente a tutto quello che aveva perso, smarrito ed abbandonato lungo la strada. Lungo il suo sentiero del destino.

Tutto quello a cui aveva dovuto rinunciare. Per sempre, e che non avrebbe ritrovato né recuperato mai più. E che mai e poi mai avrebbe potuto fare ritorno.

Tutto torna, in qualche modo. Oppure ritorna e fa sempre la sua ricomparsa, prima o poi.

Peccato solo che...
Peccato che ciò valga solo per chi c'é ancora.

Si dice che i defunti abbiano il potere di far congelare o appassire i viventi col loro gelido e sterile tocco di morte.

Chissà, forse potrà essere pure vero. Almeno in parte.

Ma non vi é nessuno che faccia mai caso ad una cosa.

Tutti non fanno altro che che guardare in un unico senso, in una sola direzione.

Osservano e giudicano la realtà delle cose sempre e soltanto da un unico e solo punto di vista.

Sempre ed uno soltanto.

Il loro.

Tutti che si preoccupano sempre, solo e soltanto delle condizioni dei vivi. E dei viventi. Ma non c'é proprio nessuno a cui venga in mente un piccolo ma significativo dettaglio.

A nessuno viene mai in mente che potrebbe essere vero anche l'opposto. Il contrario.

Mai che ad anima viva passi anche solo per l'anticamera del cervello e del cervelletto che anche ai morti possa far male sentire il caldo tocco della vita. Delle loro vite.

E' un male, un dolore pulsante, lancinante. Che dà e che genera una sofferenza a dir poco atroce.

Crea un calore ustionante, a dir poco. Come se un'eruzione di lava incandescente ti bruciasse direttamente da dentro.

Come gettarsi nudi dentro al fuoco, oppure esporre la carne viva alle lingue di fiamma più ardenti.

Costava caro anche a Joe, arrivare fin lì. E quanto gli sarebbe mancato, tutto questo.

Gli sarebbe mancato un mucchio, senz'altro. Un sacco.

Ed il sapere che gli sarebbe mancato proprio perché tutto sarebbe venuto a mancare da lì a poco, il sapere sempre e tutto quanto il come ed il perché di ogni cosa seduta stante aveva finito col guastargli irrimediabilmente ed irreversibilmente la giornata. Tutta quanta.

Aveva avuto addosso la sgradevole, sgradevolissima sensazione di non essersela potuta godere e gustare appieno. Non come le altre volte, almeno.

Come un sentimento di fastidio. Di quello che si potrebbe provare quando una coperta ci avvolge. Una coperta che però é talmente piena di buchi, di grinze e di strappi che non riscalda. E oltre a ciò é pure infarcita zeppa di piattole, zecche, cimici, pulci e pidocchi. E pure di un paio di sorci, giusto per non farsi mancare nulla in fatto di scalogna e di schifezze a due e più zampette.

Proprio vero.

Certe volte é preferibile sul serio l'ignoranza abissale ed assoluta alla conoscenza. O all'onniscienza.

Se l'uomo potesse essere davvero in grado di poter prevedere in anticipo il proprio destino, quel che lo aspetta e cosa accadrà, cosa gli accadrà...sarebbe forse per questo più felice? O forse anche solo un poco meno triste?

Non esiste una risposta che sia chiara e precisa, a tal riguardo.

La risposta non c'é, a questo quesito. E se vi fosse, vi sarebbe da giurare che non sarebbe affatto così scontata.

E' davvero meglio non sapere né capire nulla piuttosto che sapere e capire troppo, certe volte.

Una vera fortuna, anzi. Perché si potrebbe finire a sapere quel che non si vorrebbe mai conoscere. Oppure quello di cui si vorrebbe o si potrebbe, in ben precise circostanze o in tutt'altro e differente contesto, fare volentieri, comodamente e tranquillamente a meno.

Su certe cose, su certi misteri é più saggi e consigliable sorvolare e tirare diritto, facendosi gli affaracci propri.

Quindi, alla fine...serve davvero, poter conoscere con esattezza e a menadito il proprio futuro e quello degli altri?

Per nulla, pensava Joe. Specie se ottieni solo di sapere quando arriverà la tua fine. O quella di chi ami.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aveva percorso completamente a rovescio e a ritroso la strada che in genere si faceva per arrivare in quel posto, ed entrare in quel quartiere. E quindi, com'era ovvio e naturale, visto che per quella volta era partito senza accorgersi dalla fine invece che dal principio, adesso era arrivato all'inizio.

Al luogo che dava il nome a quel ghetto. O forse era stato il ghetto stesso a prenderselo ed accaparrarselo, e senza nemmeno stare a chiedere il permesso oppure la cortesia.

Come con tante, tantiussime altre cose. Com'era sua natura.

Il quartiere arraffava tutto quel che pensava non servisse più, e di cui riteneva non vi fosse più necessità o bisogno da parte di nessun altro.

Il luogo da cui lui stesso era arrivato, un giorno.

Insieme a tanti altri. Prima, con e dopo tanti altri.

Il luogo da cui era cominciato tutto quanto, quella fredda giornata ventosa. Dove tirava un'aria che ti attraversava gli abiti anche belli pesanti come quello che aveva indosso lui, e che ti entrava dritta dritta nelle ossa fino afartele ghiacciare. E fino a farti rabbrividire.

L'inizio di ogni cosa.

IL PONTE DELLE LACRIME.

NAMIDABASHI.

Si stava accingendo a riattraversarlo al contrario per l'ennesima volta, quando qualcosa sul bordo e sul confine del suo campo visivo catturò ed attirò la sua attenzione.

Il confine sinistro, per la precisione.

Un fiocco. E poi un altro. E poi un altro ancora.

Uno dietro all'altro, sempre di più. Sempre più numerosi. E sempre più fitti. Ma che da minuscoli e quasi invisibile ed impalapabili che erano all'inizio, adesso stavano diventando via via più grossi e lenti.

Giusto del tipo che ben presto avrebbe coperto ed ammantato tutto ovattando così forme, contorni, suoni e rumori.

Stava cominciando a scendere.

Che cosa? Ma la bianca rompicoglioni, no?

Era così che più o meno in confidenza ed affettuosamente la chiamavano e soprannominavano gli automobilisti, i camionari e i guidatori di biciclette, motorini, scooter e moto. Ma anche chi doveva andare semplicemente sui propri piedi. O anche chi doveva condurre un autobus, un filobus, un tram od un treno, alimentato a corrente ed energia elettrica o diesel che fosse. E poi senza dimenticare tutti i vari addetti alle pulizie ed al mantenimeto delle strade, dei marciapiedi, delle corsie e delle carreggiate.

La neve.

Era la loro gioia e vecchia amica. Ovviamente in senso sarcastico.

Croce e delizia. Più la prima che la seconda, decisamente.

E sia Joe che la sua gente non sfuggivano di certo, a quella regola. E men che meno ne costituivano l'eccezione che in questi casi dovrebbe risultarne la definitiva conferma.

Per taluni sta a significare soltanto traffico, sporco, code e casino generale. Con gran vociare e strepitare di clacson e di improperi vari, varipinti e coloriti da parte di tizi al volante resi inviperiti ed infuriati dall'ineluttabile fatto di ritrovarsi tutti belli in fila, incolonnati ed imbottigliati a dovere nel bel mezzo dell'ora di punta. Come di consueto.

Per talaltri, invece, significava imminenti feste, doni, pranzi, cene, ricevimenti e ricongiungimenti ormai prossimi con famigliari, parenti, amici, conoscenti ed attaccati vari che magari non li si vede e non li si incontra da lungo, lunghissimo tempo.

E poi i giochi da fare. Come i pupazzi, i fortini, le battaglie a suon di pallate e scendere con gli slittini. O magari mettersi a farci e a disegnarci sopra gli angeli con la schiena dopo averla poggiata, mentre si agitano scompostamente ed in maniera sincopata gambe e braccia, più o meno all'unisono.

Alla brutta rimanevano le scritte e i ricami fatti col piscio. Ed infatti erano i suoi preferiti.

Ma per altri ancora, tipo lui...il suo arrivo significava solo e soltanto una cosa.

Anzi, tante. E tutte negative. Una peggio dell'altra.

Significava freddo. Gelo. E geloni.

Significava mani screpolate, piagate, tagliate e rese sanguinanti. Dolori e febbri reumatiche da non restare in piedi, e da finire piegati in due fino ad accartocciarsi.

Stava a significare congelamento. Assideramento. Delle dita. Delle falangi delle mani e dei piedi.

Persino paralisi e inabilità momentanea o permanente, in certi casi. Addirittura perdita.

Di arti interi. Di gambe e braccia al gran completo.

Questo voleva dire, per loro. Non svago o gioco. Ma sofferenza. Estremo dolore.

E morte.

Comunque, indipendentemente da tutto, e da come la si veda o la si possa pensare...sia la pioggia che la neve, guarda caso, arrivano sempre in un certo momento. E al momento giusto.

Quando arriva il momento degli addii.

Oh, non mancano mai. Come il prezzemolo, la gramigna e l'erbaccia in generale, quando arriva il momento di salutare. E di salutarsi.

Verrebe da dire che hanno quadsi un che di simbolico, sul serio.

Ed infatti, niente come loro riesce a trasmettere in altrettanto modo quel vago eppure profondo senso di lascito, di perdita. Di abbandono.

Nessun'altra cosa ci riesce così magnificamente. Ed altrettanto divinamente.

Quel senso di fine, per volerla far breve in un unico quanto solo termine.

Niente gli sta alla pari. O fa lo stesso, medesimo, eguale effetto.

