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Autore: HellWill    01/01/2022    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla. L'ho iniziata nel 2015, ma era l'anno della maturità e mi sono fermato al prompt n°23.)
"Narra una leggenda che un tempo, quando ancora gli esseri umani erano nuovi abitanti in queste terre chiamate Mamé, “casa”, ci fossero due innamorati non visti di buon occhio dai locali."
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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1 gennaio 2022
Sculpture
 
Narra una leggenda che un tempo, quando ancora gli esseri umani erano nuovi abitanti in queste terre chiamate Mamé, “casa”, ci fossero due innamorati non visti di buon occhio dai locali.
Ithronel, questo il nome di lei, era una fata; e si sa, le fate vogliono solo il male per gli esseri umani… ma uno in particolare, Brann si chiamava, aveva attirato la sua attenzione nel più positivo dei modi: era un uomo delicato, e non rozzo come i suoi simili; coglieva fiori e si dilettava nelle arti, godendo nel far nascere fatine e folletti da tutti i fiori che essiccava.
Era il meno crudele che la sua razza avesse partorito; e Ithronel si struggeva in lontananza, osservandolo qualora si avventurasse nei boschi in cui lei abitava, guidando i suoi passi perché evitassero gli acquitrini, spostando le fronde perché non gli oscurassero le meravigliose radure in cui i simili di lei si riunivano a cantare e ridere e giocare.
Fu così che Brann la vide la prima volta: e il suo cuore sprofondò nei piedi, poiché Ithronel era una delle fate più belle che il suo sguardo avesse mai colto; lunghi capelli, del colore della china con cui lui scriveva le proprie poesie, si abbandonavano sciolti sulle spalle scure della fata, e gli occhi, oh… gli occhi… Erano due pozze d’acqua scura in cui ricordi e pensieri annegavano, impossibilitati al raggiungere le labbra…
Mai fu vista cosa più bella,
mai io non colsi ‘sì fatta pulzella!
Scrisse Brann veloce sulla propria pergamena, vergando ogni parola con tutta la cura che riuscisse ad infondere in ogni runa.
Ciò non passò inosservato al popolo fatato, che deridendolo lo additò come strambo; ma Ithronel si erse in tutta la sua altezza, e si parò davanti all’uomo:
«Voi che lo deridete: sapete forse creare qualcosa di simile alla poesia che ha dentro quest’essere umano, pur con tutta la vostra magia?».
Scontente d’esser state offese, le fate si dileguarono, lasciando Ithronel da sola con Brann; che si inchinò, e con gli occhi spalancati proclamò:
«Non ho mai visto nulla di anche solo paragonabile a voi, milady; non so cosa dire, non so cosa scrivere, e il mio cuore è gonfio di qualcosa che non ho mai sentito prima!».
Ithronel, addolcita ancor di più dalle parole dell’uomo, sorrise teneramente; e lo guidò nel bosco, lungo sentieri sconosciuti agli uomini figli degli uomini; fino a condurlo nel cuore della foresta, lì dove neanche il più esperto dei cacciatori sarebbe riuscito a trovare il nascondiglio delle fate.
Ithronel e Brann parlarono a lungo: di arte, di poesia, di ceramica e di tutto ciò che è bello al punto da esser al contempo delicato, e rischiare di rompersi; di come il padre di Brann, il fabbro del villaggio, lo volesse più uomo; e di come Ithronel lo trovasse abbastanza uomo da riconoscere la bellezza quando la vedeva.
Furono ore troppo brevi, troppo intense; inebriato da quell’incontro, Brann tornò al villaggio guidato dai lievi passi di Ithronel nel sottobosco, e della sua voce suadente e della sua risata cristallina ne avrebbe fabbricato sogni per le settimane a venire.
Ithronel, dal canto suo, non riusciva a smettere di brillare come una stella che ha trovato il suo giusto posto nel cielo; ma le sue sorelle non erano d’accordo con quell’incontro, e nemmeno con l’emozione che brillava nel suo petto.
Commentarono in modo cattivo il modo in cui lui le aveva tenuto le mani, il modo in cui le aveva accarezzato i capelli; il rude tocco di un essere umano su una fata sapeva di morte, ciò era risaputo.
«Vedrai, ti accoltellerà e ti strapperà le ali» mormorò Briar, una fata della sua stessa età e risma.
«Ha ragione, sai; gli esseri umani sono tutti uguali» confermò Karina, un’altra fata di poco più anziana.
«Dicono lo stesso loro di noi» le rimbeccò Ithronel. «Dicono che li guidiamo negli acquitrini, dove le nostre amiche ninfe li annegano e se ne cibano; dicono che un solo nostro tocco basti a stregare il cuore della donna più frigida e dell’uomo più severo; dicono che lanciamo maledizioni a chiunque si avvicini alle nostre case; e dicono che vogliamo solo il male, per i figli degli uomini…» mormorò Ithronel, e una minuscola ruga d’espressione le spuntò in mezzo alle sopracciglia: era preoccupata, e l’emozione dell’incontro con Brann, che a lungo aveva desiderato, stava diluendosi nell’angoscia che il suo amato desse ascolto a quelle sciocchezze.
Karina e Briar sorrisero in modo sinistro, e mormorarono: «Non è forse vero? Non è forse vero che le nostre amiche ninfe li annegano, i figli degli uomini? Non è forse vero che basta un tocco per riscaldare uno dei loro cuori neri? E non è forse vero che loro ci uccidono se solo osiamo uscire dal bosco? Per quale motivo noi non dovremmo lanciar loro maledizioni, se pur trovassero il modo di scovare i nostri nidi?» in coro, come una sola fata, con le loro voci carezzevoli.
Ithronel si rannicchiò in un’amaca, rattrappita da quelle considerazioni: sì, esseri umani e popolo fatato erano nemici… sin da quando gli esseri umani erano comparsi su quelle terre, pochi secoli prima.
Ma ciò non voleva dire che qualcosa non potesse cambiare, no?
Passarono i mesi.
L’inverno si portò via gli incontri settimanali di Ithronel e Brann, e quando questi ripresero in primavera, l’amore ne era uscito se possibile rafforzato dalla distanza prolungata. I due sì, si amavano… in un modo puro e per niente carnale, come soleva sottolineare Brann:
«Non voglio insozzarti con i miei istinti, e non desidero il tuo corpo come un uomo desidera una donna… voglio solo baciarti, e carezzare la tua pelle, e ammirare le tue ali e i tuoi occhi e i tuoi capelli… non voglio nient’altro che guardarti e sfiorarti, mia amata Ithronel» le mormorava di tanto in tanto, e Ithronel non desiderava davvero nient’altro che concedergli di guardarla e sfiorarla, e null’altro di più, come del resto desiderava condividere con lui l’amore per la bellezza del mondo… e null’altro di più.
 