Lo interpretò come un chiaro ed inequivocabile segno.

Come un invito, un'esortazione a guardare verso il punto e nella direzione da cui erano provenuti ed avevano iniziato e cominciato a cadere e a precipitare i primi, primissimi fiocchi e cristalli.

E lo fece, decidendo così di obbedire a quello strano quanto inaspettato richiamo.

Imprevisto quanto inusitato. E forse, proprio per questo, valeva la pena soffermarsi ancora un poco e dargli retta. Giusto per qualche istante.

Un pugile deve sempre fidarsi del suo istinto.

Di quella vocina che ti parla giusto una, due volte l'anno. Se va bene, e quando si é fortunati.

Tutto il contrario e l'opposto del cervello e della ragione che invece continuano a parlare, blaterare e vociare senza sosta.

L'istinto parla poco. Ma quando lo fa...non sbaglia mai.

Forse aveva ancora qualcosa da fare.

Forse gli era rimasto ancora qualcosa da fare lì, prima di andarsene.

Lo ascoltò. E scoprì quindi di aver fatto bene, a seguire e a dar retta al suo fulmineo presentimento.

Il presagio ci aveva visto giusto, poiché vi ritrovò una cara quanto vecchia conoscenza.

Il parco giochi.

La prima struttura a cui aveva fatto visita, il giorno che era arrivato e che aveva messo piede nel quartiere.

Avere a disposizione una roba del genere costituiva un autentico lusso per luoghi e tempi come quelli. E per una zona così povera quanto diroccata e mezza disastrata.

Risaltava, nel mezzo di tutto quel degrado e di quella miseria senza confini.

Senz'altro quella visione doveva averlo colpito, allora.

Sì, doveva averlo lasciato decisamente di stucco. Tanto fu vero e fu proprio per tale motivo che quella volta decise di spingersi fino a lì anziché passare direttamente per la via centrale, come avrebbe fatto chiunque altro in qualunque altro posto, fosse anche solo per vedere di sfuggita che cos'é che avesse da poter offrire il posto in questione.

Joe stesso avrebbe fatto lo stesso. In qualunque altro posto.

Ma non lì. E non quella volta.

Destino.

Inizialmente voleva dare soltanto una sbirciata. Un'intenzione, la sua, che venne ben presto soppiantata e sorpassata a destra dal vivo desiderio di voler provare tutte quante le giostre e le attrazioni che vi erano e che vi stavano dentro, una ad una ed una dopo l'altra.

A partire dall'altalena, senz'altro la sua preferita in assoluto.

Da sempre, senza alcuna ombra di dubbio.

E proprio mentre stava scavalcando balzellon balzelloni la triplice fila di gradini che separavano i giardinetti dalla strada e che lo avrebbero poi condotto dove voleva tanto recarsi, era inciampato in qualcosa.

Qualcosa che almeno all'inizio ed in principio aveva confuso e scambiato con un mucchio coperto di rifiuti. O con un sacco della pattumiera. Ripieno e stracolmo di spazzatura fino all'orlo, come'era ovvio e prevedibile. E gettato ed abbandonato lì, proprio in mezzo agli scalini. E proprio in mezzo a dove stava passando lui.

Da qualche stronzo. Senz'altro.

E invece no.

Non era un sacco. E non erano nemmeno rifiuti.

Era qualcuno che stava riposando. Qualcuno che stava dormendo.

E così aveva fatto la conoscenza del vecchio. E poi dei ragazzi.

Ed il suo destino era definitivamente mutato, in quel momento. In modo irreversibile.

Ma se in meglio oppure in peggio...no, adesso coem adesso non la avrebbe saputo dire, con certezza.

Aveva trovato una famiglia. Degli amici. Degli affetti e delle responsabilità. Se non verso sé stesso almeno nei confronti di qualcun altro. Nei confronti di chi teneva a lui e se ne prendeva cura.

Aveva anche ottenuto e guadagnato fama, gloria, successo, trofei e ricchezza, se era per questo.

Ave a ottenuto anche tutto quello, anche se si tratta di cose fugaci ed effimere. E alla fine, dei soldi non gliene era mai fregato un emerito cazzo.

Lui lo aveva sempre detto, e dichiarato.

Lui avrebbe voluto vivere sbattedosene di tutto e di tutti, senza che gliene importasse di nulla.

Lui voleva vivere come i vermi, o gli insetti. Come le larve di zanzara.

Non gli bastava che un giaciglio dove poter dormire e buttarvi sopra le stanche membra alla fine di un'intera, lunga e dura giornata passata a gironzolare, girovagare e bighellonare.

Per rintemprarsi, rifocillarsi, e rigenerarsi.

Stremato ma soddisfatto per aver vissuto come voleva. Come aveva sempre voluto.

Logico che a vievre così si finisca con l'avere braccia e gambe distrutte, e la schiena a pezzi. Però le spalle ce le si sente leggere.

Incredibilmente leggere...

Quello, gli bastava. Più due pugni di riso al giorno da mettere sotto ai propri denti per potersi così sfamare e saziare.

Non aveva mai voluto niente di particolare, eppure...

E invece grazie alla boxe aveva avuto tutto. Di tutto e di più.

Ogni cosa. Ma il prezzo da pagare per acquisire tutto quello...era stato alto. E bello salato.

Il più alto che si potesse immaginare.

La libertà.

In cambio aveva dovuto cedere, e rinunciare alla libertà.

E quella...non aveva prezzo.

Non c'erano coppe, medaglie, trofei, onori e denaro che tenessero. O che la valessero.

Per uno come lui, che la considerava e che l'aveva considerata da sempre il suo unico bene, nonché il più prezioso...

E dai. Andiamo. Se gli si toglieva pure quella, cos'altro gli sarebbe rimasto?

Cosa?

Dicono che alle volte si possa decidere di rinunciare o di sacrificare la propria libertà in cambio della felicità di chi si ama. O di qualcun altro.

Ma lui non aveva mai messo nulla, davanti alla sua libertà ed indipendenza.

Non l'aveva mai fatto. Non ne era mai stato capace, di farlo.

Non ne era mai stato in grado. Ecco la verità.

Ecco, come stavano le cose.

Quindi voleva dire forse che...

Forse stava a significare che avrebbe voluto tanto farlo, se ne avesse mai avuta l'occasione?

Eppure di occasioni ne aveva avute. E pure tante. Ma non le aveva mai colte.

O se le era lasciate tutte sfuggire, piuttosto?

Di proposito, oppure non era stato all'altezza di tali opportunità?

Bah. E chi lo sa.

E chi lo può sapere, giunti a tal punto.

Chi lo può mai sapere?

A chi importa?

Cosa importa? Cosa mai può importare, ormai?

Non ha più alcuna importanza. Più alcun significato. Però...

Però ancora adesso si chiedeva se avesse fatto la scelta giusta. Non poteva proprio fare a meno di chiederselo e di contunare a domandarselo, neanche e nemmeno se lo voleva. E non aveva ancora smesso si porsela, quella domanda.

Non aveva più smesso. E non aveva smesso nemmeno adesso che era arrivato alla tanto desiderata quanto agognata destinazione. Oggi come allora.

Più di allora, forse.

Non gli riusciva proprio, di smetterla. Di piantarla lì una volta per tutte.

Ed eccoli ancora tutti quanti lì, al loro posto.

Come sempre. Come lui.

Lo scivolo, il gioco del mondo fatto coi gessetti bianchi e colorati direttamente sulla pavimentazione di cemento, che la neve stava già provvedendo a squagliare e a sciogliere progressivamente.

Il castello di tubi di ferro saldati ed intrecciati tra loro in una serie di quadrati e rettangoli perfettamente simmetrici quanto consecutivi.

Il girello, o girotondo o girandola o che dir si voglia o cavolo ed accidenti si chiamava o lo si voleva chiamare, che tanto non era mai stato uno dei suoi preferiti.

Nemmeno uno tra loro era usurato o rovinato o demolito.

Nessuno li aveva ancora rotti o distrutti, per fortuna. Così come nemmeno avevano ceduto alla ruggine, all'incuria o in generale anche solo alle semplici ma micidiali ingiurie del tempo.

Grazie al cielo. O a chi per esso, ed a chi ne fa le veci.

Le VECI, eh.

Erano tutte ferme. Immote, silenziose ed immobili.

E grazie al cazzo, veniva da dire. Visto che lì, l'unico ad avere e a disporre di tale facoltà e a potersi muovere per davvero era l'ultimo nominato.

Il coso, lì. Il girello o girandola o girotondo o come accidenti e cavolo si chiama o lo chiamano.

Si stavano concedendo una sana nottata di riposo. Di giusto e di sacrosanto riposo alla pari del nugolo e della moltitudine di bambini scalmanati e scapestrati che dovevano averli presi come al solito d'assalto e massacrati, martoriati ed in genere messi a dura, durissima prova durante il corso delle ore diurne della giornata.

E poi...

Ah, già. Quasi se ne stava dimenticando. E dire che anche questa volta era venuto quasi principalmente per quello.

Anzi...per quella, ad essere onesti e precisi.

L'altalena. Che a differenza dei suoi colleghi e compagni di parco, di brigata e di spazio non se ne stava affatto ferma.

No. Non era immobile. Pe ril semplice fatto che non era vuota.

Dondolava ed oscillava pigramente in avanti e all'indietro, al minimo sindacale consentito dalla sua capacità di escursione, con un movimento talemente scarso da risultare quasi impercettibile.

Segno evidente, più che evidente che la spinta propulsiva che la stava azionando doveva o doveva esser stata estremamente debole. Debolissima.

A prima vista sembrava che fosse o che fosse stato solo il vento, a spostarla.

Si sarebbe potuto dire senz'altro così, senza timore e senz'ombra di dubbio alcuno. Ma...

Ma non era vero.

C'era qualcuno, sopra.

Qualcuno che stava tenendo le mani ben strette ed avvinghiate sulla coppia di catene appese alla traversa superiore di legno, e che da essa scendevano sorreggendo al contempo il sedile.

Ma il fatto era che con tutta quella dannata, dannatissima nebbia a coprire non si riusciva a vedere e a scorgere un accidente. Proprio nulla di nulla.

Era tutto un contorno fumoso, sfocato, confuso ed indefinito. Così come lo era la misteriosa figura.

Joe si avvicinò lentamente e con circospezione, se non altro per sincerarsi di chi potesse mai essere.

Nonché per rivelare la sua identità, nel caso lo conoscesse.

E lui, chi più chi meno, lì del posto conosceva praticamente tutti. Almeno quanto loro conoscevano e avevano imparato a conoscere e a riconoscere lui.

Strano, però.

Era davvero strano che vi fosse e che si trovasse in giro qualcuno, a quell'ora così tarda.

Di certo si stava pigliando una bella responsabilità,ed un bel rischio. Oltre che ad un probabile e quasi certo malanno, con tutto quel cavolo di freddo.

Strano, davvero. Così come era strano che da paret sua Joe si stesse preoccupando di prendere tutte quelle precauzioni.

Inutili quanto superflue, valeva la pena aggiungere. Visto che tanto non lo avrebbe potuto lo stesso vedere nessuno.

Non lo vedeva nessuno. Nessun'anima che fosse viva o vivente, per lo meno.

L'istinto innato ed ormai navigato e ben radicato del mariuolo provetto che era in lui, ecco cos'era.

Cosa ci si vuol fare, d'altronde. E come nella boxe. Preciso, uguale e sputato.

Quando scattano certi automatismi...

Era quello che lo spronava e spingeva a non dare mai nell'occhio o almeno a darlo il meno possibile, qualunque cosa facesse.

L'imperativo assoluto era nascondersi. Sempre. E stare e rimanere pronto a dileguarsi entro trenta secondi, se le cose si mettevano male.

Come ad una conferenza noiosissima, prima di finire ad addormentarsi su di una sedia. Oppure come quando si finisce a letto con una donna bellissima, procace e vogliosa. Ma che subito dopo la primissima scopata inizia ad appicicartisi un po' troppo. E a menarla già con la casa, il vivere insieme sotto allo stesso e medesimo tetto, la famiglia, i figli ed un lavoro rispettabile e ben retribuito e pagato.

Sempre pronti alla fuga. Anche dalla figa. E pure adesso.

Persino adesso era sul chi va là, e bello che pronto a sgattaiolare via nonostante non ve ne fosse assolutamente di bisogno.

Si avvicinò ancora alla chetichella, e...quasi fece un balzo all'indietro per lo stupore, non appena si accorse di chi era. E di chi si trattava.

Assunse un'espressione a dir poco esterrefatta mentre decise così, di puro impulso, di rompere la coltre ed il velo di rigoroso mutismo dietro al quale si era trincerato sin da quando aveva messo piede in quel luogo, nel corso di quella notte tanto silenziosa. E che adesso stava pure diventando innevata, oltre che silente.

Sciolse quello che era sembrato a tutti gli effetti un voto che riguradasse la ferma intenzione di non parlare, come quelli fatti da un asceta o un monaco solitari.

Non che qualcuno potesse davvero udirlo o sentirlo. E forse e il caso di ribadirlo. E fa pure rima.

Aprì la bocca, quindi. E disse e pronunciò quindi il suo primo vocabolo di quella sera. E che forse sarebbe rimasto anche l'ultimo. Ed unico.

Mosse e spalancò leggermente le labbra al fine di pronunciare un nome. Un nome che non si sarebbe mai e poi mai e per nessuna ragione o motivo al mondo aspettato, immaginato o sognato di nominare. O meglio, di rinominare.

Non in quel posto. Non in quell'oocasione. E nemmeno in quel tempo. Perché non credeva, non avrebbe mai potuto credere di trovare quella persona lì.

Di trovarla lì.

“YOKO...”

Eh, già.

Era la cara, dolce, piccola e vecchia Yoko.

Era proprio lei che stava seduta sopra all'altalena. E ad avergli fregato e rubato il giro. Proprio sul più bello.

Proprio quando era il suo turno e toccava a lui, dannazione.

Si stava tenendo sulla punta dei propri piedini, infilati dentro ad un paio di lunghi stivali che le arrivavano a mezza gamba, cullandosi da sola con un movimento a pendolo appena accennato.

Calzature un poco inusuali. E senza dubbio leggere, visto il clima rigido.

Probabilmente la nevicata doveva averla colta di sorpresa. E comunque...a giudicare dalla faccia che teneva, doveva costituire l'ultima delle sue preoccupazioni.

Non proprio il genere di capo più adatto e consono, si diceva. Ma solo quelli dovevano costare come tutti i vestiti messi, indossati ed usati dalla mala gentaglia del quartiere.

Messi insieme, però. Come minimo.

Naturale, che fosse così.

Raffinata, sofisticata ed elegantissima come al solito. Ed in ogni situazione.

Non rinunciava mai, al suo stile impeccabile e ricercato. Ma gli abiti che stava portando dovevano essere più da mezza stagione che da inverno vero e proprio. E quindi ben poco adatti ai rigori freddi e rigidi. Men che meno per passare un'intera notte all'aperto e all'addiaccio.

Sembrava che li avesse presi, raccattati e tirati fuori a casaccio dal suo armadio o guardaroba, che dovevano essere strapieni sino a scoppiare di roba di lusso, pregiata, nuova e firmata.

I primi che gli dovevano essere capitati sottomano e a disposizione. Forse non aveva fatto altro che metterci ed infilarci una delle sue manine e...quel che prendeva prendeva.

Un'imperdonabile leggerezza e caduta di tono per una modaiola incallita del suo rango. Ma era chiaro che avesse altro per la testa, in quel momento.

Si vedeva. E glielo si leggeva dritto e stampato in faccia.

Perché il dubbio restava ancora bello permanente. E gravava pesante nell'aria, proprio.

Che diavolo ci faceva, lì? E che diamine ci era venuta a fare?

La fanciulla aveva tutta quanta l'aria di stare fissando un punto imprecisato davanti a sé, ed il suo sguardo appariva vacuo e perso.

Aveva le pupille come spente, opache, che vagavano nel vuoto e nell'aere senza sosta e senza pausa alcuna.

Era come smarrita. Reduce da un bell'esaurimento nervoso o addirittura da una crisi isterica di quelle coi fiocchi.

I gesti incongruenti, come non prestare particolare attenzione a quel che si fa e mettere abiti che di norma non c'entrano un cazzo col contesto e con la situazione sono e rappresentano di solito un chiaro quanto inequivocabile segnale.

C'era solo da capire cosa avesse potuto ridurla e conciarla a quel modo, anche se Joe ne aveva come un vago presentimento.

Ed infatti gli bastò avvicinarsi quel tanto che era sufficiente per entrare in contatto ed in rotta di collisione coi suoi pensieri, perche é potesse apprendere appieno quel che la stava affliggendo. Ed avere in tal modo piena conferma di quelli che erano i suoi sospetti, a riguardo.

La risposta a quello stato in cui versava era da considerarsi fin troppo facile e semplice.

Era sempre la stessa. Tutte le volte.

Era lui.

Era lui il peso che la stava tormentando, affliggendo e lacerando.

Un peso che le arrivava dritto dritto dall'interno. E che veniva alimentato e rinvigorito dai ricordi, e dal passato. Ed anche dai rimpianto e dal rimorso che ne scaturivano direttamente da essi.

D'istinto Joe si mosse. Proprio come avrebbe fatto un qualsiasi pugile, anche il più scarso, messo davanti e di fronte ad un pugno che frustava pronto a schiantarglisi addosso.

Come un bel gancio sotto al mento, ad esempio. Roba da knock – out immediato.

Le girò attorno. Con lentezza e con calma. Tranquillamente e senza fretta alcuna, e prendendosela alla larghissima e bella comoda insieme a tutto quanto il tempo che gli serviva e di cui aveva bisogno.

Non gli stava correndo dietro nessuno, del resto. E lei non sembrava avere l'intenzione di andarsene da nessun'altra parte che non fosse lì. Almeno per il momento e nell'immediato.

Le giunse alle spalle.

Dapprima levò per un istante la sua testa in alto, mettendosi ad osservare l'esatto punto dove si stava trovando sino a meno di un minuto fa. E da dove era partito. E subito dopo controllò con cura il percorso che aveva appena fatto, rifacendolo e ripercorrendolo con gli occhi.

Com'era prevedibile non vi era alcuna traccia del suo passaggio, sopra alla neve.

Non aveva lasciato alcuna e nessuna impronta. Niente di niente.

Tsk. Che idiota, che era.

Come se non lo sapesse, che non avrebbe trovato nulla.

Come se avesse avuto davvero il bisogno di controllare, per esserne sicuro.

E' il problema della vita che stava facendo, di quella sua nuova vita.

Spesso ci si dimentica di ciò che si é.

La sua mano si scostò dal fianco dove si trovava ed era riposta e si sollevò, fino a mettersi allaltezza della schiena di Yoko.

Da lì proseguì e finì sul suo avambraccio.

Anche lei, per tutta risposta, inarcò il collo ed isso sia il capo che la fronte, come colta da un brivido.