«Passi davvero tanto tempo nel bosco» notò un giorno il padre di Brann. Allarmato da quella vaga considerazione, Brann posò il cesto di funghi donati dalla sua amata, con un sorriso forzato.
«Procuro da mangiare, dato che l’arte non paga» si giustificò in qualche modo, accampando scuse.
«Margery, la figlia del fornaio, ti ha visto mentre raccoglieva funghi anch’ella…» aggiunse poi il capofamiglia, affilando un’ascia per chissà quale compratore.
«Ah, sì?» chiese Brann, e il filo del suo nervosismo era ormai sottile come quello dell’arma impugnata dal padre.
«Eh, già» borbottò l’uomo, rude e severo come pochi. «Dice che vai in compagnia delle fate… che parli, che baci, che ridi» mormorò, e gli occhi gelidi dell’uomo lo inchiodarono sul posto, strappandogli via il fiato. «Voglio sapere se è vero. Voglio sentirlo uscire dalle tue labbra, figliolo».
«Maledetta Margery» disse solo Brann, confermando così i sospetti del padre; fu solo un fuggire, da quel punto in poi: un confuso, ansimante fuggire nei prati e nei campi, verso il bosco della sua Ithronel; ma era notte, e lei dormiva.
Un acquitrino inghiottì una sua caviglia, e Brann chiamò a gran voce la sua amata fata, perché lo salvasse; percependo il pericolo pur anche nel sonno, la creatura si levò alta fra gli alberi e intimò alle ninfe d’acqua di lasciare il suo amato figlio degli uomini. Lo guidò poi al proprio nido, percependo le sue emozioni distorte e confuse, contraddittorie e spiacenti come solo quelle umane possono essere; e quando lui spiegò cosa fosse successo, una grande angoscia colse il cuore di Ithronel: poiché, a dir la verità, il popolo fatato aveva dato un ultimatum anche a lei.
Liberarsi dell’essere umano, o perire con lui.
Si strinsero nella fredda notte primaverile, i due innamorati; e infine giunse l’alba.
Il capo della piccola congrega di fate di quel bosco li convocò al proprio nido, e chiese loro cosa avessero scelto.
«Se solo vi fosse la possibilità per lui di vivere con noi…» la pregò Ithronel, stringendo la mano al suo amato; ma il capo non volle sentir ragioni.
«Ti priveremo delle ali, e vi trasformeremo in pietra; perché siate da monito, alle generazioni che verranno, che figli degli uomini e figlie dei boschi non devono mai mescolarsi…».
Ithronel, affranta, si strinse al suo Brann; e Brann si strinse a lei, mentre venivano guidati in una radura poco lontano dai nidi più periferici della colonia, sperduta nei meandri del bosco, irraggiungibile agli esseri umani.
E mentre venivano trasformati dai piedi alla testa in pietra, i due si avvicinarono per un ultimo bacio; quando l’incanto li bloccò in sculture di granito, le loro labbra a stento si sfioravano, in un gioco di struggimento e di ormai eterna attesa, in un bacio che non sarebbe mai più arrivato.
   
 
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