Ma non durò che un attimo, giusto il tempo di uno spasmo muscolare di riflesso.

Non durò che un istante e basta, e poi si spense. Come la punta di un fiammifero, o il tenue e flebile bagliore emesso dal culo di un maschio volante di lucciola durante le calde sere d'estate.

Istintivamente si doveva essere accorta a sua volta che, anche se non c'era più, Joe era sempre lì.

Con lei.

Si trovava ed era sempre al suo fianco, in qualche recondito modo.

Lo sentiva. Lo percepiva.

Anche lui lo poté percepire e sentire chiaramente.

Gli arrivò addosso in pieno, quella sensazione che proveniva dal fondo e dal profondo del suo animo straziato e lacerato.

Ne fu talmente partecipe che su di una guancia gli prese a scendere una sola e solitaria lacrima.

Una soltanto. Furtiva. Ed incorporea.

Di rammarico? Di disperazione? Non era dato saperlo, con certezza.

L'unica cosa sicura era che doveva essere inconsistente ed evanescente almeno quanto lo era stato il suo precedente tocco che aveva effettuato sulla ragazza. Però...

Però funzionò.

Anche Yoko cominciò a piangere, ed in men che non si dicesse si ritrovò anch'ella con gli zigomi e le guance bagnate e rigate di pianto. Ma rimase anche totalmente impassibile, nonostante i due intensi rigagnoli che avevano preso a scorrerle a fiotti appena sotto alle palpebre.

Forse ce l'aveva fatta. Forse ci era riuscito. Anche con lei.

Era riuscito a farle notare una traccia, un segno, un simbolo o un sintomo della sua presenza e vicinanza. Le lacrime copiose ne erano la prova inconfutabile quanto incontrovertibile.

Ma era troppo debole, come segnale. Davvero troppo, troppo debole. Non le riusciva di rendersene conto con chiarezza, a quanto sembrava.

Immaginava che fosse lì con lei allo stesso modo in cui un vivo, un vivente si potrebbe mettere in testa che un caro estinto e defunto si potesse trovare ancora lì con lui ed al suo fianco, fosse anche solo come presenza assolutamente eterea ed impalpabile. Anche quando in realtà non c'é affatto perché hanno già provveduto ad inumarlo, sotterrarlo e seppellirlo. E da tempo, ormai.

Per consolarsi, in qualche maniera. Almeno in parte della tragica perdita e dipartita che si é subito, e del profondo lutto che si sta passando e vivendo.

Il dolore che la stava squassando doveva aessere ancora troppo intenso e forte. Ed ancora troppo potente nonostante fosse già passato un bel pezzo, dalla sua scomparsa.

Non se n'era ancora fatta una ragione. Ed in tali condizioni, purtroppo, risulta pressoché impossibile riuscire a volgere il proprio sguardo e la propria vista oltre la punta del proprio naso per poter uscire così da sé stessi. E dalla gabbia di sofferenza interiore che ci si é costruiti intorno.

Non ci si può accorgere di nulla che non sia il proprio soffrire da soli e per proprio conto.

I fantasmi rappresentano da sempre i poemi e le poesie, nel campo dell'orrore. Ne sono l'equivalente.

Entrano delicatamente, in punta di piedi, quasi fluttuando sul terreno. E quando spaventano, il più delle volte lo fanno senza nemmeno volerlo di proposito. Perché la verità é che non é rimasto loro altro che spaventare, per tentare di farsi notare e di non passare inosservati. E di poter riuscire così ad attirare l'altrui attenzione.

Se non si é dell'umore e dello stato d'animo giusti, e della corretta predisposizione mentale, ed al contempo ed insieme non si riesce a spalancare il proprio cuore ed il proprio animo all'ignoto ed all'imprevisto...non si può oltrepassare il confine, il bordo che separa i due mondi. E non ci si può in alcun modo accorgere che i trapassati, coloro che non sono e che non ci sono più in realtà ci sono ancora, da qualche parte ed in qualche posto.

Comunque, servì ugualmente. Il suo lavoro lo fece lo stesso.

Yoko si alzò e balzò su dal sedile, come colpita da una scossa elettrica, facendosi leva e forza sulle braccia per darsi il giusto e corretto slancio.

Era come se le fosse venuto imporvvisamente in mente qualcosa. Qualche cosa che doveva assolutamente fare, ed alla quale non poteva assolutamente rinunciare. Per nessun motivo.

Era come se si fosse di colpo ricordata la ragione, l'unica e vera ragione per cui era giunta e si trovava lì sfidando il gelo, il freddo ed il buio pesto.

Iniziò ad incamminarsi per la strada e Joe la seguì, rimanendosene a brevissima distanza.

Lei sì che le stava lasciando le impronte sulla neve, però.

Le lasciava eccome, a differenza sua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Raggiunsero il ponte, ma Yoko tirò dritta passandoci vicino ed accanto, quasi messa di lato e di sbieco rispetto ad esso.

Non aveva ancora intenzione di andarsene, a quanto pare. E Joe pensò che se la poteva benissimo concedere e permettere un'ulteriore deviazione fuori programma, anche se per quella sera e per quella volta stava diventando un'abitudine sin troppo consueta.

Non doveva e non poteva esagerare. Ma una ancora ci stava, dai. Non avrebbe di certo guastato o sbilanciato il programma e la tabella di marcia tipici, dopotutto.

Arivarono nei pressi di un piccolo avallamento, ricavato proprio a lato della sponda del fiume.

Joe ritardò un poco a riconoscerlo, anche se rispetto ad altre cose era sicuramente da considerarsi di costruzione ben più recente. Ma nel complesso, non ci mise poi molto a rimediare. E ad identificarlo.

Il cimitero.

Il piccolo cimitero cittadino. Anzi, di quartiere.

Un altro, ulteriore lusso, oltre al parco giochi. Che in genere le salme dei morti, in passato, le bruciavano oppire le buttavano sul fondo del fiume dopo averle avvolte in un lenzuolo che fungeva e che assolveva al ruolo di sudario. E con un bello e grosso peso o zavorra attaccati, in modo che finissero ben bene sotto e sul fondo.

In genere lo facevano quando i tizi e i responsabili del forno inceneritore e crematorio comunale tardavano a farsi vivi, e si voglia perdonare l'improprio quanto squallido e penoso gioco di parole.

Spesso perché tanto sapevano che da quelle parti non li si pagava abbastanza. O non li avrebbero nemmeno pagati.

In quanto dipendenti demaniali avevano già uno stipendo tutto loro, per quanto magro e misero. Ma proprio per questo contavano molto sulle mance da parte dei cittadini generosi. E benestanti. Che di sicuro non stavano da quelle parti, ed in un luogo lurido come quello.

Un funerale eseguito in maniera spiccia, due parole di cordoglio e di commiato e i giochi erano bell'e che fatti.

Così ci si sbarazzava del morto. Prima che il suo freddo cadavere cominciasse ad irrigidirsi. E a puzzare, oltremodo. Emanando un nauseabondo fetore per via della putrefazione e della decomposizione.

Che tanto nessuno li veniva o sarebbe mai venuto a trovarli oppure a reclamarli per sé. Neanche per l'ultimo saluto e congedo.

A nessuno importava o era mai importato alcunché. Di nessuno di loro.

Insignificanti per tutti già in vita, figurarsi in morte.

Ma per fortuna, cose simili non accadevano né le facevano più. E da tempo, ormai.

Anzi, a voler essere sinceri era stato proprio a partire da lui, che...

Aah, meglio lasciar perdere, che non era il caso. E non ne valeva la pena.

Yoko procedette verso la soglia con passo deciso. Ma malfermo, però. Persino claudicante.

Pareva stesse zoppicando. E quasi arrivò ad incespicare, e più volte.

Il suo era davvero un incedere da vecchia gobba. A costo di essere ineducati, irrispettosi e volgari.

Stanco, lento, affaticato e pesante. Era proprio come se avesse un macigno enorme piazzato, posizionato e piantato sopra di lei, sulle sue spalle.

Varcò finalmente l'ingresso, dopo un tempo che era parso a dir poco interminabile.

Era aperto persino a quest'ora, pensa un po'.

In realtà era aperto praticamente a qualunque ora, dato che non c'erano nemmeno i canceli. Ed anche se vi fossero stati, li avrebbero fregati e grattati in men che non si dica.

Era sempre aperto e spalancato, così ognuno era libero di poter andare a fare due chiacchiere coi residenti ivi sepolti, quando se la sentiva. E ogni volta che più gli aggradava.

Ci si attacca e ci si aggrappa a tutto, quando si é disperati. Anche alle assurdità.

Proprio come aveva fatto lui con Mendoza, nell'ultimo suo match valido per il titolo.

Le aveva davvero provate tutte, pur di non arrendersi e di non mollare tutto.

Pur di non cedere. Pur di non crollare.

Anche quello poteva servire, lì. Per andare avanti. Fosse anche soltanto un altro giorno in più.

Non era affatto raro, inoltre, che qualcuno lo usasse pure come dormitorio, se per quella notte non gli riusciva di rimediare di meglio.

Talvolta lo facevano. Anche se di solito avevano paura.

Chissà di che o di che cosa, poi.

Che i morti potessero risvegliarsi, risorgere e fuoriuscire dai loro improvvisati loculi ricavati nella nuda terra, forse? Magari per volerli divorare?

Fantasie. Roba di film dell'orrore da quattro soldi e di quarta categoria.

I morti non fanno e non vogliono fare male a nessuno. Non hanno mai fatto male a nessuno.

Vogliono solo dormire, riposare e starsene in pace, dopo una vita di affanni.

Sono i vivi che bisogna imparare a temere, piuttosto.

Lo spiazzo entro le mura non era di certo riempito per intero. Vi stavano più che altro tombe di vecchi e di barboni, la maggior parte delle quali non aveva neppure un nome.

Dovevano essere schiattati senza riuscire a pronunciarlo o a rivelarlo. Nemmeno l'ultima volta prima di morire.

Neanche al buon samaritano di turno che stava cercando di fornir loro un ultima, disperata manovra di soccorso per tentare di tenerlo ancorato qui. Oppure un altrettanto ultimo quanto estremo gesto di conforto per non lasciarlo solo ad affrontare quell'attimo così tragico, durante l'inizio della conta finale.

Ed anche qui, niente di cui doversi stupire oppure meravigliare.

Man mano che si avvicinavano alla fine, alla loro fine, quella gente finiva per so migliare sempre meno a degli esseri umani. Spesso arrivavano a non essere più nemmeno in grado di potersi esprimere come tali. Al punto che la loro parlata non sembrava neanche più una lingua, un linguaggio od un fonema tra quelli più rinomati e conosciuti.

Sembravano più dei cavernicoli. Tornavano quasi ad essere dei primitivi, prima di morire.

Buoni solo a dialogare con versi, grugniti, rutti e peti.

Veri e propri animali allo stato brado e selvaggio, ricoperti di cenci e di stracci.

Vi era anche qualche adulto, questa volta provvisto e dotato di vaghe generalità. Ed almeno lui con un data di morte, se non di nascita.

A conti fatti é l'unica cosa di cui e per cui ci si ricorda veramente di qualcuno, quando il qualcuno in questione non sarà e non ci sarà più.

E c'erano pure due o tre bambini, dannazione.

Proprio loro, che dovrebbero essere e mantenersi sempre puri ed eterni. E vivere e durare in eterno. E non conoscere mai la malattia, il dolore e la sofferenza. O la morte.

Non così. Non direttamente sulla loro pelle.

Invece, così, sarebbero restati e rimasti solo bambini. Per sempre.

Solo quelli, e basta. Senza mai poter crescere, o diventare grandi.

Non era giusto. I bambini sono tutti uguali. Dovrebbero essere tutti uguali.

Yoko le ignorò tutte, pur provando per ognuna di esse una sorta di vago quanto generico e comune dispiacere, come di circostanza.

Puntò verso una, in particolare.

Una tomba messa ad una certa distanza, rispetto a tutte quante le altre presenti. E se qualcuno si fosse messo a fare un rapido quanto approssimativo calcolo dei metri che la separavano dalle recinzioni messe su alla bell'e meglio avrebbe scoperto, nonostante i conti realizzati in maniera alquanto sbrigativa e frettolosa, che la lapide interessata si trovava grossomodo al centro di quella malmessa struttura.

Ad occhio e croce doveva essere stata la prima bara che avevano portato lì dentro, ed a cui poi si erano via via aggiunte tutte le altre, nonché la più importante e rappresentativa.

Non appena Yoko vi fu davanti qualcosa dovette crollare e schiantarsi di colpo, dentro di lei. E non solo interiormente.

Perse come di botto tutte le forze e il sostegno delle proprie gambe, e le cadde addosso abbracciandola ed avvinghiandosi ad essa, nel disperato tentativo di non finire e terminare rovinosamente a terra.

Cominciò a singhiozzare convulsamente.

La sua lunga, bellissima e fluente chioma nera corvina la celava e la copriva, ma dal modo in cui tremolava a causa dei singulti che la stavano attraversando si capiva benissimo che aveva ripreso a piangere. E più forte di prima.

E mettendosi ad osservarla per bene, era davvero impossibile non notarla.

Una ciocca chiara. Tra quelle che le scendevano vicino e proprio nel mezzo della fronte.

Di un grigio cinerino, che però rispetto all'ultima volta si era ulteriormente sbiancato, ancora di più, fino a diventare del colore del ghiaccio. O della neve che stava scendendo fino a ricoprire tutto, ogni cosa.

Ma l'età non c'entrava nulla, visto che era ancora nel fiore degli anni.

Piuttosto pare che cose simili possano accadere in seguito ad uno choc improvviso, dovuto alla sfortuna di dover essere costretti ad assistere ad un orrore semplicemente indicibile. Indescrivibile.

Tipo il dover temere per la propria incolumità, o per la propria vita. Oppure davanti alla propria morte, scampata per un soffio. O alla morte di qualcuno a cui si tiene particolarmente, o che ci é oltremodo caro.

Pare che l'ultima Regina di Francia si ritrovò con la propria chioma ridotta e conciata allo stesso e medesimo modo, dopo che i rivoltosi l'ebbero ripresa col marito e i figli durante un rocambolesco quanto rovinoso e fallito tentativo di fuga organizzato da un nobile a loro rimasto ancora fedele. Uno dei pochi.

Ed in particolare dopo che la carrozza che la riportava indietro fu letteralmente linciata e presa d'assalto da una folla inferocita ed assetata di sangue, del suo sangue, che ne chiedeva a gran voce la testa.

A lei, quel ciuffo candido la rendeva ancora più affascinante, conferendole una maturità vissuta che ancora non aveva. Se non fosse...

Se non fosse che se l'era procurato vedendo il suo amato morirle letteralmente davanti agli occhi.

Joe provò ad andarle vicino, anche se sapeva di non poterla confortare in alcun modo. Ma non ve ne fu bisogno.

Giusto un attimo prima che lui potesse cominciare a muoversi, Yoko si era già rialzata ed era balzata in piedi benissimo da sola e per proprio conto.

Adesso pareva essersi completamente e perfettamente ristabilita, tranquillizzata e ricomposta.

Doveva aver deciso e stabilito di non voler concedere che quei pochi, pochissimi secondi, al suo struggersi. E non di più.

Era più forte, dura e tosta di quanto si potesse ritenere, e pensare.

Sapeva dominarsi e controllarsi, quando voleva ed occorreva. In ogni situazione.

D'altronde, non ci si può occupare di un impero finanziario se non sì é così, e ci si lascia sopraffare dai propri sentimenti ed emozioni.

Prese quindi ad armeggiare e a trafficare dentro alle pieghe ed alle falde interne del suo giaccone, come a voler cercare e trovare a tutti i costi qualcosa. Che tirò fuori giusto qualche manciata di istanti più tardi.

Una rosa.

Una sola, unica e solitaria rosa rossa.

Dello stesso rosso del sangue. E dei guantoni che Joe aveva utilizzato nel suo ultimo incontro, ancor prima che iniziasse a macchiarli e a lordarli con quel che scorreva dentro alle vene del suo irriducibile avversario e rivale.

“Avrei voluto tanto portarti in un posto migliore di questo” esordì, con tono amaro. “In un cimitero di lusso, come quello dove si trova Tooru. Magari vicino a lui. O magari nella cappella di famiglia, viato che io e mio nonno ti abbiamo sempre considerato come tale. Ma tu no. Tu no, vero? Testone e testardo fino all'ultimo. Hai voluto rimanere qui, in mezzo a questo schifo. Hai voluto continuare a restare con la tua gente, non é così? E in tal modo mi hai costretta a venire qui tutti gli anni a quest'ora di notte, in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Conoscendoti, verrebbe da pensare che lo hai fatto apposta. Per ripicca. E forse é davvero così. Immagino che tu ti stia facendo delle grosse e grasse risate, ovunque tu sia ora.”

“Già” proseguì. “E' buffo, comunque. Davvero ironico. Tu che ne dici? Credo proprio che la penseresti così anche tu. Ironico, ed oltremodo beffardo. Ricordo...ricordo bene che ti avevo fatto mandare un mazzo intero di fiori identici a questo. Uguali a quello che adesso sto stringendo tra le dita. L'ho fatto il giorno del tuo incontro di esordio da professionista. Li avrai senz'altro trovati sul tavolo, quando sei entrato nel tuo spogliatoio. Ma non erano affatto per buon auspicio, o per volerti augurare buona fortuna. Avrebbero dovuto essere per il tuo funerale, piuttosto.”

“Te li avevo mandati per quello” confessò. “Anche se io e Tooru, subito dopo, ci abbiamo persino scherzato e riso su. E ricordo che lui mi aveva anche detto che una donna non manda mai dei fiori così belli ad un uomo senza un motivo valido, o per motivazioni così infime e stupide. Perché diceva che l'amore é come la boxe. Non ci batte e non ci si fanno doni così belli per odio. Quando ci si ama o si fa pugilato sul ring non si dev mai portare con sé l'odio. E'...é sbagliato. Profondamente sbagliato, mi diceva. Ma io...io ti odiavo, allora. Ti odiavo per davvero. E senza una ragione apparente o precisa. Anche se dal canto mio avrei dovuto avere tutte le ragioni, per odiarti. Avevo tutte le ragioni valide di questo mondo. E chiunque l'avrebbe pensata così o mi avrebbe dato ragione, per come ti sei comportato nei miei confronti. Proprio nel peggiore dei modi, direi. E persino il tribunale me l'aveva data, quando ti ha condannato. Ma non ti capivo, ecco la verità. Non ti ho mai compreso, fino in fondo. Altrimenti...altrimenti mi sarei resa conto che anche tu avevi le tue buone ragioni, per avercela così tanto con me.”

“Però devi sapere che non parlavo sul serio” aggiunse, come se chi si trovava seppellito sotto a quei tre palmi di terra avesse potuto per davvero sentire anche soltanto una parola di quel che stava dicendo, e recepire così il pieno senso e significato di quel suo discorso. “Non potrei mai. Per chi mi hai presa, eh? Non posso davvero desiderare o volere la morte di qualcuno. Non sono così meschina. Non fino a questo punto. E non quanto tu creda. Non certo quanto tu debba aver pensato sul mio conto. E vale lo stesso discorso anche per dopo. Quando ti dissi...quando ti dissi che come minimo ci avresti dovuto morire sul ring, per poter espiare le tue gravi colpe. Non lo pensavo davvero. Non l'ho mai pensata così. Ero solo furiosa. Furiosa per aver perso un caro amico. E forse anche qualcosa di più, almeno per lui. Ma non ero molto sicura di quel che provavo nei suoi confronti, a differenza di quanto ho finito invece per provare per te. Ma era comunque una bella persona. Era davvero una bella persona, ed io gli ho voluto bene. Tanto...perché era un uomo meraviglioso. Tooru...Tooru era un uomo davvero meraviglioso, nonostante il brutto carattere ed il temperamento assai difficile. E nonostante l'indole testarda ed orgogliosa almeno quanto lo era la tua, in egual misura. Era più simile a te di quanto lui stesso fosse disposto a voler ammettere. Ed infatti non lo avrebbe riconosciuto nemmeno sotto tortura. O in punto di morte.”

“Eravate proprio simili, voi due” gli confessò. “Identici. Due gocce d'acqua. E forse era davvero destino che dovevate incontrarvi. E affrontarvi. E fare la stessa fine, un giorno. Sai...Tooru mi raccontava di averlo capito, una volta. Di aver capito che c'era, che doveva esserci un filo rosso, ad unirvi e a tenervi legati l'uno con l'altro. Dovevate fare per forza ciò che eravate chiamati a dover fare, perché é così che deve vivere un uomo. Un vero uomo. Ma ci sono arrivata solo dopo, a questo...ci sono arrivata soltanto adesso, e di questo vi voglio chiedere perdono. Però...però mi chiedo se era davvero necessario. Non posso fare a meno di chiedermi se é stato davvero necessario arrivare a tutto questo, nonostante abbia voluto molto bene ad entrambi.”

“Allora” chiese. “Sei soddisfatto, adesso? C'era davvero bisogno di arrivare a tutto questo, razza di stupido testone che non eri altro? Suppongo di sì. Immagino che non avevi altro modo, per dimostrarlo. Per dimostrare a me, agli altri e e a te stesso che valevi qualcosa. Che eri un uomo. Un vero uomo. Io non sapevo...io non sapevo quel che dicevo e che volevo veramente. Ma tu invece sì. E mi hai sempre presa maledettamente sul serio. Ed in parola. Sempre. Hai sempre fatto ciò che hai voluto, tutto quel che hai voluto e che ritenevi giusto. E come hai voluto. Fino in fondo, a modo tuo. E solo adesso...solo adesso mi rendo conto. Mi rendo conto che avevi ragione. Avevi ragione tu. Hai sempre avuto ragione tu. Quel che volevo...la sola cosa che voglio dirti, ora, é che so finalmente chi devo amare. E che pregherò per te, e non ti dimenticherò. Mai. Ti ho sempre amato, sin dal primo momento. Sin dal primo momento che ci siamo incontrati, e che ti ho visto. Perché la verità é che sotto sotto ti ammiravo, ed ero rapita dalla tua fierezza e dal tuo spirito indipendente, che non si piegavano di fronte a niente e a nessuno.Ti amo con tutto il cuore, e ti amerò ancora. Per sempre. Sempre, mi hai capita? Nonostante la follia che hai fatto e che hai voluto fare. Ed il modo terribile in cui hai scelto di voler morire, quella notte. Lo so che é poco, ma ormai...ormai é tutto quello che posso fare per te. E per me. Non mi é rimasto altro. E non c'é più null'altro che possa fare, purtroppo. Vorrà dire...vorrà dire che me lo farò bastare. Va bene così. Mi andrà bene così.”

“Sperando che basti” commentò laconica, con un sospiro. “Sperando mi possa bastare.”

Guardò per un attimo la rosa, poi la gettò ai piedi della tomba facendole compiere una breve traiettoria a palombella.

“Buon Natale” disse.

Trafficò ancora nella giacca, e questa volta tirò fuori un pacchetto di sigarette.

Doveva essere una marca americana. D'importazione, e parecchio costosa.

Ne estrasse una con un colpetto secco alla base della confezione rettangolare effettuato con le dita, poi si portò il filtro alle rosse labbra e se l'accese, tirando una lunga e lenta boccata.

“Sai...” continuò, mentre il fumo azzurrognolo le si disperdeva tutto quanto intorno, mescolandosi alla nebbia. “...Una volta, come regalo, ti avevo organizzato un match nientemeno che con l'aspirante al titolo della tua categoria. Adesso...accontentati di questo.”

“Buon Natale, Joe” ripeté. “Ti amo.”

Furono le sue ultime parole.

Non appena le ebbe pronunciate si voltò e se ne andò. E questa volta con passo più fermo, sicuro e deciso, dritta sulle proprie orme. Quelle che aveva lasciato in precedenza.

Joe la accompagnò fino all'uscita e poi si arrestò , dato che la ragzza aveva imboccato una strada ed una direzione ben diverse da quelle che doveva intraprendere lui.

Si limitò allora a seguirla con lo sguardo e basta, fino a che non la vide scomparire, inghiottita dalla bruma da dove presumibilmente doveva essere venuta.

Fino a che non la vide più.

E non la vide più, infatti. Non l'avrebbe mai più rivista, o almeno era ciò che vedeva adesso. Ciò che sentiva.

Ora aveva capito. Anche lui aveva capito una cosa, adesso.

Non erano stati soltanto l'amicizia e l'affetto di chi conosceva, ad averlo richiamato e riportato lì.

Ad averlo ricondotto lì ogni volta, tutte quante le volte, era stata anche lei.

Era stata anche Yoko, col suo amore.

Era stato anche merito suo, almeno in parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche il suo viaggio era ormai giunto alla conclusione.

Non aveva più niente da dover fare, lì. E tutto quel che doveva fare lo aveva fatto.

Era tempo, dunque. Era giunto anche per lui il tempo di tornarsene da dove se n'era arrivato.

Un'altra volta. E forse anche l'ultima.

L'ultima, almeno per quella vita.

Anche se ormai non ne aveva più una.

Anche se non ce l'aveva più.

Anche se non era più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tornò al ponte e prese ad attraversarlo, mentre intanto la neve aveva cominciato a scendere più fitta.

Ancora più fitta. Ed ancora più grossa. E più forte.

Una volta che fu sulla sommità e a metà esatta, notò che una figura misteriosa lo attendeva vicino e nei pressi dell'altra estremità.

Misteriosa, questo sì. Sconosciuta, mica tanto. Dato che quell'altro alzò la testa non appena lo vide a sua volta.

Già. Poteva vederlo. Almeno nella stessa misura in cui Joe poteva riuscire a vedere lui.

Il che stava a significare che...quell'altro era come lui. Proprio come Joe.

Erano simili. E quindi dovevano venire dallo stesso e medesimo posto. E stando così le cose...

Se le cose stavano davvero così, Joe non poteva non conoscerlo.

Non potevano non conoscersi a vicenda.

Chi viene da certi posti non può non conoscere o riconoscere al volo uno uguale ed identico.

E poi...in certi posti ci si conosce un po' tutti. E ci si finiscere prima o poi col conoscersi tutti, presto o tardi.

E' inevitabile.

Il tipo se ne stava poggiato con la schiena sulla parte superiore della più alta tra le due travi di legno che insieme componevano e davano forma alla balaustra.

Il piede destro, invece, era tenuto sollevato con la gamba piegata fin quasi ad angolo retto. O poco ci mancava, ai canonici novanta gradi. E tenuto ben piazzato sulla parte inferiore per il tallone.

Infine, a completare degnamente l'insieme ed il quadretto, teneva ambedue le mani nelle tasche.

Proprio il tipico quanto esemplare atteggiamento di teppa a spasso e a struscio, niente da dire. Quello che in genere a Joe stava sulle scatole, e che mandava fuori dai gangheri al solo vederlo.

Ma nonostante l'apparire oltremodo svaccato, quel tale sembrava tradire una certa impazienza.

Era alto, robusto e ben piazzato. Anche se vi era stato un tempo in cui, pur di realizzare ciò che voleva e desiderava così ardentemente e mantenere una certa qual promessa fatta ad uno sbandato di suo pari rango e stampo, si era ridotto di proprio pugno, volontà e puntiglio ad essere magro come e peggio di un chiodo.

Perché fu proprio a quel punto, quando si avvicinò, che Joe non poté fare a meno di identificarlo.

Dopotutto...non poteva proprio evitarlo, in alcun modo. Non poteva non sapere chi fosse o di chi si trattasse.

Come già detto, avevano in comune il posto di origine e di provenienza. Sia in questa esistenza, che in quella passata. Perciò solo due così si potevano scorgere.

Solo loro due potevano trovarsi a vicenda. Eppure...Joe ne fu quasi sorpreso.

Pare che non se l'aspettasse. Forse non lo attendeva lì. E non fece a tempo a celare un certo quanto evidente stupore.

“Tooru...”

“Alla buon'ora, Joe” gli fece di rimando il diretto interpellato, visibilmente scocciato nonostante il sorriso che teneva prennemente stampato in faccia. “Si può saper quanto diamine ci hai messo? Non arrivavi più, maledizione!!”

Ormai avevano preso a chiamarsi per nome, in via di una certa confidenza acquisita.

E comunque, a giudicare dalla ghigna e dall'espressione che aveva messo su vedendolo finalmente sopraggiungere, doveva essere senz'altro ben contento e felice di ritrovarlo. E di ritrovarselo davanti. A dispetto della gran rottura che aveva dovuto sicuramente patire.

“Oh, mi spiace” gli rispose Joe, infilandosi le mani in tasca a sua volta ed imitando così la sua posa, giusto per fargli il verso. “Dì...é molto che aspetti?”

“Chissà...” buttò lì Tooru, con indifferenza. “Forse da più di un'ora. O forse da meno di un minuto. Lo sai bene che lo scorrere del tempo é diventata una faccenda delicata, per quelli come me. E come te.”

“E tu sai che ho bisogno del mio tempo, per fare le mie cose. Mi serve tutto il tempo che mi occorre. E comunque, se ti stavi rompendo i coglioni...potevi cominciare a tornartene su senza di me.”

“Spiritoso. Mi vuoi pigliare per il culo, forse? Lo sai come funziona. Si fa tutto assieme. Si parte e si scende giù assieme, si torna e si risale su sempre assieme.”

“Già. Pare proprio che siamo condannati a non poterci mai liberare l'uno dell'altro.”

“Mph. Davvero lo vuoi, Joe? Non dirmi che lo vuoi per davvero. Non lo vuoi nemmeno tu.”

“Il fatto che sia ancora ancora qui con te lo dimostra senza che io abbia bisogno di risponderti.”

“Probabimente é così” sentenziò Tooru, facendo spallucce. “E' come dici.”

“Allora” continuò, “a proposito di rompersi i coglioni...non ti sei ancora rotto le palle di venire qui tutte le sante volte, con tutti i posti che ci sono da vedere? Ogni tanto ci viene data la possibilità di tornare in questo mondo e tu la sprechi sempre così? Per venire a svernare e a girovagare dentro a questa discarica?”

“Affari miei” tagliò corto Joe. “Tu, piuttosto? Dove te ne sei andato di bello tutto solo soletto, hm?”

“Un po' di qui, un po' di là” gli rispose prontamente l'altro. “Al Korakuen Hall, prima. Per poter ripensare e fantasticare su tutti gli incontri che ho combattuto. E poi al Budokan Center, dopo. Per poter pensare ed immaginare a tutti gli incontri che non ho mai potuto fare. Inoltre...la sera della vigilia organizzano sempre un sacco di bei match.”

“Cazzo. Tu non ti smentisci proprio mai, eh? Sempre e solo in fissa con quella cacchio di boxe...”

“Senti chi parla. Ma tu senti da che razza di pulpito viene la predica...”

“Veramente intendevo dire solo che potresti variare, una volta tanto. O almeno provarci. Che so...ad esempio potresti andare a trovare e a far visita ai tuoi, sempre ammesso che ci siano ancora. Che siano ancora vivi.”

“Nah, lascia stare. I miei due vecchi non mi pensano praticamente mai. Non hanno certo pianto lacrime amare, per la mia assenza. E non hanno cominciato a farlo di certo ora. Per loro sono sempre stato un poco di buono. Ero già morto, per quei due. Persino quando ero ancora in vita, figuriamoci adesso. No, sul serio...cosa ci trovi in questo posto, di grazia? Mi vuoi dire che cosa ci trovi di così bello, in questo letamaio?”

“Di bello, nulla. Su questo concordo in pieno con te. Niente di particolare, a dire il vero. A parte il fatto che mi ispira. E che mi stimola.”

“Ah, sì? E dov'é che ti stimolerebbe, di preciso? Non lo sapevo mica, che fossi stitico.”

“Non dire stronzate, giusto per stare a tema. Qui mi sento a casa, punto. E' per questo motivo, che vengo. E poi...lo sai anche tu. Se vivi o ti fermi tanto e a lungo a vivere in un posto, se hai la fortuna o la disgrazia di riuscire a viverci o a fermarti tanto e abbastanza a lungo...succede che alla fine tu finisci col diventarlo. Finisci col DIVENTARE QUEL POSTO. Senza contare...senza voler contare che questa potrebbe essere una delle ultime volte che lo vedo. Se non l'ultima, addirittura.”

“Mph. E chi lo dice? Chi l'ha detto, scusa?”

“Il destino, Tooru. E' il destino, che lo dice. Ed il destino é scritto. Non ci si può opporre. Me lo hai detto tu stesso che non siamo noi, a poter decidere.”

“Ecco. Appunto. Ma il destino sarà anche scritto, però si dà il caso che non é mai deciso. Non fino all'ultimo, almeno. Non fino all'ultimo secondo ed istante. E fino a che non é deciso del tutto...tutto può essere. Ed ancora tutto può accadere. Non lo si può mai dire, con certezza. Ed é proprio questo, il bello. Finché c'é vita c'é speranza, no? E loro una vita ce l'hanno ancora, a differenza nostra.”

“Per favore...evitiamo le frasi fatte, che é meglio. Giusto quelle, ci mancano.”

“Ok, ok. Ho capito” concluse Tooru. “Afferrato il concetto. Del resto...sai come si dice, no? Ognuno ha la casa che si merita.”

“E anche gli amici, mi risulta.”

“Mi sa che é vero anche questo.”

Si tirò su da dove se n'era rimasto appollaiato fino ad adesso.

“Che dici, Joe?” chiese, mentre si alzava e risistemava il bavero. “Si va? Tra non molto sarà mattina. Ed io non muoio di certo dalla voglia di vedere l'alba. E neanche tu. Quelli come noi si trovano meglio e a loro agio con la notte. Quelle della notte sono le ore della vita, per noi pugili!”

“Tsk. Certo che é assurdo. Semplicemente assurdo. Continui a parlare come se ce l'avessi ancora. Come se ce l'avessimo ancora, una vita.”

“Oh, beh, se non é che per questo...come dico sempre io, l'importante é crederci. O almeno illudersi di farlo, no? Ah ah ah!!”

Di nuovo quella sua risata.

“Già” gli replicò Joe, evitando di raccogliere. “Mai sa tanto che hai ragione tu. Fammi strada, su.”

“Al suo servizio.”

Tooru si mise in marcia ed oltrepassò quel breve tratto che era rimasto del ponte, con Joe subito dietro. Che tra l'altro non ci mise poi molto a raggiungerlo e ad affiancarglisi.

Quest'ultimo si era ben guardato dall'informarlo della visita a sorpresa da parte della signorina Yoko, e del fatto che l'aveva vista.

Non che fosse necessario, dato che Tooru era in grado di leggere all'istante i suoi pensieri, le sue riflessioni e le sue memorie.

Quel che gli passava ad ogni istante per la testa non aveva segreti né misteri, per lui. E la cosa era reciproca.

Fatta dovuta quanto debita eccezione per la tattica e per le mosse da sferrare, ognuno sapeva tutto dell'altro. Tutto quel che vi era da sapere e da conoscere.

Tooru doveva essere senz'altro al corrente di quel che era accaduto e successo al cimitero. Tuttavia doveva aver volontariamente deciso di sorvolare e glissare opportunamente sulla cosa.

Sì. Così. Volutamente.

In fin dei conti, da quanso si erano reincontrati e ritrovati, Tooru non l'aveva mai più nominata. Nemmeno una sola volta.

Non parlava mai della signorina. Non ne parlava più.

Incredibile.

Davvero incredibile, se si considera il fatto che vi era stato un tempo in cui l'aveva considerata al apri di una Dea, o giù di lì.

Sì, Yoko era stata la sua Dea. Ed in quanto tale l'aveva adorata, idolatrata e venerata senza riserve.

Tutto questo un tempo. Tanto tempo fa. Ma non di certo oggi.

Non più oggi.

Oggi...per lui contava solo e soltanto Joe. Il suo vecchio rivale di riformatorio.

Tooru lasciò ed aspettò che gli si avvicinasse e, proprio mentre questi era in procinto di affiancarlo, lo abbrancò e gli cinse una delle sue lunghe braccia con tanto di manona enorme attorno al collo e alle spalle.

Per tutta risposta, Joe gli rifilò una secca gomitata tra le costole con l'arto che gli stava più prossimo e vicino.

Naturalmente non gli fece male.

Non poteva più fargli male. Non si potevano più fare alcun male, neanche a volerlo.

“Ma insomma” gli fece l'amico. “Che diavolo é quello sguardo mogio, eh? Facciamo così, Joe. Vorrà dire che non appena saremo su ti concederò la rivincita del nostro ultimo incontro, va bene? Che ne dici?”

“Veramente” obiettò il ragazzo, “se non mi ricordo male e la memoria non mi inganna...a quanto mi risulta l'ultimo incontro dovrei averlo vinto io.”

“Ah ah ah!! Forse sì. O forse no” ammise in parte Tooru, esibendosi in un'altra gran risata omerica e di gusto. “Che importa? Te la concedo lo stesso. Ho deciso che te la voglio offrire ugualmente! E magari, stavolta vincerò io! Sarò io, a vincere!!”

“Allora? Che ne dici?” Gli richiese.

“Che dico? Dico che non ci credo” fu la lapidaria risposta. “Ecco quel che dico. Ma sul serio vuoi combattere ancora con me? E' la prima cosa che vuoi fare, non appena saremo ritornati?”

“Certamente! Come dico sempre io...non esiste metodo più efficace di quello, per scacciare e farsi passare di dosso i brutti pensieri. Conosci forse un sistema migliore di quello, per sciacquarsi e lavarsi via la tristezza?”

“Ma non ti sei ancora stufato, di batterti? Non ne hai ancora abbastanza?”

“Io no. E tu?”

“Io...in un momento come questo non ti saprei rispondere, Tooru. Non saprei proprio cosa risponderti. Anzi...preferirei proprio non doverti rispondere. Preferirei non doveri rispondere per forza.”

“Non prenderti gioco di me, Joe. E' quel che vuoi anche tu, non negarlo. E lo sai. Altrimenti, se così non fosse...svanirebbe tutto quanto. Scomparirebbe ogni cosa, e all'istante.”

“Toccato, amico. Solo...mi chiedo quando finirà. Perché un giorno dovrà pur finire anche quello, no? Nemmeno l'eternità dura in eterno.”

“E chi lo sa. Io so soltanto che non voglio che finisca. E anche tu.”

“Ci puoi scommettere.”

“Bene. Ottimo. Perché fino a che lo vorremo e lo decideremo noi, insieme...continuerà. E allora...sotto con un altro round, Joe. Ancora un altro round. Non finirà, non fino a quando noi due ci saremo a combattere. Non finirà, fino a quando non saremo noi a desiderarlo. Non finirà mai, fino a che non finiremo noi due. E fino a che noi ci saremo, e resteremo...andrà avanti. Continuerà.”

“Ben detto. Andiamo, allora.”

“Andiamo, amico. In marcia.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun viandante, senzatetto, barbone, vagabondo, residente con oppure senza fissa dimora ed in genere povero in canna che abitava, stazionava, svernava, bivaccava, pernottava o anche solo transitava e risiedeva più o meno temporaneamente da quelle parti osava dormirsene fuori dalla cerchia stabilita e delimitata dal quartiere. E dal ponte. L'unico ponte grazie e mediante il quale vi si poteva accedere.

Beh, fu un gran peccato. Senz'altro una gran disdetta. Perché quella notte si persero tutti quanti un gran spettacolo.

Si dice che la notte della vigilia, la notte prima del Natale, le campane di tutto il mondo intero suonino e rintocchino tutte quante all'unisono. E che gli animali prendano e si mettano a parlare le lingue degli uomini. E che dai fiumi cominci a scorrere miele e latte.

Ma si dice anche che a nessuno venga concesso di poter assistere a simili prodigi, perché sia lo scotto che la pena da pagare sono severissime.

In cambio di poter vedere tutto ciò...si dovrebbe morire.

Ma forse ne sarebbe valsa la pena, per vedere ciò che avvenne quella notte. La notte di quella vigilia.

Chiunque si fosse trovato in quel preciso e dato momento oltre al ponte ed appena al di fuori del quartiere, e fosse rimasto sveglio ed un minimo sobrio, avrebbe potuto assistere a qualcosa di davvero unico. Di sensazionale.

Di irripetibile.

Avrebbe potuto vedere due ragazzi più o meno coetanei che si allontavano di gran carriera ridendo e scherzando tra loro, e prendendosi ripetutamente a spallate e a spintoni ma senza malizia o cattiveria di sorta. Oppure intenzione di far male, o di ferire.

Due cari, carissimi amici che parevano conoscersi da una vita intera, e che eppure sembravano non essersi rivisti se non dopo anni e anni.

Due amici che, camminando camminando e passo dopo passo, un passo dopo e dietro all'altro avevano di colpo ed improvvisamente preso a galleggiare ed a fluttuare sollevandosi per svariate decine e decine di metri.

Sempre di più.

Due angeli che stavano salendo o meglio, risalendo verso il cielo. E poi da lì verso il Paradiso, sicuramente.

Due angeli che però non avevano bisogno delle ali, per volare.

Non gli servivano. O se ce le avevano, come minimo dovevano essere trasparenti.

Ma che non lo sarebbero rimaste ancora a lungo, però. E non di certo per via di penne o di piume più o meno bianche. Ma perché ben presto avrebbero cominciato a riempirsi di fiocchi bianchi e gelidi.

Due angeli.

Due angeli dall'animo puro ma lacerato. Due angeli dal candido sorriso e dalla faccia sporca.

Due angeli che dal ring e dalla strada avevano preso a salire verso il cielo ed il paradiso.

Con le ali ormai piene di neve...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Joe Yabuki si é fermato a Namidabashi, 24 Dicembre 2021

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve a tutti!!

E rieccoci da queste parti, dopo un bel pezzo.

Premetto che sono felicissimo, di avercela fatta.

Avevo promesso, in primis a me stesso, di riuscire a pubblicare questa storia proprio la notte della vigilia, e...

E ci sono riuscito.

Sì, cazzo. Ce l'ho fatta.

Scusate lo sfogo, ma quando ci vuole ci vuole.

Avevo cominciato a buttarla giù addirittura da prima della scorsa estate, e mi é costata davvero un mucchio di fatica.

Al punto che in quest'ultimo periodo ho dovuto sacrificare, interrompendole momentaneamente, altre due long in pieno corso e svolgimento. E a cui tengo molto.

Scelta sofferta, ma altrimenti non ce l'avrei mai fatta a completarla per il tempo previsto e stabilito.

Ora mi prenderò una bella pausa, almeno sino alla fine di queste vacanze non ne voglio più sapere di scrivere.

Poi ricomincerò con maggior lena di prima, eh. Già lo so.

Personalmente non ho idea di quanti la leggeranno.

Il fandom di questo personaggio langue parecchio, ed io stesso non ci bazzicavo più da...quanto, per la precisione?

Dal Maggio del 2018. Pensa te.

Prima addirittura che scoppiasse tutto il gran casino che ci tiene sotto scacco ancora adesso.

Quando una roba come il Covid era buona giusta per qualche romanzo di fantascienza.

E' parecchio tempo che non scrivevo qualcosa sul nostro Joe.

Proprio da quel periodo, dove avevo pubblicato una long di dodici capitoli.

La considero ancora adesso uno dei miei lavori meglio riusciti, e di cui vado ancora adesso orgoglioso.

Nonché la prima long che ho terminato da quando mi sono iscritto su EFP. E non é poco!

Ma fu anche una cosa estremanete dolorosa, ve l'assicuro. Al punto che vi sono voluti ben tre anni e più, prima di ritrovare il coraggio e la forza di cimentarsi nuovamente con questo affascinante personaggio ed il suo mondo. Un mondo fatto di povertà e di miserie, dove spesso non vi é nemmeno la consolazione di un riscatto finale.

Joe é fatto così. Non é affatto facile, da trattare.

Ma alla fine, ce l'ho fatta. E devo dire che sono molto soddisfatto.

Questo racconto si inserisce direttamente dove si concludeva la mia precedente opera, ed in un certo senso ne costituisce e ne rappresenta il naturale proseguimento.

Come dicevo...non so in quanti la leggeranno. Ma come dissi in occasione della mia storia passata, meglio pochi ma buoni!

Buonissimi, in questo caso.

In realtà questa storia l'ho scritta con due persone bene in mente. Ed infatti é a loro, che la dedico.

Due illustrissime colleghe di fandom e di passione.

Una é per me una vera e propria compagna di branco, visto che al buon Joe ci si riferisce come un vero e proprio lupo selvatico. Quindi...tutti quelli che lo seguono e che lo ammirano sono da considerarsi lupi come lui, facenti parte della stessa schiera!

Parlo di DevilAngel476. Ad accomunarci, oltre che Joe, vi é anche una smodata passione per gli shonen vecchio stampo a base di violenza, coraggio, imprese epiche, botte da orbi e anche una discreta dose di pazzia.

Tutta roba sublime, e ormai perduta. Ma mai dimenticata. Proprio come un certo biondo dotato di spadone punitivo per il quale stravediamo entrambi.

La seconda, invece, la considero da sempre la mia musa ispiratrice. Almeno con Joe.

Mi riferisco a innominetuo.

Senza la sua bellissima long L' UNICO DOMANI non avrei mai trovato gli spunti per scrivere la mia prima storia su Joe. E poi questa, visto che va considerata come il suo vero e proprio seguito.

Direi che é davvero ungran bel regalo di Natale. E con l'occasione, porgo ad antrambe i miei più cari e migliori auguri. A loro e alle loro famiglie.

Che il prossimo anno possa portare ciò che più desiderano.

Prima di chiudere, l'angolino della colonna sonora.

E' mia abitudine consigliare qualche brano o canzone da ascoltare durante la lettura.

Per questo ve ne consiglio ben tre.

Una é la stupenda SYMPHONY, di Clean Bandit e Zara Larsson.

Mentre la altre due provengono direttamente da una saga a dir poco leggendaria sulla boxe, paragonabile proprio ad Ashita no Joe.

Sto parlando di Rocky, la celeberrima serie ideata dal grande Sylvester Stallone.

E quindi, parlando di Rocky, non possiamo non citare colui che ne curava la mitica colonna sonora. Ovvero l'altrettanto mitico musicista e compositore Bill Conti.

Suoi sono infatti i due brani che vi propongo e consiglio.

Uno é ALONE IN THE RING, mentre l'altro é MICKEY.

Se volete un parere...preparate i fazzoletti.

Bene. Altri progetti all'orizzonte?

Beh, in realtà ne avrei uno ulteriore, su Joe. E ho già cominciato a buttare giù qualcosa.

Ma come vi dicevo...prima avrei due long da terminare. Una di esse, poi, é una vera sfida.

Se ne riparlerà in futuro. Molto più avanti.

Ok, ho finito.

Con i saluti colgo l'occasione per esprimere un bel grazie di cuore a chiunque leggerà questa storia. E che magari se la sentirà di lasciare un parere.

 

Buon Natale ed un felice anno nuovo, a tutti!!

 

 

See ya!!

 

 

 

 

 

 

Roberto

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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